Da dove viene la matematica
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Da dove viene la matematica
Da dove viene la matematica Gabriele Lolli Recensione di G. Lakoff, R. E. Nuñez, Where Mathematics comes from∗ ∗ G. Lakoff, R. E. Nuñez, Where Mathematics comes from, Basic Books, New York, 2000. 1 Gli obiettivi del libro La tesi portante del libro è l’affermazione che la matematica che conosciamo è stata fatta dagli esseri umani, quindi “la matematica che conosciamo è limitata e strutturata dal cervello umano e dalle capacità mentali umane”, è una matematica “basata su mente e cervello” (brain and mind based )1 . Da questa bella tautologia prendono le mosse gli autori con l’obiettivo di arrivare a provarla, o a convincere della sua verità. Lo scopo della ricerca è descritto a più riprese, non sempre come vedremo in modo coerente. Noi cerchiamo, da una prospettiva cognitiva, di fornire risposte a domande come: Da dove vengono le leggi dell’aritmetica? Perché esiste una sola classe vuota e perché è una sottoclasse di ogni classe? Ma perché esiste una classe vuota, mentre non esiste la classe che contiene tutto? E perché, nella logica formale, da una contraddizione segue qualunque proposizione? Perché da una contraddizione dovrebbe seguire qualcosa?2 Lo strano elenco non vuole probabilmente essere un campione di possibili domande significative, ché non tutte lo sono, né sono omogenee; vuole forse indicare che si spazierà dall’aritmetica alla logica via la teoria degli insiemi; in realtà si dedicherà molta attenzione anche ad algebra e analisi. “Prospettiva cognitiva” significa che per capire non basta considerare le definizioni dei concetti matematici e i loro assiomi, bisogna chiedersi come sono capiti , quindi bisogna dar conto delle idee e dei meccanismi cognitivi . Come se fosse la stessa cosa, si propone altresı̀ una “analisi delle idee matematiche” che spieghi “cosa significano i teoremi e perché sono veri sulla base di quello che significano”3 . I matematici di solito spiegano cosa significano i teoremi nelle loro esposizioni e lezioni, o vogliono farlo. A quanto pare credono solo di farlo, o lo fanno in modo sbagliato. Tuttavia individuare i meccanismi cognitivi che permettono di capire i teoremi non equivale a spiegare cosa significano i teoremi. La tesi soggiacente è duplice (o triplice, se si include la convinzione che i matematici non lo facciano) e invade territori tradizionalmente filosofici nel sostenere innanzi tutto che i teoremi sono veri sulla base del loro significato, e per di più che 1 p. 1. p. xiii. 3 p. xv. 2 2 il significato è stabilito da meccanismi cognitivi. Non è chiaro se chi non conosce tali meccanismi, chi è vissuto prima di leggere questo libro, può davvero capire la matematica; né se la comprensione che viene promessa sia diversa da quella che normalmente i matematici ottengono o di cui si accontentano - ma il tono dell’esposizione suggerisce di sı̀. Si può capire che gli scienziati cognitivi abbiano grande stima e fiducia nelle loro scoperte, ma che l’unica possibilità per capire una manifestazione intellettuale sia di conoscere i meccanismi cognitivi sottostanti sembra una pretesa assolutistica; che dire della comprensione, del godimento e della creazione stessa della musica, per citare un fenomeno universale? Ma infine si prospetta anche un obiettivo più ambizioso: In aggiunta, noi concepiamo il nostro lavoro come un aiuto per rendere le idee matematiche precise in un’area che è stata finora lasciata alla “intuizione”4 Dalla presentazione appaiono dunque almeno tre livelli di indagine e tre obiettivi che sono diversi, ma non paiono tali per gli autori, i quali passano disinvoltamente da uno all’altro. Ad esempio l’ultima frase è accoppiata alla seguente: “Una scienza cognitiva della matematica dovrebbe studiare la natura precisa delle intuizioni matematiche chiare”. Ma le due frasi sono bene diverse; un conto è studiare “la natura delle intuizioni matematiche chiare” (compito, si può concedere, dello scienziato cognitivo); un conto è “rendere le idee matematiche precise” andando oltre l’intuizione (compito del matematico). Diversi fraintendimenti sorgono da questa commistione di livelli, e sono state segnalate da vari recensori5 suscitando le proteste degli autori che di fronte alle contestazioni si sono sempre rifugiati in corner sostenendo di essere scienziati cognitivi e di non voler fare matematica (vedremo se vero, ma non lo è). Nonostante tale autolimitazione, essi sostengono tuttavia che il loro lavoro è importante per la didattica o la divulgazione, perché le bellezze e profondità della matematica sono inaccessibili ai non matematici a causa dell’assenza di una descrizione della struttura cognitiva della matematica6 . 4 p. xv. Recensione di J. Nunemacher, Amer. Math. Monthly, 109, pp. 672-5; recensione di J. J. Madden, Notices AMS , 48, n. 10, pp. 1182-8; recensione di B. Gold, MAA Online, dicembre 2001, con risposta degli autori. 6 p. 5. 5 3 “Struttura cognitiva della matematica” è un’altra dizione ambigua, o per lo meno ellittica, tipica dello stile degli autori. Suppone che sulla base della conoscenza dei meccanismi cognitivi che permettono di capire (o produrre?) la matematica si possa individuare una struttura della stessa che non è accessibile, e quindi è diversa, dalle presentazioni abituali. Nella lettura commentata del libro, cercheremo di tenere distinte - anche se non è del tutto possibile - le osservazioni riguardanti i contributi di scienza cognitiva, prevalenti nella prima parte, da quelle riguardanti la presentazione di argomenti di matematica veri e propri, nella seconda parte. La divisione corrisponde praticamente anche alla presentazione del materiale del libro, dedicato alla matematica fondamentale nella prima parte, e a quella superiore nel resto. Le due tematiche costituiscono il motivo della presente disamina dettagliata del libro, che è duplice. L’interesse per i contributi reali, in crescita, degli studi neurofisiologici alla comprensione delle competenze e attività matematiche è doveroso e l’informazione non facilmente accessibile; benvenuta sarebbe ogni informazione. D’altra parte discutere sulla matematica, anche in disaccordo, è sempre stimolante e utile. Una “z” a margine segnala, secondo la tradizione bourbakista, un punto a cui prestare particolare attenzione. 4 2 L’incarnazione Gli autori (d’ora in avanti LN) affermano che Una delle grandi scoperte della scienza cognitiva è che le nostre idee ricevono forma dalle esperienze corporee - non in una semplicistica corrispondenza uno a uno ma indirettamente, attraverso il radicamento del nostro intero sistema concettuale nella vita di ogni giorno7 . Due parole chiave della nuova scienza cognitiva sono embodied , con la corrispondente disembodied , e grounded, grounding. Traduciamo grounded con “radicato”, “fondato” o varianti riconoscibili. La traduzione più incisiva di embodied sarebbe “incarnato”, ma quella prevalente è “situato”, anche se non è proprio lo stesso significato - “situato” traduce piuttosto embedded , o situated . La questione terminologica è interessante perché indica un’alternativa su dove bisogna radicare le caratteristiche della mente indagate dalla scienza cognitiva, se nel cervello o nella vita quotidiana. Nella scienza cognitiva si parla sempre più spesso di “mente estesa”, a includere in essa oltre al funzionamento del cervello ogni tipo di supporto materiale e sociale utilizzato nel pensare. LN non aderiscono a questa impostazione, peraltro controversa. Le manifestazioni della mente sono di solito genericamente indicate dagli autori come “meccanismi cognitivi”. In tutto il libro non compare mai una definizione precisa di “meccanismo cognitivo”. Si parla di meccanismi cognitivi indifferentemente sia per il cervello che per la mente, o per la mente-cervello. Nel primo caso, quello del radicamento esclusivo nel cervello, nulla di fondato si può affermare senza precise scoperte neurofisiologiche. Nel secondo siamo invece ancora fuori della scienza dura e nel campo dell’opinabile, soprattutto in una prospettiva di mente estesa. La vita quotidiana corrisponde in parte a quello che altri chiamano aspetti culturali, perché non si tratta ovviamente della vita preistorica; molte delle nuove idee come vedremo sorgono tardi e in contesti molto civilizzati, dove la vita quotidiana pur nel senso materiale è già imbevuta di concezioni e idee sofisticate. 7 p. xiv. 5 3 Il bersaglio polemico Sarebbe buona norma del dialogo costruttivo prima presentare e sostanziare le proprie tesi o scoperte, e quindi eventualmente rilevare come esse smentiscano o confutino altre posizioni. Invece in questo caso la tesi rivale è presentata subito, e accompagna e ritorna in tutta l’esposizione. Il bersaglio polemico molto di comodo è: Una mitologia che suona press’a poco cosı̀. • La matematica è astratta e disincarnata - eppure reale. • La matematica ha un’esistenza oggettiva . . . indipendente e trascendente rispetto all’esistenza degli esseri umani o di esseri di qualunque genere. • La matematica umana è solo una parte della matematica astratta e trascendente. • La dimostrazione matematica ci permette di scoprire verità trascendenti dell’universo. • La matematica è parte dell’universo fisico e fornisce ad esso una struttura razionale . . . 8 Seguono altre tesi dello stesso tenore, incluso il fatto che solo il principio che la matematica sia disincarnata permette di concepire l’idea che le macchine possono pensare. LN danno per scontato che questa in blocco sia la filosofia corrente, maggioritaria o prevalente (mainstream) nell’ambiente matematico e di chi si occupa di matematica. Dopo aver posto tale termine di confronto, essi formulano due domande fondamentali: 1. Esattamente quali meccanismi del cervello e della mente umana permettono agli esseri umani di formulare idee matematiche e di ragionare matematicamente? 8 p. xv. 6 2. La matematica basata sulla mente-cervello è tutto ciò che la matematica è? Oppure, come hanno suggerito i platonisti, esiste una matematica trascendente che trascende i corpi e le menti e struttura l’universo - il nostro e tutti quelli possibili?9 La prima domanda è coerente con il contesto di scienza cognitiva in cui il libro si colloca, anche se il suo obiettivo è ribadito a breve distanza come quello di “dir[ci] come è la matematica umana, concettualizzata attraverso le menti e i cervelli”10 , che come abbiamo già rilevato non sembra la stessa questione. Un conto è rivelare quali sono i meccanismi cognitivi, un conto è dire come è la matematica (what it is like). Non perché la matematica sia indipendente dai meccanismi cognitivi, ma perché sono risposte a due domande diverse. Ammesso che si scoprano i meccanismi cognitivi che fanno capire che una forma espressiva è poesia e non prosa, ne seguirebbe che la loro descrizione è l’unica o la corretta spiegazione di cosa è la poesia? È alla mancata individuazione di questi meccanismi che si deve attribuire la responsabilità per lo scarso apprezzamento e diffusione della poesia? E al contrario, come già ricordato, i fruitori della musica conoscerebbero i meccanismi cognitivi della sua produzione? A meno di non avere una concezione molto ampia ed ambiziosa di cosa s’intende con “meccanismo cognitivo”, che riporti al radicamento corporeo tutti gli elementi culturali che contribuiscono alla definizione della poesia. La spiegazione dovrebbe comunque salvare la concezione usuale millenaria di poesia, cioè essere coerente con quella e non pretendere di insegnare cosa è veramente la poesia, nel senso di “a differenza di quello che appare” e “di quello che dicono i poeti”. La seconda domanda invece non ha nulla a che vedere con eventuali ricerche orientate alla prima. LN riconoscono che è una domanda filosofica, al centro della filosofia della matematica e degli interessi dei filosofi. Ci si aspetterebbe quindi che venisse trascurata in un libro di scienza empirica, come questo vuole essere, invece di essere proposta come una delle domande fondamentali. A quanto pare interessa molto a LN dal momento che vi tornano sopra in continuazione, in una polemica che appare curiosa dal momento che essi stessi affermano che non è possibile confutare una fede. 9 10 p. 1. p. 3. 7 Ma nello stesso tempo sostengono di confutarla, tanto è vero che anticipano che “le nostre conclusioni 11 saranno” che gli esseri umani non hanno accesso ad alcuna matematica trascendente12 . Le conclusioni non devono attendere il dipanarsi dell’analisi, perché dipendono dal seguente semplice argomento: i meccanismi cognitivi che producono la matematica sono disponibili solo alle menti degli essseri viventi, per cui la matematica prodotta non può essere parte di una matematica platonica, che se esistesse sarebbe solo “letterale”13 . Quindi resta solo quella basata sulla mente-cervello. E quest’ultima non può essere parte di una matematica platonica. La conclusione è un non sequitur , perchè non è giustificato in alcun modo che la matematica platonistica sia diversa da quella basata su mentecervello. Anzi era stato detto prima, come uno degli elementi della mitologia, che quella esistente è una parte di quella trascendente. Giustificare il fatto che la mente-cervello non possa produrre nulla di validità trascendente richiederebbe come minimo una discussione più precisa di cosa s’intende con “trascendente”, a meno che di nuovo non si risolva in una definizione: trascendente = non accessibile alla mente-cervello. LN sono sicuri che se si vuole rispondere alla domanda sulla natura della matematica, intesa come questione scientifica riguardo a un elemento del mondo empirico, l’unica risposta è la loro14 . Con questo intendono o possono intendere due cose; la prima è che l’unica risposta è quella che eventualmente dà la scienza cognitiva; la seconda è che la scienza cognitiva dà una sola risposta, e che è la loro. In generale la scienza non dà mai una sola risposta, e tanto meno definitiva. 11 Corsivo aggiunto. p. 4. 13 p. 4. Maggiori chiarimenti su questa caratterizzazione verranno forse dal seguito; probabilmente vuol dire che non ha significato, perché il significato è situato e il trascendente non è situato, ma se è da intendere cosı̀ allora la questione è risolta con una definizione. 14 p. 3. 12 8 4 Matematica e attività umane Prima di immergerci nell’esposizione di LN, è utile ricordare che, nella loro formulazione generalissima, le tesi sul carattere situato della matematica (della mente tout court per la scienza cognitiva) lungi dall’essere estranee ad una comunità che sarebbe costituita solo da platonisti impenitenti suonano piuttosto come la scoperta dell’acqua calda. Si potrebbe ricordare John Stuart Mill in tempi vicini a noi e tutta la tradizione empirista prima di lui, che risale ad Aristotele; si potrebbero ricordare i sassolini dei Greci che hanno dato origine al calcolo; più in generale la logistica, prima aritmetica greca. La logistica15 era una scienza del numero, e comprendeva precisamente l’arte del calcolo. Essa trattava di “cose numerate” piuttosto che di “numeri”, a parte l’uno: trattava il 3 come una terna e il 10 come una decina; ma copriva le quattro operazioni e le frazioni, ed era usata per risolvere problemi pratici di commercio. Alcuni problemi tramandati fino a noi riguardano la divisione di certe quantità di mele tra persone, o il peso di orci. I problemi portano ad equazioni lineari e in qualche caso all’analisi indeterminata. Al di là della logistica, il resto degli argomenti teorici, la vera e propria aritmetica, con poche eccezioni era trattata in simbiosi con la geometria. Ci siamo soffermati sulla logistica perché il lettore faccia in seguito un confronto con quanto dicono LN sull’origine dell’aritmetica, ma non potendo fare una storia della matematica o della filosofia della matematica, ci limitiamo ora a riportare alcuni brani del pensiero di un matematico contemporaneo che passa per un formalista16 . La matematica inizia con interrogativi e problemi che hanno a che fare con aspetti combinatori e simbolici dell’esperienza umana. Alcuni di questi aspetti risultano essere sistematici e intrinseci piuttosto che arbitrari o legati ad un solo contesto. Sono essi che diventano la materia della matematica elementare. Da questo punto di partenza l’argomento si sviluppa fino a diventare l’analisi deduttiva di un gran numero di strutture formali molto diverse tra loro ma reciprocamente collegate. 15 Si veda Sir Thomas Heath, A History of Greek Mathematics, Dover, New York, 1981, vol. I, pp. 13-6. 16 S. Mac Lane, “Mathematical models: A sketch for the philosophy of mathematics”, Amer. Math. Monthly, 88, 1981, pp. 462-71. 9 Queste strutture sono state derivate dall’esperienza in molti stadi succesivi; per astrazione da numerose osservazioni del mondo, dei problemi che pone e dell’interconnessione di questi problemi. Queste osservazioni possono essere descritte come aventi origine da una varietà di attività umane, ciascuna delle quali conduce più o meno direttamente a una corrispondente parte della matematica: Conteggio Misura Forma Costruzione Stime Moto Calcolo Argomento Rompicapo Raggruppamento : aritmetica e teoria dei numeri : numeri reali, calcolo, analisi : geometria, topologia : simmetria, gruppi : probabilità, teoria della misura, statistica : meccanica, calcolo dinamica : algebra, analisi numerica : logica : combinatoria, teoria dei numeri : teoria degli insiemi, combinatoria Queste varie attività non sono affatto completamente separate; esse interferiscono in modi complessi . . . Le due parti di questa tabella dovrebbero essere messe in corrispondenza, e in parte già lo sono, con diverse frecce di collegamento. . . . concludiamo che la matematica è iniziata da varie attività umane che suggeriscono oggetti ed operazioni (addizione, moltiplicazione, confronto di misure) e cosı̀ conducono a concetti (numeri primi, trasformazioni) che quindi sono inseriti in sistemi assiomatici (aritmetica di Peano, geometria euclidea, il sistema dei numeri reali, teoria dei campi ecc.). Risulta che questi sistemi codificano proprietà più profonde e non evidenti delle varie attività umane che ne sono all’origine. Per esempio, la nozione di gruppo, benché assiomaticamente molto semplice, rivela proprietà comuni al moto (gruppi di rotazione e di traslazione) alla simmetria (gruppi di cristalli) e alle manipolazioni algebriche (gruppi di Galois, gruppi di Lie per le equazioni differenziali). Similmente molti altri concetti matematici (come quello di funzione, o di ordine parziale) sono sia semplici di struttura sia pervasivi nelle applicazioni. Semplicità ed applicabilità sono rese effettive dal trattamento formale delle nozioni relative. 10 ... [Riassumendo provvisoriamente] La matematica parte da una varietà di attività umane, ne estrae un numero di nozioni che sono generiche, non arbitrarie, e formalizza tali nozioni e le loro molteplici relazioni. A causa dell’elaborato sistema integrato che formano le idee, ciascuna nozione matematica è legata alla sua origine empirica in molteplici modi. Di conseguenza, nessuna descrizione semplicistica della matematica può essere adeguata. Una citazione analoga può essere estratta da uno scritto maggiormente elaborato17 . Questo [primo] capitolo, partendo dallo studio di numero, spazio, tempo e moto ha condotto alla descrizione di diverse nozioni formali . . . Queste nozioni formali nascono in larga misura da interessi prematematici che possono benissimo essere descritti come “attività culturali umane”. Per questa ragione, la nostra analisi della genesi della Matematica metterà in evidenza un certo numero di tali attività. Spesso chiarisce molto il dire che un’attività dà origine in un primo momento a qualche “idea” nebulosa che alla lunga viene formalizzata, eventualmente formalizzata in più di un modo. Per esempio il processo di contare suggerisce l’idea del “successivo” - il prossimo oggetto da contare o il prossimo numero da usare o la prossima cosa in qualche lista ordinata . . . L’idea “successivo” appare poi in altre forme: il primo ordinale al di là di un dato insieme di ordinali, il prossimo passo in un programma per calcolatore. Questo tipo di fonte della forma matematica . . . può essere riassunto in una tabella, dove ogni attività suggerisce un’idea e la sua susseguente formalizazione: 17 S. Mac Lane, Mathematics Form and Function, Springer, Berlin, 1986. 11 Attività Collezionare Contare Confrontare grandezze Calcolare Idea Collezione Successivo, prossimo Enumerazione Combinazione di numeri Riordinare Permutazione Tempo Osservare Costruire, dare forma Misurare Prima e dopo Simmetria Figure; simmetria Distanza; estensione Cambiamento Muoversi F ormulazione Insieme Successore, ordine Numero ordinale Biiezione Numero cardinale Regole addizione Regole moltiplicazione Gruppo abeliano Biiezione Gruppo di permutazioni Ordine lineare Gruppo di trasformazioni Collezioni di punti Spazi metrici Moto rigido Gruppo di trasformazioni Tasso di cambiamento Stimare Approssimazione Continuità Limite Vicinanza Spazio topologico Selezionare Parte Sottoinsieme Algebra di Boole Argomentare Dimostrare Particelle logiche Scegliere Caso Probabilità Azioni successive Seguito da Composizione Gruppo di trasformazioni La tabella vuole essere indicativa, non dogmatica. Con “idea” s’intende qualcosa che abbia un contenuto intuitivo; esso può servire da vettore per il ben noto fenomeno della “intuizione matematica”. La stessa idea può emergere da disparate attività ed essere il sostegno di diverse differenti formalizzazioni. Anche dopo che le nozioni matematiche di base sono state sviluppate da queste attività ed idee, continuano ad esserci stimoli dal 12 di fuori della matematica. Spesso prendono la forma di problemi matematici che sorgono in altre scienze e richiedono l’applicazione della matematica . . . Alcune nozioni matematiche formali hanno un’origine più complessa. Rientra tra queste la nozione di “insieme”. L’idea di una collezione è certamente presente quando contiamo, ma a questo livello non si può dire che sia un utile candidato alla formalizzazione [segue la descrizione di vari contesti in cui lo studio di insiemi si presenta in modo naturale]18 . La tesi esposta da Mac Lane della produzione umana della matematica rende attuale il problema dell’incredibile efficacia della matematica, a cui non si può rispondere appellandosi ad esempio ad armonie prestabilite: Come mai succeede che importanti aspetti del mondo reale possono in effetti essere analizzati accuratamente per mezzo di austere deduzioni dagli assiomi? In altre parole, come è possibile che la logica calzi il mondo; come si può rendere ragione della straordinaria e inaspettata effettività della matematica formale? La domanda può essere formulata anche per casi particolari espliciti: Come mai il calcolo formale della meccanica newtoniana del moto dei corpi risulta aderire al loro effettivo movimento? Come mai succede che le proprietà teoriche dei problemi dei valori al contorno per le equazioni differenziali descrivono cosı̀ bene molti aspetti dell’elettricità, dell’ottica, della meccanica, dell’idrodinamica e dell’elettrodinamica? Come mai il calcolo differenziale sembra funzionare sia per la fisica che per i problemi di massimo locale dell’economista?19 L’ultima esemplificazione del problema dell’effettività è ben scelta in quanto rende banale e non accettabile la risposta semplicistica che la matematica funziona perché è estratta dalle attività concrete nel mondo. Il mondo degli economisti non esiste da sempre e ovunque. 18 19 pp. 34-6. pp. 466. 13 Ci siamo dilungati con la citazione per far vedere come i matematici siano ben consapevoli della natura umana della matematica e della sua origine in attività fisiche o culturali ma sempre della vita quotidiana. Un altro autore che conduce una feroce battaglia contro il platonismo e la trascendenza è Reuben Hersh20 . I suoi bersagli polemici sono i miti della unità, universalità, certezza, oggettività. Anch’egli ha una serie di tesi “umanistiche”, negazioni di quelle “platonistiche”: • La matematica è umana . . . integrata nella natura umana. • La matematica non è infallibile. • Gli oggetti matematici sono una varietà speciale degli oggetti storicosociali. • ... Hersh come si capisce si colloca nel filone sociologico: gli oggetti matematici devono la loro oggettività alle istituzioni sociali. Gli oggetti matematici sono stati creati dagli esseri umani. Non arbitrariamente ma a partire dalle attività che si possono fare con gli oggetti matematici pre-esistenti e a partire dalle necessità delle scienze e della vita quotidiana. Quindi Hersh non ha nulla da dire sulla formazione di questi oggetti; citando Durkheim egli distingue tra gli stati di coscienza che derivano dall’interno dei nostri organismi e quelli che derivano e sono oggettivizzati dalla società, tra i quali rientrano quelli che si riferiscono alla matematica. Per il passaggio cruciale dalla matematica pratica e informale a quella formale, ad esempio dagli aggettivi numerali (“due mele”) ai sostantivi (“due è primo), Hersh si limita a ricordare che tutti, da Aristotele in poi, fanno riferimento a qualche forma di astrazione. La società sanziona la legittimità, ma non spiega la formazione. Oltre ai matematici, altri che non provengono dalla scienza cognitiva ma dall’etnologia o dalla psicoterapia rilevano il legame della matematica con il corpo21 , innanzi tutto nel contare (“un numero equivale in primo luogo 20 R. Hersh, Che cos’è davvero la matematica (1997), Baldini&Castoldi, Milano, 2001. Si veda ad esempio la psicoterapeuta Anne Siety e il suo Matematica, mio terrore, Salani, Milano, 2003. 21 14 ad una serie di dita”, ma anche l’intero corpo può intervenire), o nei giochi dei bambini con le biglie che non sono altro che una versione aggiornata dei sassolini greci. Siamo ben avvertiti che le parole della matematica sono anche legate allo psichismo, alle emozioni. Purtroppo le affermazioni sull’origine concreta della matematica nelle attività corporee o quotidiane sono, a tutt’oggi, sempre al più delle allusioni, espressioni di buon senso, se non di banalità. Pare lapalissiano che qualcosa che è prodotto dall’uomo dipenderà dalle capacità dell’uomo, e quindi dal suo cervello, a meno naturalmente di pensare che esiste un’anima indipendente, soffiata nel corpo al momento della concezione o dopo 14 giorni, e di cui non si sa nulla, se non che è capace di cogliere il divino e quindi, perché no, una matematica divina. Ma è difficile andare al di là delle connessioni indicate da Mac Lane, in gran parte scontate, e nessuno l’ha ancora fatto. Si sfruttano i riferimenti storici (i misuratori di aree egiziani, i calcoli economici babilonesi) ma si va poco avanti a spiegare come sorgono le idee. I matematici sono invece bravi (alcuni) a spiegare come poi dalle idee sorgono le formalizzazioni, e i veri e propri concetti matematici; Mac Lane infatti dopo le osservazioni riportate non torna più sull’argomento, e si dedica invece allo studio dei concetti formali, del loro raffinamento e diversificazione e delle mutue relazioni e fecondazioni. Sarebbe molto desiderabile che l’analisi fosse approfondita nella direzione carente, cioè proprio verso i meccanismi cognitivi e possibilmente cerebrali. Non basta dire che la matematica è prodotta dalla mente umana, o dal cervello; già Kant insegnava che sono le nostre menti ad imporre l’universalità di aritmetica e geometria. Dagli scienziati cognitivi ci si aspettano indicazioni più precise e soprattutto scientificamente fondate. L’attesa per una chiarificazione del genere, anche solo abbozzata, spiega la grande attenzione che è stata dedicata al libro al momento della sua pubblicazione, “un tentativo senza precedenti di basare la matematica avanzata sul funzionamento del cervello” (R. Hersh). Purtroppo sul funzionamento del cervello come vedremo non c’è nulla che riguardi la matematica avanzata. Sarebbe già molto se si avesse qualche indicazione sulla matematica elementare. LN ricordano nel primo capitolo le recenti scoperte relative al senso della numerosità innato. Per saperne di più si deve consultare il recente libro di 15 S. Dehaene22 . Il senso della numerosità è innato perché si manifesta nei primi giorni di vita e si ritrova in molti animali; esso permette di riconoscere numerosità diverse sotto al 4, e anche di eseguire le più semplici addizioni e sottrazioni, sotto quella soglia. La caratteristica più interessante è la subitizzazione (subitizing) o risposta immediata di fronte a piccoli insiemi, senza eseguire calcoli non solo simbolici ma neanche analogici. Al di sopra di 4 iniziano fenomeni di distorsione o approssimazione del senso della numerosità. Che il senso della numerosità sia innato vuol anche dire che non è legato ad un tipo particolare di percezione, visiva, uditiva o tattile, è transpercettivo. Quindi non è attivato da particolari circuiti senso-motori. Questo fatto è da tener presente come un problema quando si afferma che i calcoli e la manipolazione di concetti si collegano all’attivazione di circuiti senso-motori. Anche nelle ricerche neurofisiologiche e psicologiche che mettono in luce la dotazione matematica innata manca sempre il passaggio al formale. Al massimo viene messo in luce qualche fenomeno curioso di interferenza del senso della numerosità con l’aritmetica simbolica. Si può dire che, nonostante i molti progressi e le interessanti informazioni sul funzionamento del cervello in occasione di prestazioni matematiche, anche formali, come l’individuazione di diverse aree cerebrali interessate e della loro attivazione coordinata, poco o nulla ancora si sa sulla formazione dei concetti e degli algoritmi matematici. Il libro di LN promette di rivelare il link mancante. 22 Si veda S. Dehaene, The Number Sense: How the Mind Creates Mathematics, Oxford univ. Press, Oxford, 1997, trad. it. Il senso del numero. Si veda anche G. Lolli, “La matematica, la mente, il cervello”, Boll. UMI , Sez. A, n. 2, 2000, pp. 121-46, oppure “Il cervello matematico”, Nuova Civiltà delle Macchine, 18, n. 3, 2000, pp. 70-85. 16 5 L’anello mancante LN affermano che molti meccanismi cognitivi che non sono specificamente matematici sono all’opera nella caratterizzazione di idee matematiche; tra di essi, elencano quelli usati per idee come “relazioni spaziali, raggruppamenti, valutazioni di piccole quantità, moto, distribuzione di cose nello spazio, orientamento del corpo, manipolazioni di oggetti, quali rotazioni e stiramenti, ripetizione di azioni e altre simili”. Constatano dunque che “le idee matematiche . . . sono spesso radicate nell’esperienza quotidiana”23 . Notiamo una volta per tutte che LN hanno la cattiva abitudine di usare parole come “spesso”, “molte” quando sarebbe desiderabile una migliore precisione. Come si vede, sono quasi le stesse attività indicate da Mac Lane, a parte che si parla di idee più che di attività e che tutto si svolge nell’inconscio cognitivo: il formare mucchi è collegato all’idea di classe, la rotazione all’aritmetica dei numeri complessi, il movimento e l’avvicinamento a una meta alla derivata e al limite. Non basta tuttavia neanche secondo LN limitarsi a tali ovvie costatazioni. Occorre chiedersi, e rispondere esattamente, quali concetti quotidiani quali e meccanismi cognitivi sono usati ed esattamente in che modo nella concettualizzazione inconscia delle idee tecniche della matematica?24 La risposta è precisa e netta, e semplice: la metafora. Le “scoperte rivoluzionarie degli ultimi anni” nelle scienze cognitive di cui LN fanno tesoro sono la mente situata e il pensiero metaforico. Incominciamo da quest’ultimo (l’incarnazione della mente è più una posizione filosofica che non una scoperta): Nella maggior parte dei casi gli esseri umani concettualizzano i concetti astratti in termini concreti, usando idee e modi di ragionare radicati nel sistema senso-motorio. Il meccanismo attraverso il quale l’astratto è compreso in termini di concreto si chiama metafora concettuale 25 . 23 p. 29. p. 29. 25 p. 5. 24 17 La metafora concettuale è “un meccanismo cognitivo che ci permette di ragionare su una cosa di una specie come se fosse di un’altra”26 . La metafora non è solo un fenomeno linguistico, bensı̀ si riferisce ai pensieri. Il suo significato preciso è quello di un’applicazione situata transsettoriale che conserva inferenze 27 . Con questo s’intende “un meccanismo neurale che permette di usare la struttura inferenziale di un dominio concettuale per ragionare su di un altro, per esempio quella della geometria per fare aritmetica”. Il primo esempio proposto è la metafora che “I numeri sono punti su una retta”. Nella definizione di metafora concettuale si presentano al lettore due ambiguità. La prima è che a distanza di poche righe le due citazioni ci prospettano la metafora concettuale prima come un meccanismo per comprendere l’astratto attraverso il concreto, e subito dopo come un meccanismo per comprendere un dominio in termini di un altro, ma magari allo stesso livello di astrattezza. L’esempio della metafora dalla geometria all’aritmetica pare ovviamente del secondo tipo. L’ambiguità è voluta, anche se non per questo meno fastidiosa, perché LN intendono spiegare tutta la matematica con un solo meccanismo concettuale (anche se il motivo di tale orientamento metodologico, discutibile, non è chiaro). La prima accezione di metafora concettuale servirà per i concetti fondamentali; la seconda per la riduzione di tutta la matematica, per quanto astratta, allo stesso unico meccanismo di produzione. Ma se il primo tipo di metafora si può considerare situato, il secondo no28 , e tuttavia LN non fanno alcuna differenza tra di essi. Un’altra perplessità consiste nel fatto che da una parte di parla di “concetti quotidiani”, dall’altra ci viene detto che si tratta di “meccanismi neurali”, ma senza alcuna indicazione, né ora né in seguito, di come e dove si realizzi il radicamento neurale. Sembra quasi che per definizione i concetti quotidiani siano meccanismi neurali. Un’unica volta si fa di nuovo un riferimento esplicito ai circuiti neurali: alle pp. 29-45 sono descritti i concetti elaborati dalla scienza cognitiva per 26 p. 6. A grounded, inference-preserving cross-domain mapping, p. 6. 28 Il fatto che un’applicazione sia detta situata perché ha una corrispondenza neurale non significa nulla; tutto per un materialista ha un correlato neurale; un’applicazione dovrebbe essere chiamata situata se a livello neurale si ha un collegamento tra aree senso-motorie e altre. 27 18 spiegare il funzionamento e il radicamento della metafora. Nel nostro linguaggio (con varianti per ogni linguaggio particolare) l’uso di alcune parole che hanno a che fare con relazioni spaziali, visione, contenimento, e movimento si decompone secondo LN nel contributo di alcuni primitivi, che appaiono universali. Ad esempio la frase “il bicchiere è sul tavolo” è scomposta in una simultanea presenza di affermazioni o riconoscimento di posizione (sopra, più in alto) di contatto e di sostegno. Si parla di schemi cognitivi che stanno dietro al pensiero. In particolare quelli menzionati sono schemi di immagine, il primo di orientamento, il secondo topologico (assenza di lacune), il terzo dinamico (forze). Analogamente quando si dice “dentro”, “in”, “nel” o “fuori” ecc. interviene uno schema di contenimento, che è articolato nella presenza di un interno, una frontiera e un esterno, sempre indissolubilmente presenti. Tali schemi sono sia concettuali che percettivi e costituiscono il legame tra il linguaggio e i sensi, tra il linguaggio e la percezione spaziale; gli schemi di immagine costituiscono un ponte tra linguaggio e ragionamento da una parte e visione dall’altra. Come capita spesso con i concetti di LN, la loro funzione tende tacitamente ad espandersi: gli schemi di immagine si adattano alla percezione visiva, ma si possono anche imporre in altre situazioni, come quando si dice ad esempio che “vediamo uno sciame di api in giardino e non c’è alcun contenitore”. Inoltre gli schemi di immagine hanno una logica incorporata su cui torneremo. Altri schemi sono quelli del controllo motorio e della origine-camminometa. L’importanza di tali osservazioni per la matematica situata è secondo LN la seguente: concetti collegati al contenimento e all’orientamento sono importanti in matematica, ma non sono esclusivi della matematica, bensı̀ sono usati nel linguaggio in generale. Come ogni altro concetto, essi sorgono solo per via di meccanismi neurali nel tipo appropriato di circuiteria neurale. Di particolare interesse è il fatto che una circuiteria neurale evoluta per altri scopi sia una parte intrinseca della matematica, il che suggerisce che la matematica incarnata non esiste indipendentemente da altri concetti incarnati della vita quotidiana. Al contrario, la matematica sfrutta le nostre capacità adattive - capacità di 19 adattare altri meccanismi cognitivi per gli scopi della matematica29 . Queste osservazioni non sono nuove; nel citato libro di Dehaene si trovano esempi precisi del fenomeno che le stesse aree del cervello sono legate sia ad attività matematiche che ad altre, spaziali o linguistiche, oppure che quelle matematiche con lo sviluppo invadono aree diversamente finalizzate. La formulazione di LN rispetto a quella della neurofisiologia è più vaga per quando riguarda localizzazione e prove dell’adattamento o della sovrapposizione, mentre è più decisa nel sostenere che (in certi casi) si attivano gli stessi circuiti neurali. Probabilmente, se e nella misura in cui questo è vero, si realizza anche come minimo un concorso di altre aree, ad esempio quelle dedicate alle elaborazioni simboliche. Ma la nostra curiosità sarebbe quella di sapere quali sono questi circuiti e quando si attivano. Le indicazioni della neurofisiologia sono ancora provvisorie e tentative e non si possono far passare per acquisizioni scontate. Occorrerebbe come minimo allegare a prova i reperti di imaging del cervello. Quando si vede un bicchiere sul tavolo e si dice che si vede un bicchiere sul tavolo si attivano aree del cervello corrispondenti ai tre schemi indicati? Gli schemi stessi, come quello topologico, hanno circuiti dedicati? Se sı̀ vorremmo che LN ce lo dicessero. Se non c’è un radicamento fisiologico tutto questo è wishful thinking, oppure sono ipotesi, per quanto probabilmente fruttuose. L’argomento di LN comunque appare circolare. Si scompongono affermazioni comuni complesse con un’analisi che porta a primitivi elementari, i quali sono espressi in termini che sono matematici: orientamento, contenimento, topologia, forze. Quindi si constata, come fosse una scoperta o una sorpresa, che la matematica fa uso di questi concetti. Questo rilievo sulla circolarità è di grande importanza, per un’opera che ha ambizioni teoriche e fondazionali, e merita soffermarsi su di esso, perché è alla base di una possibile alternativa alla impostazione di LN. Consideriamo il caso dello schema del contenimento; esso ha secondo LN una logica incorporata espressa dalle due affermazioni: 1. Dati due schemi di contenimento A e B e un oggetto X, se A è in B e X è in A, allora X è in B. 29 p. 33. 20 2. Dati due schemi di contenimento A e B e un oggetto Y , se A è in B e Y è fuori di B, allora Y è fuori di A. “Logica incorporata” (built in) significa che “non dobbiamo fare operazioni deduttive per trarre tali conclusioni. Esse sono auto-evidenti dalle immagini” della Figura 2.1 associata30 . Che siano evidenti in base ad una figura spiega forse perchè lo schema di contenimento sia chiamato uno schema di immagine. Non è chiaro peraltro se le due leggi proposte siano le uniche che costituiscono la logica di “in” o ce ne siano altre (la 2 è logicamente equivalente alla 1 per contrapposizione, ma non è detto se invece qui siano pensate indipendenti oppure siano state sdoppiate solo a scopo di illustrazione). Ma veniamo alla figura. Essa ci mostra prima in (a) figurativamente un bicchiere dentro una caraffa e una pallina dentro il bicchiere e una fuori della caraffa. Ma ad essi è affiancato in (b) il disegno di due insiemi uno contenuto nell’altro, con il commento: Noi concettualizziamo i contenitori fisici in termini di contenitori cognitivi, come è mostrato in (b) . . . Gli schemi di contenimento sono le strutture cognitive che ci permettono di dare senso ai familiari diagrammi di Venn. Capire questa chiosa sarebbe un gran passo nella comprensione di tutto il pensiero di LN, ma non è facile. Innanzi tutto nel primo disegno la caraffa e il bicchiere sono chiamati schemi di contenimento, i quali dopo diventano strutture cognitive; il che fa pensare che il soggetto sia in grado di vedere (o applicare) uno schema attraverso l’oggetto concreto. Se siamo in grado di vedere da (a) le leggi 1 e 2, come viene ivi affermato, i contenitori di (a) non sono fisici, ma schemi. Solo il secondo disegno con i diagrammi di Venn tuttavia fa affermare che noi concettualizziamo i contenitori fisici come contenitori cognitivi. I contenitori cognitivi sarebbero dunque i diagrammi di Venn. Ma i diagrammi di Venn sono un concetto e una tecnica matematica inventata nel tardo Ottocento31 ; se sono loro i contenitori cognitivi, non si può dire che la matematica usa lo schema di contenimento per capire i concetti di appartenenza o inclusione. È esattamente il contrario (in questo 30 pp. 31-3. Meglio sarebbe dire diagrammi di Eulero-Venn, e ancora, perché quelli proposti sono solo rappresentazioni di insiemi, le tradizionali “patate”, ma non i classici diagrammi di Eulero-Venn con le caratteristiche usate per i sillogismi. 31 21 esempio): usiamo un concetto matematico per capire la generalità che si presenta nel discorso concreto del contenere. Il caso su cui LN si dilungano di più è quello del controllo motorio e del lavoro di Narayanan32 e di nuovo si rileva una non risolta circolarità. Ci viene detto che tutti i programmi per il controllo motorio contemplano vari stadi, o condizioni, come: preparazione, inizio, interruzione, ripresa, obiettivo, completamento, stato finale. Questa superstruttura comune mette in luce le proprietà necessarie per un sistema di controllo motorio neurale, naturale o artificiale. Narayanan si è accorto che la stessa struttura si ritrova in quello che i linguisti hanno chiamato “aspetto”, ovvero la strutturazione degli eventi. Dunque la stessa struttura neurale usata nel controllo di schemi motori complessi può anche essere usata per ragionare su eventi e azioni. Secondo LN il lavoro di Narayanan è la prova che i sistemi di controllo per i movimenti dei corpi hanno le stesse caratteristiche necessarie per fare inferenze razionali nella struttura degli eventi. Ma questo non significa che gli stessi circuiti neurali siano usati per entrambe le prestazioni, e neanche che siano sovrapposti o che si attivino in parallelo. Se sı̀, di nuovo vorremmo delle evidenze; ma di nuovo sarebbe irrilevante: non è da queste eventuali osservazioni neurologiche che Narayanan ha tratto le sue conclusioni, bensı̀, ci viene detto, dall’esame di programmi. Siamo a un livello di descrizione molto astratto, parliamo di modelli formali. L’applicabilità di uno stesso modello formale a diverse situazioni è una proprietà tipica della matematica; non può servire a provare qualcosa sulla formazione del modello astratto né che le diverse situazioni modellate coincidano in altre caratteristiche che in quelle messe in luce dal modello. Infine abbiamo l’ammissione che manca ancora l’elemento più importante, che consiste nei simboli. I simboli per LN sono significativi in virtù dei concetti a cui si attaccano, e questi sono dati in termini cognitivi. Su questa assunzione si basa gran parte della trattazione di LN. Ma “quelle strutture cognitive dovranno alla fine aver bisogno di una spiegazione neurale di come il cervello le crea sulla base della struttura neurale e delle esperienze corporee e sociali”33 . A quanto pare non l’hanno ancora, e affrontare un discorso sulla matematica con una tale carenza è veramente coraggioso. Ad ogni modo nel corso dell’esposizione ogni tanto è ripetuto con certezza 32 33 pp. 34-7. p. 49. 22 che “ogni applicazione metaforica è caratterizzata neuralmente da un insieme fissato di connessioni che collegano i domini concettuali”34 , cosa che non è affatto stata provata. Ad esempio si afferma quanto segue: Se a un bambino si dà un gruppo di tre blocchi, il bambino subitizza automaticamente e inconsciamente che sono tre. Se se ne toglie uno, il bambino subitizza il restante gruppo come due di numero. Tali esperienze . . . coinvolgono correlazioni tra addizione e aggiunta di oggetti e tra sottrazione ed estrazione di oggetti. Tali correlazioni regolari, ipotizziamo, risultano in connessioni neurali tra operazioni fisiche senso-motorie come il togliere un oggetto da una collezione e operazioni aritmetiche come la sottrazione di un numero da un altro. Tali connessioni neurali, crediamo, costituiscono una metafora concettuale al livello neurale35 . Credono e ipotizzano, e magari avranno ragione, ma nel seguito queste affermazioni sono ripetute senza qualificazione dubitativa ogni volta che si parla di una metafora, a ribadire la funzione incarnante di quest’ultima. Le leggi logiche ad esempio sono entità cognitive e come tali incarnate nella struttura neurale che caratterizza gli schemi di contenimento36 . Notiamo peraltro che le affermazioni suddette, oltre che non provate, come del resto sarebbe ammesso se fossero dichiarate ipotesi, sono vaghe e imprecise. Le “correlazioni tra addizione e aggiunta di oggetti e tra sottrazione ed estrazione di oggetti” dovrebbero essere correlazioni neurali; tra quali aree? Con qualsiasi metafora incarnata si dovrebbero attivare simultaneamente i circuiti dell’operazione fisica e altri; è plausibile, ma non è portato alcun elemento probatorio sperimentale. Certo si sa che gli infanti hanno le capacità ricordate, fino alla numerosità quattro, ma il collegamento tra la formazione di gruppi e il conteggio non è individuato a livello neurale; se nel conteggio entrano numeri col loro nome, e non solo il riconoscimento di uguaglianza o 34 p. 60. pp. 54-5. 36 p. 135. 35 23 diversità, diverse sono le aree che vengono attivate simultaneamente. Questi legami fisici o circuiti fissi dovrebbero essere indicati e provati, e non lo sono. 24 6 Vari tipi di metafora Le metafore non servono solo a parlare, ma anche a capire. Uno dei risultati principali della scienza cognitiva secondo LN è che “i concetti astratti sono tipicamente 37 compresi, attraverso una metafora, in termini di concetti più concreti”. La metafora concettuale viene chiamata in questo modo, se abbiamo inteso bene, perché non è detto, proprio per la sua funzione di comprensione, e non solo di abbellimento linguistico. L’affetto ad esempio si concettualizza in termini di calore, e si esprime con parole corrispondenti (“è stata fredda con me”, “hanno rotto il ghiaccio”); l’importanza in termini di grandezza (“è un grande lavoro”); la somiglianza con la vicinanza (gli esempi sono migliori in inglese, ad esempio nell’uso dell’aggettivo close); le difficoltà con il peso (“un fardello”). Ci sarebbe da discutere, perché è fuori di dubbio che le metafore indicate intervengono, e pesantemente38 , nei discorsi su queste nozioni astratte, ma se si deve spiegare cosa significano tali concetti è difficile che si ricorra alla metafora: per spiegare cosa vuol dire che una persona vuole bene ad un’altra non si dice che sente caldo; per spiegare cosa è una difficoltà non si dice che è un peso, anche se chi è in difficoltà si esprime cosı̀. In verità si concettualizza con discorsi infarciti di termini concreti il vissuto soggettivo (cioè uno si esprime cosı̀ quando parla di se stesso), e non sorprende allora che si usino riferimenti corporali e fisici, ma forse la trattazione dei concetti in sé richiede altro. C’è un’espressione illuminante a questo proposito, ed è “fuor di metafora”. Quando si chiede a qualcuno di parlare fuor di metafora significa che la metafora non aiuta a capire, al contrario, e che è possibile esprimersi senza uso di metafore. Una parola occorre ripetutamente, ossessivamente, nell’esposizione, ed è “concettualizzare”. Confessiamo di non aver chiaro il suo significato. Sembra voler dire “comprendere in termini di”, ma negli esempi le metafore sono usate più per esprimere che per comprendere. Un concetto astratto può essere presentato con molteplici riferimenti ad atti o comportamenti o realtà concrete che ricadono sotto di esso, e relative metafore (ad esempio l’amore di una madre per il figlio con l’alimentazione, le effusioni, la protezione e simili) ma non si identifica con nessuno di questi né con la loro somma, e lo 37 38 Corsivo aggiunto. Metafora. 25 si sa (si può capire che una madre non ama un figlio anche se rispetta tutte quelle specifiche). Dietro alla ingannevolmente semplice affermazione che “i concetti astratti sono tipicamente compresi, attraverso una metafora, in termini di concetti più concreti” si nasconde una teoria della conoscenza che non è esplicitata, riguardo soprattutto all’introduzione di concetti astratti nuovi (come potrebbe essere per il primo che ha parlato di “amore” oppure come è il caso particolarmente importante della matematica). Possiamo accettare che ci sia tanta verità in questa osservazione, ma non nel modo assoluto ed esclusivo che viene sostenuto. Non potrebbe anche valere il viceversa? Un caso significativo, perché coinvolge proprio la matematica, è segnalato da A. Siety. Ci si serve spesso della matematica per parlare dell’essere umano, ad esempio quando si allude all’equazione personale di qualcuno. Una citazione di Proust: Non era meglio che, dei gesti che facevano, delle parole che dicevano, della loro vita, della loro natura, cercassi di descrivere la curva e di estrarne la legge?39 Altri esempi, dove come minimo l’astratto è concettualizzato in termini astratti (se si considera la malattia come un concetto astratto, come sembra plausibile) si possono ricavare dalla Malattia come metafora di Susan Sonntag. All’interno della matematica poi, sono molto interessanti, e numerosi, i casi nei quali è l’astratto che permette di chiarire o capire il concreto. Per procedere nell’esposizione di LN, occorre introdurre una terminologia tecnica sulle metafore. La metafora si articola in un dominio fonte o origine (source), in un dominio bersaglio (target) e in una mappa dall’uno all’altro che, ci viene detto, conserva la struttura inferenziale. Con questo si deve intendere probabilmente l’insieme dei tipi di inferenza che si fanno di solito in un dominio. Una struttura inferenziale infatti non è la struttura di un dominio, ma del modo come ragioniamo a proposito del dominio. Forse LN si esprimono in questo modo perché pensano alle inferenze che sono implicite nell’uso di parole fondamentali quando si parla di un dominio, come nell’esempio di “in”. Una metafora è formulata in generale nella forma “X è Y ”, o 39 cit. da A. Siety, cit. 26 gli X sono Y , dove X sono elementi del dominio bersaglio e Y del dominio fonte. Uno dei primi esempi dettagliati portati ad illustrazione è la metafora “Le categorie sono contenitori”, per mezzo della quale noi concepiamo o comprendiamo una categoria come un contenitore40 . L’applicazione viene rappresentata con alcune corrispondenze la cui lista, come al solito, non si capisce se sia esaustiva o contenga solo esempi e casi significativi. Nel caso della metafora in questione abbiamo una mappa Bersaglio F onte Regioni limitate → Categorie Oggetti interni → Membri della categoria Una regione dentro un0 altra → Sottocategoria di una categoria A questa mappa si associa la mappa inferenziale che contempla nell’ordine il terzo escluso, il modus ponens, il sillogismo disgiuntivo e il modus tollens. Ogni oggettoX o è nel contenitore A o è fuori di A → Ogni ente X o è nella categoria A o è fuori di A Se l0 oggetto X è in A e A è in B allora X è in B → Se l0 ente Xè in A e A è in B allora X è in B Se A è in B e B è in C allora A è in C → Se A è in B e B è in C allora A è in C Se A è in B → Se A è in B 0 e l oggetto Y è fuori di B e l0 ente Y è fuori di B allora Y è fuori di A allora Y è fuori di A. Si ha addirittura coincidenza tra le formulazioni delle due colonne, a parte la sostituzione di “oggetto” con “ente” e la precisazione che a sinistra A e B sono contenitori e a destra categorie. 40 pp. 43 ss. 27 La metafora proverebbe che “la logica booleana ingenua, che è concettuale, sorge da un meccanismo per cettivo - la capacità di percepire il mondo in termini di strutture di contenimento”. Sussistono forti dubbi che la cosa sia sensata, per quel che riguarda la fondazione situata, cioè che ci sia una priorità delle leggi di contenimento su quelle delle categorie, cioè che categorie e le leggi logiche siano introdotte o capite con questa metafora. Nella storia, l’inizio dei discorsi sulle categorie, nella filosofia antica, deriva dal parlare di proprietà godute o no dagli individui, non dell’appartenere o no a un insieme. Nei sillogismi si dice sempre “tutti gli A sono B” non “A è contenuto in B”, che è terminologia tarda, e deriva dalla matematica (A ⊆ B). Si ha a proposito di questo esempio lo stesso fenomeno che con i diagrammi di Venn (d’altra parte sono la stessa cosa), cioè resta il dubbio che sia la matematica ad aiutare (o ad essere compresente ne) la comprensione dei contenitori, o regioni limitate di spazio in generale. Oltre alle metafore concettuali dal concreto all’astratto ce ne sono di altri tipi, o meglio con altre caratteristiche, visto che sono tutte chiamate concettuali. Innanzi tutto, mentre si penserebbe che le metafore concettuali siano il modo per introdurre i primi e fondamentali concetti astratti della matematica, a partire dalla dotazione aritmetica innata non simbolica e dalle attività corporee, siamo subito avvertiti di aspettarci di più. La metafora concettuale, questa volta evidentemente con origine non concreta, “è il meccanismo cognitivo centrale di estensione dall’aritmetica alle applicazioni più sofisticate dei numeri [trigonometria, calcolo infinitesimale, geometria analitica]”. Per capire l’aritmetica stessa occorreranno anche metafore che hanno fonti matematiche non numeriche, geometriche e insiemistiche ad esempio, e lo stesso vale per i fondamenti insiemistici. Non viene detto come queste metafore, in cui la fonte non è concreta, ma si compongono e si sovrappongono a livelli multipli, conservino l’incarnazione, né che cosa garantisca che venga conservata. In seguito sarà detto che si tratta di un altro tipo di metafore, chiamate metafore di collegamento (linking metaphor ). Un’altro concetto è quello di miscela concettuale, quando si ha una corrispondenza tra due domini, ma l’applicazione va nei due sensi sia per i domini che per le strutture inferenziali. Allora si parlerà di miscela metaforica (metaphorical blend ). 28 Si capisce già che questo concetto sarà il deus ex machina onnipresente, il che solleva gli stessi dubbi delle metafore a fonte non concreta per quel che riguarda l’incarnazione. Infine esistono metafore che secondo LN introducono elementi nel dominio bersaglio. L’esempio proposto è quello dell’amore come impresa (di affari), dove gli innamorati sono soci (partner ), una relazione d’amore è una società per affari (business), i profitti della relazione sono i profitti di un’impresa e cosı̀ via. Non pare l’esempio più felice. Non ho mai sentito parlare dei profitti di una relazione amorosa, neanche in inglese, ma forse gli yuppies parlano cosı̀ dei loro amori. Secondo LN, mentre nel campo dell’amore non ci sono profitti né lavoro, la metafora li introduce prendendoli dal campo economico. Con tutta la buona volontà, l’esempio non sembra stare in piedi. Non ci sarà la parola “lavoro” (work ) nel vocabolario amoroso, ma quando si parla di “metterci del lavoro nella relazione” si esprime qualcosa che nel campo41 dell’amore c’è, e si può esprimere ad esempio come “impegno”, o “dedizione”, “applicazione”, “coltivare” (più che il business potrebbe entrarci il farming o il gardening). In seguito verranno altri esempi dalla matematica, e saranno ancora più discutibili. Verranno anche altri tipi di metafore, ad esempio quelle ridefinizionali 42 , e forse ancora altre che ora ci sfuggono. Ma ora esaminiamo le metafore prime e più importanti che hanno a che fare con la matematica. 41 42 Metafora. Cantor, p. 150. 29 7 Le metafore fondanti La dizione “metafore fondanti” non è traduzione del tutto felice del termine originale grounding metaphor , che si riferisce alle metafore che “permettono la proiezione dalle esperienze quotidiane ai concetti astratti”43 , a differenza di quelle di collegamento. La parole “fondazione” ha nella filosofia della matematica significati vari ma diversi dal grounding. Le metafore fondanti sono ad ogni modo le metafore che affondano le radici della matematica nel terreno del concreto, e possiamo usare il termine in questo senso. LN si chiedono quali capacità siano necessarie per passare dalla dotazione innata del senso della numerosità alla matematica vera e propria. Per la sola attività del contare, elencano: capacità di raggruppamento, di ordinamento, di accoppiamento, memoria, capacità di capire la fine di un processo, assegnazione di numeri (all’ultimo oggetto contato), comprensione dell’indipendenza del conteggio dall’ordine. Fino a 4 non c’è bisogno di contare, l’assegnazione della cardinalità avviene per subitizzazione, ma secondo LN “subitizziamo le dita usate per contare”, estrapolazione linguistica coraggiosa ancorché insensata. Oltre a 4 serve una capacità di fare raggruppamenti di tipo iterato (“mettere insieme gruppi percepiti o immaginati a formare gruppi più grandi”44 ) e infine occorre la capacità di assegnare simboli (parole) ai numeri. In compiti aritmetici più avanzati del contare intervengono poi altre capacità che sono individuate nella capacità di fare metafore e di eseguire miscele concettuali. Quindi LN passano ad affrontare le metafore fondanti, soffermandosi su quella che dicono essere la più importante, cioè la metafora “L’aritmetica è collezione di oggetti”. Dicono che è la più importante perché la correlazione di gruppi e contare è pervasiva nell’esperienza della prima infanzia. Questa è la metafora che introduce, o fa capire, i numeri. Notiamo una palese inconsistenza; è detto che le metafore servono per compiti più difficili del contare, in particolare per introdurre i numeri; ma per contare occorrono le capacità sopra elencate, che già contemplano la comprensione del numero, anzi sia dell’ordinale sia del cardinale. Sulla delicatissima e complicata capacità di contare LN dicono solo quanto 43 44 pp. 52-3. p. 52. 30 sopra riportato. Torneremo sull’argomento quando spiegheremo come il contare sia essenziale per la formazione del numero, e per colmare le aporie del rendiconto di LN. Prima di esaminare la metafora “L’aritmetica è collezione di oggetti”, si consideri tuttavia che più oltre apparirà che essa è solo una delle metafore fondanti di base dell’aritmetica e ce ne sono altre tre da esaminare45 . Quindi ci sono diverse metafore fondanti di base; sorgerà spontanea la curiosità di sapere se sono in tutto quattro, o se le quattro esaminate sono solo esempi di una varietà di metafore di base, e poi ancora che rapporto sussiste tra di esse; se vengono usate in simultanea, o se si alternano a seconda di certi problemi, e quali, et coetera. 7.1 Aritmetica come collezione di oggetti Pensiamo che la metafora sia chiara e familiare, e anche ovvia, nel senso che la metafora è indubbiamente presente nei discorsi aritmetici; forse in inglese l’intervento del linguaggio delle collezioni è ancora più evidente, perché lo stesso verbo to add significa sia aggiungere che addizionare, mentre noi per i numeri non usiamo tanto spesso “aggiungere”, salvo che per 1, al posto di “addizionare”. Ma oltre al verbo ci sono altre parole che derivano dalle collezioni, come “più grande” per la relazione d’ordine. Soffermiamoci allora su alcune particolarità della metafora. Ci viene detto ad esempio che nella mappa che costituisce la metafora, in cui a collezioni di oggetti dello stessa grandezza corrispondono numeri, alla collezione più piccola corrisponde il numero 1, l’unità. Si prova un senso di grande arbitrarietà. Perché la più piccola collezione non è quella vuota? Si dirà che ∅ è un concetto complicato, ma anche quello della collezione con un solo elemento lo è. Nello sviluppo dell’insiemistica entrambe hanno sollevato lo stesso tipo di difficoltà. L’insieme unitario {a} in quanto distinto dall’oggetto a continua ancora oggi a turbare ogni studente. Un oggetto non è una collezione di oggetti; vero è che togliendo oggetti da una collezione si ottengono collezioni finché non si arriva a un solo elemento; ma il ragionamento naive in questo caso è che non si ha più una collezione. Oppure perché non continuare e togliere anche quello? Questa metafora ad ogni modo, secondo LN, non permette di concettualizzare lo 0; quindi 0 dovrà venire da qualche altra parte, e viene l’idea che le 45 p. 65. 31 quattro preannunciate metafore dovranno collaborare. La metafora che i numeri sono collezioni sembra molto forte, ed insolita: si sente dire, è stato detto da tanti (Aristotele), che i numeri sono collegati alle collezioni, ma dire che sono collezioni è molto più forte che non dire ad esempio che i numeri sono segmenti, che corrisponde meglio almeno ad una verità storica: c’è stato un tempo in cui i matematici dicevano che i numeri erano segmenti, nessuno ha mai detto che i numeri sono collezioni (salvo nell’insiemistica moderna dove tutto è insieme, ma ai numeri come insiemi si arriva con un lungo percorso e certo non la si vorrà prendere come metafora fondante). Non lo ha mai detto nessuno che conti; se qualcuno l’ha detto nell’Ottocento, si è preso gli strali di Frege. Nell’aritmetica pitagorica e pre-pitagorica i numeri erano fatti con i sassolini, ma non erano insiemi, si potrebbe dire che erano strutture: avevano una disposizione spaziale e si distinguevano in numeri lineari, triangolari, rettangolari (si veda 7.4). La metafora non dice neanche che i numeri sono come collezioni, ma proprio che sono collezioni. Per quanto a proposito dei predicati fosse stato detto che concepiamo i predicati come collezioni. Viene da esprimere una perplessità generale che si può inserire qui in mancanza di un posto migliore. Le metafore creative come abbiamo visto introducono oggetti nel dominio bersaglio, che tuttavia come dominio esiste e pare ben definito. Le metafore fondanti di cui la presente è un esempio sembrano invece creare tutto il dominio bersaglio. La questione si collega a quella di capire cosa significa “concettualizzare”, se debba voler dire anche “formare concetti” e non la sappiamo risolvere. Dalla metafora delle collezioni ad ogni modo invece di accontentarsi di quello che può dare si vuole ricavare tutta l’aritmetica o quasi; ad esempio il fatto che si possa contare indefinitamente deriverebbe dal fatto, o legge del dominio delle collezioni, che si possono aggiungere collezioni indefinitamente. Uno penserebbe che si possono aggiungere finché se ne hanno, o finché ci stanno nel contenitore entro cui siamo; ma tutti i contenitori noti hanno dimensioni finite. L’universo stesso probabilmente. Quale esperienza concreta ”rebbe mai a questa idea di collezioni arbitrariamente grandi? L’estensione aritmetica arriva fino alla moltiplicazione, che non è cosı̀ ovvia come l’addizione. L’addizione è ovviamente collegabile all’unione di insiemi (disgiunti, qui non lo si dice ma siccome le collezioni sono da intendere come di oggetti fisici, si può pensare che si tratti sempre di collezioni disgiunte - con esiziali conseguenze tuttavia per la metafora dei predicati come collezioni, peraltro non prese in esame). 32 Lo è meno (collegabile ai contenitori) la sommatoria, o somma generalizzata, perché l’unione di un insieme di insiemi mal si accorda con l’idea dei contenitori: se uno immagina un insieme di mele come un sacco di mele, e poi un insieme di sacchi di mele, per fare l’unione deve eliminare i sacchi, cioè le pareti dei contenitori che invece sembrerebbero parte integrante dei contenitori e non si capisce dove spariscano. La moltiplicazione, come sarebbe indotta dalla metafora, è illustrata con l’esempio di 3 collezioni di 5 oggetti, che danno una collezione di 15 oggetti, o mettendoli tutti insieme (pooling), o aggiungendo una collezione alla volta (addizione ripetuta). La moltiplicazione può essere spiegata agli studenti con simili manipolazioni degli insiemi ma non ha certamente tale origine. Interrogarsi sulle origini è un problema, in questo contesto, perché nella trattazione si parla di origini concettuali, con il rinvio, quando serve a convincere il lettore, all’esistenza di connessioni neuronali (richiamate proprio nel corso della discussione della moltiplicazione) ma si vorrebbe capire anche il collegamento con le origini storiche. La questione delle origini storiche e del rapporto con quelle che sono presentate come origini concettuali o fisiche non è mai affrontata nel corso del libro, ed è ripetutamente violentata dagli esempi. Ad esempio se, come vedremo, la logica viene dalle classi, il fatto che da una contraddizione segue qualunque proposizione (una delle prime domande a cui LN hanno promesso di rispondere) può solo avere spiegazione nella proprietà che la classe vuota è contenuta in ogni classe. Come ragionavano allora gli Stoici che conoscevano ex falso quodlibet ma non avevano ancora concettualizzato la classe vuota? Gli esempi si potrebbero moltiplicare. L’origine storica della moltiplicazione è nella misura delle aree (su cui torneremo ma su cui LN non dicono nulla). Per vedere la moltiplicazione come addizione ripetuta occorre, come peraltro è riconosciuto46 , una miscela della metafora della collezione e di numeri; una miscela su cui sarebbe opportuno soffermarsi in modo più problematico, come su tutte le miscele concettuali, su cui invece LN sorvolano come se fossero qualcosa di scontato e naturale. Come abbiamo già osservato a proposito ad esempio dei diagrammi di Venn, le miscele concettuali sono in realtà presenti, e non riconosciute da LN, in molti dei casi fondamentali trattati; la miscela dell’iterazione costituisce poi forse il meccanismo principe della prima 46 p. 61. 33 matematica. A tal punto, come abbiamo già suggerito, da mettere in crisi l’idea stessa di LN delle metafore fondanti. Non appena si va al di là della affermazione “I numeri sono collezioni” e forse dell’addizione, le operazioni concrete nel dominio fonte richiedono esse stesse un poco di aritmetica. Ad esempio la rappresentazione in una base richiede il concetto o la formazione di raggruppamenti; questi devono però essere fatti con un criterio matematico. Si consideri questa situazione, nota agli storici: gli antichi Egizi sapevano trattare in modo efficiente le progressioni geometriche, perché avevano un modo molto conveniente di eseguire moltiplicazioni iterate47 . Essi sapevano che ogni numero si può scrivere come somma di 1, 2, 4, 8, . . . Si ricordi che non avevano una rappresentazione posizionale, ma questa proprietà la conoscevano, e la proprietà equivale a conoscere di fatto la rappresentazione binaria dei numeri. Ai numeri in base 2 corrisponde la stessa rappresentazione analogica che in base dieci, con i raggruppamenti che sono ora non di gruppi multipli di dieci ma di gruppi multipli di due. Con questa semantica essi potevano inventare i loro algoritmi per la moltiplicazione, che si riduceva a iterare raddoppio e somma; l’idea dei raggruppamenti è dunque potente, ma in primo luogo non è strettamente legata alla notazione posizionale, e in secondo luogo dipende invece da un’altra idea fondamentale, che i raggruppamenti si devono fare comunque in gruppi le cui dimensioni crescenti siano ciascuna un multiplo della precedente (dieci volte, oppure due volte). Altrimenti non serve a niente. La rappresentazione mediante raggruppamenti, lungi dal poter essere fondante della nozione di numero, richiede, per essere concepita, la nozione di multiplo. Le analogie sussistono tra concetti che sono già in parte intrisi di matematica. A proposito della rappresentazione posizionale dei numeri, vale la pena ricordare che LN la discutono quando parlano di numerali e calcolo48 , ma la liquidano con una battuta, cioè introducendo una nuova metafora: “I numeri sono somme di prodotti di numeri piccoli per multipli della base”. Data la struttura delle metafore, il dominio di questa dovrebbe essere l’insieme delle somme di prodotti di numeri piccoli per multipli della base [sic]. Non solo le definizioni, come si incominciava a sospettare, sono per LN tutte metafore, 47 Già nel papiro Rhind; si veda ad esempio E. Maor, Trigonometric Delights, Princeton Univ. Press, Princeton, 1998. 48 p. 83. 34 ma anche i teoremi. Che dalla metafora delle collezioni vengano tutte le leggi dell’addizione e della moltiplicazione e delle inverse è molto dubbio; si consideri il caso della commutatività della moltiplicazione, fatta con la versione non miscelata del pooling. LN danno per scontato che l’esperienza quotidiana ci insegna che tre collezioni di cinque oggetti sono la stessa cosa di cinque collezioni di tre oggetti; per capirlo si possono certo fare delle manipolazioni di oggetti, ma sono manipolazioni astute e non ovvie, che non capita di fare nella vita comune. Date tre collezioni di cinque elementi ◦◦ ◦◦◦ ◦◦ ◦◦◦ ◦◦ ◦◦◦ occorre probabilmente, perché LN non lo dicono, disporre i loro elementi in questo modo: ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ quindi guardare alla disposizione, girando il foglio o girando intorno ad essa, in modo da vederla cosı̀: ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ ◦ 35 Cosa vuol dire allora che la commutatività del pooling è una legge del dominio sorgente? Non compare nei discorsi comuni sulle collezioni. La si scopre solo se si ha già una capacità di ragionamento combinatorio che, al di là del semplice collezionare, porta alla costruzione del prodotto cartesiano. Manipolazioni di questo genere si fanno opportunamente per spiegare le proprietà della moltiplicazione agli studenti, spesso sono illuminanti, ma questo di per sé non vuol dire che siano l’origine. Una delle ambiguità del libro, e motivo forse del fascino che sembra avere presso le persone interessate alla didattica, sta proprio nel fatto che certe idee relative alle metafore che sono suggerimenti didattici buoni (ancorché peregrini) vengono scambiate con spiegazioni delle origini situate. Non c’è bisogno di questo per riconoscere l’utilità didattica di certe metafore e anche di certe forzature delle stesse. Forzature nel senso che non sono nel linguaggio concreto, ma il linguaggio concreto si presta ad estensioni, guidate però dalle necessità del bersaglio, non autogene. Invece spesso LN fanno loro queste estensioni e dicono che sono nella metafora ma cosa c’è in una metafora? Quello che normalmente si usa nel parlato o quello che è deducibile o estrapolabile da esso? 7.2 La metafora dello zero Qui si raggiungono livelli esilaranti. Siccome non c’è la collezione vuota, siccome l’assenza di oggetti non è per LN una collezione, “dobbiamo concettualizzare l’assenza di collezioni come una collezione. Serve una nuova metafora. Una metafora che crea qualcosa dal nulla”49 . La metafora della collezione zero Mancanza di oggetti → Collezione vuota Continua: “data questa metafora come input, la metafora ‘L’aritmetica è collezione di oggetti’ manderà la collezione vuota su un numero, lo zero”. Non è mai detto cosa significa che una metafora prende come input un’altra metafora. Forse vuol dire che c’è una composizione, l’uso consecutivo di due metafore? Ma ancora prima, tornando alla nuova metafora, quale ne è la sorgente? Il bersaglio è quello delle collezioni ma la sorgente è misteriosa. C’erano già 49 p. 64. 36 dei problemi con le metafore creative, ma qui sono clamorosi. Le metafore creative creano enti nel dominio bersaglio, ma questa crea oggetti nel dominio fonte, anzi l’intero dominio fonte (a cui opportunamente non si dà nome: dovrebbe contenere un unico ente, la mancanza di oggetti. Oh spirito di Federico di Tours! Oh ombra di Heidegger!). LN ammettono che la metafora è artificiale, congegnata ad hoc (concocted ) per fare l’estensione. Ma se lo è chi la fa? Il cervello? Il cervello di LN o il cervello di ciascuno? Sotto quale esigenza incarnata? Le metafore non dovrebbero nascere naturali? Ci si chiede comunque, se la composizione sia ancora grounding e in che senso, dove è il concreto, in quali circuiti neuronali è codificata l’assenza di oggetti. LN commentano tranquilli che la metafora creativa è comune in matematica per creare nuovi oggetti, ma questa oltre a non rientrare nelle metafore creative non è una metafora matematica, ché da una parte la fonte è oscura e dall’altra il bersaglio è il dominio concreto delle collezioni. Pare ad ogni modo da questo modo di procedere che contrariamente a quanto si era pensato, ad una collaborazione cioè delle varie metafore per completare l’arsenale dei concetti aritmetici, ogni metafora, con qualche aiuto concocted , debba dare tutto. Vedremo in seguito che di nuovo non è cosı̀ perché i numeri negativi verranno da una metafora ma non dalle altre, cosı̀ come lo 0 verrà anche da un’altra. Non si capisce allora perché questa delle collezioni non sia rimpolpata (fleshed out) anche con i negativi, oltre che con lo 0. 7.3 Aritmetica come costruzione di oggetti Questa seconda metafora confessiamo che non la capiamo; si rivelerebbe nell’uso di espressioni come “se metti insieme 2 e 2 ottieni 4” e corrisponde alla costruzioni di oggetti. Non è chiaro che cosa s’intenda con oggetti e costruzione di oggetti. “Concettualizziamo i numeri come oggetti fatti di parti”. In qualche senso è vero, ma che cosa sono nella realtà gli oggetti concreti? Le loro parti spesso, anzi quasi sempre, non sono omogenee all’oggetto, mentre per i numeri è cosı̀, ed è difficile immaginare oggetti con tale proprietà. L’unico esempio proposto mi sembra che sia il Lego, e i componenti del Lego sono ben diversi dagli oggetti che si costruiscono, come i mattoni sono diversi dalle case. Quando si sottraggono parti ad un oggetto è per avere un altro oggetto 37 diverso. Immaginare esperienze comuni in cui si sottraggono parti che sono tutte uguali tra loro è difficile; forse se si è costruito un muro troppo alto, si tolgono un po’ di mattoni. Ma quando le parti sono tutte uguali tra loro, si ha piuttosto una collezione. Un’osservazione minore riguarda l’oggetto “intero più piccolo” che darebbe l’uno; rientra un tale ente nell’esperienza umana? Le connessioni con la metafora delle collezioni ovviamente ci sono anche per LN, perché per costruire un oggetto mettendo insieme le parti si deve avere una collezione di oggetti (parti, ripetiamo, non omogenee né tra loro né all’oggetto). Ma quello che si vorrebbe capire è come queste due metafore intervengono interagendo e sostenendosi a vicenda o alternandosi con diverse funzioni nella costruzione dell’aritmetica. Di questo non è detto nulla. Si dice che quella degli oggetti dà qualcosa di più, ad esempio le frazioni50 . Allo spezzare un oggetto in n parti (non è precisato se debbano essere uguali) corrisponde la concettualizzazione della frazione 1/n (naturalmente anche in questo caso si tratta già di una miscela di oggetti e numeri). Se si rimettono insieme si ottiene di nuovo l’oggetto, da cui la legge n · 1/n = 1. Non si capisce perché non si potrebbe ugualmente dividere una collezione in n collezioni e ci debba essere bisogno di quest’altra metafora. 7.4 Segmenti Veniamo finalmente a quella che dovrebbe essere davvero la metafora più importante, quella dei numeri come segmenti, misurati da un’unità di misura51 . Dovrebbe essere la più importante se non altro perché alle origini della matematica greca è stato cosı̀. Ancora in Euclide i numeri sono segmenti, soprattutto gli irrazionali, dopo la scoperta dell’incommensurabilità. Prima erano liste di sassolini, o diverse disposizioni spaziali degli stessi, numeri lineari, triangolari, quadrati. Poi i pitagorici hanno scoperto che se il lato del quadrato era una lista finita di sassolini, la diagonale non poteva esserlo. Ne è venuta la metafora che i numeri sono segmenti (divisibili all’infinito); metafora e non definizione dal momento che è sempre stata usata da allora, per due millenni, con la coscienza infelice; metafora non grounding perché i segmenti sono geometrici, 50 51 p. 67. pp. 68-71. 38 non fisici. L’intero spazio (o almeno il piano) entrava nella metafora geometrica, perché la moltiplicazione era ovviamente l’area del rettangolo. Il prodotto di due numeri lineari era un numero rettangolare. Il prodotto di due segmenti non era un segmento, come pretenderebbe la metafora di LN secondo cui la moltiplicazione di due segmenti A e B è il segmento che si ottiene riportando A volte il segmento B, di nuovo con una miscela essenziale di segmenti e numeri. Della metafora di LN non convince neanche la produzione di 1 come corrispondente del segmento unità di misura; non sembra che ci voglia molto a capire che l’unità di misura si può cambiare, e quindi dovrebbe venirne un’idea della relatività dell’uno, di cui però non c’è traccia. Per avere l’unità minima bisognerebbe rappresentare i numeri, o farli corrispondere, o dire che sono liste di sassolini, soluzione per l’appunto scartata dall’umanità perché la metafora grounding si è scontrata con l’intelletto. A questo √ proposito esilarante è anche la discussione di LN secondo cui per Eudosso “ 2 esiste come numero”. Le cose sarebbero andate nel seguente modo. Si tenga presente la metamorfosi della metafora che consiste nel miscelare fonte e bersaglio52 . Come avviene tale miscela, quando, sotto quali stimoli, perché non sempre? Non si sa. Quando fa comodo. Ora Eudosso ha usato “implicitamente” la miscela “Numeri/Segmenti fisici” ed ha concluso, secondo LN, che in corrispondenza alla diagonale del quadrato deve esistere un numero. Cosı̀ sono nati i numeri irrazionali, nel 370 a.C.! 7.5 Aritmetica come moto lungo un cammino Il movimento lungo un cammino parte da un’origine, che dà quindi lo zero senza bisogno di un atto creativo, e vede i numeri come posizioni sul cammino (point location) e le operazioni aritmetiche come movimenti lungo il cammino. Non è facile accettare che questa sia una metafora di base per i numeri. Quando si è incominciato a tenere conto della durata e lunghezza dei viaggi, a spezzarli in tappe, non si sono allora usati i numeri per questo, invece che al contrario? 52 p. 70. La definizione appare un po’ diversa da quella del blend metaforico, dove l’applicazione va nei due sensi, ma i due domini sono tenuti distinti, ma forse è ritenuta equivalente. 39 I cammini sono segmenti, quindi questa è in un certo senso la metafora di prima, ma con l’aggiunta del movimento tra i due estremi, dall’origine alla fine. Si tratta di nuovo di un blend bidirezionale, anche se non è detto. Lo si vede dalla definizione dell’addizione, che richiede di muoversi da A per una distanza uguale alla distanza che B ha dall’origine; quindi bisogna che tali distanze siano numeri, e non solo viceversa. Questa metafora è quella che secondo LN permette di parlare di una relazione d’ordine; ma anche quella dei segmenti graduati lo permetterebbe. La metafora del movimento invece, oltre allo zero, produce anche i numeri negativi, perché ovviamente si può andare avanti e indietro. Basta che l’origine del viaggio sia messa in un punto che non sia un estremo. Infatti LN dicono che quella del moto è stata crucial 53 per fornire una comprensione unitaria dei numeri (positivi e negativi); non è chiaro se crucial voglia dire solo importante oppure essenziale. Ce ne sono altre che si prestano alla stessa illustrazione intuitiva dei numeri negativi. Merita soffermarsi su “è stata”, come se proprio questa metafora sia stata usata per l’introduzione dei numeri negativi, in una data precisa. Secondo LN l’estensione ai numeri negativi fu fatta da Bombelli nel Cinquecento, grazie alla metafora del moto. “Oggi, è difficile immaginare che ci fu un tempo in cui tale metafora non era generalmente accettata dai matematici!” Infatti è difficile capirlo, perchè non è vero, se il tempo a cui si riferiscono LN non è quello preistorico, ma quello precedente Bombelli. L’attribuzione a Bombelli o a chiunque altro di una metafora per la spiegazione dei numeri negativi è molto discutibile. Le cose sono andate diversamente. L’algebra dei greci poteva evitare i numeri negativi perché era un’algebra geometrica; i numeri misuravano o erano grandezze geometriche, i problemi derivavano da problemi geometrici, e le soluzioni erano costruzioni geometriche, quindi i numeri erano positivi. Ma nella soluzione di problemi aritmetici con origini pratiche, magari nella logistica, i numeri negativi facevano capolino. I problemi dell’Aritmetica di Diofanto sono gli stessi problemi concreti della logistica, trattati nell’aritmetica pura (si veda oltre); come fondazione per i numeri negativi Diofanto usa un abbozzo di metodo assiomatico, dando le regole per una cosa che chiama “deficienza”: ad esempio deficienza più deficienza uguale deficienza, deficienza per deficienza uguale disponibilità 53 p. 73. 40 (positiva). Se una metafora è in gioco, non è quella del moto ma quella delle quantità. Verso il Mille Al-Karaji userà una terminologia analoga di eccesso e mancanza. Un secolo prima di Bombelli, Luca Pacioli introduce i numeri negativi in modo meno consapevole di Diofanto, ma pur sempre postulando la regola dei segni, con la ben nota mnemotecnica: Piu via piu sempre fa piu Meno via meno sempre fa piu Piu via meno sempre fa meno Meno via piu sempre fa meno che Bombelli semplicemente ripete alla lettera, scambiando qualche riga. Le metafore che hanno accompagnato i numeri negativi hanno sempre utilizzato la quantità, con l’aggiunta di una modalità positiva o negativa. Anche Eulero nel Settecento usa la metafora dei crediti e debiti, per mezzo della quale egli giustifica le operazioni con i numeri relativi; e la considerava proprio una metafora, non una vera definizione, tanto è vero che auspicava: “sarebbe certo della massima importanza in tutto lo sviluppo dell’Algebra che ci si formasse un’idea precisa delle quantità negative di cui abbiamo parlato”. Sia per esporre che per capire, in matematica non ci si accontenta una metafora. Ma ammesso che fosse vero quanto dicono LN, ci si chiede che cosa pensano che sia successo. Non c’erano prima di Bombelli le giuste connessioni neuronali, benché si parlasse in qualche caso di numeri con il segno meno? e come si sono stabilite? per un atto di casualità evolutiva che ha colpito i geni di Bombelli o in quel periodo un po’ tutti? E subito dopo in tutti i nuovi nati c’erano lamarckianamente le connessioni neuronali? Se la metafora era usata anche prima, era prima una metafora non incarnata? 41 8 Il G4 Ora che ci sono tutte le metafore fondanti che LN ritengono di base, si può cercare di capire meglio la loro azione e i loro rapporti. Le metafore danno luogo a particolari forme di espressione, ad esempio “incomincia [a contare] da”, come in un viaggio; ma le stesse forme di espressione non si applicano in altre metafore. Da una parte si usa un verbo, e un insieme di locuzioni collegate, dall’altra se ne usa un altro; eppure tutte sviluppano la stessa matematica, come per un’armonia prestabilita. Si potrebbe pensare che vi sia collaborazione, in fondo una dà qualcosa di più di un’altra, lo zero oppure i numeri negativi. Ma le metafore possono anche essere in contraddizione tra di loro, problema che sfugge all’attenzione di LN; ad esempio se lo zero viene dalla metafora della collezione vuota, allora il sottrarre da zero, dalla collezione vuota, è qualcosa che nessuno sforzo di stretching può ammettere. Le quattro metafore ad ogni modo sono dichiarate indipendenti da LN. A quanto pare se ce ne fossero solo tre non cambierebbe nulla, almeno per l’aritmetica dei numeri naturali, e lo stesso se ce fosse all’opera una sola. Ed è curioso che manchi del tutto (se non andiamo errati) qualsiasi accenno al battito del cuore, cosı̀ importante per molti (Brouwer). Il fatto che le G4 - cosı̀ indicate da LN - siano quattro sembra solo accidentale, oppure dovuto al fatto che gli autori hanno individuato solo queste; potrebbero essercene altre. LN spiegano l’origine dell’aritmetica nel seguente modo54 : l’aritmetica innata, che permette addizione e sottrazione fino a 4, viene utilizzata nelle prime esperienze umane nei quattro domini da loro presi in considerazione, peraltro diversi e indipendenti tra di loro. Visto che tale aritmetica funziona in tutti, ciascuno è adatto per l’estensione, e ciascuno provoca l’estensione55 . La base dell’estensione è costituita dalle “correlazioni nell’esperienza quotidiana dell’aritmetica innata e dei domini delle [rispettive] fonti”. Le esperienze sono quelle di costruire oggetti, fare dei passi e più tardi usare bastoncini, dita e braccia per misurare lunghezze. La fusione (conflation) di aritmetica innata ed esperienze innesca le metafore. La spiegazione dell’origine situata delle leggi aritmetiche è tutta qui, in due paragrafi. 54 55 pp. 77-8, nel capitolo intitolato “Da dove vengono le leggi dell’aritmetica”. Corsivo aggiunto. 42 Esponiamo alcune perplessità, in spirito costruttivo, dal momento che è del tutto credibile (diremmo ovvio) il contributo del corpo e delle esperienze corporee nella formazione e comprensione dei primi concetti aritmetici. Bisogna evitare di renderlo incredibile con teorizzazioni sbagliate. Innanzi tutto occorre essere meno vaghi e più cauti sull’aritmetica innata. LN continuano a dire che essa permette l’addizione e la sottrazione fino a 4, ma questo se ci si pensa è molto poco. Intanto 4 è già il confine dove inizia l’indeterminazione, quindi si deve scendere a 3; operazioni sotto a 3 non è che se ne possano fare molte oltre al +1, −1 o −2. Con queste restrizioni non si riesce a formulare e riconoscere alcuna legge di quelle che poi la mappa costituente la metafora dovrebbe trasformare in leggi dei numeri; fa eccezione la commutatività e forse associatività dell’addizione56 , ma solo del tipo 1 + (1 + 1) = (1 + 1) + 1, nella forma ◦ ◦◦ = ◦◦ ◦ Inoltre l’aritmetica innata non ha nomi neppure per i primi tre numeri, neanche in versione aggettivale, si esprime per subitizzazione. In secondo luogo, occorre essere meno vaghi sui tempi. Nel periodo in cui possiede solo l’aritmetica innata, poche sono le esperienze senso-motorie accessibili all’infante. L’estensione delle prime esperienze e la fusione con l’aritmetica inizia e si accompagna con il contare. Pensiamo all’esperienza del compiere i primi passi; all’inizio il bambino ne fa uno o due al massimo; l’educatore inizia a scandire: 1, 2. Quando il bambino riesce a farne una piccola serie, si potrà scandire fino a 4, 5 e cosı̀ via. La scansione avviene con la recita della serie numerica. Si creano e si propongono e s’insegnano i nomi per i numeri, nomi utilizzati in modo del tutto diverso da quello delle altre parole note, dei nomi comuni; questo avviene contando; si conta anche senza contare nulla, o se si vuole contando i numeri; questa è la base per la formazione degli ordinali. La cantilena del contare, quando ancora non si sa niente dei numeri, ha come è noto a tutti una funzione importante per la successiva introduzione dei i discorsi sui numeri, ma sull’argomento LN non dicono niente. 56 LN dicono che non vale, perché con tre addendi si supera il 4, ma questo caso almeno è disponibile - anche se potrebbe rientrare nella commutatività. 43 La recitazione dei numeri porta ad accompagnare con i loro nomi le prime estensioni delle esperienze fisiche di base. A questo stadio i numeri non ci sono ancora non solo perché non si sa cosa siano i nomi recitati, ma anche perché non possono ancora essere il prodotto delle metafore, ammesso che lo siano. In generale, per impadronirsi della terminologia di un dominio, prima eventualmente di trasportarla metaforicamente ad un altro, occorre che i discorsi del dominio fonte siano abbastanza sviluppati, in modo da essere entrati nel linguaggio corrente e familiare. Non si può adottare e adattare il linguaggio dei viaggi quando i viaggi consistono di due passi, e il linguaggio dei viaggi non c’è ancora. L’unico argomento di LN è che l’aritmetica innata, sotto a 4, funziona indipendentemente in ciascun dominio. Pensiamo invece che per permettere la metafora si diano due condizioni; innanzi tutto che le esperienze in ciascun dominio siano abbastanza ricche e sviluppate, e in secondo luogo che nell’estensione di queste esperienze ai di là dei limiti dei primi mesi di vita intervenga qualche forma di espressione numerica che non è quella minima innata. Ma questo modo di guardare all’origine delle metafore va contro la posizione di LN, e in effetti mina la tesi complessiva, per il motivo che cercheremo di illustrare. Soffermiamoci in particolare sulla tesi che ciascuna metafora darebbe origine da sola ai numeri e all’aritmetica. La tesi è poco plausibile ma è importante per LN, al punto che fanno carte false per ricavare tutte le leggi di somma e prodotto da ciascuna, anche con metafore non grounded , creative e miscelate. Il motivo pare essere il seguente. Per tutti è ovvio che ci sono diversi discorsi metaforici sui numeri, con provenienze diverse, ma tutti in larga misura compatibili e spesso mescolati o sovrapposti. C’è un’ipotesi naturale, vedremo quale, per spiegare tale fenomeno ma LN non vogliono introdurla, perché diminuirebbe la funzione fondante della metafora. Quando si trattano questioni di numerosità nei diversi domini, in un caso si parla di grandezza, in un caso di lunghezza e cosı̀ via. Quindi quando si fanno discorsi aritmetici si sta parlando di cose diverse a seconda della metafora che si usa, in una caso di collezioni, in un caso di segmenti. All’interno di un dominio si possono sviluppare al massimo i nomi per i 44 numeri aggettivali; può darsi che si arrivi a dire che una collezione di due mele è più piccola di una collezione di cinque mele, ma non si arriva al 2 e al 5. Il passaggio cruciale per ottenere l’aritmetica è il passaggio dall’aggettivo al sostantivo. Esistono come è noto lingue in cui le parole per i numeri sono diverse a seconda della natura di quello che si misura. Non c’è bisogno di andare lontano, nelle isole del Pacifico o al tempo dei Sumeri. Proprio la logistica greca offre un esempio calzante, e permette di constatare l’evoluzione all’interno della stessa società. La logistica, dice Gemino57 , considera le proprietà dei numeri in riferimento agli oggetti sensibili; e per questa ragione applica ad essi nomi adattati dagli oggetti misurati, chiamandoli [i numeri] a volte meliti (da µη̂λoν, pecora o mela) a volte fialiti (da φιάλη, coppa, orcio)58 . L’aritmetica pura, non logistica, nasce quando viene in mente, cioè proprio nel cervello, di introdurre un nuovo nome sostantivato, che poi si usa non solo e non tanto in tutti i domini quanto in un dominio nuovo. Ai numeri che sono sostantivi si adattano i diversi linguaggi metaforici piegati dalla grammatica a riferirsi agli stessi soggetti. Per spiegare questa mossa si potrebbe fare l’ipotesi che intervenga e sia di aiuto il riconoscimento che i discorsi relativi alla numerosità nei vari domini hanno delle somiglianze strutturali; questo vorrebbe dire però che si vede la struttura astratta, al di là dell’uso di verbi ed espressioni diversamente fondanti. Ma il riconoscimento di una stessa struttura tira in ballo la vecchia astrazione, che LN non accettano. Pensare a introdurre una forma di astrazione richiederebbe che una sola metafora non è sufficiente, da cui la tesi di LN sull’indipedenza delle G4. Se ciascuna metafora è autosufficiente, si pone tuttavia il problema di spiegare come tutte diano la stessa cosa, e LN non lo spiegano. Da domini cosı̀ diversi e con parole e discorsi cosı̀ diversi dovrebbe venire fuori qualcosa di diverso. Tanto più che quando diciamo che i numeri sono collezioni, secondo LN intendiamo proprio dire che sono collezioni59 . In ciascuna delle G4 i numeri sono cose del mondo60 e quindi cose ben diverse da 57 Cfr. Heath, cit., p. 14. Sono i problemi della logistica formulati in questi termini che si ritrovano in Diofanto in linguaggio aritmetico puro, come se avesse capito che si poteva fare astrazione dal contesto. 59 p. 80. 60 Anzi questa circostanza dà origine a una nuova metafora, che “I numeri sono cose del 58 45 una metafora all’altra. Per LN le relazioni tra i quattro domini esistono solo grazie ai numeri, dopo che si è estesa l’aritmetica e non prima. Questo è giusto, ma non per il motivo che adducono, che è confuso. Essi affermano prima che esistono isomorfismi tra i domini delle G4, parola grossa e imprecisa; poi si correggono e affermano che gli isomorfismi esistono solo come composizione dell’applicazione di ciascun dominio con i numeri. Tuttavia questo presuppone che i numeri non siano più cose del mondo, in un caso collezioni e nell’altra lunghezze, perchè altrimenti l’isomorfismo si stabilirebbe direttamente tra i domini. Le corrispondenze tra i quattro domini invece sussistono perché nello sviluppo delle esperienze in questi domini, su dimensioni maggiori di quelle della subitizzazione, che da sola non fa scattare l’esigenza di ipostatizzare i numeri, interviene già una parvenza di numero. mondo” appunto. 46 Seconda parte Dalla seconda parte in avanti, il libro è dedicato alla matematica superiore, e più che di scienza cognitiva si occupa di filosofia della matematica. Gli autori sviluppano quella che chiamano l’analisi delle idee matematiche, che naturalmente protestano essere un prodotto della loro indagine empirica di scienziati cognitivi; ma abbiamo già capito che si tratta di girare sempre la stessa frittata, metaphors galore ed everywhere in tutte le combinazioni possibili e blend sempre più astratti e di ordine superiore. Nella seconda parte di questo commento non insisteremo più a fare le pulci alle singole metafore, gli esempi che abbiamo visto mostrano a sufficienza che strumento spuntato e pasticciato si riveli nelle forzature a cui viene sottoposto61 . Poco ci interessa ad esempio rilevare che, dopo aver presentato la metafora “I numeri sono punti sulla retta”, LN affermino che “la geometria analitica non esisterebbe senza di essa”62 , quando la metafora che interviene nella geometria analitica è casomai che “I punti della retta sono numeri”. Né è il caso di rompersi la testa per capire cosa significhi la seguente osservazione: le G4 inducono una metafora più generale “I numeri sono cose del mondo”, da cui segue la legittima inferenza che i numeri sono entità reali, parte dell’universo. Ne segue quello che è il nucleo del platonismo, incluso ad esempio la credenza che le verità matematiche (relative ad oggetti del mondo) sono scoperte e non create. Il commento di LN, impegnati come si ricorderà a distruggere il platonismo, è che “è ironico che dallo studio empirico dei numeri come prodotto della mente segua che è naturale per le persone credere che i numeri non siano un prodotto della mente”63 . L’ironia farà sorridere, ma mi sembra un riso coi denti inchiavardati. Il messaggio è preoccupante; è possibile che la mente ci inganni in questo modo? succede solo per la matematica o anche in altri campi? Ma è poi vero o LN si sono lasciati tirare dal desiderio di costruire un paradosso? In fondo nessuno crede che l’affetto sia una cosa dello stesso genere del calore, nononstante la metafora relativa. 61 Le osservazioni che si riveleranno insopprimibili le relegheremo in nota. p. 6. 63 p. 81. 62 47 Giocare coi paradossi è pericoloso se non si padroneggia la logica; quello proposto da LN è solo un caso di reductio ad absurdum debole64 . Se il cervello produce una matematica che è correttamente pensata, dal cervello, come una cosa non prodotta dal cervello, questo significa che il cervello produce sistematicamente credenze false. È allora legittimo credere che le affermazioni della scienza siano false, in particolare quelle della scienza cognitiva. In particolare non è vero che il cervello produce la matematica. Non è il caso di soffermarsi ancora su dispute del genere; ma vale la pena capire quale immagine della matematica gli autori ci propinano attraverso la loro analisi delle idee matematiche. Prima di iniziare l’esame delle varie branche, esprimiamo qui una perplessità generale sul mistero della geometria - geometria euclidea, quella che con l’aritmetica rappresenta la prima matematica ad essere acquisita. LN non ne parlano mai. Forse danno per scontato che sia cosı̀ fisica che la sua natura incarnata sia ovvia, ma si vorrebbe sapere quale metafora la porta in essere (“I segmenti sono bastoncini”? o corde tese?). Il concetto geometrico di segmento (come quello di linea) interviene nelle metafore fondanti, un altro caso in cui il dominio concreto è descritto per mezzo di concetti matematici. Ma questa trascuratezza rivela forse una strana idea della matematica a cui LN fanno riferimento, come già faceva sospettare la lista iniziale di domande “fondamentali”. LN diranno che loro sono scienziati cognitivi e la matematica la prendono dai matematici, ma in realtà la prendono da una filosofia della matematica (proprio quella contro cui vogliono combattere) oppure da sistemazioni che, la storia insegna, sono sempre provvisorie nell’enfasi che pongono sull’una o sull’altra disciplina. 64 La tautologia (A → ¬A) → ¬A. 48 9 Algebra L’algebra è il paradiso dello scienziato cognitivo, ché riesce a spiegarla compiutamente in base a tre cose che sono il suo pane: metonimia, metafora e teorie del senso comune. 9.1 Variabili Una prima osservazione di LN sull’algebra, intesa come calcolo letterale, con le espressioni, riguarda la variabile65 . LN fanno giustamente notare che l’uso delle variabili è presente anche nel linguaggio comune al di fuori della matematica; non si tratta di una scoperta originale, perché è ovvio il parallelo tra le variabili e i pronomi indeterminati, anche in presenza di quantificatori; LN però individuano e indicano il fenomeno linguistico soggiacente nella metonimia. La metonimia in questione è chiamata “Ruolo per individuo”. Quando si dice “Quando viene il ragazzo che consegna le pizze, dagli la mancia” è in gioco uno schema concettuale “Ordinare una pizza da asporto” in cui compare un ruolo, quello del “ragazzo che consegna la pizza”; la mancia consiste nel dire di dare la mancia a un individuo, identificato però dal ruolo. Una metonimia del genere, certo presente nel linguaggio comune, non compare tuttavia nell’analisi logica della frase che porta alla formalizzazione usata in matematica. Quello che LN chiamano ruolo viene riconosciuto come un predicato, P per “essere un ragazzo che porta la pizza”, e “il ragazzo che porta la pizza” è reso da P (x), corrispondente a “uno che P ” o “quello che P ”. Non sembra perciò che la metonimia “Ruolo per individuo” sia la spiegazione migliore della variabile matematica. 9.2 Assiomi ed essenze Tutti gli enti matematici sono concettualizzati come oggetti, quindi hanno un’essenza, secondo la teoria ingenua (o del senso comune, folk theory) sulla natura del mondo che LN fanno risalire alla filosofia pre-Socratica [sic], senza però indicare alcun nome prima di Platone. 65 p. 74. 49 Secondo la teoria ingenua ogni oggetto o ente ha un’essenza. Le metafore di base per caratterizzare le essenze sono tre, “Le essenze sono sostanze”, “Le essenze sono forme”, “Le essenze sono schemi di cambiamento”. Ad esempio l’essenza di un albero consiste nell’essere di legno (sostanza), nell’avere radici, tronco e rami e foglie (forma) e una particolare evoluzione vitale (schema di cambiamento)66 . Dopo aver presentato le metafore dell’essenza, LN ci dicono che Aristotele avrebbe presentato l’essenza delle categorie con definizioni, intendendo con “definizione” l’enunciazione delle condizioni necessarie e sufficienti per appartenere alla categoria. Non si capisce come le definizioni quali strumento per esprimere l’essenza si accordino con le metafore; certamente non sembrano metafore e sono diverse dalle tre metafore di base; eppure sarebbero come vedremo la mossa tipica della matematica. Euclide trasportò la teoria delle essenze in matematica con grande risonanza. Egli sosteneva che solo cinque postulati caratterizzavano l’essenza dell’argomento della geometria piana67 . Questo è vero solo se si legge Euclide alla luce della teoria della scienza di Aristotele, e si vedono le sue definizioni come caratterizzanti il genus della disciplina. Ma si tratta di una lettura naive; Euclide non presenta alcuna considerazione metodologica, ed è molto più probabile che i suoi assiomi e definizioni volessero esprimere i risultati delle operazioni con riga e compasso. Finché è durata l’influenza della filosofia, prima aristotelica poi razionalista, è tuttavia vero che gli assiomi di una teoria sono stati concepiti in questo modo e l’interpretazione dell’assiomatica di Euclide nella folk theory resta quella di LN. Di qui venne l’idea che ogni argomento di matematica dovesse essere caratterizzato nella sua essenza in questo modo, una breve lista di assiomi, prese come verità, da cui tutte le altre verità relative allo stesso argomento potessero essere dedotte. 66 Le pietre non hanno l’ultima caratteristica, quindi forse basta una o l’altra per esprimere l’essenza, come in effetti sarà per l’algebra. Ma l’esempio addotto farebbe pensare che tutte e tre intervengano; almeno forma e sostanza sembrano attribuibili sempre agli oggetti. Vero è che Platone dirà che le essenze sono Forme, ma parlava di idee, non di oggetti. 67 p. 109. 50 La matematica come disciplina ha seguito la definizione aristotelica di “definizione” di un’essenza: una collezione di condizioni necessarie e sufficienti che rendono una cosa quello che essa è e da cui seguono tutte le sue proprietà naturali68 . Le cose sono andate cosı̀, non fino a Gödel come dicono senza spiegazioni LN, ma fino alla fine dell’Ottocento e alla conquistata consapevolezza che gli assiomi non costituivano definizioni necessarie e sufficienti, in quanto ogni sistema di assiomi aveva sempre una pluralità di intepretazioni diverse; si sono chiamati definizioni implicite o definizioni descrittive69 . Non è più ammissibile dopo Enriques, Hilbert etc. sostenere che Il metodo assiomatico assume che ogni sistema matematico può essere caratterizzato completamente da un’essenza - vale a dire da un numero relativamente piccolo70 di proprietà essenziali71 . Gli assiomi dei gruppi non stabiliscono affatto condizioni necessarie e sufficienti, se non per essere un gruppo, ma non caratterizzano alcun sistema matematico, se un sistema matematico, per anticipare gli esempi che vedremo, è qualcosa come l’aritmetica modulo 3 o l’insieme delle rotazioni. I modelli non standard dell’aritmetica provano proprio che gli assiomi non stabiliscono condizioni necessarie e sufficienti per essere un numero naturale o la struttura dei numeri naturali. Non pare coerente comunque sostenere con LN che il metodo assiomatico è nato in Grecia e non in altre civiltà a causa della centralità della teoria ingenua delle essenze nella filosofia greca72 ; esso casomai sarebbe nato - seguendo LN - dall’idea di Aristotele di esprimere l’essenza per mezzo di definizioni con condizioni necessarie e sufficienti, idea che non sembra appartenere alla teoria ingenua. 68 pp. 109-10. Per una discussione del metodo assiomatico, si veda G. Lolli, Da Euclide a Gödel , Il Mulino, Bologna, 2004. 70 Chissà perché LN continuano a mettere questa condizione; l’aritmetica e la teoria degli insiemi hanno infiniti assiomi. 71 p. 118. 72 p. 118. 69 51 9.3 Algebra ed essenza L’algebra considerata da LN è l’algebra moderna, teoria delle strutture, dove ogni classe di strutture è individuata dai relativi assiomi. L’algebra intesa in questo senso data dall’inizio del secolo; è ironico che il primo manuale di algebra moderna73 sia apparso nel 1931, proprio l’anno di Gödel, che secondo LN segnerebbe la fine del metodo assiomatico. “L’algebra concerne l’essenza. Essa fa uso della metafora . . . ‘L’essenza è la forma’. L’algebra è lo studio della forma o ‘struttura’ matematica . . . essa è concettualizzata come caratterizzante le essenze negli altri rami della matematica”74 . Alla prima lettura, tralasciando l’essenza, si potrebbe essere d’accordo, anche se sarà bene che gli insegnanti evitino simile terminologia. Ma gli autori vi ricamano sopra, esagerando. La matematica per LN implicitamente assume una particolare metafora per l’essenza dei sistemi matematici: “L’essenza di un sistema matematico è una struttura algebrica astratta”. Data una struttura, ad esempio quella dell’aritmetica modulo 3, l’algebra chiede quale sia l’essenza della struttura. L’essenza di una struttura matematica è considerata includere, nella considerazione dell’algebra, (i) gli elementi della struttura75 , (ii) il numero e tipo di operazioni, (iii) le proprietà essenziali delle operazioni. Quando LN introducono una parola, questa diventa subito irrefrenabile ed onnipresente e moltiplica i suoi significati: succede con la metafora, ma ora anche con l’essenza. Prima l’essenza dell’algebra è dichiarata essere la forma o struttura. In matematica tuttavia si studiano sistemi (sarebbe opportuno ricordare da quando). Sistemi e strutture compaiono come sinomini in alcune frasi, come lo sono spesso nel gergo matematico, ma qui non dovrebbero, perché una struttura è l’essenza di un sistema. L’essenza di una struttura, che è già un’essenza, deve essere una cosa ben strana, e infatti essa non è data da nessuna delle metafore dell’essenza, ma in altro modo, cioè con la caratteristica che in matematica comunemente si chiama il tipo o a-rietà della struttura ((i), (ii) e (iii) di sopra). Forse LN volevano dire, o avrebbero dovuto dire, che cosı̀ si presenta l’essenza di una sistema, e quindi una struttura è caratterizzata da (i), (ii) e (iii) (comunque 73 van der Waerden, Moderne Algebra. p. 110. 75 Questo è impreciso, o falso, e neanche rispettato da LN, che nell’esempio seguente preciseranno solo il numero di elementi della loro struttura. 74 52 non una metafora), e cosı̀ lo intenderemo. LN propongono come illustrazione il sistema matematico che è costituito dall’insieme {0, 1, 2} con l’addizione modulo 3, presentato con una tabella per l’addizione. Osservano che valgono per l’addizione le leggi associative e commutative, che c’è un elemento identico 0 e l’inverso. L’essenza di questo sistema è l’insieme dei tre elementi, con una operazione binaria e le leggi riguardanti l’addizione (si suppone quelle elencate, ma non si sa come sono state scelte76 ). Ora però ci viene detto che l’algebra concerne essenze generali , un nuovo tipo di essenze, quindi essa studia una struttura con insieme {I, A, B} e un’operazione ∗ che ha una tavola analoga alla precedente. Questa struttura è chiamata gruppo commutativo con tre elementi . Ora intervengono una serie di metafore dell’Essenza Algebrica, EA, di cui un esempio è “L’addizione modulo 3 è un gruppo commutativo con 3 elementi”. La mappa associata si può immaginare, manda {I, A, B} in {0, 1, 2}, I in 0, ∗ in + e cosı̀ via. Ricordiamo che nella specificazione del tipo di una struttura non si precisa in generale il numero di elementi; si può dire che l’algebra come teoria delle forme comprende una struttura “gruppo commutativo”, ma non “gruppo commutativo con tre elementi”. Questa è certo una struttura algebrica, ma rientra nei casi particolari, o nelle applicazioni. Perché LN abbiano scelto questo modo di esposizione è difficile capire; anche se vogliono partire dal sistema dell’aritmetica modulo tre, possono benissimo riconoscere in esso solo la struttura di gruppo commutativo, e quindi precisare come un accidente che è un gruppo con tre elementi. Forse fanno cosı̀ perché vogliono scrivere la tabella per ∗ in analogia a quella per l’addizione; ma in tal modo danno un’idea sbagliata dell’assiomatica, oscurando il fatto che come sia ∗ non bisogna postularlo, segue dagli assiomi dei gruppi commutativi, se si può mettere la struttura di gruppo commutativo su un insieme di tre elementi. Abbiamo detto sopra “riconoscere la struttura di gruppo commutativo” senza accorgerci che eravamo su un terreno minato. Infatti 76 Gli autori direbbero che essi vogliono capire dal punto di vista cognitivo la matematica, e la prendono come è. Ma qui per una volta considerano anche la storia, e ricordano che prima si sono studiati sistemi particolari, quindi è intervenuta l’algebra. Dunque, prima dell’intervento dell’algebra, sopra descritto, l’aritmetica modulo 3 non era concettualizzata in questo modo. 53 I matematici parlano dell’addizione modulo 3 come se fosse letteralmente un gruppo commutativo con tre elementi, o come “avente la struttura di un gruppo commutativo con tre elementi”. Ma in una prospettiva cognitiva questa è un’idea metaforica. Il concetto è reso più chiaro secondo LN da un altro esempio, quello delle rotazioni di un triangolo di 120, 240 e 360 gradi. Le rotazioni sono rotazioni. Per concettualizzare il triangolo come dotato di una struttura di gruppo occorre un modo molto speciale e per nulla ovvio di concettualizzare rotazioni, successioni di rotazioni e loro risultato in termini di una struttura gruppale astratta77 . Dal punto di vista cognitivo - la prospettiva secondo la quale si concettualizza un genere di cose in termini di cose molto differenti - quello che occorre è proprio la mappa metaforica. Se abbiamo capito bene, LN intendono che non si può dire, o che è impreciso, ingannevole, dire che l’insieme delle rotazioni ha la struttura di gruppo, ma che noi le comprendiamo come se fossero un gruppo. La distinzione è alquanto forzata, perché quando un matematico afferma che l’aritmetica modulo 3 ha la struttura di gruppo non vuole affermare che essa possiede la struttura come si possiede una cosa, tenendola in tasca. Vuole dire che una delle prospettive possibili per studiare l’aritmetica modulo 3 è quella di considerare le proprietà gruppali dell’addizione, ma sa benissimo, e lo dimostra nella sua trattazione, che quella non è l’unica prospettiva. Sa ad esempio, come forse LN non sanno, che nell’aritmetica modulo 3 esiste anche un’altra operazione di moltiplicazione, e che quindi è possibile, se non doveroso, considerare anche altre strutture algebriche collegate alla sua aritmetica. Ma che tipo di metafora sarebbe poi una EA? Non è più il caso a questo livello di preoccuparsi del radicamento, tuttavia è evidente che nelle metafore EA in generale, e negli esempi proposti, il dominio di origine (algebra) è più astratto del dominio bersaglio (sistemi matematici), sotto qualunque accezione (e comunque sotto quello usuale in matematica). Come minimo ci dovrebbe essere una priorità di qualche genere, una precedenza temporale, una maggiore familiarità per usare i discorsi di un 77 [In breve, per fare A occorre fare A]. 54 dominio in un altro, e invece con le strutture algebriche le cose stanno al contrario. Dicono LN: La struttura cognitiva di un’entità algebrica (un gruppo ad esempio) non è un’essenza che inerisce in altre strutture cognitive di entità matematiche (ad esempio collezione di rotazioni). Le rotazioni sono concettualizzate indipendentemente dai gruppi, e i gruppi indipendentemente dalle rotazioni78 . Questo è vero solo in parte. Le strutture algebriche non sono concettualizzate indipendentemente dalle varie strutture (relativamente) concrete che le hanno precedute. L’idea di gruppo nasce dopo diversi esempi (certo non tutti) di sistemi matematici in cui una operazione binaria soddisfa le stesse proprietà. Tali proprietà sono codificate negli assiomi dei gruppi, ed essi risultano veri in ciascuno dei sistemi prima considerati (e in altri). In alternativa, si dica che si forma l’idea di gruppo e si può usare la metafora che le rotazioni sono un gruppo, l’aritmetica modulo 3 è un gruppo . . . LN non dicono quali sono gli assiomi di gruppo ma forse sanno che sono le proprietà che mettono nella tabella della mappa metaforica. Viene da dubitare che sappiano invece cosa è la metafora dell’essenza, se concludono il loro capitolo con l’affermazione La metafora - L’essenza di un sistema matematico è una struttura algebrica astratta - attribuisce essenza a strutture algebriche (come i gruppi) che sono mappate su altre strutture matematiche (collezioni di rotazioni)79 Prima era il gruppo che era l’essenza delle rotazioni, data dalla metafora, ora invece la metafora dà essenza ai gruppi. Nella trattazione dell’essenza LN ricordano i gatti che giocando col gomitolo restano attorcigliati nel filo. 78 79 p. 119. pp. 119-20. 55 10 Classi e logica simbolica Su questo argomento c’è poco da dire, l’essenziale è già stato discusso a proposito della metafora dei contenitori. Una classe infatti è concettualizzata come l’interno di un contenitore. La metafora non sembra del tutto felice, perché in questo modo gli elementi della classe possono variare al variare del contenuto dei contenitori. Sembrerebbe più adatta la metafora delle collezioni, o dei mucchi di oggetti. Si tratta ad ogni modo di una metafora fondante. Quindi LN ripetono la (più che) dubbia tesi che Aristotele avrebbe fatto uso della metafora “I predicati sono classi” e infine Boole avrebbe fatto uso della metafora “Le classi sono numeri”. Boole si sarebbe accorto che concettualizzando le operazioni di unione e intersezione come addizione e moltiplicazione le leggi commutative, associative e distributive dell’aritmetica sarebbero state vere per le classi. Per trovare un corrispondente di 0 e 1 rimpolpa la metafora inventando la classe vuota e la classe universale, ma anche cosı̀ falliscono ancora le leggi di idempotenza. A proposito, viene da chiedersi se nei discorsi sui contenitori cápiti mai se non ai folli di parlare di fare l’unione (o l’intersezione) di un contenitore A con A, con conseguente riconoscimento dell’idempotenza. Fallisce anche la distributività dell’unione rispetto all’intersezione, ma di questo LN tacciono. Allora Boole modifica la tavola dell’addizione e restringendola solo a {0, 1} ottiene la validità di tutte le leggi delle classi (quali? quelle che conosceva, quelle su cui LN si sono soffermati? quelle che sono poi diventate gli assiomi della algebre di Boole?). Le successive tappe descritte sono presentate come una storia realistica ma naturalmente non lo sono. Boole ha formulato leggi non per le classi ma come “leggi del pensiero”, certamente in versione algebrica, ma nel senso del formalismo e di identità formali. Le leggi che ha individuato non sono gli assiomi delle algebre di Boole80 a cui si è arrivati in seguito con successive modifiche; non si è certo “rivolto all’algebra” nel senso dell’algebra astratta per trovare l’essenza delle classi. In conclusione comunque la metafora di Boole sarebbe una metafora EA per le classi, affermando che la loro essenza è un’algebra di Boole. Ricordiamo 80 Si veda T. Hailperin Boole’s Logic and Probability, North Holland, Amsterdam, 1976. 56 che in matematica si dice che un’algebra di insiemi è un’algebra di Boole perché soddisfa (con ∼, ∩, ∪, ∅, U ) gli assiomi delle algebre di Boole. La storia continua con la logica simbolica, che concettualizzerebbe le proposizioni in termini di classi, “ogni proposizione P essendo (metaforicamente naturalmente) la classe degli stati dell’universo in cui P è vera”81 . Non si capisce perché LN seguano questa strada difficile invece di usare la normale definizione semantica di soddisfazione data nella logica proposizionale, secondo cui a ogni proposizione si può associare (o la proposizione è metaforicamente) l’insieme delle interpretazioni che la soddisfano. Almeno le interpretazioni sono più dominabili degli stati dell’universo. Gli stati dell’universo, i cosiddetti mondi possibili, sono un’acquisizionze recente della semantica che serve soprattutto per le logiche modali. Ma la perplessità maggiore riguarda il fatto che normalmente la direzione di tutte queste metafore è rovesciata, a partire da quella di Aristotele. I sottoinsiemi di un universo U (le classi di LN) sono di solito introdotti agli studenti come insiemi di verità di proposizioni: a ogni proposizione p(x), dipendente da una variabile, si associa l’insieme degli elementi che la soddisfano X = {x ∈ U | p(x) vera in U }, e le operazioni insiemistiche le loro proprietà dipendono da quelle logiche della negazione, congiunzione e disgiunzione. Nel periodo dello sviluppo della logica simbolica di fine Ottocento, i vari autori consideravano equivalenti le due impostazioni, e la priorità tra classi e proposizioni come materia di preferenza. Non c’era e non c’è alcuna priorità concettuale82 . 81 82 p. 131. Naturalmente si può sempre aggiungere che le metafore in questione sono bidirezionali. 57 11 Insiemi La teoria degli insiemi è fondata da LN, oltre che sulla metafora dei contenitori, sulla metafora “Gli insiemi sono oggetti” - in modo da permettere di parlare di un insieme come elemento di un altro insieme. Non si capisce la necessità di tale metafora dal momento che nella Figura 2.1a ci era stato mostrato un contenitore dentro ad un altro, e ci erano state presentate le leggi della logica (built in nello schema) di in nella forma “se il contenitore A è nel contenitore B . . . ”. Segue la definizione, pardon la metafora, che la coppia ordinata ha, bi è l’insieme {{a}, {a, b}}. Prima di questa, la coppia ordinata era concettualizzata attraverso lo schema del cammino (path), dall’origine a al termine b. Quest’ultima tuttavia, che tutti considererebbero una metafora, a differenza della definizione {{a}, {a, b}}, misteriosamente non lo è per LN. La metafora proposta tuttavia non sembra trasferire a ha, bi il discorso sulla prima e la seconda componente, la precedenza della sinistra sulla destra. Non si vede immediatamente che non è simmetrica, occorre dimostrarlo in maniera abbastanza intricata. La metafora della coppia ordinata permette naturalmente di concepire le relazioni come insieme di coppie ordinate; per LN permette anche di concepire i numeri naturali come insiemi, attraverso la definizione di von Neumann, che riportano come metafora, e in cui come si può vedere la coppia ordinata non interviene per nulla83 . L’unico altro argomento di teoria degli insiemi che viene discusso è la definizione di cardinalità. Cantor inventò la metafora che avere lo stesso numero di elementi significa essere messi in corrispondenza biunivoca. Secondo LN questa è la prima volta che l’accostamento dei due concetti è espresso come una metafora; in effetti di solito lo esprimiamo come una definizione di “lo stesso numero di” o “la stessa cardinalità”. Secondo LN la metafora della corrispondenza biunivoca fa ricorso ad un concetto ben diverso (very different) dal nostro ordinario concetto di avere lo stesso numero di elementi. Nel senso comune, ci dicono LN84 , A e B hanno lo stesso numero di elementi se “per ogni elemento di A si può togliere un corrispondente elemento 83 Sulla questione LN ritornano a p. 151 per fare una tempesta in un bicchiere d’acqua, come vedremo. 84 p. 142. 58 di B ed esaurire B”. Non sembra questa un’idea né una formulazione molto diversa da quella della corrispondenza biunivoca, sicché non è giustificata, o è autoreferenziale, la deplorazione rivolta da LN a quanti confondono gli studenti non facendo notare la grande differenza tra il termine tecnico metaforico di Cantor e la nozione ordinaria. Ma la verità è che nessuno risponderebbe in questo modo; provare per credere; la nozione comune è un’altra; chiunque risponderebbe che A e B hanno lo stesso numero di elementi se contando i loro elementi si ottiene lo stesso risultato. I numeri transfiniti per contare gli insiemi infiniti non c’erano ancora. Cantor notò che per gli insiemi finiti le due nozioni del contare e del mettere in corrispondenza biunivoca coincidono, e sfruttò l’equivalenza per definire i numeri infiniti per mezzo delle corrispondenze biunivoche. Un procedimento che sembra più sottile ed intelligente di una metafora arbitraria. Dopo questo accenno a Cantor si passa subito alla teoria assiomatica di Zermelo-Fraenkel85 , per dire che nella visione formalista [sic] del metodo assiomatico si chiamano insiemi una qualunque struttura che soddisfi gli assiomi. In particolare gli insiemi non sono concepiti in base alla metafora dei contenitori. Ma siccome nell’uso comune prevale questa metafora, che “è coerente con gli assiomi” e che comporta x 6∈ x, “venne proposto” l’assioma di fondazione che lo implica86 . A sottolineare lo stacco dalla metafora dei contenitori, viene dato risalto ad un’altra teoria, quella degli iperinsiemi87 . Di questa non sono elencati gli assiomi se non per il cosiddetto assioma di anti-fondazione; gli altri ad ogni modo sono come in ZF. I modelli più interessanti e intuitivi della teoria degli iperinsiemi utilizzano 85 L’assioma di rimpiazzamento è chiamato assioma di specificazione, p. 142; l’assioma nella letteratura qualche volta si trova chiamato assioma di sostituzione, ma specification è una novità. 86 In questo modo sembra che l’assioma di fondazione non rientri tra quelli di ZermeloFraenkel. In realtà non è cosı̀ universale l’uso di separare l’assioma di fondazione da quelli di ZF, anzi prevale la posizione contraria. 87 Questa teoria è iniziata con le ricerche di M. Boffa in Belgio sull’assioma di fondazione, e con quelle fondazionali di E. De Giorgi e dei suoi allievi F. Honsell e M. Forti sull’antifondazione. Della teoria si è impossessato poi il mondo anglosassone attribuendola a P. Aczel, ed essa è stata usata per formalizzare alcuni tipi di paradosso, visto che ammette cicli, in particolare da J. Barwise e L. Moss, che tuttavia non sono i creatori della teoria, come potrebbe sembrare dall’unico riferimento bibliografico di LN. 59 i grafi per rappresentare gli iperinsiemi, e lo stesso assioma di anti-fondazione è formulato in termini di grafi, che ammettono cicli o catene discendenti infinite. Non tutti i modelli sono necessariamente sistemi di grafi, come potrebbe sembrare dalla metafora che LN mettono alla base della teoria, la metafora che gli insiemi sono grafi88 . Non vale l’equazione iperinsiemi uguale grafi, come non vale insiemi uguale contenitori. Ma grazie al ricorso esclusivo alle metafore, LN tendono a vedere un solo modello per ciascuna metafora. LN considerano il fatto che la teoria soddisfi gli assiomi di ZF (meno quello di fondazione), come prova che gli assiomi di ZF “non definiscono il nostro concetto ordinario di insieme come contenitore”89 . Dovrebbero perciò essere grati all’assiomatica formalista che permette questa conclusione, ma non pare che lo siano. Se avessero considerato l’esistenza di diversi modelli di ZF sarebbero potuti arrivare alla stessa conclusione anche senza dover ricorrere ad un’altra teoria, che non ha assolutamente l’importanza che sembrano attribuirle. Ma è esagerata l’affermazione che Gli assiomi della “teoria degli insiemi” non si riferiscono, e non hanno mai avuto intenzione di riferirsi a quelli che ordinariamente chiamiamo “insiemi”, che concettualizziamo in termini di contenitori.90 LN sembrano suggerire che siccome gli assiomi sono formali, allora non corrispondono a nessuna intuizione (cosı̀ i matematici parlano di quelle che LN chiamano metafore), anche se hanno appena riconsociuto che sono compatibili con quella dei contenitori. Ma gli assiomi della teoria degli insiemi non sono stati inventati in un colpo solo, come formule prive di significato, bensı̀ proprio con l’intento di formalizzare discorsi intuitivi. Soltanto che sono nati dagli usi linguistici di un termine che erano plurimi, dipendevano in realtà da diverse intuizioni e producevano antinomie che derivavano dalla sovrapposizione di queste intuizioni; tra di esse un posto preminente ha avuto naturalmente quella delle collezioni. 88 Sarebbe più corretto dire che gli iperinsiemi sono grafi, visto che questa è la teoria degli iperinsiemi. 89 p. 148. 90 p. 148. 60 Altrettanto preminente è stato il ruolo delle proprietà. L’assioma di estensionalità ad esempio non ha senso per i contenitori, mentre è cruciale per passare dalle proprietà alle loro estensioni. Le antinomime del principio di comprensione di Frege mostrano che non si può associare a ogni proprietà un contenitore. Come abbiampo già visto, l’unione di due insiemi può corrispondere ad un’operazione su contenitori, ma l’unione di un insieme di insiemi no, nonostante e la sua importanza e la semplicità della sua definizione. La definizione dell’unione non sembra guidata (driven) da alcuna intuizione, ma dal linguaggio, che tratta il quantificatore esistenziale ∃ come una generalizzazione della disgiunzione ∨. Per tornare infine alla coppia ordinata, LN notano che con la definizione di von Neumann per cui 1 = {∅} e 2 = {∅; {∅}}, la coppia {1, 2} è l’insieme {{∅}, {∅, {∅}}}; questo insieme è anche la coppia ordinata h0, 1i. Che confusione! – secondo loro. Avrebbero potuto sollevare un caso anche con la coppia ordinata hx, xi che non è una coppia. Si dimenticano di dire che questo è l’unico caso, con i numeri, che con numeri maggiori non succede e neanche con le terne; che la definizione di coppia ordinata presentata è solo una di quelle possibili; altre definizioni non danno questo problema, anche se possibilmente altri, sempre contenuti in uno o due casi91 . Invece di dire che il caso è banale e non merita che vi si perda tempo, il loro commento è che dal punto di vista cognitivo non c’è alcun problema, perché differenti concetti metaforici possono avere la stessa origine. “Fuoco” può significare sia che uno è innamorato, nella metafora dell’amore come calore, sia che uno è vicino al successo (come nel gioco fuoco-acqua). Questa del fuoco non sembra una situazione tanto innocua, a differenza dell’esempio matematico. Come sarebbe a dire che l’ambiguità di “Fuoco” non è un problema? può ad esempio essere pronunciato da o a proposito di un gigolo che sta per piegare una donna alle sue voglie e invece si finge innamorato. Secondo LN dalla discussione si ricava che le metafore della coppia ordinata e quella dei numeri di von Neumann servono il loro scopo dando origine a matematica interessante e quindi sono accettabili come metafore. Alla 91 Ad esempio si possono scegliere due insiemi distinti a e b e porre hx, yi = {{a, x}, {b, y}}; si hanno allora anomalie con le coppie con componenti a o b. 61 faccia della chiarezza concettuale e dei meccanismi cognitivi. Dunque tutta la discussione è stata una tempesta in un bicchiere d’acqua. Se c’è di mezzo una metafora tutto va bene. Invece ci sarebbero problemi nella definizione letterale della coppia ordinata. Quali non è detto, non se ne vedono92 , e non è neanche detto cosa sia una definizione letterale. La morale della trattazione, che confessiamo di non aver capito, è che la matematica non è letteralmente riducible alla teoria degli insiemi preservando le differenze concettuali. Il problema segnalato a proposito della coppia ordinaria metterebbe in crisi il riduzionismo insiemistico. Una “definizione letterale” sembrerebbe indicare una definizione che non è concepita come metafora. È importante distinguere tra definizione letterale e definizione metaforica. In verità ci sono talmente tante metafore concettuali usate in matematica che è estremamente importante capire bene cosa sono e tenerle distinte93 . Non potrebbe essere detto meglio. Se solo tutti si attenessero a questo precetto. Credevamo di aver capito però che l’indagine cognitiva non volesse essere un contributo alla matematica ma solo alla sua comprensione. Le definizioni metaforiche non dovrebbero perciò essere un nuovo tipo di definizioni da affiancare a quelle usuali, casomai solo un’intepretazione della metafora soggiacente alla definizione. A quanto pare non è cosı̀. 92 LN avrebbero potuto aggiungere per tranquilizzare il lettore che la coincidenza tra {1, 2} e h0, 1i non dà alcun fastidio matematico. 93 p. 152. 62 Commiato Il libro continua con due parti consistenti. Una è la trattazione dell’infinito, l’altra è una polemica ideologica contro la matematica moderna rappresentata dalla rigorizzazione e dall’aritmetizzazione dell’analisi. La (scoperta della) metafora dell’infinito è stata per LN la spinta a scrivere il libro e ad affrontare la matematica nella sua globalità. La metafora è press’a poco cosı̀. Da una parte il dominio origine è costituito da tutti i processi che terminano; dall’altra il dominio bersaglio è costituito da tutti i processi che vanno avanti all’infinito. La mappa metaforica trasporta dall’origine al bersaglio la fine dei processi, per cui tutti i processi che non terminano vengono ad avere una fine. La mappa è creativa, trasportando tuttavia solo la fine dei processi. Non si capisce perché porti solo quello e non trasferisca anche altro, facendo sı̀ che le leggi degli insiemi infiniti siano le stesse di quelle degli insiemi finiti. Sarebbe bello seguire le fantasiose acrobazie che si prospettano. Ma purtroppo non abbiamo tempo né, sinceramente, voglia di continuare la discussione, e ci fermiamo qui. Sulla polemica ideologica abbiamo già fatto alcune osservazioni nella recensione di un precedente lavoro di LN, preparatorio dell’attuale libro94 , osservazioni che possono utilmente complementare quelle qui presentate. Dopo aver chiosato il libro fino a p. 150 possiamo esprimere tuttavia una conclusione sostenuta dai riscontri testuali: mai abbiamo incontrato nella letteratura della o sulla matematica un testo che assommi tanta presunzione e prosopopea a tanta ignoranza e ingenuità. Alla matematica ci si dovrebbe avvicinare con timore e tremore, per le sue abissali difficoltà, tecniche e storiche. Se non si è in grado non dico di dominare la sua complessità, ma anche solo di orientarsi in essa, ci si dovrebbe astenere dal pontificare. A ciò si aggiunga un’esposizione sciatta, sloppy, approssimativa, ripetitiva, imprecisa, senza rispetto delle regole dei riferimenti puntali, incu94 La metafora in matematica, in La parola al testo, Scritti per Bice Mortara Garavelli, a cura di G. L. Beccaria e C. Marello, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2002, pp. 22132. Il testo di LN è The Metaphorical Structure of Mathematics, in L. D. English (a cura di), Mathematical Reasoning: Analogies, Metaphors, and Images, Lawrence Erlbaum Associates, London, 1997, pp. 21-89. 63 rante della concordanza interna di quanto viene affermando con la massima sicumera. 64 Presentazione di Da Euclide a Gödel Accademia delle Scienze, Torino 13 giugno 2005 Interventi di Andrea Cantini e Ettore Casari Replica di Gabriele Lolli Per il pubblico che non ha letto il libro aggiungo qualche informazione generale a quelle proposte dai relatori. La motivazione del libro è, come capita spesso, dettata dalle origini occasionali. A Euclide sono arrivato andando all’indietro. Dovevo fare alcune lezioni al Master in Comunicazione scientifica dell’Università, e naturalmente a me di cosa chiedono di parlare se non di Gödel? Ma per inquadrare il lavoro di Gödel occorre parlare del programma di Hilbert per la dimostrazione di non contraddittorietà, e per illustrare quest’ultimo occorre descrivere la proliferazione delle teorie assiomatiche di fine Ottocento e la rivoluzione nel metodo assiomatico allora verificatesi. Parlare di rivoluzione del metodo assiomatico fa drizzare i capelli, tutti pensano che la matematica sia l’unico luogo felice dove non ci sono rivoluzioni; viene la curiosità di sapere come era la matematica prima della rivoluzione. Se si va ancora indietro si vede che la pratica matematica non si adeguava al mito del metodo assiomatico euclideo che tuttavia era sempre ritualmente riconosciuto come modello, e questa divergenza si manifesta subito dopo Euclide: in tutti gli argomenti non geometrici, dall’aritmetica di Archimede ai numeri negativi di Diofanto al calcolo infinitesimale alla proiettiva i matematici si confrontano con la necessità di organizzare il loro lavoro basandosi molto di più su varie soluzioni logiche via via inventate che non sulla evidenza dei postulati. Questo lungo lavorio culmina a fine Ottocento, con una accelerazione intrinsecamente guidata, nella codifica del metodo ipotetico deduttivo. La storia dell’emergere della natura logica della matematica costituisce tuttavia solo una metà del libro. L’altra è dedicata a ciò che dai risultati di Gödel si irraggia verso il futuro, per due motivi. Uno è che in generale i 1 grandi risultati di solito non solo chiudono una problematica, evento che di per sé potrebbe avere solo un interesse storico, ma aprono prospettive nuove, e in questo sta il loro valore. L’altro motivo è che ciò è particolarmente vero per Gödel, e che se non si riconosce la fecondità del suo lavoro si finisce per darne una valutazione non solo riduttiva ma scorretta. La ricezione dei teoremi di Gödel mostra un paradosso che è segno della malattia della nostra cultura. Mentre Gödel realizza uno sconvolgente successo e potenziamento della ragione, il suo lavoro è spesso presentato come una prova a sostegno del relativismo e della debolezza della stessa. Quello che chiamo successo della ragione consiste nella capacità di riconoscere e trattare la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, nel domare e dominare il fenomeno dell’autoriferimento piegandolo a strumento di ragionamento non paradossale, come era stato fino ad allora. E soprattutto nel fornire gli strumenti per una trattazione precisa e rigorosa, addirittura matematica di questo aspetto della nostra facoltà linguistica razionale. Tale possibilità deborderà oltre i confini della matematica, anche con il contributo di altri grandi pensatori, Alfred Tarski, Rudolf Carnap, . . . ma sarà particolarmente feconda nella matematica, e con conseguenze epocali per la nostra civiltà. Si capisce allora perché, di nuovo come capita quasi sempre con i grandi teoremi, quello che è veramente importante non è l’enunciato dei teoremi, e neanche il problema a cui danno risposta, ma la loro dimostrazione, perché è nella dimostrazione che si colgono i germi del nuovo. In questo caso ciò è vero in modo particolare, dal momento che la dimostrazione è basata su tecniche e soluzioni del tutto originali usate per la prima volta nella storia. Tali tecniche, riassumibili nella cosiddetta aritmetizzazione, sono la parte pesante di calcolo; occorre eseguirli, una volta, anche se ora con la saggezza di poi sono disponibili trattazioni più dirette nella teoria dei linguaggi formali, nata da quei calcoli per le esigenze dell’informatica (sempre, in matematica, le prime tecniche sono perfezionate, trasformate e rese più accessibili - se non altro per le necessità dell’insegnamento, prima forma di divulgazione); occorre eseguirli per lo stesso motivo per il quale si fanno esercizi di risoluzione delle equazioni, non per allenarsi a risolverle, cosa che non si farà mai nella vita, ma perché cosı̀ si impara che cosa sono le equazioni. Il resto della dimostrazione, l’argomento che sfiora come un equilibrista il paradosso, è noto, ed anche facile e divertente, soprattutto nella forma in cui lo espongo, seguendo l’antinomia di Richard, che ha il merito di prestarsi be2 ne alle varianti delle analoghe dimostrazioni relative ai problemi indecidibili dell’informatica. Ma la parte veramente importante è quella hard , perché è in essa che sono impliciti (e necessari perchè l’aritmetizzazione funzioni - non basta assegnare numeri ai simboli, occorre definire in modo matematico tutte le nozioni e le operazioni della sintassi) e in parte già espliciti gli argomenti che costituiranno la teoria della calcolabilità come un capitolo di quanto è definibile nell’aritmetica. Questo è il vero importante sottoprodotto della dimostrazione di Gödel. La teoria matematica della calcolabilità è già pronta a disposizione prima che compaiano i calcolatori. Succede come con le coniche rispetto alla meccanica celeste; la differenza è che le coniche erano sepolte nel patrimonio matematico e dimenticate, tant’è che Keplero per trovare la curva che interpolasse i suoi dati la cercava nella forma dell’“ovale”; invece in questo caso le stesse persone che hanno costruito la teoria hanno anche subito costruito le macchine (Turing e l’ACE ). Detto questo sulla struttura del libro, è vero che in esso si può rilevare, come ha notato Casari, una vena polemica, che si può cercare di spiegare. La polemica è rivolta non tanto al mondo della cultura in senso lato o alla filosofia della matematica quanto proprio all’ambiente matematico. Io non ci tengo a difendere una particolare filosofia della matematica; per rispondere a Cantini che me lo ha chiesto, è vero che nel libro si respira una valorizzazione della posizione nota come “deduttivismo ”o “if-thenism”(la concezione della matematica fondata sulla conseguenza logica: i teoremi sono le proposizioni che sono conseguenza logica degli assiomi, presentati come un sistema formale), ma solo perché la filosofia ufficiale la snobba come poco raffinata, come una delle posizioni del working mathematician, quale in effetti è; ad esempio è teorizzata da Enriques e da tutti i sostenitori del metodo assiomatico. Io ritengo che la matematica sia una produzione umana; Cantini ha ricordato con giusta svalutazione le filosofie della matematica neo-empiriste o orientate al sociale che sono fiorite negli ultimi anni; il tratto curioso delle posizioni genericamente dette “umaniste”(Reuben Hersh) nei confronti della matematica è che tutte danno per scontato che nel parlare di “umano”si debba automaticamente eliminare e combattere la ragione e la logica. A me sembra invece che l’essenza dell’umano, naturalmente quando acquisisce l’anima intellettiva, per dirla con Tommaso, non certo quando è un agglomerato di otto cellule, sia la ragione. Di conseguenza il potenziamento della ragione 3 realizzato come abbiamo detto da Gödel rappresenta una grande opportunità, non ancora del tutto sfruttata, e penso che nei confronti della matematica ci si debba porre nella disposizione di coltivare la metamatematica, cercando di cogliere tutte le illuminazioni che ci può dare. La metamatematica è uno sviluppo coerente della impostazione assiomatica della fine dell’Ottocento. Allora si contrapponevano due atteggiamenti, entrambi con radici e giustificazioni nella storia immediatamente precedente, ma sostanzialmente inconciliabili. Con drastiche semplificazioni, da una parte si trovavano i sostenitori del metodo genetico: per questi le nozioni matematiche, soprattutto quelle moderne astratte, ma innanzi tutto i sistemi numerici, erano (una costruzione della mente che tuttavia dava un’impressione di solidità, e veniva esternizzata e reificata in) una realtà oggettiva, che permetteva al matematico un accesso diretto e privilegiato di conoscenza. Sempre semplificando, si tratta della posizione poi qualificata come platonista1 . L’altra corrente era quella del metodo assiomatico. Su questa, con l’invenzione da parte di Hilbert della metamatematica come strumento e strategia per dimostrare, in primo luogo, la non contraddittorietà delle teorie fondamentali, si è innestata la logica matematica che con le sue tecniche e i suoi risultati (non solo quelli di Gödel) rende sempre più difficile la vita al platonismo. I platonisti muovono ai logici l’accusa di relativismo, per quel che riguarda le idee matematiche (la logica insegna che non c’è una nozione univoca di “numero naturale”) contrapponendo agli insegnamenti della logica la loro esperienza. I matematici, non solo i platonisti, forniscono resoconti di una sensazione cogente di realtà per gli oggetti di cui si occupano, qualcosa che si vede e si tocca, si conosce. Questi resoconti sono familiari, condivisibili, ma non possono essere presi come una prova, neanche filosofica, di esistenza di quella realtà. Altrimenti i resoconti dei mistici, o anche solo delle persone credenti, sarebbero una prova dell’esistenza di Dio. Qualcuno ha cercato di usare tale argomento, ma si tratta di una nota fallacia, di un argomento ad populum. Gli ontologi sostengono l’esistenza degli oggetti sociali astratti, ma questi oggetti, la cui realtà è sperimentata da tutti, si incontrano sempre e solo in qualche ufficio con una pratica da sbrigare. 1 In verità il metodo genetico ha molto a che fare anche con il logicismo - questo è il motivo della parentesi di sopra, che vuole alludere a un’alternativa - ma questo a sua volta, dopo l’epoca d’oro, si è diluito in forme meno raffinate di realismo. Si veda G. Lolli, Filosofia della matematica, Il Mulino, 2002. 4 Prendere sul serio i resoconti di sensazioni significa studiarli per capirli, indipendentemente dalla adesione a quanto viene riportato; cosı̀ ad esempio si può studiare scientificamente la psicologia del misticismo religioso. La logica della metamatematica è lo strumento principale per lo studio delle teorie, le quali sono i resoconti di quelli che dicono di descrivere una realtà oggettiva. La metamatematica insegna che nessuna teoria (seria) è categorica, che quasi tutte quelle importanti sono incomplete, . . . e cosı̀ via. La teoria degli insiemi non solo non è completa, ma tra le proposizioni indecidibili ce ne sono che riguardano proprietà di base delle strutture fondamentali: non possiamo neanche sapere quanti sono i numeri reali. Quale è allora l’universo degli insiemi che il platonista dice di conoscere e per la cui descrizione si limita ai largamente insufficienti, dimostrabilmente, assiomi di Zermelo-Frankel? Il matematico allora con fastidio si scuote di dosso questi noiosi grilli parlanti. Lo ha mostrato Bourbaki con la sua strategia schizofrenica: dichiarare negli scritti sui fondamenti la sua adesione al metodo assiomatico, premettere agli Éléments un linguaggio formale, e gli assiomi di una teoria, quella degli insiemi, e poi dimenticarsene. Ma dimenticandosene, si perdono anche i contributi positivi, perché la metamatematica non ha prodotto solo i teoremi limitativi; realizzando in parte, o in alcune direzioni, e in altre non previste, gli auspici del suo fondatore Hilbert, la metamatematica ha fornito risultati e strumenti importanti per la comprensione dell’attività matematica e anche per l’ottenimento di teoremi classici. Cito soltanto i cosiddetti metodi non standard, o tutti i nuovi concetti elaborati dalla metamatematica dell’algebra. Per esorcizzare il male, i matematici danno la colpa del relativismo alla logica, e quindi come tutti i fondamentalisti non la studiano e non la fanno studiare. Per evitare i suoi insegnamenti, ne escludono l’insegnamento. In questo modo impediscono di svolgere un’analisi scientifica di una delle più importanti attività umane, che resta opportunamente circondata del suo alone di mistero. Si potrebbe in effetti sostenere che la colpa è della logica, ma questo significa che è colpa di come siamo fatti e la politica dello struzzo non risolve nulla. È vero che la logica del secondo ordine permette di definire in modo categorico le strutture fondamentali dei numeri e degli insiemi, ma a questo proposito vale l’antinomia della ragion pura cosı̀ ben formulata da Casari: dilemma: o si riesce a dimostrare tutto (quello che è logicamente valido) riguardo a enti che però non si sa dire cosa sono, oppure si 5 riesce a definire ciò di cui si vuole parlare ma allora non si hanno metodi per dimostrare tutto quello che è valido. Il problema è intriguing e merita di essere al primo posta nell’agenda della filosofia della matematica, ma intanto i fatti sono questi: innanzi tutto la logica del secondo ordine richiede una dose di teoria degli insiemi su cui la nostra ignoranza è profonda ed essenzialmente ineliminabile, il che getta un’ombra sulla affidabilità delle definizioni di cui parla il secondo corno del dilemma; si può sempre dubitare che siano solo impressioni. In secondo luogo molte teorie sono formalizzate nella logica del primo ordine e la pluralità dei loro modelli è una ricchezza a cui i matematici non rinuncerebbero; rifiutare infine, o sottostimare i procedimenti meccanici disponibili per la deduzione nella logica del primo ordine sembra un atteggiamento strano nell’era dei calcolatori. Il modo giusto di lavorare è quello di passare all’occorrenza secondo necessità da una logica all’altra, ma per farlo occorrerebbe conoscerle. L’indicazione di base che deriva dalla metamatematica hilbertiana (liberalizzata) è quella di assumere le teorie come oggetto di studio matematico - gli oggetti simbolici del linguaggio e le strutture delle loro interpretazioni senza vincoli precostituiti sulla metalogica. A questo proposito viene opportuna una precisazione mai sufficientemente (e inutilmente) ripetuta. Considerare le teorie matematiche come sistemi formali per iniziare a fare metamatematica non significa sposare alcuna versione di formalismo; Hilbert stesso pensava che gli strumenti della metamatematica dovessero essere i metodi finitisti, vale a dire combinatori, cioè una matematica dotata di senso. Era per l’impossibilità di dare un senso all’infinito che egli proponeva il suo programma: prendere come oggetto di studio la struttura linguistica delle teorie (infinitiste), quindi quello che si chiama un sistema formale, e cercare di dimostrarne la non contraddittorietà, con una matematica contenutistica. Con il secondo teorema di incompletezza di Gödel si è preso atto che i metodi della metamatematica dovevano essere più forti delle teorie che si vogliono assumere come oggetto di studio. Questi stessi discorsi sulla forza delle rispettive teorie testimoniano che si pensa a teorie non formali: solo nel momento in cui diventano oggetto di studio le teorie sono rimpiazzate dalla loro struttura linguistica simbolica. La differenza tra noi e Hilbert è che non siamo più tanto preoccupati della affidabilità dei metodi, perché non pensiamo che il compito della matematica sia di dare certezze assolute, ma piuttosto chiarificazioni concettuali. 6 L’introduzione alla e della metamatematica sarebbe facile e naturale nel contesto ad esempio di un primo corso di algebra: invece di svolgere la trattazione in un linguaggio sostanzialmente naturale, basta inserire la distinzione tra formule e assiomi e discorso da una parte, e il loro significato (le strutture) dall’altra: entrambi tuttavia oggetti matematici, gli uni discreti, gli altri astratti. Si stabilisce quindi l’accostamento di due tipi di tecniche e una forma di ragionamento che nello svolgersi simultaneamente si interroga sul proprio svolgersi. Ogni passo comporta una sospensione2 , una epoche, che ci induce a guardare il passo che facciamo. Questa piccola integrazione della disposizione mentale ordinaria fa scattare tesori di nuove intuizioni e punti di vista; per poterlo fare bisogna studiare e usare tante logiche, non nessuna. Siamo invece purtroppo di fronte a una chiusura totale (che sul piano filosofico si accompagna alla stantia ripetizione di posizioni pasticciate e indifendibili come il bourbakismo e i suoi eredi ancora più poveri) e che è preoccupante per il futuro. Non è la prima volta che si perdono conquiste del pensiero, e si devono aspettare secoli per riscoprirle. La polemica dunque è del tutto motivata, e per quanto mi riguarda continuerò a farla nei limiti delle mie capacità. 2 Come quando si sente una extrasistole. 7 Che cosa sono i numeri∗ di Gabriele Lolli Insistere sempre e solo sui numeri, come nel titolo stesso del Festival1 è fuorviante, la matematica non è fatta solo di e con i numeri. Una volta, e per lungo tempo, si diceva che la matematica tratta di numeri e figure. Ma per gli antichi greci i numeri erano figure. Già questo fatto lascia intuire che non ci sono risposte univoche alla domanda “che cosa sono i numeri”. Nella storia del pensiero occidentale si sono succedute molte definizioni che non è il caso di passare in rassegna, dalle idee nell’iperuranio alla dichiarazione neopositivista di Carnap (che la parola “numero” non appartiene alla matematica, essa è una parola di un linguaggio materiale, cosale, abituato a reificare tutti i termini). Le dichiarazioni sulla natura dei numeri sono inconclusive, si ripetono e sono del tutto inefficaci, senza alcuna influenza sulla matematica. A essere precisi, di numeri che esistono veramente ce ne sono solo due, lo 0 e l’1, cioè i bit. Il libro della natura è scritto in linguaggio matematico, come voleva Galileo, ma le sue parole non sono “triangoli” e “cerchi”, ma i bit. I numeri, tutti i sistemi da N a Z, Q, R, C,∗R sono una sovrastruttura (strutture mentali) che ci aiuta a dipanare la trama dei bit, non essendo in grado noi, a differenza dei calcolatori elettronici, di elaborarli direttamente. Spiegare la formazione di questi sistemi di concetti sarebbe la prima questione della filosofia della matematica. I numeri naturali in particolare servono a rappresentare la ripetizione di un pattern. Ma l’idea della ripetizione non è un’idea chiara e distinta. La difficoltà di dire che cosa sono i numeri è ben illustrata dal fatto che non abbiamo un’immagine univoca dei numeri naturali, che la stessa persona è in grado di coltivare rappresentazioni divergenti. ∗ Intervento alla tavola rotonda sul tema al Festival della matematica, Roma, 18 marzo 2007. La prima domanda del coordinatore A. Massarenti è stata “Che cosa sono i numeri?”. 1 “La bellezza dei numeri, i numeri della bellezza”. 1 Usiamo un’immagine concreta: se siamo all’inizio di un bosco, vediamo alcuni alberi, i primi più vicini, e li possiamo anche contare, ma quanto più lo sguardo si spinge in avanti verso il fitto del bosco tanto più la visione diventa indistinta e buia, e gli alberi si possono solo immaginare. Noi rappresentiamo questa situazione con i puntini 0, 1, 2, 3 . . . per esprimere l’idea che andando avanti nel bosco possiamo continuare a vedere progressivamente qualche nuovo albero e contarlo. Ma si può immaginare una situazione diversa; se uno è paracadutato nel mezzo di un bosco, davanti a sé vede qualche albero, e di nuovo la sua visione si fa indistinta quanto più spinge in avanti la vista; ma anche se si volta indietro vede qualche albero distintamente, e poi la visione si confonde a uno sguardo più lontano. Si potrebbe pensare allora che i numeri naturali contengano anche, nella parte sconosciuta, dei numeri grandi, del blocchi di tipo Z t s s s s r qqq q r s t s r q q r s ts rq che si prolungano in avanti e all’indietro. La questione è collegata ai cosiddetti numeri infiniti. Eulero, uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, del quale celebriamo ad aprile il terzo centenario della nascita, aveva una immagine dei numeri nella quale erano contemplati i numeri infiniti. Insieme agli infiniti, se si prende il loro reciproco, si hanno numeri (reali) piccolissimi, più piccoli di quelli usuali, detti infinitesimi, che hanno avuto un ruolo importante nel calcolo detto appunto “infinitesimale”. Grazie all’immagine sicura che ne aveva, Eulero era in grado di presentare dimostrazioni di risultati mirabili e sorprendenti; i suoi contemporanei erano a disagio, perché non erano in grado di dire dove fossero sbagliate–non erano (solo) i pasticci con gli infinitesimi che il vescovo Berkeley poteva rinfacciare a Newton–ma neanche che fossero accettabili. Siccome pochi erano in grado di dominare come Eulero questa diversa rappresentazione dei numeri, nella storia si è scelto di eliminarli, sostituendo agli infinitesimi la definizione di limite, quella con -δ che fa sudare gli studenti, e dimenticando gli infiniti. I meno fantasiosi alla lunga sono riusciti a impedire che si coltivasse questa intuizione. 2 Ma nel 1965 Abraham Robinson è stato in grado di far vedere come sia possibile parlare di numeri infiniti, e di infinitesimi, in un modo coerente, con tecniche ben definite e facilmente operative, e con una immagine armoniosa del sistema ampliato, e del suo rapporto con quello tradizionale. I metodi di Eulero sono stati rivalutati, e compresi. Robinson ha ottenuto la sua costruzione servendosi di un risultato generale che è stato ottenuto nel Novecento da “una scienza autonoma di incontestabile interesse” che si chiama “metamatematica”2 . Il risultato è il teorema di completezza logica di Gödel (1930), che spiega le condizioni sotto le quali è possibile farsi un’immagine di un concetto, o concludere che esiste in senso matematico, cioè come una struttura concepita nei termini nei quali nel Novecento si esprime l’intuizione matematica, cioè la teoria degli insiemi. Basta per questo che il concetto sia caratterizzato o descritto (in modo parziale) da una serie di caratteristiche logicamente coerenti tra loro, dove coerenti significa che localmente ogni gruppo finito di caratteristiche non ingenera contraddizioni. I metodi di Eulero, o di Robinson, detti “metodi non standard”, rappresentano un’alternativa a quelli sviluppati negli ultimi duecento anni, un’alternativa equivalente e forse più vantaggiosa, perché permette di lavorare con due tipi di intuizioni diverse e coordinate. In realtà tanta fatica è stata messa nel perfezionare i metodi dell’analisi, e con tale successo, che ora la proposta dei metodi non standard viene considerata quasi solo una curiosità storica, e non può essere presentata come un’alternativa realistica, ma al massimo come un’integrazione. Dal punto di vista filosofico tuttavia si ricava una lezione importante. A chiunque affermi di avere una immagine precisa dei numeri naturali si può obiettare che sono possibili, che si hanno, e che lui stesso è in grado di avere, immagini diverse, non isomorfe. In particolare è del tutto legittimo immaginarsi la successione dei numeri naturali come prolungata oltre tutti i numeri finiti, quelli che si ottengono da 0 iterando il successore, o il +1, e ricca di una complicata struttura di numeri infiniti. Non c’è nessuna superiorità ontologica o logica dalla successione di tipo ω rispetto a queste altre strutture. Al massimo una priorità logica del modello assunto in partenza per la costruzione dei linguaggi rispetto alle estensioni ottenibili, ma anche quello di partenza potrebbe essere uno di quelli non 2 N. Bourbaki, Elementi di storia della matematica, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 56. 3 standard, e non la serie semplice che si pensa sia fondamentale (Eulero non la riteneva tale). Il fatto è che le prime esperienze innate ci fanno mettere i punti subito dopo i primi tre o quattro numeri, e si pensa che quei punti siano tutti del tipo del segmento iniziale, cioè ogni numero raggiungibile con il successore e tale che guardando indietro si vedano solo un numero finito di numeri. Ma la trattazione logica smentisce questa eccessiva semplificazione. Non solo non possiamo dire che cosa sono i numeri, ma neanche quali sono. L’esempio serve anche, rispetto alla nostra discussione presente3 , a illustrare il lavoro che viene fatto in filosofia della matematica. Non è vero che in filosofia della matematica niente funziona. La storia degli infinitesimi prova che si possono ottenere risultati positivi e di valore permanente. Si può parlare di fallimenti solo se si concepisce la filosofia della matematica come una serie di dichiarazioni di credenze, che pretendono di dare spiegazioni onnicomprensive–qualunque cosa ciò significhi–della matematica. Ma la filosofia della matematica non è una religione, con le divisioni in sette che si combattono per sopraffarsi. La filosofia della matematica può dare risposte stabili, se non definitive, che rappresentano vere acquisizioni di conoscenze. Non sempre naturalmente, e non per qualunque tipo di domanda, ma solo quando ci sono problemi reali, quando ci sono tecniche adeguate, quando ci sono persone in grado di usare queste tecniche. Nel caso discusso si tratta di strumenti della logica. In altri casi sono altri. Molte conoscenze possono confluire nello studio del fenomeno matematica, dalle neuroscienze alla psicologia alla storia, ma quando si vogliono costruire strumenti matematici occorre la matematica, direbbe Lapalisse. 3 La seconda domanda del coordinatore della tavola rotonda riguardava la filosofia della matematica in generale e la terza l’efficacia della matematica nella conoscenza del mondo. Massarenti ha citato una dichiarazione di Hilary Putnam sul fatto che in filosofia della matematica niente funziona, nel senso che nessuno dei recenti programmi del Novecento ha avuto successo. Alla terza domanda non c’è stato tempo di rispondere. 4 Ambiguità∗ In Lakoff e Nuñez1 la metafora era il deus ex machina. In questo libro “ambiguità” è la parola magica, o più banalmente come il prezzemolo, sta dappertutto. Il sottotitolo dice che è usata per creare matematica, ma poi la si trova anche dentro ai risultati consolidati (come 1+1 = 2); con lo scorrere delle pagine ambiguità è chiamata l’incertezza (tra due soluzioni) come anche il conflitto di opinioni; ambigua è vaghezza; addirittura c’è una ambiguità dell’ambiguità, o una ambiguità di secondo livello, nella situazione di classe dove ambiguo è il modo di considerare un problema, chiaro per il docente, ma . . . ambiguo per lo studente. La ricerca, con la sempre presente possibilità di fallimento, è ambigua. Imparare è dunque ambiguo. In fisica teoria ed esperimento costituiscono una ambiguità; l’esistenza di due teorie non compatibili, come la teoria della relatività e la meccanica quantistica è un’ambiguità; la teoria delle stringhe è ambigua sia per il contesto, ora accennato, nel quale si colloca, sia perché la M-teoria unifica cinque precedenti teorie delle stringhe (altro che due). Ma addirittura l’equazione E = mc2 è ambigua perché mette in relazione due concetti diversi, massa ed energia, e lo stesso le altre equazioni della fisica. Recentemente dalle scienze cognitive sono venute secondo l’autore considerazioni ambigue sulla matematica; non si capisce dove stia l’ambiguità, perché il contributo delle scienze cognitive è riassunto nella sola introduzione della nozione di metafora (la quale naturalmente è massimamente ambigua). William Byers sarebbe contento che si denunci l’ambiguità del suo uso di “ambiguità”, ma forse meno se la si chiamasse come è solo confusione. Un peccato, perché il libro porta l’attenzione su molti fenomeni interessanti. ∗ Recensione di W. Byers, How Mathematicians Think , Princeton University Press, Princeton, 2007; il sottotitolo è Using Ambiguity, Contradiction, and Paradox to Create Mathematics. 1 G. Lakoff, R. E. Nuñez, Where Mathematics comes from, Basic Books, New York, 2000. 1 1 Ambiguità Il testo è un continuo reiterare affermazioni che l’autore sembra credere ripetizioni equivalenti o che si rinforzino a vicenda, senza accorgersi che dicono cose diverse. A p. 77 ad esempio si dice che l’ambiguità nella matematica è una ambiguità controllata, perché è sotto il controllo della logica: “la potenza e la profondità della matematica è conseguenza del suo avere una profonda ambiguità sotto il più rigido controllo logico”. Ma nella stessa pagina si cita Thurston che ricorda come ci siano almeno otto (a sua conoscenza) modi di pensare alla derivata, e il suo commento che “a meno che grandi sforzi non siano fatti per conservare il tono e il sapore delle intuizioni umane originarie, le differenze tendono a evaporare non appena i concetti mentali sono tradotti in definizioni precise, formali ed esplicite”. Allora Byers interviene a correggere: le differenti intuizioni possono ridursi alla stessa definizione formale in casi specifici, ma esse mantengono tutto il loro valore. La precisione della matematica formale, logicamente precisa è un valore, ma solo “in quanto essa è al centro di un insieme più lassamente definito di idee associate che sono anche matematicamente valide”. Subito dopo, nella stessa pagina, invece del centro viene l’inclusione: le ambiguità si risolvono non con la precisazione ma creando un significato più ampio di cui i significati originari, conservati, sono casi speciali. La sua tesi di sfondo è che la matematica non è una entità fissa e statica che può essere strutturata in modo definitivo, ma è dinamica e viva; il dinamismo è alimentato da una interazione tra due poli, la logica che si muove nella direzione della chiarezza e coerenza, l’ambiguità che è fluida e aperta. Per cui “la matematica stessa è ambigua”. In termini cosı̀ generali come non essere d’accordo, salvo per la retorica. Il guaio deriva dall’eccesso di zelo che invece di limitarsi agli esempi, e sono tanti, significativi, vuole vedere l’ambiguità dappertutto. Tipico è il caso di 1+1 = 2, che è detta ambigua perché l’uno e il due sono due concetti importanti, legati alla religione, alla metafisica, alle capacità percettive, quindi l’affermazione della uguaglianza è molto interessante. Dunque ambigue sono anche le affermazioni chiare e precise. All’esordio è proposta una definizione di ambiguità, ambiguamente presa dalla definizione di creatività di Arthur Koester: la creatività si manifesta in una situazione nella quale “una singola idea o situazione è percepita in due schemi di riferimento auto-consistenti ma incompatibili”. Per Byers 2 L’ambiguità comporta una singola idea o situazione che è percepita in due schemi di riferimento auto-consistenti ma incompatibili. Che questa sia (talvolta) una fonte, o almeno una occasione di creatività in matematica è qualcosa di cui tutti sono consapevoli, anche se Byers ritiene che una situazione di ambiguità fornisca addirittura un “meccanismo” (mai spiegato, ma l’uso delle parole è spesso sloppy nell’autore) per atti di creatività. Gli esempi √ non mancano. Il primo che Byers espone, è quello della irrazionalità di 2 e del contrasto tra i domini numerico e geometrico. Quello che Byers non spiega è che l’inconsistenza viene dalla dimostrazione, perché prima i due domini coesistevano pacificamente nella credenza dei matematici; anzi sostanzialmente ce ne era uno solo. Dunque l’ambiguità nel senso byersiano non è solo necessariamente alla origine, ma può essere creata dalla dimostrazione. La circostanza è particolarmente evidente in alcune dimostrazioni della incommensurabilità di lato e diagonale del quadrato. A partire da un quadrato con diagonale d e lato l interi si costruisce, supponendo per assurdo 2l2 = d2 , un quadrato più piccolo con diagonale l e lato d/2 interi. H @ @ K @G E@ A @@ F (Nel quadrato EF GH sia il lato EF = l e la diagonale F H = d. Il quadrato AF KE ha lato d/2 e diagonale l.) Ora la costruzione si può ripetere, e geometricamente si può ripetere all’infinito, mentre aritmeticamente in un numero finito di passi, dividendo per 2, si arriva a 1. I pitagorici scoprirono che “mentre le grandezze sono divisibili ad infinitum, i numeri, divisi, lasciano sempre una parte minima non suscettibile di ulteriore divisione”. La creatività ha portato poi, alla lunga, molto lunga, alla definizione dei numeri reali. L’ambiguità in questa invenzione è stata solo una condizione iniziale; gli strumenti della creatività, e l’urgenza dell’atto creativo sono dipesi da altri sviluppi. 3 Non si può non consentire comunque alla affermazione che “le situazioni ambigue hanno sempre due punti di vista – prima e dopo. Prima che ‘si accenda la lampadina’, perché i due quadri di riferimento sono visti in conflitto; dopo, esiste una flessibilità che deriva dall’essere in grado di muoversi liberamente da un punto di vista a un altro”. La flessibilità è ambiguità. Meno o del tutto non convincente appare l’esempio del calcolo integrale e del calcolo differenziale: è vero che sono stati sviluppati indipendentemente e poi riuniti attraverso il teorema fondamentale del calcolo, ma in origine si riferivano appunto a due problematiche diverse, e non c’è – prima – l’elemento della ambiguità. Lo stesso si può dire della nozione di funzione. La definizione insiemistica di funzione non è stata creata per risolvere l’ambiguità tra curva e metodo di calcolo, come sostiene Byers, ma per esprimere nel modo più ampio possibile il concetto di corrispondenza arbitraria, dopo una serie di estensioni analitiche (dalle formule algebriche alle serie alle successioni transfinite di Baire). Sono poi interessanti, e da distinguere, cosa che non fa Byers (ma questo non lo diremo più) i casi di interpretazioni intuitive o metaforiche diverse di uno stesso concetto: l’uguale come bilancia e come trasformazione, o le otto intepretazioni della derivata elencate da Thurston. Nel caso dell’uguale vale la pena tuttavia di osservare che a un certo punto, recentemente, i due significati sono stati separati, anche nel simbolismo, e l’idea della trasformazione si esprime (nella dimostrazione automatica ad esempio, o nella logica combinatoria) non più con gli assiomi dell’uguaglianza ma con le regole di riscrittura. Spesso un simbolo matematico, nella storia e nella pratica, esprime l’ambiguità tra processo e oggetto (Byers dedica molto spazio alle osservazioni che sull’argomento sono state fatte negli studi di educazione matematica2 ), ma qualche volta come si vede si va nella direzione opposta di eliminare anche simbolicamente l’ambiguità. Questo è il primo capitolo sull’ambiguità, che ha fatto dire a un recensore che l’unica cosa di cui era certo alla fine dela sua lettura era che non sapeva più cosa fosse l’ambiguità3 . Non tutti coloro che hanno indicato la presenza di ambiguità in matematica ne sono cosı̀ entusiasti. Ad esempio Philip Davis4 , uno degli autori cari 2 Ad esempio da Eddie Gray, David Tall, Anna Sfard. D. J. Stucki, in www.maa.org/reviews/MathematiciansThink.html. 4 Ph. J. Davis, Mathematics and Common Sense, A K Peters, Wellesley MA, 2006, con il capitolo “On ambiguity in mathematics”. 3 4 a Byers, elenca diverse forme di presenza di ambiguità: polisemia di simboli, o al contrario diverse rappresentazioni per lo stesso concetto, risultati con conclusioni ambigue, dove non si sa quale di due casi valga, le opzioni sul tipo di matematica, costruttiva o no, da sviluppare, l’ambiguità dovuta alla non coincidenza di vero e provabile, le applicabilità dei modelli formali alle situazioni più disparate e lontane tra di loro (matematica come metafora), il cambiamento di concetti nel corso dei secoli. Davis ritiene tuttavia che tali situazioni vadano semplicemente disambiguate, anche se magari non è possibile farlo una volta per tutte. Il secondo capitolo è dedicato alla contraddizione. 2 Contraddizioni La contraddizione è legata all’ambiguità, o è presente in essa. Si distingue per il suo carattere assoluto, per il non esserci una singola idea o situazione che possa mettere in relazione i due corni dell’ambiguità. La coerenza è la condizione imprescindibile per la possibilità del pensiero, e dell’essere, e la contraddizione è da evitare a tutti i costi. Tuttavia due pagine dopo (p. 83) si può assumere un altro punto di vista, secondo il quale la contraddizione non è assoluta. Nonostante dica che la coerenza è la condizione imprescindibile dell’essere, Byers ritiene che la contraddizione sia presente, insieme ovviamente all’ambiguità, come un elemento irriducibile della vita umana: consiste nel fatto che abbiamo una natura duplice di mente e di corpo caduco. Ognuno di noi si sente infinito, e nello stesso tempo si rende conto che agli occhi del prossimo è invece finito, piccolo. Non ci aspettiamo, sarebbe troppo, una risposta alla domanda, che pure viene posta, non si capisce con quali aspettative: “come tratta la matematica questo fattore irriducibile della esperienza umana?”, ma siamo curiosi di imparare come “la matematica tratta la contraddizione in un suo modo unico” (p. 81). La speranza come si vedrà è illusoria. Nella concezione usuale della matematica, la contraddizione è da evitare, ricorda Byers, il quale tuttavia ribadisce che il suo intento è quello di diffondere un nuovo modo di concepire la matematica e il ruolo che in essa è assegnato alla logica e alla coerenza. Byers trova che la contraddizione ha un uso “come un principio generativo positivo all’interno della matematica formale. Quindi 5 la matematica va oltre la logica. E tuttavia la logica 5 C.vo nostro. 5 è proprio il linguaggio della matematica. Come può essere? Sembra una contraddizione”. Per ricercare la funzione positiva della contraddizione, Byers inizia a presentare dei casi precisi, a cominciare da Euclide. Viene esaltato il fascino che il suo sistema esercita, come un sogno della ragione, esprimendo l’ambizione di raccogliere come un prodotto della mente umana un corpo di conoscenze completo sul mondo. Sono descritti i primi sviluppi del sistema, avvertendo tuttavia che a un certo punto Euclide non può più andare avanti a costruire il suo sistema di conoscenze, perché deve usare le dimostrazioni per assurdo, mentre per un primo tratto di strada sono state sufficienti dimostrazioni dirette. Naturalmente le dimostrazioni per assurdo “sono intrise di ambiguità”. Gli studenti non si capacitano di cosa voglia dire assumere falsa una tesi che si vuole dimostrare, e cosı̀ via con le prevedibili osservazioni. Le dimostrazioni per assurdo sarebbero quindi una tecnica della logica ma porterebbero la contraddizione dentro la matematica. Mai che siano distinte le diverse accezioni della parola “dentro”: una contraddizione può essere scritta come illustrazione in un testo matematico, può comparire all’interno di una dimostrazione per assurdo, può essere dedotta in una teoria. Nella forma in cui compaiono nelle dimostrazioni per assurdo, le contraddizioni non sono asserite, né dimostrate, per cui non pare sensato dire che portano la contraddizione dentro la matematica. Nelle dimostrazioni per assurdo, o in quelle per contrapposizione che Byers tratta giustamente come equivalenti6 , non si tratta di assumere come vera o falsa nessuna tesi. Il ragionamento è alla portata di chiunque, di qualsiasi età, sia in grado di controllare i condizionali. Se un bambino non vuole mandare giù la medicina perché dice che è amara, gli si può dire, allenandolo alla contrapposizione, “se non la prendi è perché non è dolce, se fosse dolce la prenderesti?” ed egli o ella risponderebbe di sı̀. Per capire non c’è bisogno di chiedergli di assumere che la medicina sia dolce, cosa che certamente non sarebbe disposto a fare. Poi Euclide è abbandonato al suo destino, come capita spesso all’autore, di perdere il filo dei discorsi iniziati. Ad esempio aveva all’inizio (p. 82) posto il problema se si possa sostenere che la coerenza è un aspetto fondamentale della realtà, ma l’argomento è lasciato cadere. Invece è ripreso quello della 6 Per maggiori informazioni sulle dimostrazioni per assurdo si veda G.Lolli, QED, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 6 √ irrazionalità di 2 per osservare (p. 97) che siccome la dimostrazione è per assurdo “vi è in essa qualcosa di problematico”. La matematica è caratterizzata dall’assenza di contraddizioni. “Ma è vero?”. Ci sono “altri modi più sottili in cui la contraddizione appare in matematica . . . trova la via per infiltrarsi nella matematica (finds its way into mathematics)” (p. 99). Ad esempio “quello che in una certa epoca appare una contraddizione può essere trasformata in un potente concetto matematico”: è il caso dello zero. Come un processo può essere trasformato in un oggetto (discusso nel capitolo 1) cosı̀ “una contraddizione può essere reificata”. Lo zero sta per il nulla, è una presenza che implica un’assenza (sembra Lacan) e cosı̀ via. Ma cosa dire del commento che “cosı̀ benché le regole della logica bandiscano la contraddizione dalla matematica formale, la contraddizione trova il modo di infilarsi tra i concetti della matematica”? L’autore vuole dire che le regole della logica subiscono uno scacco, oppure che tale infiltrazione è compatibile con le regole della logica? Ambiguità. Dopo aver ricordato, in modo inconcludente, il delicato ruolo giocato dallo zero, o dalla divisione per zero, nelle prime formulazioni del calcolo infinitesimale, il capitolo termina con un fuoco di artificio di retorica, di difficile interpretazione. Il significato matematico preciso di zero è affermato essere al centro di una ampia nuvola di percezioni e cognizioni (non è detto quale, essendo stato solo ricordato che zero corrisponde al nulla, e che gli indiani avevano un concetto per il nulla, mentre Parmenide ne aveva indicato la natura paradossale, in quanto non si poteva dire che non è senza dire che è). Ad ogni modo lo zero sarebbe una idea con due incompatibili quadri di riferimento: uno di questi ci porta nel dominio della coerenza, l’altro in quello della contraddizione. “Questa è un’altra ambiguità. Coerenza e contraddizione sono componenti fondamentali dell’ambiguità – nessuna delle due può essere omessa. La conclusione verso cui siamo spinti è che è l’ambiguità e non la coerenza logica che è fondamentale” (p. 109). 3 Paradossi Il terzo capitolo è dedicato ai paradossi. Da un dizionario: “un paradosso è una situazione o proposizione che appare assurda o contraddittoria, ma che 7 è o può essere vera”. Può essere vera in un contesto più ampio, stimolando la creazione di un nuovo paradigma. Mentre una contraddizione logica è un caso chiuso, un paradosso pur presentando una contraddizione chiede che la contraddizione sia riconciliata in un altro contesto. Questo è vero e comprovato da molti casi; non nel primo che Byers ci propone, con il solito intento di far vedere che le sue nozioni appartengono alla realtà, oltre che alla matematica, vale a dire il paradosso che noi viviamo, lavoriamo, abbiamo comportamenti etici nella vita quotidiana, mentre la vita, alla luce della morte, non ha nessun valore. Byers non ci dice come in questo paradosso si concilia la contraddizione (ammesso che ci sia), ma ovviamente c’è puzza di incenso. Per spiegare la funzione dei paradossi, il fatto che “c’è una contraddizione, ma ci può anche essere una verità”, l’autore si volge ai paradossi dell’infinito. Molti di quelli che presenta “portano una idea matematica profonda”, checché di nuovo voglia dire “portano” (carry). L’autore ricorda come diverse immagini ed idee siano legate al concetto di infinito, dallo scorrere del tempo senza fine allo spazio senza confini, al molto grande, all’iterazione dell’autoriferimento. Quindi osserva che “c’è qualcosa di misterioso nell’uso umano del linguaggio . . . L’infinito evoca qualcosa di reale – dietro la nozione di infinito sta una reale esperienza umana, una reale intuizione umana” – quale non dice, forse si riferisce al fatto che noi siamo infiniti ai nostri occhi, e finiti agli occhi del prossimo. Come ogni concetto che è una intuizione di un aspetto della realtà, secondo Byers è facile vedere che è intrinsecamente ambiguo. Nel trattare i concetti si dovrebbe incominciare con una definizione, ma una delle primi problemi è se una definizione di infinito sia mai possibile. In effetti Byers deve pensare di no, perché in 62 pagine dedicate all’argomento non compare mai una definizione di infinito, in particolare non compare la definizione matematica (benché affermi con forza che “deve essere concettualizzato” (p. 126)). L’infinito è ciò che non può essere messo in parole, e d’altra parte è la caratteristica definitoria della divinità. Ci sono tuttavia due gruppi di idee che lo sostanziano, da una parte quelle dell’assenza di confini, della illimitatezza, dall’altra quelle della completezza, perfezione. Questa è l’ambiguità dell’infinito (p. 118), incompleto e nello stesso tempo completo, perché ne parliamo. Non si capisce perché le stesse considerazioni non siano state adottate per il nulla, vista la somiglianza: un 8 concetto di cui parliamo, anche se di difficile e forse impossibile definizione; tuttavia lo zero è stato messo tra le contraddizioni e non tra i paradossi. La natura incompleta e completa dell’infinito è illustrata da relazioni come 1 = .999 . . . e altre analoghe. Questa illustra anche la ambiguità dell’uguale. Gli studenti che conosce Byers sono a disagio di fronte all’uguaglianza, non riescono ad ammetterla, arrivano solo ad affermare che la differenza è molto piccola. Noi crediamo che il disagio sia dovuto alla infelice notazione dei puntini; sono per l’appunto ambigui, tra infinito potenziale e infinito attuale. Se si scrivesse 1= P∞ 9 1 10i la risposta non sarebbe magari immediata, si dovrebbe calcolare la serie, ma non sarebbe sbagliata. Non è l’unico caso in cui una espressione che comporta complicate operazioni, in particolare infinite, ha come valore un numero intero. Byers ricorda come Hermann Weyl abbia definito la matematica scienza dell’infinito, e abbia ammirato i Greci per il loro audace tentativo di catturare l’infinito con mezzi finiti. Tuttavia “se l’infinito in matematica è davvero un tentativo di afferrare l’ineffabile” allora un tale tentativo deve andare incontro a una rottura. “La rottura avviene nella struttura logica della matematica e quello che distingue tale tipo di rottura è l’apparire di paradossi” (p. 120). Un primo paradosso è quello dell’induzione (sic). Essa comporta la riduzione dell’infinito al finito e “dimostra il grande potere che risiede nella nozione ambigua di variabile” (su cui si è soffermato nel primo capitolo). Se bastasse usare le variabili saremmo a cavallo. Provi Byers a fare qualcosa del genere, con tutte le variabili che vuole, per R. Altri paradossi discussi sono quello di Achille e la tartaruga, e quelli delle serie. La tesi è che ogni stadio dello sviluppo della teoria moderna dei reali è stato accompagnato da paradossi. Una serie infinita è sia un processo che un oggetto e quindi paradossale. Appena interviene l’infinito si materializza la minaccia dell’incoerenza. Allora perché introdurre l’infinito? “La risposta è che l’infinito è imposto alla mente umana nei suoi tentativi di venire a capo della comprensione della realtà”. Ma perché? 9 Ancor più sorprendente, da parte di un matematico, l’affermazione che “il mistero dell’infinito risiede nella impossibilità di ridurlo completamente a un ben definito concetto che si inserisca in una teoria rigorosa” (p. 145). Mai sentito parlare della teoria di Zermelo-Fraenkel? In effetti molti matematici non la conoscono. Altri paradossi discussi sono quelli dei punti all’infinito, del numerabile e più che numerabile, dell’insieme di Cantor, degli infinitesimi. Sono riassunti un po’ sciatti e inconcludenti. La seconda parte del libro si appoggia alle conclusioni della prima parte (che ambiguità, contraddizioni e paradossi sono la fonte della matematica, ma anche ambiguamente dentro di essa) per sviluppare una visione alternativa della matematica. Una visione che sia generativa, lasciando spazio allo sviluppo dinamico della stessa scandito dalla apparizione di idee, invece di fissare l’attenzione su assiomi, definizioni e dimostrazioni. La nuova visione include sia la logica sia l’ambiguo. Tuttavia il ruolo della logica e del rigore deve essere riesaminato, perché la logica aborre l’ambiguo. Curiosamente Byers contrappone sempre la chiarezza della logica all’ambiguità, ma non considera che anche l’intuizione aborre l’ambiguo, anzi non lo vede affatto, vede solo una cosa chiara e distinta. Tuttavia data l’ampiezza della trattazione, la seconda parte richiede di essere discussa a parte, forse in una seconda puntata. Noi speriamo che gli eventuali lettori di questo libro abbiano la maturità di ritenere che chi vuole fare della filosofia della matematica in modo originale e provocatorio è benvenuto, purché rispetti alcune condizioni: ricordare che c’è di più nella matematica di quello che ogni nostra filosofia può immaginare, e non è mai con un solo concetto che la si può spiegare tutta; che per riconoscere l’importanza di un fattore, o di un concetto, non c’è bisogno di affermare che tutta la matematica si riduce a quello; il (tentare di) farlo non può portare che a forzature ridicole; che non si può pretendere di appellarsi alla matematica reale (contrapposta alle sue rappresentazioni ideologiche) e nello stesso tempo trattarla in modo approssimativo, grossolano, sbagliato; che la logica (naturale) del discorso sulla matematica deve essere altrettanto controllata e rigorosa di quella del suo oggetto. Per quel che riguarda l’ambiguità, è meglio leggere G. Suri e H. Singh Bal, A Certain Ambiguity, Princeton University Press, 2007, un romanzo matematico, dove le contraddizioni riguardano la matematica e le varie e contrastanti affiliazioni, religioni, famiglie dei protagonisti. 10 Matematica e omosessualità∗ Gabriele Lolli luglio 2008 David Leavitt si è aperto a un nuovo interesse, dopo essere diventato famoso per la trattazione lieve e disinvolta della problematica dell’omosessualità, in racconti largamente apprezzati, che lo hanno fatto indicare come una delle voci più importanti della letteratura americana contemporanea. Il nuovo interesse è rivolto alla matematica, a iniziare dal saggio L’uomo che sapeva troppo. Alan Turing e l’invenzione del computer (Codice, 2007). “I matematici sono creativi di un tipo molto diverso dagli scrittori, i pittori o i registi. Probabilmente, ciò che mi attrae maggiormente nel loro lavoro è il suo completo distacco dall’esperienza umana . . . Ci sono una purezza e una bellezza, nel mondo matematico, che lo rendono subito estremamente interessante e consolatorio: un meraviglioso antidoto alla pazzia della comunità umana”. Cosı̀ si è espresso in una intervista a P. Odifreddi (L’Espresso, 24 giugno 2008). Ora ha addirittura scritto un romanzo, che si può definire storico o biografico; naturalmente l’autore riconosce che “come la maggior parte [di quelli] basati su fatti veri – si prende delle libertà rispetto alla verità storica, mescola fatti autentici e invenzioni, e trasforma figure storiche in personaggi romanzeschi” (p. 587). Il matematico indiano del titolo è Srinivasa Ramanujan (1887-1920), che nel 1913 mandò a G. H. Hardy (1877-1947), e ad altri professori di Cambridge, da Madras una lettera con alcuni squarci sui suoi risultati, incredibili e insospettabili, frutto insieme di una mente visionaria e della mancanza di una preparazione convenzionale. A differenza dei colleghi Hardy riconobbe i segni della creatività matematica, e si adoperò per farlo venire a Cambridge, dove iniziò una collaborazione ∗ Recensione di D. Leavitt, Il matematico indiano (2007), traduzione di Delfina Vezzoli, Mondadori, Milano, 2008, pp. 595, €20. Una versione ridotta è apparsa su L’Indice, XXV, n. 10, ottobre 2008, p. 10. 1 proficua per entrambi: Hardy cercò di educare l’istinto selvaggio di Ramanujan, e di insegnargli a dimostrare le verità misteriosamente intuite, gli fece pubblicare i risultati più importanti e gli fece ottenere gli onori desiderati, dalla laurea alla elezione alla Royal Society a una fellowship al Trinity College. Per parte sua Hardy ne ebbe stimoli importanti, pari a quelli del suo lungo e mitico lavoro congiunto con John E. Littlewood (1885-1977). Alla fine della vita Hardy si gloriava di aver avuto la fortuna di lavorare insieme a Littlewood (come dice la traduttrice, p. 20, “una delle uniche collaborazioni riuscite”) e a Ramanujan. Il sodalizio con questi si protrasse fino al 1918, quando Ramanujan ammalato tornò in India per morire all’età di 33 anni. Il Matematico indiano è un romanzo basato su un accurato rispetto della cronaca; solo i pensieri e i sentimenti dei personaggi, e qualche incidente minore, sono frutto della fantasia dell’autore. Sarà tuttavia una sorpresa per il lettore scoprire che il protagonista non è Srinisa Ramanujan, ma Godfrey Harold Hardy. Ramanujan è solo il pretesto per seguire la vita di Hardy negli anni 1913-1918, più di quanto creda l’autore quando concede che “il mio libro è più sul rapporto di Ramanujan con Hardy, che su di lui solo. Volevo anche esplorare la particolare intimità dell’amicizia che si instaurò tra lui e Hardy: un’intimità che da molti punti di vista resiste ai nostri sforzi di definirla”. Una sorpresa più curiosa è il titolo originale The Indian Clerk , che allude al lavoro da contabile di Ramanujan a Madras prima di trasferirsi in Inghilterra. Si capisce che l’editore italiano abbia voluto un titolo più attraente, non si riesce a immaginare invece cosa intendesse l’autore. Forse che non è importante che Ramanujan sia un matematico? Che il suo essere stato un impiegato è significativo nella storia che viene raccontata? O che Ramanujan porta con sé indelebile il marchio del contabile? Nessuna di queste spiegazioni ha senso né riscontro nel romanzo. La storia è la storia di Hardy, ma non del matematico Hardy, che nella prima parte del Novecento è stato considerato uno dei migliori studiosi di analisi, la sua specialità all’interno della disciplina essendo le serie asintotiche e la teoria dei numeri. Naturalmente nel libro si parla abbastanza di matematica, e anche in una forma accettabile, pur nella necessità di limitarsi ad allusioni o a facili esempi. I pochi e brevi incisi matematici dovrebbero esprimere l’importanza di questa esperienza nella vita dei protagonisti e giustificare forse il loro presunto “distacco dall’esperienza umana”. Per questo si insiste sulla presenza del mistico nella matematica, con episodi come l’aneddoto di Littlewood che racconta della matita che gli scrive da sola una formula (p. 399), o la ripetizione della credenza che le formule di Ramanujan 2 gli fossero rivelate dalla dea Namagiri. La storia non è la storia di Hardy matematico, ma la storia di Hardy omosessuale. Veramente nell’intervista a Odifreddi Leavitt ha dichiarato che “l’omosessualità di Hardy è stata [. . . ] solo un fattore secondario nella mia decisione di scriverlo: quello che mi interessava era piuttosto l’atmosfera sessualmente permissiva e sperimentale della Cambridge d’inizio Novecento, esemplificata dagli Apostoli”. Gli Apostoli erano una società o confraternita di uomini di Cambridge alla quale appartenevano anche Keynes, Russell, G. E. Moore, Lytton Strachey, J. McTaggart, Oskar Browning e vari altri personaggi che si ritrovano anche nel circolo di Bloomsbury. Si riunivano periodicamente a chiacchierare in libertà e a discutere la relazione di uno dei membri (Leavitt ci informa di due di queste: “È possibile la conversione?” di Moore e “Viole o fiori d’arancio?” di McTaggart sulla superiorità dell’amore omosessuale). Il gruppo di amici si configurava come una specie di consorteria occulta, ma solo per il fatto che erano tutti persone influenti e di vedute comuni. Alcuni dei membri, non tutti, non Russell, erano omosessuali e Leavitt accenna ad alcune relazioni, come quella tra Ferenc Békássy e Bliss che finiscono a combattersi su fronti opposti nella grande guerra. Ma sono pochi accenni, si riducono alla descrizione della naturalezza con cui le persone quando sono insieme si toccano o accarezzano, e pettegolano sulle varie tresche. Leavitt è considerato uno scrittore di tematiche omosessuali, ma non ci pare abbia ancora trovato il registro giusto; a parte la frequenza con la quale parla e fa parlare di contatti fisici, il suo linguaggio suona ancora allusivo e corrivo, come se ammiccasse al lettore (una “seguace di Saffo”, p. 163, gli “ovvi motivi” di Hardy per restare scapolo, p. 78, i “drudi di Keynes”, p. 379). Viene in effetti descritta una seduta degli Apostoli nella parte iniziale (pp. 60-77), con la partecipazione di Wittgenstein introdotto da Russell, e poi D. H. Lawrence di passaggio, e un’altro incontro informale degli amici quando molti stanno per partire per la guerra; ma per il resto della storia di circa 600 pagine gli Apostoli sbiadiscono e il centro della scena è saldamente occupato da Hardy. E cosa fa Hardy, cosa pensa, che tipo è? Una vita regolare fino alla monotonia, priva di sorprese, scandita dal lavoro matematico al mattino, dal criket al pomeriggio, dalle consuetudini del Trinity e caratterizzata da innocenti manie (come l’abitudine di comunicare esclusivamente per lettera con il suo collaboratore Littlewood). Ramanujan si inserisce come un tassello perfetto nella vita di Hardy, con il lavoro comune mattutino, e nessun disturbo 3 alla sua routine. Con lo scoppio della guerra qualcosa si muove intorno a Hardy, e nel romanzo, non dentro di lui: amici e colleghi che partono, o che muoiono, altri che si impegnano contro la guerra (Russell), paesaggio umano e fisico che cambia per i feriti che sono alloggiati in ospedali da campo attrezzati a Cambridge. Per chi è familiare con il personaggio, l’ambiente e i tempi, è spontaneo e inevitabile fare un confronto con quello che si sa ed è assodato dalle testimonianze. In particolare per Hardy vale la commossa commemorazione che C. P. Snow ha premesso alla Apologia di un matematico di Hardy (Garzanti, 1989), dalla quale peraltro Leavitt ha preso quasi tutti gli episodi e aneddoti reali inseriti nel libro. Snow parla della riservatezza di Hardy nell’esprimere emozioni ed affetto, salvo che per due o tre relazioni di altro tipo: “Queste furono affezioni forti, assorbenti, non fisiche ma di intensa felicità”. Invece l’interpretazione di Leavitt è fissata subito, a p. 13, quando fa pronunciare a Hardy, nel corso di una più tarda reminiscenza intercalata alla storia, la dichiarazione (effettivamente scritta da Hardy) che “il mio rapporto con lui [Ramanujan] è stata l’unica vicenda (incident) romantica della mia vita”. La frase è presentata con una sfumatura allusiva inequivocabile, e cosı̀ colta dal pubblico che Leavitt immagina assistere alla conferenza. Soltanto che nel corso di tutta la storia non una volta c’è la minima indicazione di un interesse sessuale di Hardy nei confronti del matematico indiano, per non parlare del reciproco. Hardy è sempre solo fissato, anche quando Ramanujan è distratto o impedito da suoi problemi, sull’obbligo morale di condurre in modo regolare gli incontri mattutini di lavoro. Ramanujan non ha alcuna funzione maieutica al di fuori della matematica. Leavitt non ha fatto molti sforzi per “esplorare la particolare intimità” tra i due uomini. Dal suo rapporto con Ramanujan, Hardy emergerebbe come un essere asessuato, capace soltanto di magnificare “l’erotismo di lavorare con i numeri” (p. 270). Lo stesso Leavitt contraddice tuttavia questa immagine introducendo elementi dissonanti: una vecchia relazione poco significativa con un matematico scadente, ripresa estemporaneamente e distrattamente, forse per mero sfogo fisico, una attrazione platonica con Moore e una storia coinvolgente con un soldato ferito ricoverato a Cambridge, l’unica descritta con particolari di sesso, e inventata (per ammissione dell’autore). Ugualmente inventata, e senza giustificazione, è ovviamente la scena dell’ultima pagina, a suggello della storia, nella quale Hardy si inginocchia per appoggiare la testa alla patta di un poliziotto. Un ruolo portante per l’architettura del racconto svolge invece 4 il ricordo di una intensa amicizia giovanile con Russell Kerr Gaye, morto suicida, che continua a materializzarsi e a parlare con Hardy il quale, razionalista come era, sembra accettare il fenomeno come del tutto naturale (per compiacere il proprio autore che se ne serve come utile artificio per esprimere i pensieri del suo personaggio, e qualche volta per raccontare il passato, ad esempio la dichiarazione di Gaye di essere morto per l’amore non ricambiato, p. 544). Snow ricorda che “in un circolo brillante, [Hardy] era uno dei giovani più brillanti e, in un modo tranquillo, uno dei più incontrollabili [. . . ] Ogni cosa che faceva [. . . ] era illuminata dalla grazia, dall’ordine, da un senso dello stile”. Poco o nulla di questa personalità si ritrova nel quadro dipinto da Leavitt, le cui prevenzioni su quello che crede il “distacco dall’esperienza umana” gli fanno dire che un matematico ha orrore della fisicità (Ramanujan, p. 103), o che Neville non diventerà mai qualcuno perché non abbraccia la solitudine e tanto meno la sofferenza (p. 125). Hardy aveva la fama di “eccentrico, radicale, pronto a parlare di qualsiasi argomento”, ma dal romanzo questo carattere non emerge, a parte la passione per il cricket, o le reiterate “scommesse” con Dio (andare alla partita con impermeabile e ombrello quando c’è il sole, per prendere in contropiede Dio se vuole fargli un dispetto con la pioggia), o l’attribuzione di manie nevrotiche, quali quella di non mescolare mai i cibi nei piatti (p. 107). Hardy è descritto come contrario alla guerra, ma rassegnato dopo qualche incertezza a dare la disponibilità all’arruolamento; è disgustato dal razzismo dei colleghi, ma in modo passivo e impotente (ad esempio nel caso della cacciata di Russell e della vendita all’asta dei suoi beni al Trinity), salvo per un episodio, l’insistenza a proporre una fellowship per il “negro” Ramanujan contro l’opposizione dei colleghi razzisti. Il disgusto e l’insofferenza di Hardy devono invece essere stati ben forti se nel 1919 accettò il trasferimento a Oxford. Il fatto esce appena dal quadro temporale del libro, ma Leavitt non ci prepara a questa traumatica decisione da parte di un uomo di Cambridge. Analogamente non ci dice nulla sulla esperienza che Hardy ebbe quando a 12 anni vinse una borsa di studio per la prestigiosa scuola di Winchester, considerata da tutti “a pretty rough place”, e di cui in seguito non volle mai parlare, se non ironicamente come occasione perduta di perfezionare la battuta di cricket. Leavitt non riesce a inserire nel ritratto di Hardy la connotazione sottolineata da Snow che, nonostante la frequentazione degli Apostoli, egli preferiva 5 le persone umili, quelle che avevano difficoltà e impedimenti, di classe o di razza, e disdegnava quelli che chiamava con trasparente allusione i “culi larghi” (large bottomed ). Gli fa sı̀ dire che i giochi sono truccati, a favore dei ricchi (p. 94), che il successo è dei grandi deretani (p. 134), che il Winnie the Pooh di A. A. Milne è preferibile a Virginia Woolf (p. 324), ma poi gli fa tenere un comportamento perbenista e classista dalle disastrose conseguenze con l’amico soldato (p. 387). L’Hardy di Leavitt appare in definitiva una persona monocorde, scialba, egoista, incapace di piangere i morti, che spinge al suicidio le persone che gli stanno vicino (p. 541), Gaye e Ramanujan stesso. Quando Alice Neville, moglie di un collega, gli rimprovera (p. 413) di aver ignorato l’infelicità di Ramanujan, Hardy la corregge in peggio, confessando che non la rispettava, non si chiedeva cosa ci fosse dietro. Ramanujan tentò il suicidio per la disperazione prodotta da un cumulo di problemi, il disagio del tempo di guerra, la difficoltà di trovare il cibo indiano vegetariano, con l’inevitabilità della violazione delle regole della sua casta, i difficili rapporti con i compatrioti a Cambridge, una malattia dolorosa incomprensibile, non curata e peggiorata dal freddo dei sanatori, la situazione a casa, dove la madre gelosa e possessiva intercettava le lettere della nuora in modo che Ramanujan era tagliato fuori da ogni rapporto con la moglie, cumulo che non solo Hardy, ma i lettori stessi vengono a conoscere solo verso la fine. E Ramanujan, che in fondo dà il titolo al romanzo? Visto quasi esclusivamente con gli occhi degli ospiti inglesi, appare ovviamente buffo e incomprensibile con le sue abitudini e credenze; è riconosciuto di animo gentile (p. 257), ma anche egoista, quando con lo scoppio della guerra e i pericoli dei viaggi attraverso l’Europa si preoccupa più del tamarindo che gli dovevano portare che del rischio della vita dei suoi corrieri (p. 225). Assilla Hardy, non per aiuti materiali ma per pubblicare e per ottenere riconoscimenti: vuole prendere la laurea, e poi concorrere a un premio che Hardy giudica insignificante rispetto alla gloria che già si è conquistata; ritiene cosı̀ di ricambiare quanti lo hanno aiutato in India, mentre sembra indifferente al significato dei risultati che ottiene, che giudica secondo criteri suoi propri. Quelle che dovrebbero essere le figure principali del romanzo, Ramanujan e Hardy, non arrivano a essere delineate a tutto tondo, ma solo per viste parziali, spesso incoerenti. Si potrebbe pensare a una scelta ispirata dalla fenomenologia husserliana, mentre forse è piuttosto il frutto dello stile letterario di Leavitt. Lo scrittore Leavitt è ben noto e analizzato dalla critica. La sua scrittura 6 è piana e fattuale (matter of fact), a frasi brevi, descrittive di azioni semplici, in genere a ritmo serrato. La si ritrova solo a tratti in questa ultima fatica, e dà luogo allora ad alcune pagine di grande scrittura: scene umoristiche tipiche della sua impietosa capacità di osservazione (p. 383, Hardy che scopre Alice Neville nel suo appartamento di Londra), qualche bel dialogo (tra Hardy e Littlewood, p. 373), una intensa descrizione fisica della madre morente di Hardy (p. 426). Ma in generale, la scrittura matter of fact non sembra la più adatta a comporre una personalità, attraverso incidenti slegati, e forse corrisponde alla convinzione di Leavitt che non sia possibile. Leavitt ha dichiarato che nel suo lavoro è interessato soprattutto ai contrasti, ad accostare gli opposti. In questo caso si direbbe che gli opposti siano Hardy e Alice Neville, perché sono le sole due persone delle quali Leavitt ci fa entrare nella testa, raccontandoci i loro pensieri e stati d’animo, non Littlewood, non l’amante di Littlewood, non Russell, non certamente Ramanujan, un oggetto esotico. Alice è una creatura convenzionale, sposa felice, vivace e curiosa. Ha un ruolo nel convincere Ramanujan a venire in Inghilterra, e lo ospita all’arrivo. Senza peli sulla lingua, dà voce al sospetto che Hardy sfrutti Ramanujan (p. 309). Si innamora di Ramanujan, prima in modo materno, poi sul serio, e il suo universo entra in crisi, capisce di non amare più suo marito, e non sopporta che lui non se ne accorga; cerca di realizzarsi con una attività indipendente durante la guerra. Alla fine, dopo la crisi del marito scaricato da Cambridge, rientra nell’ordinario corso della vita, non si sa come, e la ritroviamo incinta e remissiva, e più tardi tutta compresa del suo ruolo tradizionale di moglie. Lo stile matter of fact di Leavitt ci risparmia una dose ulteriore di luoghi comuni con la descrizione del travaglio della sua rassegnazione. Con il personaggio di Alice, Leavitt sembra tornare su un terreno a lui più familiare e confacente. Conferma che la sua dimensione è quella delle storie brevi su persone comuni, mentre questa impegnativa fatica sembra eccedere la sua capacità di dominare intenzioni più ambiziose. Recensioni addomesticate ed enfatiche (ad esempio sul sito del TLS ) hanno dichiarato che “il suo controllo su questo materiale denso e ramificato è impressionante”, mentre al contrario si ha la sensazione talvolta di una redazione non del tutto attenta, o revisionata, come in certi gialli affrettati. Nella storia ci sono ripetizioni di informazioni, quasi l’autore si fosse dimenticato di averne già parlato (ad esempio il gesto compulsivo del rettore Butler di girarsi la fede nel dito, p. 48 e p. 111, le notizie sulla vita di Ramanujan in India prima inserite nella storia e poi duplicate in una lettera di Alice Neville, 7 p. 151, la descrizione dell’iniziativa di Mrs. Buxton della pubblicazione delle “Note della stampa estera”, p. 329 e p. 349); dopo il tentativo di suicidio, Hardy non si sente, “date le circostanze”, di portare Ramanujan dalla sua affezionata pensionante londinese, che senza volerlo gli ha dato da mangiare Ovaltine con uova tra gli ingredienti facendo traboccare la disperazione di Ramanujan, quando ancora non conosce tali circostanze, che invece al lettore sono state descritte nel precedente capitolo (p. 536). Il titolo della terza parte “Fatti allegri sul quadrato dell’ipotenusa” è un mistero, dal momento che in questa parte del libro non si riesce a trovare alcun accenno o allusione neppure metaforica a triangoli rettangoli. Hugo Barnacle sul New York Times del 17 febbraio ha notato, sulla base degli orari del tempo, come fosse impossibile la regolare visita di fine settimana di Littlewood da Cambridge a Treen dalla sua amante (una giornata di viaggio e non dal tardo pomeriggio all’ora di cena). Qualcuno ha voluto trovare un significato profondo “focalizzato sui suoi grandi temi della inconoscibilità e dell’identità”, sicché il libro sarebbe “una meditazione al di fuori del tempo sulla ricerca della conoscenza e del sé, e come spesso le due sono intrecciate” (TLS ). Ugualmente discutibile è che la matematica risuoni emotivamente ed intellettualmente (TLS ). Non c’è nessuna “ossessione dei numeri primi” nei protagonisti, ma solo l’impegno regolare nello studio, e il desiderio di arrivare a qualcosa di importante. Svolgono, visti dall’esterno, un lavoro come un altro; Leavitt evidentemente non è riuscito a entrare nella mente dei grandi matematici, se mai è capace o ha voglia di entrare nella mente di qualcuno, e si lascia guidare dai soliti frusti stereotipi. Qualche discorso serio sulla matematica è introdotto riproducendo alcuni dei pensieri diventati cult di Hardy, ma di solito in modo posticcio. Ad esempio (p. 415) la descrizione della matematica come la contemplazione di un paesaggio montano con vette ben visibili, altre nascoste tra le nuvole, e gli incerti crinali che le uniscono è inserita in continuazione, senza neanche andare a capo, alla riflessione attribuita a Hardy che “non sono mai stato un uomo incline a scavare a fondo nei motivi e nei processi”: Leavitt si è lasciato evidentemente fuorviare dalla parola “contemplazione”. In conclusione, sembra di poter convenire con il giudizio di A. Robinson su The Times che l’opera è complessivamente non convincente, anche se mai sotto il livello dell’intelligenza e del coinvolgimento. Ma per il coinvolgimento, giudicheranno i lettori (da avvertire che i fluoni a p. 34 non sono una nuova particella, ma i fluenti di Newton; e il teorema di Fermat, p. 33, non dice che la soluzione di xn + y n = z n non è mai un numero maggiore di 2, ma 8 che per un esponente maggiore di 2 non ci sono soluzioni; H. G. Wells non è l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, p. 124, il suo “ultimo romanzo”, visto che siamo nel 1913, potrebbe essere Tono Bungay; l’ospedale Fitzroy House dove viene ricoverato Ramunjan, p. 567, non è un posto indifferente, ma un posto né buono né cattivo). 9