rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
venerdì 9 maggio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Huffington Post del 08/05/14
Carovana antimafie 2014: la memoria è una
materia difficile e la selezione non la fa mai
chi ne avrebbe diritto
Alessandro Cobianchi
Coordinatore della Carovana Internazionale Antimafie
Il ventennale della carovana quest'anno incrocia un anniversario che ha cambiato, di
molto, l'impegno politico di tanti giovani di allora. Nel 1989 non c'è stata solo la caduta del
Muro di Berlino, ma anche qualcos'altro. Nelle campagne del casertano veniva
assassinato Jerry Esslan Masslo, lavoratore agricolo che sarebbe stato, se avessimo
avuto una legge adeguata, un rifugiato politico. L'omicidio di Masslo disvelò ai più distratti i
rapporti fra caporalato, criminalità organizzata e razzismo. Nel viaggio di carovana
attraverso la Puglia e la Campania, scopriamo che le centinaia di lavoratori africani e non
solo, incontrati nelle varie tappe, non conoscono la storia di Jerry Masslo e nemmeno
quella di Hiso Telaray, bracciante albanese, anche lui assassinato, in Puglia, dai caporali
ai quali si era ribellato. La memoria come si sa, è una materia difficile, la selezione non la
fa quasi mai chi ne avrebbe diritto. I braccianti stranieri assassinati e picchiati sono ben
presto dimenticati.
Le figure simbolo della lotta al caporalato, come lo sono quella della lotta alle mafie,
dovrebbero essere maggiormente impresse nel nostro bagaglio collettivo. C'è un vuoto di
memoria che non si riassume nelle tante storie individuali ascoltate: lo sfruttamento del
lavoro, in questo nostro Paese, sembra essere meno "epico" di altre espressioni criminali.
Ascoltiamo storie talmente note che ci chiediamo con tutta l'ingenuità possibile, perché
non si faccia di più per sconfiggere questa forma di schiavitù. Uomini e donne che
lavorano per 8,10 ore a testa china, per pochi euro, costretti a pagare anche i servizi
accessori: il trasporto dai ghetti o dalle baracche verso le campagne (5 euro) e persino il
panino (3,5 euro) e l'acqua (che ha gli stessi prezzi di un punto ristoro delle Frecce di
Trenitalia), devono essere obbligatoriamente acquistati dal caporale. Eppure ci sono pochi
controlli statali rispetto alle aziende che sfruttano i lavoratori e che "taroccano" i contratti
(quando ci sono).
A Brindisi, a Benevento, a San Severo si suona la stessa nota: i datori di lavoro
conoscono la capacità degli uomini venuti da tante latitudini a cercare lavoro ma non sono
poi disponibili a retribuirli regolarmente e correttamente, negando loro ogni situazione
previdenziale. Intanto gli "imprenditori mediatici", quelli che fiancheggiano gli sfruttatori,
irretiscono l'opinione pubblica, convincendola che, in fondo, la colpa di tutto è sempre dei
migranti e mai di chi li sfrutta. Una situazione d'impunità che abbassa quotidianamente
l'asticella dei diritti. A discapito dei migranti ma, come insegna la storia, di tutti. Il singolo
lavoratore che protesta viene immediatamente allontanato (non si può licenziare chi non è
stato assunto). Va cambiata la legge Bossi Fini, certo. Ma va spezzato anche il filo
d'acciaio che lega gli sfruttatori, i controllori mancati, la criminalità organizzata che vive
sulla pelle dei lavoratori schiavi. A San Severo, a casa Sankara, nella tappa di carovana
antimafie dovevano esserci anche due ragazzi africani impegnati nel progetto del villaggio
autogestito, un modo concreto per sconfiggere la cultura dei tanti ghetti, in cui vivono i
lavoratori agricoli. I due uomini sono stati brutalmente aggrediti con delle spranghe da un
2
gruppo di caporali e sono ricoverati in ospedale. I due accompagnavano il pullman che
avrebbe dovuto portare alcuni ospiti del ghetto alla manifestazione. I media non ne hanno
parlato più di tanto.
Noi di carovana avevamo appena salutato molti di loro all'angolo di case prefabbricate
denominate "via Di Vittorio" e decorate da un meraviglioso murales di Thomas Sankara,
icona della speranza africana.
Forse non manca del tutto la memoria, manca il presente, il quotidiano impegno di una
comunità che, fatte salve minoritarie eccezioni (istituzioni illuminate, qualche associazione
o il sindacato), sceglie di convivere con la schiavitù degli altri, preparando la propria.
Pregiudicando il futuro, di tutti.
http://www.huffingtonpost.it/alessandro-cobianchi/carovana-antimafie2014_b_5286632.html?utm_hp_ref=italy
Da Redattore Sociale del 08/05/14
Mafie, 4 mila ragazzi nei terreni confiscati con
"Liberarci dalle spine"
Il progetto dell’Arci copie dieci anni e per festeggiare questo
anniversario sono stati organizzate tre giornate di incontri, cultura,
socialità e formazione a Pisa e nei comuni della provincia
FIRENZE – Il progetto dell’Arci ‘Liberarci dalle Spine’ compie dieci anni e per celebrare
questo anniversario sono state organizzate tre giornate di incontri, cultura, socialità e
formazione a Pisa e nei comuni della provincia. A organizzare questo particolare
decennale per l'antimafia sociale, l'Arci di Pisa assieme al comitato regionale
dell'associazione, primo promotore dell'iniziativa, e in collaborazione con Cgil, Spi – Cgil e
Libera. Nel corso di questi dieci anni sono stati circa 4 mila le ragazze e i ragazzi toscani
(con una media negli ultimi cinque anni di 700 persone all'anno) che hanno deciso di
trascorrere parte delle proprie vacanze estive attraverso l'impegno concreto di lotta alle
mafie sulle terre confiscate alla criminalità organizzata e in particolare a Corleone, dove,
sui terreni confiscati a Cosa nostra, opera la Cooperativa Lavoro e Non Solo. “Il decennale
– afferma Stefania Bozzi, presidente del comitato Arci di Pisa – è un momento importante
per il lavoro svolto in questi anni sia per fare un bilancio dell'esperienza sia per guardare al
futuro, dato che la voglia di partecipare dei più giovani non cala mentre aumentano le
regioni in cui si svolgono i campi”.
Il Decennale di Liberarci dalle Spine si terrà da domani fino a domenica 11 maggio.
Prenderà il via alle ore 16 presso il Palazzo Ricci a Pisa con la tavola rotonda 'I Misteri
d'Italia' dove sono attesi, tra gli altri, la giornalista Sandra Bonsanti, il magistrato Giovanni
Imposimato e Stefania Limiti, autrice del libro il "Doppio Livello. come si organizza la
destabilizzazione in Italia". Al centro delle iniziative ci sarà spazio per la socialità e il
divertimento con aperitivi, cene, concerti, un triangolare di calcio per la legalità, e sarà
l'occasione per avviare la formazione dei ragazzi che partiranno per i campi antimafia di
quest'anno. Ma soprattutto il decennale incrocerà l'arrivo in Toscana (sabato 10 maggio)
della Carovana Antimafie che comincerà il suo tour con incontri in alcune scuole medie
superiori di Pisa, Cascina, Pontedera e Volterra, alla presenza di rappresentanti di Arci,
Cgil, Libera e della Cooperativa Lavoro e Non solo. Questi ultimi nel pomeriggio alle 17.00
al Polo Guidotti di Pisa animeranno l'incontro 'Ragazze e ragazzi di ieri e di oggi al fianco
della Cooperativa Lavoro e Non Solo'.
3
Il decennale cade nelle settimane in cui è in corso una discussione sulla riforma
dell'Agenzia dei beni confiscati. “Auspichiamo che Governo e Parlamento – spiega
Gianluca Mengozzi - sappiano modificare l'attuale legislazione per renderla più efficace sul
fronte del riuso sociale e produttivo dei beni e delle aziende confiscate, ribadendo
l'importanza del contributo delle associazioni antimafia e della proposta di legge popolare
'Io Riattivo il Lavoro'”.
Da il Giorno.it del 08/05/14
Bombe Molotov contro il circolo Arci, dieci
neonazisti rischiano dure condanne
Chiesti in tutto 33 anni di carcere. Aggiunta, dalla parte civile, una ammenda di 40mila
euro in favore dell’Arci "per danni morali"
Lodi, bombe Molotov contro la sede Arci (Borella)Lodi, bombe Molotov contro la sede Arci
(Borella)
Lodi, 9 maggio 2014 - «Altro che serata di noia. L’incendio è stato un vero e proprio
attentato e la scelta dell’Arci non è un caso». Si è svolta ieri pomeriggio l’ultima udienza
prima del verdetto che arriverà il 26 giugno, per il gruppo di skinhead lodigiani ai quali
viene contestato il reato di associazione a sfondo razziale e discriminatorio, oltre al furto
della toppa sul giubbotto di un rivale antifascista, dopo una rissa, e l’incendio del circolo
Arci Ghezzi risalente al 2008. Davanti ai giudici in seduta collegiale, il pubblico ministero
Laura Siani ha elencato le richieste di condanna per i 10 imputati per un totale di 33 anni.
Alle richieste del pm è stata aggiunta, dalla parte civile, una ammenda di 40mila euro in
favore dell’Arci «per danni morali».
«Servono delle pene esemplari — ha detto in aula l’avvocato di parte civile —. In questo
lungo processo si è discusso dei motivi che hanno portato all’incendio dell’Arci. Gli
imputati hanno detto di aver agito per noia, credo invece che sia un vero e proprio
attentato che sarebbe potuto finire in tragedia visto che è una zona ad alta intensità
abitativa». Ieri sono stati ascoltati anche i testimoni chiamati a depositare dalla difesa: due
amici degli imputati e il padre di due degli imputati: «I miei figli sono persone tranquille e
solari — ha detto —. Amano stare in compagnia e non hanno pregiudizi razziali». La
difesa promette battaglia: «Abbiamo un asso nella manica, chiederemo l’assoluzione. E se
arriva la condanna, ricorreremo in appello».
di Carlo D'Elia
http://www.ilgiorno.it/lodi/cronaca/2014/05/09/1062907-Bombe-Gay.shtml
4
ESTERI
del 09/05/14, pag. 6
La bandiera di Assad ad Aleppo, la “capitale”
dei ribelli
Chiara Cruciati
Siria. Bombe contro l’hotel dell’esercito
Aleppo e Homs restano il cuore del conflitto siriano, passate ad un mese dalle elezioni da
roccaforti delle opposizioni a teatro dell’avanzata del regime di Bashar al-Assad. Ieri,
mentre l’albergo usato ad Aleppo dall’esercito di Damasco come caserma saltava in aria,
sventrato dalle bombe dei ribelli, Homs assisteva al definitivo ritiro dei miliziani anti-Assad.
L’attacco all’hotel Carlton Citadel, in piena Città Vecchia, è stato già rivendicato dal Fronte
Islamico, formazione jihadista sorta negli ultimi mesi tra i ranghi delle opposizioni islamiste.
I ribelli hanno scavato un tunnel di 400 metri lungo l’albergo: almeno 14 le vittime tra i
soldati, numerosi gli edifici vicini danneggiati dall’esplosione.
Un’esplosione dal forte significato simbolico: nonostante la città sia ormai sotto il controllo
quasi totale del regime, le opposizioni sono ancora in grado di penetrare nelle falle della
difesa di Assad. Altrettanto simbolica (ma soprattutto fondamentale sul piano strategico) la
bandiera issata ieri dall’esercito del presidente a Homs, fino a poco tempo fa roccaforte
dei ribelli e oggi quasi del tutto ripulita dalla presenza del laico Esercito Libero Siriano e
del Fronte al-Nusra. Ieri anche questi ultimi hanno ceduto e accettato l’accordo con il
regime: abbandonare le armi e lasciare la città, in cambio della vita. 1.200 miliziani, a
bordo di bus fatiscenti, hanno lasciato quella che i media occidentali avevano prontamente
definito la “capitale della rivoluzione”. Una città fantasma: pochissime le famiglie ancora
residenti ad Homs, distrutta da scontri e bombardamenti quasi quotidiani. Ora — annuncia
il governatore Barazi — è tempo di ricostruire.
Per i ribelli la caduta di Homs è una sconfitta pesantissima, per Assad il migliore sponsor
pre-elettorale: il regime ha saputo riassumere il controllo di gran parte del corridoio che
collega Damasco alle città costiere. E se Washington prosegue con l’incondizionato
appoggio (finanziario e diplomatico) ad una Coalizione Nazionale senza più una reale
presenza sul terreno, l’Ovest della Siria assiste ad un conflitto interno senza precedenti tra
le formazioni qaediste. A brindare è solo Assad.
del 09/05/14, pag. 21
La Francia è il paese più colpito ma ci sono già dei casi italiani Partono
anche molti ragazzi, all’insaputa delle famiglie L’intelligence: tornano
indottrinati e sono un pericolo
“Quindicimila in Siria per combattere”
Summit a Bruxelles sui jihadisti europei
ANAIS GINORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
5
PARIGI .
Il numero verde è in funzione da appena dieci giorni, ma ha già ricevuto ventiquattro
telefonate. Sono genitori che cercano i loro figli. Molti raccontano di un sms o di una lettera
ricevuti poco prima della scomparsa. I messaggi si assomigliano tutti. «Vado a difendere le
vittime innocenti di un regime assassino». «Parto per un’operazione umanitaria». «Sono
un combattente della guerra santa». Il governo francese si trova davanti a una nuova
emergenza, un flusso di ragazzi, talvolta minorenni, che da mesi prendono un biglietto di
sola andata per la Siria. Un allarme ormai diffuso in tutta l’Europa. Secondo diverse fonti di
intelligence, sarebbero quindicimila i nuovi jihadisti occidentali che hanno deciso di
imbracciare le armi accanto agli insorti contro Bashar al Assad.
Ieri si è tenuto a Bruxelles il primo vertice dei ministri dell’Interno dedicato alla nuova
“guerra santa” che fa proseliti tra i cittadini europei. Un fenomeno nuovo e finora
incontrollato, tanto che il summit è servito innanzitutto a mettere insieme dati. La Francia,
dove vive la più numerosa comunità musulmana del continente, è il paese più colpito.
Secondo il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, sarebbero circa 500 i militanti
arruolati e già 23 i jihadisti francesi morti in combattimento. Quattrocento partenze
sono state accertate nel Regno Unito, quasi duecento in Belgio, un centinaio in Olanda,
solo una decina in Germania. In Italia l’allarme è circoscritto, l’unico caso conosciuto è
quello del genovese Giuliano Delnevo, morto a giugno nell’assedio di Aleppo. Dopo tre
anni di guerra, il conflitto in Siria è diventato internazionale. La cooperazione tra le
intelligence ipotizza un piccolo esercito di 15mila stranieri provenienti da paesi occidentali.
Il vertice europeo dovrebbe servire a rafforzare la cooperazione tra le polizie per la
prevenzione e il controllo dei militanti che tornano poi in patria, dopo un forte
indottrinamento. Nella riunione erano presenti rappresentanti della Turchia, del Marocco e
dalla Tunisia. Esiste ormai una filiera di nuove leve ben collaudata attraverso Internet e i
social network, ma anche la complicità di paesi vicini. «Questi jihadisti non atterrano in
Siria con il paracadute », è sbottato Moktar Lamani, rappresentante dimissionario dell’Onu
a Damasco.
Proprio a Bruxelles, nel quartiere di Vilvorde, i servizi segreti hanno registrato una
quarantina di partenze per la Siria nell’ultimo anno, tra cui i fratelli Ismael e Zacharia, 23 e
17 anni, scomparsi ormai da mesi. Altri due fratelli di Tolosa, Nicolas e Jean-Daniel Bons,
sono morti a Homs e Aleppo, dopo aver registrato un video su YouTube nel quale
invitavano i «musulmani francesi» a raggiungerli. La jihad attira anche ragazze: l’ultima
segnalazione viene da Carcassonne e riguarda Sarah, 17 anni. L’11 marzo è uscita per
andare a scuola. Tre giorni dopo ha telefonato a casa raccontando che era arrivata in
Siria.
Le famiglie scoprono spesso la radicalizzazione dei figli quando sono già scappati e
postano i loro selfie su Facebook imbracciando un kalashnikov. Alcuni genitori hanno
fondato un’associazione che ha diffuso online un film di denuncia dal titolo
“Indottrinamento: istruzioni per l’uso”. Il video è dedicato a “Nicolas, Billel, Jean-Daniel,
Sandra, morti in combattimento” e chiede il ritorno di “Nora, Sarah, Anissa e tutti i nostri
figli”. La lista potrebbe allungarsi ancora.
del 09/05/14, pag. 7
La strage di Odessa, le bugie di Majdan
Simone Pieranni
6
Ucraina. Tutto nasce dall’assalto dei gruppi ultras e di estrema destra al
presidio di tende dei filorussi qui pacifici. Poi molotov contro l’edificio e
spari a chi tenta la fuga
Secondo alcuni testimoni, il rogo della sede dei sindacati di Odessa, avrebbe causato
molti più morti dei 46 ufficiali. Di sicuro si è trattato dell’avvenimento più tragico, da quando
il conflitto tra Kiev e i filorussi dell’est è iniziato. Un evento accaduto in una città che fino a
quel momento non era stata al centro degli scontri. Quanto avvenuto a Odessa è stato
ripreso nell’immediatezza dei fatti da quasi tutti i media del mondo, ma pochi giorni dopo
ha finito per essere quasi dimenticato, forse sopraffatto dalla cronaca e dalle dinamiche
degli eventi, che mettono in grave imbarazzo Kiev e tutti quanti hanno — fin dall’inizio —
dipinto la «rivoluzione» di Majdan come romantica ed eroica.
La verità è che a Odessa è successo qualcosa di molto grave, anche perché come
dimostrano immagini e video, l’attacco è stato effettuato contro esponenti filorussi, che
avevano creato nello spazio antistante il palazzo dei sindacati una sorta di accampamento
del tutto pacifico. Dalle immagini di cui siamo a disposizione, e si tratta di riprese piuttosto
chiare per quanto riguarda la ricostruzione degli eventi, si può affermare che il presidio di
fronte al palazzo dei sindacati fosse di persone comuni e non armate, come è capitato
invece di vedere in altre zone del paese negli scorsi giorni. La notizia del rogo è stata fin
da subito descritta con toni tragici, glissando però su responsabilità e protagonisti.
I media — specie quelli italiani — si sono immediatamente fidati della versione di Kiev. Il
governo autoproclamato di Majdan ha fin da subito affermato che l’incendio poteva essere
stato causato dagli stessi filorussi. In seconda battuta si è detto che forse le cose non
erano così chiare: le responsabilità erano sia dei filorussi, sia, forse, anche di chi si era
scontrato con loro, lasciando intendere che dietro i «separatisti» ci fosse la presenza di
Mosca, desiderosa di avere un caso drammatico, su cui basare un’eventuale invasione.
Nella ricostruzione pesano tutte le parole, sia quelle di Kiev, sia quelle dell’ambasciatore
americano in Ucraina.
Proprio lui, infatti, ha specificato che non ci sono «prove» circa una responsabilità russa
nel massacro di Odessa. Non solo, perché Geoffrey Pyatt — che ha detto queste cose alla
Cnn, non alla russa Rt — ha anche specificato che «la cosa peggiore sarebbero le prove
dei video; queste dimostrerebbe una grave responsabilità della polizia nell’incendio e
nell’incapacità di gestire la situazione».
Cos’è successo quindi? A quanto si sa, tutto sarebbe nato da un corteo degli ultras del
Chernomorets Odessa, uniti a esponenti del gruppo nazista di Settore Destro, che
avrebbero caricato i manifestanti nelle tende di fronte al palazzo dei sindacati. Alcuni
video, che riprendono dall’alto la scena, dimostrano quanto accaduto: si vedono i tendoni,
verdi; poi sulla destra spunta una massa di persone, con bandiere ucraine. Sembrano
arrivare di corsa e attaccano quanti stavano sulla piazza.
Le immagini successive dimostrano l’inizio dell’incendio nella piazza: i tendoni vanno a
fuoco, le persone scappano, molti di loro si rifugiano all’interno del palazzo. Nei pressi, nel
frattempo cosa succede? Poco prima, immagini dimostrano che alcune ragazze,
presumibilmente attiviste pro Majdan, preparano — quasi in catena di montaggio — le
bottiglie molotov. I video che suggellano i momenti terribili in cui il palazzo prende fuoco,
mettono in evidenza alcuni elementi: da fuori ha inizio una pioggia di bottiglie molotov
contro il palazzo, mentre dall’interno si vedono divampare le fiamme.
Nel frame di un video on line, un poliziotto è intento a sparare alle persone che dalle
finestre cercano un modo per sfuggire al rogo. Si buttano giù, non vedono altra soluzione.
Altre immagini dimostrerebbero inoltre la partecipazione di milizie di Settore Destro: tanto
fuori dal palazzo (si distinguono per una fascia rosso nera al braccio), tanto in cima al
palazzo (dove si ritrovano persone con la stessa fascia).
7
Quest’ultime sparano su chi, intrappolato, prova a scagliarsi fuori dal palazzo. Anche altre
persone sparano e secondo alcune ricostruzioni si tratterebbe di attivisti pro Majdan. In
rete per altro, frange neonaziste hanno partecipato alla diffusione di immagini al riguardo.
E nei messaggi c’è una piena rivendicazione del massacro. Uno di loro scrive: «Bravo
Odessa, vero spirito ucraino! Lascia i diavoli bruciare all’inferno».
Una testimonianza particolarmente importante è stata quella di Tatiana Ivananko,
sopravvissuta alla strage. All’emittente russa Rt ha raccontato i momenti terribili
dell’attacco, della fuga e un particolare increscioso, che gira da molto tempo, specie su
internet. Chi ha attaccato i filorussi, avrebbe anche «finito» alcuni di loro, sopravvisuti, con
mazze e armi da fuoco.
del 09/05/14, pag. 16
Ucraina, avanti tutta dei separatisti nell’Est
Il referendum si farà
Giuseppe Sarcina
I separatisti si sentono già uno Stato indipendente, lontano dall’Ucraina. Ore 13 di ieri:
conferenza stampa super affollata all’undicesimo piano (ascensore rotto) del
Governatorato chiuso dalle barricate. Annuncio solenne da parte del leader Denis Pushilin:
«Il Consiglio popolare della Repubblica del Donbass ha approvato all’unanimità la
decisione di confermare il referendum dell’11 maggio». Poco dopo la stessa notizia arriva
dal capoluogo dell’altra regione di confine, Luhansk e, ancora, da Sloviansk, la città fortino
dei filorussi dove ieri sono continuati gli scontri ai posti di blocco tra miliziani e mezzi
blindati dell’esercito di Kiev.
Da Mosca nessun commento. «Abbiamo bisogno di più informazioni», si è limitato a dire
Dmitri Peskov, il portavoce di Vladimir Putin. Una precisazione poco credibile. Il gruppo
dirigente dei separatisti di Donetsk ha stretti legami con Viktor Yanukovich, l’ex presidente
che sta tentando di condizionare il nuovo corso ucraino con il sostegno politico-finanziario
del Cremlino.
I dirigenti di Donetsk «ringraziano Putin, un grande leader», ma «il popolo del Donbass
agirà sulla base del principio di autodeterminazione». Donetsk, dunque, va avanti. La
diplomazia internazionale rimane concentrata, invece, sul Cremlino. La cancelliera
tedesca Angela Merkel appare la più determinata a prendere sul serio Putin, che due
giorni fa aveva definito «un passo avanti nella giusta direzione», le elezioni presidenziali
fissate in Ucraina per il 25 maggio. «Al presidente Putin continuo a chiedere di invitare le
forze pro-russe in Ucraina a consegnare le armi e a lasciare gli edifici occupati», ha
dichiarato la cancelliera. Merkel, nello stesso tempo, ha sollecitato il governo di Kiev a
essere meno intransigente e a favorire il dialogo con i filo russi dell’Est. Come spesso
accade, si lavora anche con i simboli. Il Cremlino prevede la partecipazione di Putin (che
ieri non lo ha «escluso») alla cerimonia per il 70° anniversario dello sbarco in Normandia.
Il presidente francese François Hollande assicura: «Putin sarà il benvenuto».
In realtà ancora non si vede con chiarezza una via d’uscita alla crisi ucraina. La mossa
distensiva di Putin è ambigua. L’effettivo ritiro delle truppe dal confine, per esempio, resta
ancora da dimostrare, come sostengono il segretario di Stato americano John Kerry e il
numero uno della Nato, Anders Fogh Rasmussen. Putin potrebbe aver semplicemente
adottato un diversivo: chiedere il rinvio di un referendum da lui stesso finanziato,
prevedendo la risposta movimentista della piazza e contando di utilizzarla nel dialogo con i
8
governi europei. Una specie di alibi preventivo: avete visto? Non sono io che li controllo.
L’obiettivo più immediato del presidente russo è quello di fermare l’inasprimento delle
sanzioni, mantenendo, però, la tensione alta nel Sudest dell’Ucraina. Lunedì 12 maggio il
consiglio Affari esteri della Ue potrebbe estendere le misure punitive alle «società
coinvolte nella confisca di beni in Crimea». Una piccola stretta, niente a che vedere con la
«fase tre», cioè le restrizioni dirette su petrolio e gas. Ma, probabilmente, un segnale
sufficiente, insieme ad altri, per suggerire una variazione tattica al Cremlino.
del 09/05/14, pag. 12
Petrolio e fantasmi
Pablo Castellani
JUBA
L'ultima. Nel nuovo stato del Sud Sudan, chi controlla le zone dei pozzi
petroliferi, unica risorsa del paese e luoghi ormai sinonimo di
desolazione e morte, decide le sorti del conflitto. I militari sono
ovunque, in moto, ai check point. Scrutano chiunque, armati di Ak47
A vederla adesso, ad una occhiata poco più che superficiale, Juba sembra una città
tranquilla. Caotica certo, come altre città africane, sporca, degradata, sovraffollata, ma
tranquilla. Girando per le strade della capitale del Sud Sudan non si ha percezione di
quanto succede a poche centinaia di chilometri, a nord, negli stati di Jonglei, Unity, o ai
confini con il Sudan, il vecchio avversario di sempre. Non si sentono spari tranne qualche
colpo esploso di notte, ma spesso è solo la polizia che interviene a sedare i disordini che
scoppiano quando il coprifuoco cala e si alzano troppo i gomiti.
Ad osservare attentamente, invece le cose non vanno per niente bene. Militari ovunque, in
piedi sulle camionette a scrutare la gente armati di Ak47, in moto, in gruppi intorno ai mille
presidi sparsi per la strada. Ovunque è possibile incrociare lo sguardo sospettoso di un
soldato governativo alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa da segnalare al superiore.
Aggirarsi con l’attrezzatura fotografica è rischioso ora, molto più di qualche tempo fa,
quando il paese era in festa per l’indipendenza e nessuno si preoccupava per una
fotografia.
Il rischio adesso è di essere rapinati da uno dei tanti gruppi di persone agli angoli delle
strade, spesso ubriachi e senza niente da fare, o peggio ancora essere arrestati dai
militari. Sono nervosi, non ascoltano ragioni e non basta avere documenti e permessi in
regola per convincerli. Basta poco e ti portano via in caserma per un interrogatorio.
Al bivio per la strada del nord, subito dopo aver attraversato il Nilo, alla periferia di Juba, si
incrociano di continuo i convogli militari diretti in territorio di guerra. Spesso si tratta di
camion merci riadattati al trasporto truppe. I soldati stanno appollaiati sul tetto, gobbi come
avvoltoi con le facce truci e rassegnate. Sono i soldati dell’Spla, l’esercito governativo, che
vanno a combattere i ribelli di Riek Machar, l’ex vicepresidente. La sua casa, nel centro di
Juba, sorge a pochi passi da quella del presidente Salva Kiir. Riconoscerla è facile perchè
è l’unica residenza signorile ad avere il cancello sfondato da una cannonata, i vetri infranti,
gli appartamenti saccheggiati. È rimasta così dal 15 dicembre del 2013, quando il
presidente ha ordinato di attaccare la residenza di Machar dopo averlo accusato di un
tentato colpo di Stato. Machar quella notte si è dato alla fuga ed è scappato al nord, dove
ha costituito un esercito ribelle. Le avvisaglie di quanto accaduto risalgono al luglio 2013,
quando Riek Machar, da tempo in disaccordo con la politica presidenziale, aveva
9
proclamato che avrebbe sconfitto il presidente Salva Kiir nelle future elezioni politiche,
previste per il 2015.
Salva Kiir non prese bene questa notizia: temendo di perdere il controllo del governo e del
suo partito, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm), Kiir pochi giorni
dopo l’annuncio di Machar sospese tutti i ministri del governo con l’intento di fare un
«rimpasto nel rispetto della costituzione», e accusò Machar di stare tramando per attuare
un colpo di stato.
Da quell’evento le tensioni all’interno degli organi governativi e militari si sono fortemente
accentuate, andando ben al di là delle questioni politiche. Sono riemersi vecchi rancori
etnici mai sopiti, è riemersa l’antica rivalità tra le due principali etnie del Sud Sudan, Dinka
e Nuer. Salva Kiir è Dinka, il gruppo etnico che con il 38% di popolazione è il
maggioritario, mentre Riek Machar appartiene ai Nuer, circa il 17% della popolazione. I
due gruppi etnici sono rivali da sempre, addirittura dall’alba dei tempi secondo la loro
visione mitologica. Nuer e i Dinka sono due figli di Dio, il quale promise una mucca
anziana a Dinka e il suo vitello giovane a Nuer. Non contento di questo, il Dinka va nella
stalla di Dio, e imitando la voce di Nuer, si prende anche il vitello. Da qui l’antico rancore.
Dal momento in cui Riek Machar è stato accusato di tramare alle spalle di Kiir, esautorato
dal suo incarico politico e poi cacciato, gli odi tribali sono penetrati negli ambienti militari,
dove le appartenenze tribali e la fedeltà a un generale sono più importanti dei giuramenti
di fronte alla Costituzione di un paese ancora troppo giovane. All’interno dell’Spla i soldati
appartenenti alle due etnie hanno cominciato prima a guardarsi in cagnesco, poi a
minacciarsi e infine a combattere. L’infezione è passata di caserma in caserma. Prima a
Juba, poi in tutto il paese.
L’esercito ha sparato contro se stesso infiammando il Sud Sudan, e la notte del 15
dicembre Juba è precipitata nel caos. Membri Nuer dell’esercito, soldati, battaglioni,
generali fedeli a Machar sono fuggiti al nord per ricongiungersi con i ribelli, mentre il resto
dei soldati, su ordine di Kiir assaltava l’abitazione dell’ex vicepresidente e terrorizzava la
popolazione civile della capitale.
Dei circa 300 mila abitanti di Juba, quasi 40 mila erano Nuer, la maggior parte dei quali
abitavano nello stesso quartiere: Gudele, case di lamiera, plastica, baracche. Quella notte,
l’esercito governativo circondò Gudele e rastrellò casa per casa tutti i Nuer che riuscivano
a prendere. Omicidi a sangue freddo di uomini, donne e bambini, stupri. Ogni tipo di
atrocità è stata commessa sulla povera gente quella notte in nome della supremazia Dinka
e del governo di Salva Kiir. Gudele ora è un quartiere fantasma, pieno di militari ben
armati che si aggirano per le baracche, vietato agli occhi della stampa. Il governo di Salva
Kiir non vuole che il mondo veda quello che è successo. Non vuole che si sappia che in
Sud Sudan l’odio etnico si sta trasformando in qualcosa di peggiore. «C’è puzza di
genocidio» abbiamo sentito, «un altro Rwanda». Siamo riusciti ad entrare nella zona e fare
alcune riprese di nascosto, rischiando di essere scoperti. L’atmosfera di Gudele è
spettrale, fa venire i brividi, soprattutto sapendo ciò che in mezzo a quelle strade sterrate e
in quelle baracche è successo. I segni della lotta sono ancora ben visibili: porte e recinti
sfondati, mezzi abbandonati, vestiti in terra.
Non tutti gli abitanti di Gudele hanno subito le atrocità di quella notte. Alcuni hanno
raccolto in fretta e furia qualche vestito, del cibo, e sono scappati. Hanno percorso a piedi,
nel buio della notte, la strada che li separava da Gudele alla base Onu di Tomping, e per
loro fortuna i caschi blu hanno aperto le porte. Da quella notte, circa sedicimila Nuer
vivono asserragliati nelle due basi Onu di Juba. Gli operatori umanitari delle varie ong ci
dicono che la situazione nei campi è estrema. Sono in piena emergenza umanitaria, a
rischio colera, malaria, malnutrizione. Un abitante di Juba House, l’altra base racconta che
10
«i soldati hanno preso un bambino e l’hanno trascinato in strada. Gridava che non aveva
fatto niente, che era solo uno studente, ma l’hanno fucilato lo stesso».
La situazione è precipitata in fretta in tutto il paese, specialmente al nord dove gli scontri
tra Spla e ribelli sono più forti. È la zona dei pozzi di petrolio, l’unica vera risorsa di questo
paese, e chi controlla i pozzi può decidere le sorti del conflitto. Alcuni dei distretti più
importanti, come Malakal, sono ormai sinonimo di desolazione e morte. I morti causati dai
due schieramenti non si contano più: la città passa continuamente di mano, chi arriva fa
piazza pulita e Malakal è una landa desolata, non importa chi comandi. Dal giorno della
proclamazione dell’indipendenza sono cambiate molte cose. Chi ha partecipato alle
celebrazioni del primo anno di vita di questo paese ricorda un popolo in festa. In quei
giorni i sudsudanesi si sentivano al centro del mondo. Dignitari di tutto il mondo erano in
città, giravano con i loro suv, le berline e la scorta. «How are you? I’m fine!» La maggior
parte della popolazione non sa dire altro in inglese, ma a quelli che ti fermavano per strada
bastava, in quei giorni lontani.
del 09/05/14, pag. 19
“L’India di Modi non mi piace, porterebbe gli
affaristi al potere”
Amartya Sen: i Gandhi e il Congresso hanno fallito
Danilo Taino
Amartya Sen alza l’indice della mano sinistra e mostra felice l’unghia, sporcata da una
striscia di inchiostro indelebile antifrode: è il segno che ha votato. A 80 anni, è volato da
New York a Delhi, da Delhi a Calcutta e da lì ha preso un taxi — «tre ore di viaggio» dice
— per raggiungere la sua città d’origine, Bolpur, uno dei centri della cultura e
dell’istruzione del Bengala Occidentale, e premere il tasto del voto elettronico. Perché è
convinto che le elezioni in corso in India — si concluderanno il 12 maggio e i risultati si
sapranno il 16 — siano davvero rilevanti per la democrazia più popolosa del pianeta. «Per
la prima volta — sostiene — si sta realizzando l’alleanza tra business e nazionalismo indù
nella persona di Narendra Modi. E possono anche prendere il potere». Sul versante
opposto, «il partito del Congresso e i Gandhi, Sonia e Rahul, hanno molto sbagliato» e alla
fine, dopo dieci anni di governo, sono arrivati «al collasso morale».
Sen, filosofo ed economista, premio Nobel, in questi giorni è in Italia per partecipare a una
serie di dibattiti: oggi, a Milano, terrà una lezione su Alimentazione e popolazione in
occasione del lancio del Laboratorio Expo organizzato dalla Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli ed Expo Milano 2015. È uno degli intellettuali più influenti in tema di sviluppo ma
anche su questioni filosofiche, sulla democrazie, sulla povertà. In questa intervista, dice di
essere «triste» per la situazione in cui è finito il Congresso: «Per me è ancora il partito
della lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, il partito laico che si è opposto alle
divisioni etniche e religiose». Negli ultimi anni è però precipitato: «Prima ha perso il talento
del buon governo, poi la capacità di governare, poi la volontà di governare e infine è
arrivato al collasso morale».
La dinastia Nehru-Gandhi (storicamente la spina dorsale del partito) «ha avuto un ruolo
rilevante nel declino del Congresso»: dice che «è una famiglia ingiustificatamente
potente». Nel senso che al momento dell’indipendenza, nel 1947, Jawaharlal Nehru era un
padre della patria ed era giusto che fosse primo ministro. Anche sua figlia Indira Gandhi
aveva un grande senso del potere. Ma poi le ragioni per affidare alla dinastia il comando
11
sono via via venute meno e oggi Sonia che incorona Rahul, quasi 44 anni, a candidato
primo ministro è poco credibile. «Conosco Rahul — dice il professore — da quando
studiava al Trinity College di Cambridge. È una persona piacevole, ma non è mai stato
interessato alla politica. Nel tempo è migliorato ma prima di candidarsi a guidare il Paese
avrebbe dovuto fare un’esperienza da ministro o da governatore di uno Stato. Ora, invece,
dà l’idea di essere un peso leggero più di quanto non lo sia in realtà». Sen pensa che i
Gandhi siano più attenti di altri agli aspetti umani della politica. Ma, fondamentalmente,
alimentano il declino del Congresso. «Attenzione, però: anche dopo l’Emergenza
(autoritaria, ndr ) imposta da Indira nel 1975-77, il Congresso sembrava finito, poi riuscì a
ricostruirsi. Io non ne scriverei ancora il necrologio».
Sen sa che le elezioni saranno vinte da Modi, il candidato a primo ministro del Bjp, il
partito nazionalista indù. Non può sapere però se riuscirà ad avere i seggi sufficienti per
governare da solo. Spera di no: «Mi auguro che sia costretto a una coalizione, ammesso
che riesca a trovare alleati: serve qualcuno che lo controlli». Il suo timore non sono solo il
nazionalismo e le divisioni religiose che Modi potrebbe suscitare. La preoccupazione
maggiore è che l’ideologia del Bjp e i numeri (l’80% degli indiani è di religione induista) si
mettano al servizio del mondo degli affari, senza più bilanciamenti. «Tutti siamo a favore
del business – afferma –. Ma nessuno vuole essere dominato dal business». La crescita
economica — spiega — è importante. Ma le arretratezze sociali dell’India, soprattutto
nell’istruzione e nella salute, sono un problema chiave. «Non sono solo questioni di
standard di vita. Già oggi sono un elemento centrale di freno alla crescita stessa». E a suo
avviso vanno messi al centro della discussione: per questo dall’anno prossimo programma
di passare del tempo in India, tra un corso di filosofia un anno, uno di economia l’anno
dopo, un progetto di matematica e uno di medicina, tutti alla sua università, Harvard. Si
annunciano dibattiti di fuoco.
Sulla questione crescita attraverso liberalizzazioni opposta a interventi a favore di
istruzione e salute, infatti Sen è già stato criticato, con clamore, dall’altro grande
economista indiano che insegna in America, Jagdish Bhagwati, della Columbia,
sostenitore della prima impostazione, più aperta al business. «È un bravo economista —
dice Sen —. Ma vorrebbe diventare consigliere di Modi. E forse ci riuscirà». La vera
differenza — aggiunge guardandosi l’unghia — «è che lui è diventato americano mentre io
sono rimasto indiano e faccio la coda per votare».
12
INTERNI
del 09/05/14, pag. 2
La nuova Tangentopoli
Sette arresti per l’Expo c’è anche Greganti
In manette per corruzione negli appalti il dg Paris il pm Robledo non
firma l’atto e accusa Bruti Liberati
MILANO .
A oltre vent’anni dal loro coinvolgimento in Mani pulite, l’ex segretario della Dc lombarda
degli anni ‘80, Gian Stefano Frigerio e il collettore delle tangenti rosse, Primo Greganti, si
ritrovano in cella con le medesime accuse di mazzette. Stesso destino per Luigi Grillo, fino
al marzo 2013 parlamentare del Pdl, anche lui ex Dc, già coinvolto nell’inchiesta sulla
scalata ad Antonveneta. Con loro, il direttore generale della pianificazione e acquisti di
Expo, Angelo Paris, l’ex segretario Udc Liguria, Sergio Cattozzo e l’imprenditore vicentino,
Enrico Maltauro. Agli arresti domiciliari Antonio Rognoni, ex direttore generale di
Infrastrutture Lombarde, già finito in carcere il 24 marzo per una serie di turbative d’aste
nell’assegnazione degli appalti dell’Expo. L’accusa dei magistrati Ilda Boccassini, Claudio
Gittardi e Antonio D’Alessio parla di associazione a delinquere, corruzione e turbativa
d’asta e si riferisce, in gran parte, proprio alla gestione degli appalti di Expo. La richiesta
d’arresto — avallata dal gip Fabio Antezza — è firmata anche dal
procuratore milanese, Edmondo Bruti Liberati, che nel presentare l’operazione scattata ieri
ha sottolineato come il responsabile del dipartimento dei reati contro la pubblica
amministrazione, Alfredo Robledo, «non ha condiviso» l’impostazione dell’indagine e «non
ha vistato» gli atti dell’inchiesta. C’era anche questa inchiesta nell’esposto presentato il
mese scorso al Csm da Robledo contro la gestione di Bruti. Sul mancato visto Robledo,
ascoltato il 14 aprile, si era giustificato sostenendo di non essere stato messo in condizioni
dal procuratore di fare una valutazione sulla posizione di un indagato. Per questo lo
avvertì che senza modifiche non avrebbe messo il visto e così accadde. «Quando è stata
fatta una richiesta di integrazione, proprio su quella posizione, su quella persona — ha
raccontato Robledo al Csm — il procuratore mi ha mandato invece il provvedimento e
quindi io non sono stato messo (in violazione della normativa, ritengo) in condizioni di fare
una valutazione necessaria. Ho scritto al procuratore dicendo che il visto non è stato posto
su nessun’altra» richiesta di misura cautelare.
del 09/05/14, pag. 1/13
Ora e sempre Tangentopoli
ALBERTO STATERA
“SCUSATE il ritardo, il compagno G. è tornato”. Forse non ci crederete, ma è proprio
questo il titolo che ha voluto dare alla sua autobiografia Primo Greganti, il roccioso
funzionario del Pci-Pds che, detenuto a San Vittore per sei mesi all’epoca di Tangentopoli,
mai crollò durante gli interrogatori, meritando “da eroe” il titolo di “Uomo di marmo”, tardo
epigono italico dell’”Uomo d’acciaio” di Mao Tse Tung.
13
SCUSATE il ritardo, ma è tornato davvero in galera solo ieri il compagno G., ironia della
storia che è prodiga di vendette, proprio nel giorno dell’arresto di Claudio Scajola, l’ex
ministro dell’Interno berlusconiano, frequentatore delle patrie galere fin da giovanetto,
quando sindaco di Imperia finì in cella accusato di tangenti sull’appalto del Casinò di San
Remo, e di Gianstefano Frigerio, antico pregiudicato, ex segretario della Dc lombarda ed
ex deputato di Forza Italia. Arrestati insieme a piccola parte dell’ormai tradizionale e
immenso sistema affaristico del berlusconismo, che da qualche lustro rimpingua le
cronache giudiziarie dell’Italia degli affari sporchi.
Da una parte, ventidue anni dopo, il compagno G., l’uomo che sfatò comunque il mito della
“diversità” del Pci-Pds. Dall’altra, la struttura criminale che ha governato il paese durante
un intero ventennio, capeggiata da un pregiudicato che oggi gode di privilegi mai visti in un
paese di democrazia avanzata e composta di personaggi da Chicago anni Venti che
periodicamente ricompaiono nello sfondo. Come il noto Cesare Previti, ex ministro della
Repubblica che, pur non indagato, rispunta nelle vicende legate agli appalti dell’Expo di
Milano del 2015. Chi era l’anima bella che poteva pensare il grande evento milanese,
gonfio di miliardi, fosse immune dalle strategie rapinose di una classe dirigente tuttora
purtroppo coinvolta nel governo del paese? Tutto già visto, tutto purtroppo già previsto.
“Oggi è già ieri” si chiamava il remake del film americano “Ricomincio da capo”, con Andie
MacDowell, nel quale lo stesso giorno si ripeteva tutto con le stesse persone. Gli stessi
incontri, le stesse frasi ripetute giorno dopo giorno ossessivamente, fino allo sfinimento.
Torna dopo vent’anni il Compagno G., che se stavolta riafferma l’estraneità del suo partito
forse dice la verità (ma le cooperative?). E torna, come in un destino persecutorio e
ossessivo, il suo contrario, che fu Gianstefano Frigerio, segretario regionale lombardo ai
tempi di Tangentopoli. Mai Frigerio fu di marmo, come il suo omologo diciamo “di sinistra”.
Fu sempre di pastafrolla Gianstefano. Fu lui a raccontare tutto — la Cupola che si spartiva
gli appalti, le tangenti, i miliardi ai partiti — al giovane e allora super- ormonico Antonio Di
Pietro. Si vedevano al ristorante in via Morigi a Milano il Frigerio, con Maurizio Prada,
cassiere della Dc, e Sergio Radaelli, tesoriere occulto del Psi di Craxi. Di Pietro
li ascoltò per mesi a raccontare nefandezze intorno al desco, poi una sera disse loro: «Ora
mettiamo a verbale». Furono tutti un fiume in piena e raccontarono il grande teorema della
Cupola, come si dividevano da sempre le tangenti tra i partiti, con i tavoli tra le grandi
imprese e le algebriche divisioni secondo i pesi elettorali e di potere. Fu allora che
Frigerio, che oggi si direbbe “’a carogna”, fu soprannominato “l’infame”, per distinguerlo da
Greganti, detto “la tomba”. Ma si trattava di difendere un sistema che nel ventennio
precedente, come in quello successivo, sugli affari personali, le nuove ricchezze di rapina,
ha fondato la sua esistenza.
Ora Greganti, l’ex “uomo di marmo”, intermedia per sé, come sostenne senza esitazioni,
ma forse mentendo, un ventennio fa. Gli altri sono i soliti campioni del verbo
berlusconiano: ”Andate e arricchitevi”. Come? Come potete.
Chi pretendeva “contanti” di sfioro sugli appalti, come Frigerio, già espertissimo da tanti
anni su quelli della Metro milanese, chi lo 0,8 per cento sul business, come Greganti, con
la sua società. Politici di riferimento? Certo, ma non servono più come una volta, quando
contavano di più. Ormai il sistema è personale, con i politici sullo sfondo.
Non dite perciò, per favore, che è la nuova Tangentopoli. E’ peggio, molto peggio. E’ un
sistema diverso, sul quale non incide il Manuale Cencelli dei pesi elettorali, che serviva a
dividere esattamente le percentuali tangentizie, ma la capacità affaristica dei singoli.
Certo, la politica poi potrà agevolare avanzamenti di carriera, nomine pubbliche, come da
decenni fanno per mestiere Gianni Letta e il suo braccio operativo Luigi Bisignani: generali
dei carabinieri, della Finanza, prefetti comprensivi e vogliosi di carriera, supermanager in
14
servizio permanente e effettivo, la cui riconferma è legata ai circoli che contano. O
imprenditori “di sistema.”
Prendete Enrico Maltauro, capo della più grande impresa veneta di costruzioni, che ha
dilagato ovunque e che riempie le cronache giudiziarie senza che nessuno si sia chiesto
se è magari opportuno escluderlo dai più grandi appalti. Arrestato nel ‘92, quando
imperava la Cupola dei lavori pubblici governata dagli uomini della Dc e del Psi, Maltauro
è rientrato alla grande nel giro, come Frigerio e Greganti. Peggio, come uno dei padroni
degli uomini dell’Expo 2015. Non doveva essere, l’evento epocale milanese l’epitome della
trasparenza, cristallino e basta? Niente ‘ndrangheta, niente appalti truccati, niente
Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere, niente Lupi, niente Formigoni, che
forse si appresta ormai a conoscere non più gli agi delle case dei Memores Domini, ma i
disagi di case meno accoglienti.
Si sono sbracciati tutti per l’Expo, futuro emblema dell’Italia che rinasce. Così dicevano i
mille sponsor del grande evento epocale, compresi il povero Roberto Maroni, vittima
sacrificale di una nuova Tangentopoli che probabilmente gli passa un miglio sopra la testa,
e persino Matteo Renzi, che ha dovuto gratificare l’immensa retorica per l’evento, diciamo
“per contratto”. I politici furbi hanno fatto come Luigi Grillo, ex parlamentare di Forza Italia
e del Pdl, che ha capito tutto. Macché Parlamento, è fatto per quei poveretti disoccupati e
sfigati dell’omonimo Grillo (Beppe) e per le badanti di Berlusconi. Meglio farsi una società.
Così, dopo aver difeso a suo tempo, naturalmente per interesse, l’ex governatore della
Banca d’Italia Antonio Fazio nell’indifendibile vicenda dell’Antonveneta, si è improvvisato
presidente della Termomeccanica, società comprata da un’altra vecchia gloria: Enzo Papi,
ex Fiat arrestato ai tempi di Tangentopoli. Quello che quando uscì da San Vittore si portò
via in sacchi della spazzatura neri viveri, caffè, fornelli, bombole del gas e pentole,
lasciando un ricordo indelebile di disgusto tra i suoi compagni di pena, che su quei pochi
resti di detenzione di un ricco e potente contavano.
Macchè “a volte”. Ritornano “sempre”. Perché mai se ne sono andati. Esattamente come
l’ex onorevole Scajola, forse tornato in galera “a sua insaputa”.
del 09/05/14, pag. 1
I capi-curva della vita italiana
Piero Bevilacqua
Le tangenti sul grande affare dell’Expò e le relazioni politiche per proteggere un latitante
colpiscono ma certo non meravigliano. Sono solo la conferma di quello che ogni anno la
Corte dei Conti denuncia sulla grande corruzione che divora le risorse del paese, e di
quello che l’intreccio tra politica e criminalità organizzata testimonia. E siamo sicuri che
l’episodio dell’Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache, è solo uno
squallido lacerto debordato dal mondo del calcio?
La scena di Genny ‘a Carogna, il capo-curva napoletano che tiene in scacco una
manifestazione sportiva a cui partecipano decine di migliaia di spettatori, presenziata da
alcune fra le maggiori cariche dello Stato, seguita in tv da milioni di spettatori, è stata resa
possibile solo dalla violenza plebea e dallo sterminato squallore che caratterizza da anni
l’ambiente calcistico italiano? O non è piuttosto la manifestazione drammatica, l’ultimo
gradino di degradazione cui è giunta la decomposizione dello spirito pubblico nazionale?
Perché Genny ‘a Carogna, non è un episodio, un lazzo folklorico uscito dai bassifondi
della vita napoletana. E’ un pezzo della nostra storia, reso legittimo dal filo rosso che
15
marchia da decenni il nostro passato e soprattutto preparato dagli sfregi subiti dalla
legalità repubblicana negli ultimi anni.
Ma come si fa – lo fanno televisioni e i giornali – a dare tanto spazio a questo episodio e ai
soliti strombazzati provvedimenti governativi e non dire nulla, o quasi, di ciò che
quell’episodio rappresenta, quale elemento di continuità allarmante viene a rappresentare
nel processo degenerativo della vita civile italiana? Forse che la capacità di ricatto di un
tifoso nei confronti dell’intero Stato è disgiungibile, ad esempio, dalla gara che tanti
giornalisti italiani (prevalentemente di sinistra) hanno ingaggiato per intervistare Berlusconi
nei loro programmi televisivi? I semplici di mente obietteranno: che cosa c’entra?
Ma Berlusconi ha subito una condanna definitiva per un reato grave contro la Pubblica
amministrazione che egli doveva rappresentare e tutelare. Non è dunque un pregiudicato,
che ha colpe nei confronti della collettività, e per questo, quanto meno, non deve essere
reso protagonista della scena pubblica nazionale?
Berlusconi non ha solo subito questa condanna. Com’è noto — e ci si dimentica volentieri
— si è macchiato di svariati delitti infamanti, alcuni accertati, altri prescritti, altri oggetto di
processi in corso — dalla corruzione dei giudici allo sfruttamento della prostituzione,
dall’”acquisto” di parlamentari alla concussione. Ora, non tutto è stato penalmente
sanzionato o è rilevante. Ma il pedigree politico di Berlusconi è indubbiamente quello di un
capo-curva, per così dire, della vita politica nazionale.
In qualunque paese civile d’Europa e del mondo egli sarebbe oggi in carcere e comunque
tenuto lontano dalla vita pubblica. Da noi succede l’impensabile: viene addirittura ricevuto
dal presidente della Repubblica, il 3 aprile scorso, per la seconda volta dopo la condanna.
La maggiore carica dello stato riceve un pregiudicato che ha inferto ferite gravissime al
senso della legalità del nostro paese, a partire dal conflitto di interessi.
Ma qualche superstite persona onesta è in grado ancora di domandarsi quale effetto
produce un simile evento nell’immaginario civile degli italiani ? Berlusconi è un condannato
o è stato graziato? O addirittura è innocente e il colpevole potrebbe essere Napolitano?
Da che parte è il torto da che parte è la ragione? Chi ha frodato il fisco per centinaia di
milioni? La magistratura italiana commina davvero sanzioni a chi delinque, o chiude un
occhio se il delinquente è un potente?
E allora di che stupirsi se i poliziotti applaudono i loro colleghi assassini, come hanno fatto
a Rimini, visto che essi sono rientrati in servizio dopo aver pestato a morte un ragazzo
inerme? Di che stupirsi se Giuseppe Scopelliti, ex presidente della regione Calabria,
condannato a 6 anni in prima istanza, viene candidato dal suo partito, membro del
governo, alle elezioni europee? Nel nostro paese i servizi segreti di uno statarello
dittatoriale possono sequestrare una persona (la Shalabayeva) e il ministro responsabile
(Alfano) , restare al suo posto. E’ ancora ministro dell’Interno del governo che “combatte la
palude”.
E’ questa la melma a cui è stato ridotto lo spirito pubblico del nostro paese. E’ questo il
cancro che si sta mangiando la nostra amata Italia, la causa vera e profonda del nostro
declino: l’inosservanza universale delle regole della vita comune, la legge del più forte
come principio di regolazione sostanziale del rapporto fra le classi e fra le persone.
Qualcuno sa dire con quale autorevolezza un ceto politico che ha sconvolto l’etica civile e
la decenza politica del nostro paese può chiamare i cittadini a concorrere a uno sforzo
collettivo di cambiamento e addirittura di salvezza? E non è vero che Renzi sta cambiando
verso, come va reclamizzando tra gli schiamazzi della sua petulante corte governativa e
parlamentare. Le sue scelte e la sua stessa parabola portano l’illegalità diffusa della
società italiana e dei partiti dentro le istituzioni. Senza essere stato eletto è a capo del
governo e pretende di riformare la Costituzione con un parlamento privato di legittimità da
parte della Corte costituzionale. Come ha ricordato con argomenti inoppugnabili
16
Alessandro Pace. (Repubblica, 26/3/2014) L’arbitrio e lo sconvolgimento delle regole, vale
a dire la morale di base della criminalità organizzata — che non a caso da noi, unici al
mondo, dura e prospera dalla metà del XIX secolo — si espande anche nelle istituzioni,
plasma la vita dei partiti, si fa strada dentro lo stato.
del 09/05/14, pag. 6
Così l’Expo è a rischio
Sala: “Mi hanno tradito ora 5 giorni per
salvarla pronti a cambiare tutto”
Il commissario: “Obbligato a riflettere” Il ministro Martina: “Martedì
viene Renzi”
ALESSIA GALLIONE ORIANA LISO
MILANO .
Cinque giorni per salvare l’Expo. Da quando è iniziata l’avventura, nel 2008, i rischi di non
farcela ci sono stati. Tra polemiche e risse politiche, ritardi, problemi economici, bufere
giudiziarie che finora, però, avevano soltanto lambito il grande evento e la società che
deve organizzarlo. Ma queste sono le ore più drammatiche, è la crisi più profonda che
l’Esposizione universale abbia mai affrontato. Perché questa volta, proprio quando manca
un anno all’inaugurazione del 1° maggio 2015 e i cantieri dovrebbero soltanto correre per
costruire la cittadella dell’alimentazione, la bomba è scoppiata in casa. Questa volta a
«tradire sorprendentemente la fiducia» che Giuseppe Sala dice di aver sempre avuto nella
sua squadra è stato uno dei suoi.
Angelo Paris è l’uomo a cui il commissario unico di Expo aveva affidato il compito cruciale
di sorvegliare le gare e i lavori. E ora, per rimettersi in piedi e riprendere a marciare, la
manifestazione ha bisogno di un nuovo assetto. È questo che Sala dice di dover trovare,
prima del prossimo martedì, quando il premier Matteo Renzi arriverà a Milano. Sono questi
i cinque giorni di «riflessione profonda sulle modalità di conduzione di Expo nel suo ultimo
anno di preparazione», di cui il manager parla. Da qui ad allora, dice, «intendo esaminare
le migliori condizioni di lavoro della società nell’esclusivo interesse dell’Expo, del Paese e
dell’assoluto rispetto della legalità». E tra questi punti c’è anche
l’impegno del governo che, adesso, dovrà trasformare in realtà le promesse fatte. Fino al
responso finale: il grande malato ce la farà?
Lo shock si è materializzato con la notizia degli arresti. E del «tradimento». Un’inchiesta
che, adesso, rischia di spazzare via gli sforzi per far correre l’evento, per trasformarlo
davvero in quell’occasione di cui si parla da anni. Dopo la festa in piazza della scorsa
settimana per celebrare il conto alla rovescia, dopo la serata a Roma con l’Onu, ieri
mattina Giuseppe Sala avrebbe dovuto partecipare a una conferenza stampa per siglare
un accordo con Ferrovie dello Stato. Tutto annullato. Il commissario è tornato a Milano, nei
suoi uffici di via Rovello dove per tutta la giornata è rimasto chiuso in riunione con i suoi. È
lì che ha vissuto il suo tormento più grande. Uno scoramento anche umano. Lo ha detto
chiaramente, in quelle poche parole dettate a tarda sera, dopo una lunga seduta del
consiglio di amministrazione: «Svolgo da sempre la mia attività professionale credendo nel
lavoro di squadra e nella lealtà dei comportamenti».
Paris non l’ha scelto direttamente lui, ma l’ha confermato e gli ha dato fiducia. Per questo,
spiega, «non intendo sottrarmi alla responsabilità che comunque è sempre in capo a chi
17
guida una società». Per qualcuno, nel momento più duro, avrebbe anche accarezzato il
pensiero estremo del passo indietro. «Io non sono attaccato alle poltrone», ha detto ai
suoi. Non una vera e propria volontà di dimettersi, giurano, ma di essere sicuro di poter
andare avanti con tutte le condizioni necessarie per farlo, sì. Subito dopo, sono arrivate
le attestazioni di stima: dal sindaco Giuliano Pisapia al governatore Roberto Maroni —
«Per me Giuseppe Sala ha la fiducia di Regione Lombardia» — fino al ministro con delega
a Expo Maurizio Martina. Che ha annunciato l’arrivo di Renzi: «Saremo a Milano per
rilanciare e rafforzare l’impegno di tutte le istituzioni a fianco del commissario unico ».
Un incontro quello di martedì che, ed è questo il messaggio che si legge nelle parole di
Sala, non potrà essere solo un appuntamento di facciata. Adesso la piattaforma da cui
rilanciare Expo deve davvero essere messa in campo. Lui, insomma, non sarebbe
disposto ad andare avanti a tutti i costi. Bisognerà sostituire rapidamente Paris, ma anche
il governo deve mantenere le promesse, nominare quel “super direttore dei lavori” e la task
force annunciata da tempo, mantenere gli impegni economici, trovare insieme le
condizioni per proseguire nella legalità.
del 09/05/14, pag. 1/18
Europee, 10 punti tra Renzi e Grillo
ILVO DIAMANTI
LE STIME di voto, elaborate in base al sondaggio condotto da Demos negli ultimi giorni,
forniscono indicazioni piuttosto chiare. Particolarmente positive per il Pd. Che oggi si
colloca largamente al di sopra delle altre liste.
MA ANCHE del risultato ottenuto alle elezioni politiche del 2013, quando si era fermato
poco sopra il 25%. Oggi, invece, raggiunge quasi il 33%. Oltre 7 punti più dell’anno scorso.
Un dato tanto più significativo in quanto tutti gli altri partiti appaiono molto staccati. Per
primo il M5s, peraltro l’unico che superi il 20%. Ma, comunque, 10 punti meno del PD.
Forza Italia, invece, appare in calo sensibile. Scivola, infatti, al 17,5%. Viene così meno il
gioco fra tre grandi minoranze, emerso alle precedenti elezioni politiche. Oggi, se i risultati
riproducessero questo quadro, vi sarebbe un solo partito con una base elettorale davvero
ampia. Con un solo sfidante, a grande distanza: il M5s. Peraltro, un non-partito. Mentre il
peso elettorale degli altri partiti è molto più ridotto. A causa, della — sostanziale —
scomparsa del Centro e dell’implosione del Centro- Destra. Dove Forza Italia appare in
sensibile declino. Incapace di attrarre e coalizzare l’area. D’altronde, il NCD, dopo la
scissione, si è attestato su un livello piuttosto solido, intorno al 7%. Ma anche i Fratelli
d’Italia (anche grazie al richiamo ad AN) si collocano oltre la soglia di sbarramento del 4%.
Queste formazioni beneficiano, in buona misura, della debolezza di Forza Italia e, quindi,
di Berlusconi. Il che potrebbe, in futuro, lasciare tracce profonde nei rapporti politici tra
questi soggetti. Complicando, dopo le Europee, la possibilità di ricomporre alleanze nel
Centro-destra. La Lista di Sinistra, Altra Europa con Tsipras, sembra invece in ripresa,
rispetto ad altre rilevazioni recenti. In grado, comunque, di superare lo sbarramento del
4%, che permette di eleggere rappresentanti al Parlamento europeo. Un’impresa
che appare possibile anche alla Lega. Ma a nessun altra lista. Occorre, però, grande
prudenza nel tradurre queste stime in previsioni di voto. Lo si dice sempre, ma stavolta va
ribadito con particolare chiarezza. Non solo perché mancano ancora oltre due settimane.
Ma perché le Europee sono elezioni particolari, meno sentite dai cittadini. Tanto che una
quota significativa di essi non sa neppure che — né perché — si voti, fra un paio di
settimane. Anche 5 anni fa l’affluenza alle urne fu molto bassa: il 66% circa. Difficile che
18
quest’anno si vada oltre. Più facile, semmai, il contrario. Per questo è probabile che molto
possa ancora cambiare, prima del 25 maggio. Perché l’incertezza è molto alta. E la posta
in palio non è chiara a tutti.
Molto, dunque, dipenderà dalle prossime settimane di campagna elettorale. Di certo, le
stime del PD — molto elevate — dipendono in larga misura dal consenso personale nei
confronti di Renzi. Il 63% degli elettori, infatti, esprime fiducia nei suoi riguardi.
Il doppio, perfino il triplo, di ogni altro leader. Renzi, oggi dispone di un consenso
personale larghissimo. E trasversale.
È stimato dal 90% degli elettori del PD. E dal 60% tra quelli della maggioranza. Ma
raccoglie il consenso di circa 6 elettori su 10 anche in alcuni partiti di opposizione. In
particolare di FI e della Lega. Lo stesso si osserva tra gli elettori incerti e reticenti
(un aspetto che può diventare importante, in prospettiva del voto). Solo nella Sinistra e nel
M5s il premier è meno apprezzato. D’altronde, Renzi ha scavalcato i tradizionali confini
della sinistra anche sul piano socio-economico. Secondo un sondaggio della
Confartigianato regionale, condotto in questi giorni, infatti, il premier è apprezzato da quasi
il 60% degli artigiani veneti. Molto più di ogni altro leader nazionale.
La figura di Renzi, dunque, trascina il PD ma anche il governo. Che oggi dispone di un
sostegno superiore al 60%: 5 punti in più dello scorso febbraio. Parallelamente, si è
rafforzata la convinzione che “il governo ci porterà fuori dalla crisi”. Oggi è condivisa dal
58%: 4 punti in più di tre mesi fa, quando il premier si è insediato (allontanando,
bruscamente, Enrico Letta). Ciò suggerisce che le tensioni nella maggioranza e nello
stesso PD, emerse più in questa fase, nel percorso delle riforme in Parlamento, non
abbiano danneggiato la credibilità del governo né del suo premier. Ma l’abbiano, al
contrario, perfino rafforzata. In quanto hanno “personalizzato” il partito e il governo.
Marcando l’autonomia e la determinazione del Capo. Così, se, da un lato, si ripropone il
vizio antico del voto di fiducia, oggi, per altro verso, il partito e il governo appaiono più
renziani che mai.
Il risultato delle europee, in fondo, dipende da questo. Dalla capacità di Renzi di
trasformarle in un referendum. Non tanto pro o contro l’Europa. Ma pro o contro di lui. Per
trainare “personalmente” il PD. Da ciò, peraltro, dipende anche il risultato del M5s. Che
l’anno scorso andò molto al di là delle stime dei sondaggi. In parte, perché le stime dei
sondaggi non sono “previsioni” (semmai: profezie). In parte, perché Grillo e il M5s
recuperarono molti consensi nelle ultime settimane. Negli ultimi giorni. Quando riuscì a
canalizzare e, anzi, ad amplificare il ri-sentimento, profondo e largo, che agitava la società.
Quel ri-sentimento non si è placato. Ma rischia, anzi, di ri-esplodere in modo fragoroso. In
seguito alle gravi vicende che hanno investito, di nuovo, la politica e i politici. Scandite
dagli eventi clamorosi di ieri. L’arresto dell’ex ministro Scajola, accusato di aver favorito la
latitanza di Matacena, ex deputato, condannato per collusione con la mafia. L’arresto di 7
figure di rilievo, dell’amministrazione pubblica, della politica, dell’impresa, per affari illeciti,
sviluppati intorno all’Expo. Echeggiano storie note, come i nomi di alcuni arrestati. Come
Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, protagonisti di Tangentopoli. Una stagione che pare
non volersi chiudere. E getta un’ombra pesante sul sistema partitico, ma anche sulla
campagna elettorale.
Così, le prossime Europee rischiano di tradursi in un duplice referendum. Oltre a quello
pro o contro Renzi, infatti, potrebbe riproporsene un altro. Pro o contro il sistema partitico, i
politici e le istituzioni. Alimentando di nuovo quel clima di distacco e rifiuto della politica,
intercettato e interpretato, fino ad oggi, dal M5s. Così, le Europee rischiano di avere
profonde conseguenze politiche. Per l’Italia, prima che per l’Europa.
19
del 09/05/14, pag. 5
La sfida della Sinistra Europea: strappare il
terzo posto a Bruxelles
Jacopo Rosatelli
Diventare la terza forza politica dell’Ue. Questo è l’obiettivo che il partito della Sinistra
europea (Se) vuole raggiungere alle elezioni del 25 maggio. Un traguardo ambizioso, ma
che è pienamente alla portata delle liste – come l’italiana L’Altra Europa – che nei diversi
Paesi dell’Unione candidano Alexis Tsipras a presidente della Commissione di Bruxelles. I
sondaggi prevedono un doppio testa a testa: socialisti e popolari si contendono la
maggioranza relativa (sono dati al 28%), mentre Se e liberali dell’Alde (in Italia sono i
montiani di Scelta civica) lottano per il primato fra i partiti «minori». Quelli, cioè, che con
ogni probabilità avranno un risultato a una cifra.
Per quanto distanziati dalle due liste maggiori, Se e liberali non sono certo forze residuali:
secondo le inchieste di opinione, potrebbero ottenere ciascuno un numero di deputati pari
a circa l’8% dell’emiciclo di Strasburgo. Per la forza guidata in questa competizione da
Tsipras si tratterebbe di un buon passo in avanti rispetto alla legislatura attuale, mentre
per i liberali dell’Alde guidati dal belga Guy Verhofstadt e dal finlandese Olli Rehn si
tratterebbe di un ridimensionamento. Nel caso in cui la Se sopravanzasse i liberali, il
mutamento degli equilibri nell’Europarlamento – e il segnale politico – sarebbe da non
sottovalutare.
Ne è consapevole il gruppo dirigente della Sinistra Eruopea che oggi si ritrova a Roma per
una giornata di campagna elettorale, ma anche di festa: il 9 maggio di 10 anni fa, proprio
nella capitale italiana, nasceva questa forza politica continentale, che ebbe come suo
primo presidente l’allora segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti. Al suo
posto ora c’è il francese Pierre Laurent, segretario del Pcf, che prenderà la parola nelle
iniziative previste oggi: alle 10 una tavola rotonda sulle «sfide per cambiare l’Europa»
all’Hotel Nazionale di piazza Montecitorio e dalle 18 una manifestazione (con concerto) a
Campo de’ Fiori.
Nel meeting serale interverranno fra gli altri anche Fabio Amato, coordinatore della
campagna Se, il segretario del Prc Paolo Ferrero e Barbara Spinelli. Attraverso un
videomessaggio si potrà ascoltare anche Tsipras, che della Se è uno dei vicepresidenti.
A fare da traino per il risultato del 25 maggio ci sarà proprio la greca Syriza, la forza
guidata dal candidato presidente: i sondaggi le attribuiscono oltre il 20%. Importante sarà
anche il contributo della tedesca Linke, del cartello francese Front de Gauche (di cui fa
parte il Pcf), e della spagnola Izquierda unida.
Per diventare la terza forza a Strasburgo, per la Se potrebbe rivelarsi determinante proprio
il risultato della lista italiana, che dovrà lottare fino all’ultimo voto per superare la soglia di
sbarramento al 4% (che Gustavo Zagrebelsky giudica incostituzionale).
Fra gli stati più popolosi, solo Regno Unito e Polonia non hanno liste che facciano
riferimento a Tsipras
A fare da piattaforma comune a tutti i partiti che sostengono il leader greco ci sono i punti
qualificanti del programma della Se, votato lo scorso dicembre a Madrid: stop all’austerità
e alla governance neoliberista dell’economia continentale, una vera Tobin tax sulle
transazioni finanziarie, salario minimo europeo, nuovo modello di sviluppo ecologicamente
sostenibile, democratizzazione delle istituzioni Ue, rifiuto del trattato di libero scambio con
gli Usa, diritti per tutti coloro che subiscono discriminazioni e difesa dei servizi pubblici
dalle privatizzazioni selvagge.
20
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 09/05/14, pag. 8
Mafia, arrestato Scajola “Ha aiutato nella
fuga l’ex deputato latitante”
I pm: voleva trasferire Matacena da Dubai al Libano Perquisiti i figli di
Fanfani. Berlusconi: addolorato
GIUSEPPE BALDESSARRO
REGGIO CALABRIA .
Stava facendo di tutto per spostare Amedeo Matacena in «un posto più sicuro». Voleva
aiutare l’ex deputato di FI condannato in via definitiva a lasciare Dubai e andare in Beirut.
Per questo ieri mattina l’ex ministro Claudio Scajola è finito in carcere. Contro di lui
l’accusa di essersi speso a sostegno di condannato a 5 anni e 4 mesi per concorso
esterno in associazione mafiosa in favore della cosca di ‘ndrangheta dei Rosmini.
Secondo l’inchiesta della Procura di Reggio Calabria (la richiesta porta la firma del
procuratore Federico Cafiero de Raho, del pm della Dda Giuseppe Lombardo e di
Francesco Curcio della Dna), Scajola sperava di ottenere per Matacena l’asilo politico. Un
salvacondotto che sarebbe stato possibile ottenere grazie a Vincenzo Speziali, calabrese
sposato con una libanese, che ha importanti contatti con esponenti del governo di Beirut.
Un nome già spuntato anche nella vicenda Dell’Utri.
L’indagine condotta dalla Dia è partita alla fine dello scorso anno, quando nell’ambito
dell’inchiesta sulla Lega sono spuntate telefonate di Matacena con il consulente Bruno
Mafrici. Chiamate che dimostrerebbero come l’imprenditore volesse far sparire il suo
impero economico proprio per paura della sentenza di condanna.
L’inchiesta si è poi allargata arrivando a Scajola. Ieri oltre al suo arresto sono stati
notificate contestazioni ad altre 6 persone, tra cui la madre di Matacena Raffaella De
Carolis e la moglie Chiara Rizzo.
Matacena, ricercato dall’estate scorsa, era stato arrestato a Dubai il 29 agosto 2013 e ben
presto rimesso in libertà. Da qui la necessità, secondo l’accusa, di spostarlo in un luogo
«più sicuro», cioè in Libano. Nelle carte dell’inchiesta decine di intercettazioni, fotografie e
filmati che riprendono incontri tra i diversi protagonisti e di Scajola con la moglie di
Matacena. La Dia ha eseguito anche decine di perquisizioni. Tra queste anche a casa di
Giorgio e Cecilia Fanfani, figli di Amintore, che però non sono indagati. Silvio Berlusconi si
è detto “addolorato”, ma ha spiegato che la mancata candidatura di Scajola alle europee
non è legata a vicende giudiziarie.
del 09/05/14, pag. 11
Da Dell’Utri a Matacena, stesse accuse: legami con i clan E identica
meta. Ecco perché tutte le fughe portano a Beirut
Ex dc, falangisti ed estrema destra la rete che
protegge i latitanti in Libano
21
CARLO BONINI
ROMA .
Tutte le strade della latitanza portano dunque in Libano. A Beirut è riparato Marcello
Dell’Utri. Beirut doveva essere il porto franco di Amedeo Matacena junior.
Perché?
Latitanti l’uno e l’altro per lo stesso reato (concorso in associazione di stampo mafioso) e
figli della stessa famiglia politica (Forza Italia), i due appaiono certamente orientati nelle
loro mosse da una considerazione elementare per chi decide di sottrarsi all’esecuzione di
una condanna già inflitta (Matacena) o lì dall’esserlo (Dell’Utri). Il Libano, dove il reato
associativo di mafia è ignoto, la battaglia per l’estradizione non è una scommessa a
perdere. Soprattutto se, nell’estenuante procedura imposta dai trattati (a cominciare dalla
traduzione in lingua araba degli atti processuali) e nella possibilità che il processo
di estradizione si trasformi nei fatti in un nuovo giudizio di merito, si ha buon gioco
nell’agitare il fantasma di un giustizia orientata politicamente. È tornato a farlo ieri con
significativo timing Akram Azouri, l’avvocato libanese di Dell’Utri («Sul dossier del mio
cliente c’è un malsano chiasso mediatico. Ma se in Italia il dossier è politico, non lo è in
Libano»). Avrebbe avuto agio di farlo Matacena. E tuttavia la spiegazione non basta.
Sulla scena della fuga di Dell’Utri, così come in quella di Matacena documentata dagli atti
della Procura di Reggio, si rintraccia infatti una cruciale ricorrenza che nulla ha a che fare
con le Pandette o il diritto internazionale. Che evoca piuttosto quel network “nero” che,
dagli anni ‘70, annoda gli ambienti falangisti cristiano-maroniti con quelle che, un tempo,
furono le nostre correnti democristiane inclini a dialogare con l’area neofascista. Accade
infatti che, come per Dell’Utri, nell’affaire Matacena venga evocato quale nume protettore
della latitanza un signore di 72 anni, Amin Gemayel, candidato alle elezioni presidenziali
libanesi del prossimo 25 maggio.
Amin Gemayel, dunque. Figlio di Pierre, fondatore del partito cristiano-maronita delle
kata’eb (le “Falangi libanesi” di ispirazione fascista che negli anni del conflitto civile si
macchieranno del massacro di Sabra e Shatila), ha molto a che fare con il nostro Paese e,
quale vicepresidente dell’Internazionale democrisitana, i suoi legami con la rete degli ex dc
transitati armi e bagagli con il centro-destra sono saldi come l’acciaio. È a lui che si fa
riferimento nell’intercettazione ambientale di “Assunta Madre”, il ristorante romano ai cui
tavoli Alberto Dell’Utri ragiona della latitanza del fratello Marcello. Ed è ancora lui ad
essere improvvidamente evocato un mese fa da Berlusconi in un colloquio con i deputati
di Forza Italia per giustificare la presenza di Dell’Utri in Libano («L’ho mandato io a Beirut
per dire che Putin lo avrebbe appoggiato alle presidenziali»). Un canovaccio che si ripete
nell’affaire Matacena. Nel maggio del 2013, Amin Gemayel è infatti in Italia per deporre
una corona di fiori al cimitero del Verano sulla tomba di Andreotti, accompagnato da un
signore cui la Procura di Reggio attribuisce un ruolo operativo chiave nell’organizzare
l’arrivo di Matacena in Libano: Vincenzo Speziali, nipote dell’omonimo ex parlamentare
forzista reggino e uomo dalla vita divisa tra la Calabria e Beirut, dove per altro ha
incontrato la donna che è diventata sua moglie. E ancora: in quello stesso mese incontra
per un pranzo a Milano proprio Silvio Berlusconi.
C’è di più. Nelle indagini della Procura di Reggio e della Dia, il mondo che si agita insieme
a Claudio Scajola per aiutare a raggiungere il Libano “l’amico Amedeo” (figlio per altro di
quell’Amedeo senior animatore dei moti fascisti di Reggio nel ‘71) ha invariabilmente le
stimmate di quell’area di ex democristiani “grigio fumo” che flirtano con la destra. E per i
quali, evidentemente, la scommessa su un Libano “falangista” di Amin è qualcosa di più
che un credito a futura memoria da riscuotere con due latitanti. Nelle indagini della Dia, fa
capolino un vecchio arnese come Emo Danesi, oggi ultrasettantenne ed ex segretario di
Toni Bisaglia, espulso dalla Dc di De Mita perché appartenente alla P2. Di più: Chiara
22
Rizzo, la moglie dell’armatore, trova aiuto e sponda nei figli di Amintore Fanfani, Giorgio e
Cecilia. Incontra anche Luigi Bisignani. Che tuttavia, raggiunto al telefono, cade dalle
nuvole prima di sciogliersi in una risata: «Non vedo Matacena da sei anni. Ho incontrato la
moglie a una festa a Montecarlo organizzata da mia cognata in cui gli invitati saranno stati
almeno 150. E quanto al Libano, sono stato di recente a Beirut. Ma per andare a trovare
mia figlia, che si è trasferita lì con il marito, e il mio nuovo nipotino di 6 mesi».
Ex democristiani transitati in Forza Italia, dunque, falangisti libanesi e — ecco il terzo
anello della catena — ex neofascisti italiani. Nell’affaire Dell’Utri, l’evocazione del suo
nome nell’intercettazione ambientale da “Assunta madre”, ha convinto qualche settimana
fa Gennaro Mokbel, a battere un colpo in una lunga intervista al direttore del Tempo Gian
Marco Chiocci. Per negare, va da sé qualunque ruolo nella fuga dell’ex senatore, ma
anche per ricordare ai “naviganti” l’amicizia con il fratello Alberto, e l’aiuto chiesto e non
raccolto da Marcello Dell’Utri per il movimento di destra “Alleanza federalista”.
Già, Mokbel. Un cognome, che con altrettanto curiosa coincidenza, porta l’attuale
vicepremier e ministro della Difesa libanese, Samir. Uno degli uomini più ricchi e influenti
del Paese, amministratore delegato della “Samir Mokbel&co”, colosso del real estate in
Libano e negli emirati arabi. Naturalmente, il nostro, di Mokbel, smentisce. Lui, dice al
Tempo, ha genitori egiziani.
23
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 09/05/14, pag. 10
Eritreo bastonato dagli scafisti,
muore nel barcone della speranza
Non si fermano gli sbarchi in Sicilia: ieri sono arrivati nell’isola, tra Catania e Messina, oltre
600 migranti. La struttura di accoglienza del capoluogo etneo è stata svuotata con due
voli, portando via 300 extracomunitari, giunti mercoledì, che sono stati subito sostituiti da
quelli arrivati ieri.
E PER I VIAGGI della speranza si continua a morire per la ferocia dei trafficanti di vite
umane. Vittima un ventenne eritreo bastonato dai componenti di un’organizzazione
criminale per “accelerare” le fasi di imbarco in Libia e poi travolto da altri migranti, che lo
hanno calpestato. Le ferite riportate si sono rivelate mortali. Adagiato di fianco sul
gommone i suoi compagni di viaggio pensavano stesse dormendo, ma era già morto.
Ammassati sul gommone, per il poco spazio, alcuni sono stati costretti a navigare in mare
seduti sul suo corpo senza vita. È il tragico racconto di alcuni dei migranti soccorsi dalla
fregata Scirocco della Marina militare italiana e portati in salvo nel porto di Pozzallo. La
squadra mobile di Ragusa ha fermato i due presunti scafisti, Mamadu Jallew, del Gambia
di 19 anni, e Khalifa Bangura, del Sierra Leone di 24 anni. Sono accusati anche di
omicidio come evento causato da altro reato.
La vittima era assieme ad altri 101 migranti, provenienti da Eritrea, Mali, Nigeria, Etiopia e
Sudan, stipati su un gommone fatiscente. Il giovane eritreo sarebbe rimasto ferito
gravemente da un violento colpo di bastone ricevuto in testa da alcuni degli organizzatori
del viaggio, che su una spiaggia in Libia avrebbero picchiato tutti i migranti per costringerli
a fare in fretta. Oltre alla lesione procurata dalla bastonata, la ferita sarebbe stata
aggravata dai colpi involontari ricevuti da altri extracomunitari che lo hanno calpestato
nella ressa. “Sul gommone - racconta un sopravvissuto al viaggio alla polizia di Ragusa - i
libici ci bastonavano, colpendoci in qualsiasi parte del corpo e anche in parti vitali: la testa,
la nuca e il collo. Io mi trovavo ad occupare un posto posizionato al centro del gommone,
quando uno di noi ci faceva notare che un eritreo era deceduto”. “Alcuni 'passeggerì ricorda un migrante - per l’estremo affollamento si sono seduti sul suo corpo, disteso in
posizione fetale. Durante la navigazione più volte gli scafisti ci dicevano di gettare in mare
il cadavere, ma noi ci opponevamo con fermezza perché volevamo continuare il viaggio
con il nostro amico”. “Abbiamo navigato per circa 14-15 ore senza avere né cibo né acqua
- ricostruisce un altro migrante - poi ho notato un elicottero che ci aveva avvistato e ci
sorvolava sopra. Finalmente siamo stati liberati”.
24
SOCIETA’
del 09/05/14, pag. 4
Giovanardi impegna il governo sulla
marijuana
La marijuana — quella che si trova attualmente sul mercato — dovrà essere equiparata
all’eroina e alla cocaina. L’impegno per il governo (per la assai ben disposta ministra della
Salute) a inserirla, con un prossimo provvedimento, nella tabella 1 del testo unico sugli
stupefacenti dove sono elencate le droghe pesanti, è previsto in un ordine del giorno
presentato da Carlo Giovanardi (il padrino della legge proibizionista azzerata per
incostituzionalità dalla Consulta) e approvato ieri dalle commissioni Sanità e Giustizia del
Senato unitamente al testo di conversione in legge del decreto Lorenzin che la prossima
settimana passa all’esame dell’Aula, subito dopo il voto sul decreto Casa. Ma la notizia,
annunciata già nei giorni scorsi dallo stesso Giovanardi nominato relatore del
provvedimento per la commissione Giustizia del Senato, è stata invece parzialmente
smentita dalla senatrice del Pd, Emilia De Biasi, presidente della commissione Sanità:
«Non esiste agli atti della nostra commissione alcun Odg Giovanardi. Forse i parlamentari
del Ncd fanno riferimento a un Odg che ora porta il nome di Laura Bianconi e che è stato
riformulato dal governo, in cui si chiede al ministero della Salute di fare un
approfondimento scientifico sulla tossicità dei diversi tipi di cannabis». Giovanardi aveva
già spiegato che essendo il decreto Lorenzin in scadenza, tanto che alla Camera il
governo ha posto il voto di fiducia, al Senato non avrebbe subito alcun ritocco. L’odg
invece impegna il governo a differenziare la marijuana tra quella «normale», secondo la
definizione di Giovanardi, e quella ad elevato Thc e equiparare quest’ultima alla cocaina e
all’eroina. Ieri le due commissioni hanno concluso l’esame di tutti gli emendamenti, mentre
nel centrodestra cresce la mobilitazione per far rivivere in ogni modo la incostituzionale
legge Fini-Giovanardi.
25
INFORMAZIONE
del 09/05/14, pag. 17
LA GIORNATA
In una lettera all’Economia la tv di Stato annuncia perdite per 180
milioni, effetto del Def. I sindacati: ora sciopero Renzi a Genova celebra
l’ingresso dei cinesi in Ansaldo Energia. E prende quota la
privatizzazione di Fincantieri
Rai: “Rosso record, tagli al personale”
ALDO FONTANAROSA, MASSIMO MINELLA
ROMA . Tagli alle produzioni di cinema e fiction; agli investimenti in tecnologia, ma anche
al personale. In una lettera al ministro dell’Economia Padoan, la Rai avverte che dovrà
sforbiciare tanti posti di lavoro – centinaia, si sussurra – per fare fronte alle richieste del
governo e ai venti di crisi, che restano forti. Nella missiva all’azionista, la tv di Stato spiega
che l’impatto sui suoi conti, in questo 2014, sarà più grave di quanto si immaginava. Siamo
oltre i 200 milioni.
I primi 150 le verranno tolti dal Documento di economia e finanza (il Def), all’articolo 21,
come prelievo straordinario. Ma altri 50 milioni cadranno per effetto dell’articolo 20 del Def
stesso, che riduce del 2,5% i costi operativi di tutte le società pubbliche (misura che
attenta alle «riserve patrimoniali» della Rai). Viale Mazzini avverte, ancora, che l’evasione
del canone sta rialzando la testa, quest’anno. E la beffa dei “portoghesi” si aggiunge al
danno di dicembre quando il governo Letta negò l’aumento tradizionale dell’imposta tv.
In questo clima, le reti di Stato rivedono al ribasso le previsioni per il bilancio annuale.
Poteva chiudersi con una perdita tra i 28 e i 30 milioni, ora il rosso atteso lievita a 180.
Livello che eroderebbe i quasi due terzi del capitale sociale (pari a 290 milioni). Per questo
diventa urgente sia il «taglio strutturale» in quattro aree (fiction, cinema, tecnologia e
personale, appunto) sia la vendita di una quota di RaiWay (la società dei ripetitori).
Ora, Viale Mazzini considera questa cessione parziale di RaiWay una «privatizzazione»
che investe un asset di «utilità pubblica». Dunque chiede all’Economia gli adempimenti
previsti dai decreti del ’94 e del ’95, poi convertiti in legge.
Il momento è tra i più delicati per la Rai. Lo capisci anche al convegno organizzato, a
Roma, dai giornalisti dell’Usigrai. Qui il conduttore Massimo Giletti punta l’indice contro gli
sprechi dell’azienda e cita – un esempio su tutti - la piccola sede regionale della Val
d’Aosta. Il direttore generale Gubitosi invita a tenere i nervi saldi, nega che chiuderà sedi
regionali (come il governo lo incoraggia a fare), mentre il senatore Margiotta (Pd) sollecita
il Parlamento a varare una norma-scudo a protezione degli uffici periferici della Rai (Val
d’Aosta inclusa).
E mentre i sindacati avviano la procedura per uno sciopero di tutti i dipendenti della
televisione pubblica, il premier Renzi vola a Genova, dove il colosso dell’energia Shanghai
Electricic formalizza l’ingresso nel capitale di Ansaldo Energia. I cinesi sborsano 400
milioni per rilevare il 40% del capitale dal Fondo Strategico della Cassa depositi Prestiti.
Dal punto di vista dei numeri, si tratta della maggiore joint venture italo-cinese, grazie alla
quale Ansaldo andrà alla conquista dei mercati asiatici. Domenica invece Renzi sarà a
Monfalcone, nello stabilimento di Fincantieri, per la consegna della nave da crociera
“Regal Princess”; ma soprattutto per sostenere il progetto di quotazione di Fincantieri
stessa, appena approvato dall’assemblea dei soci.
26
CULTURA E SCUOLA
del 09/05/14, pag. 29
È il primo indice globale che misura i migliori sistemi d’istruzione Su 40
paesi in testa Corea del Sud e Giappone, noi al 25esimo posto
La scuola perfetta è un gioco di squadra ma
l’Italia resta in coda
CRISTIANA SALVAGNI
ROMA .
Nella migliore delle scuole possibili l’insegnante è una figura prestigiosa, genitori e
studenti collaborano per mandare avanti il programma e i soldi investiti contano sì, ma non
sono tutto. Importa di più che ci sia una formazione continua per alunni e docenti e un
giusto equilibrio tra le materie. Quelle del futuro, come la capacità di risolvere i problemi e
il lavoro di squadra, pesano ma non devono sostituire la lettura, la matematica o le
scienze. Questa scuola quasi perfetta è stata fotografata in una super classifica mondiale
dei 40 migliori sistemi d’istruzione, messa a punto dall’istituto di ricerca inglese The
Economist Intelligence Unit e pubblicata ieri dal colosso dell’editoria formativa Pearson.
Ai primi banchi sgomitano i Paesi dell’Est asiatico: la Corea del Sud davanti a tutti, seguita
da Giappone, Singapore e Hong Kong, poi in quinta fila c’è la Finlandia, tradizionalmente
culla dell’eccellenza scolastica. Sesta la Gran Bretagna, settimo il Canada, quindi al 12°
posto la Germania, al 14° gli Stati Uniti e giù fino al 25° gradino per trovare l’Italia.
Orecchie da somaro per il Brasile, il Messico e l’Indonesia.
La forza della graduatoria, già pubblicata nel 2012 e oggi aggiornata, sta nel suo indice: si
chiama “la curva dell’apprendimento” e raggruppa per la prima volta in modo ponderato
una moltitudine di fattori. I risultati dei test internazionali, come l’Ocse-Pisa sulle
competenze matematiche ma anche i TIMSS sugli studi scientifici e i Pirls sulla lettura. Poi
il tasso di diplomati e laureati e la spesa pro-capite per l’educazione, quindi elementi
socioeconomici quali il Pil, la disoccupazione e l’aspettativa di vita. Il “cervellone” stila così
una graduatoria delle super potenze dell’istruzione e restituisce una banca dati pubblicata
on line: dice cosa migliora e cosa peggiora l’educazione e vuole essere uno strumento
utile ai governi, agli insegnati e alle scuole per migliorare.
Irrinunciabili, per esempio, la trasparenza e la partecipazione. Dove i programmi e i
risultati sono chiari a tutti, dice il rapporto, l’attività scolastica è più efficace. Un tratto
peculiare dei paesi orientali: là società e famiglia sanno esattamente cosa aspettarsi dagli
insegnanti, gli insegnanti dagli alunni e gli alunni hanno ben presenti gli obiettivi da
soddisfare. Da qui il valore di una scuola “partecipata”, dove i genitori collaborano e i
docenti sono ritenuti preziosi. Proprio questo è il tallone d’Achille che lascia in fondo
l’Italia, con l’insegnamento visto come un ripiego, un modo per avere lo stipendio sicuro
ma lavorando mezza giornata. «Quando il ruolo dei professori è riconosciuto, la scuola
funziona meglio» spiega Roberto Gulli, presidente di Pearson Italia. «Non si tratta solo
della retribuzione: per avere buoni insegnanti bisogna offrire una formazione continua.
Fare il professore deve essere un privilegio per chi si laurea, non meno prestigioso di altre
professioni come l’avvocato o l’ingegnere».
Anche perché la qualità della scuola ha un rapporto diretto con lo sviluppo. «Investire
sull’istruzione vuol dire aumentare il Pil: l’educazione non è solo un diritto acquisito ma un
bene da far crescere» continua Gulli. Per questo l’aggiornamento continuo deve essere
27
offerto a tutti: anche agli adulti per restare in pari con il mutevole mondo del lavoro. Un
aspetto su cui sono particolarmente deboli Messico e Brasile dove alla rapida crescita
economica non è seguito finora un aumento nella preparazione.
E guai, nella corsa alla scuola del futuro, a dimenticarsi la tradizione. Se è vero che la
capacità di usare la tecnologia o lavorare in gruppo diventano essenziali, non possono
però rimpiazzare la letteratura, la matematica, le scienze. «Le nuove competenze devono
restare ancorate ai saperi di base — conclude Gulli — altrimenti galleggiano nel vuoto,
restano senza fondamenta ».
del 09/05/14, pag. 18
Giannini:abolire i concorsi. Politici e docenti
si dividono
Università,dopo l’inchiesta di Bari il ministro rilancia: “Chiamata diretta”
Flavia Amabile
Blocco dei concorsi locali nelle università e la possibilità per gli atenei di chiamare in forma
diretta i docenti. La ministra dell’istruzione Stefania Giannini ne ha parlato ieri a una
conferenza e nei giorni scorsi in un’intervista che uscirà oggi sul settimanale
«L’Espresso». Ma in realtà è la sua posizione da sempre anche prima di diventare titolare
del Miur. «Il sistema a cui sto pensando - ha affermato - è quello di una valutazione
possibile continua, senza stop and go successivi, per dare la possibilità di avere poi delle
chiamate molto più dirette e autonome da parte delle università che saranno
responsabilmente chiamate e giudicate sui risultati». Il suo obiettivo, insomma, è
«semplificare» un sistema che ora è «complicato» e intende farlo nei «prossimi mesi,
molto rapidamente». Il dibattito si è riaperto in questi giorni dopo la chiusura delle indagini
che hanno portato a delineare un sistema malato di docenti che favorivano un candidato
piuttosto che un altro, un meccanismo collaudato di spartizione di posti da docenti ordinari
e associati in tutta Italia. Ma è una questione che si trascina da tempo e in tanti sono
d’accordo con la ministra Giannini: la cooptazione può essere un’alternativa. Andrea
Lenzi, presidente del Consiglio Universitario nazionale e docente di endocrinologia alla
Sapienza a Roma: «La chiamata diretta funziona in molti Paesi. Sono necessarie però due
condizioni: una valutazione ex-post del lavoro di chi viene chiamato ma anche la creazione
di filtri necessari per evitare distorsioni. La qualità dei docenti non può essere misurata
solo a livello locale ma devono essere create linee guida che oltre all’abilitazione
permettano di avere un sistema in grado di definire criteri validi in tutt’Italia senza i quali
non si può essere chiamati all’interno delle università». Fulvio Esposito, ex rettore
dell’Università di Camerino e capo della segreteria tecnica del Miur quando a viale
Trastevere c’era Maria Chiara Carrozza: «In Italia le abbiamo provate tutte e abbiamo
capito che qualunque modalità di scelga tutto dipende dalla deontologia di chi effettua la
selezione. Solo se in Italia riusciamo a creare un sistema in cui le istituzioni universitarie
vengono valutate ex-post la chiamata diretta può funzionare, altrimenti costruiamo solo un
meccanismo totalmente arbitrario». Del tutto contraria invece l’Andu, l’associazione dei
docenti universitari: «Introdurre la chiamata diretta - spiega il coordinatore Nunzio Miraglia
- vorrebbe dire soltanto formalizzare quello che ora avviene in modo non ufficiale.
Assicurano di volerlo fare soltanto con una valutazione dei risultati? In Italia? E dopo
quanto tempo si valuterebbe il lavoro? E con quali criteri? E chi farebbe rispettare
28
eventuali sanzioni? La chiamata diretta richiede una mentalità diversa. Noi siamo a favore
di un vero concorso nazionale con commissari scelti attraverso un sorteggio».
29
ECONOMIA E LAVORO
del 09/05/14, pag. 5
Susanna Camusso vince, ma perde consensi
Antonio Sciotto
RIMINI
Susanna Camusso chiude il Congresso della Cgil respingendo al mittente le accuse
avanzate da Maurizio Landini. Ma ieri la conclusione non è stata per niente facile. Il voto
per eleggere il Direttivo ha visto vincere la maggioranza con l’80,5%, ma hanno
guadagnato più consensi del previsto (ed eletti) sia la seconda lista di Landini che la terza
di Cremaschi. E questo ha scatenato nuovi scontri.Il segretario Fiom ha chiuso incassando
il 16,7%, con 25 eletti (7 in più dei 18 attesi; Cremaschi ha preso il 2,8%, ottenendo 4 eletti
(si pensava a massimo 3). Un colpo duro per Camusso, che registra 122 componenti al
Direttivo (il parlamentino ne conta in tutto 151).
La maggioranza ha cercato di compensare ritagliandosi più posti nelle commissioni di
garanzia, al che le due minoranze hanno protestato e minacciato di lasciare il Congresso.
Ieri quindi per diverse ore l’assise è stata sospesa, nell’attesa di trovare una quadra,
rinviando di qualche ora la rielezione della segretaria. In mattinata le conclusioni di
Camusso erano già state molto polemiche contro Landini: «C’è stato qualcuno che ha
parlato di Codice etico – ha detto dal palco – Vorrei dire che nell’etica di un’organizzazione
c’è il sapere che questa ha presentato il suo Piano del Lavoro: allora forse dovrebbe
essere quello il contenuto delle lettere ai presidenti del consiglio». La segretaria si riferisce
al testo pubblicato qualche mese fa da Repubblica, che conteneva le richieste al premier
della Fiom: uno scavalcamento di Landini rispetto alla confederazione, secondo la
Cgil.«Un codice etico noi lo abbiamo già – ha proseguito Camusso — ed è il nostro
statuto». «Non va bene il principio secondo cui se i risultati sono quelli che ci aspettiamo è
tutto bello e trasparente, e se invece sono altri, allora ci sono delle truffe».
La segretaria ha risposto anche all’appello all’unità fatto dall’operaio di Piombino Mirko
Lami: «Capisco l’affetto con cui ci è stato chiesto di chiuderci in una stanza e decidere, ma
mi rifiuto di pensare che possano farlo solo due o tre dirigenti. Credo anzi che si sia troppo
personalizzato il dibattito, a volte anche a causa dei media: allora piuttosto dico, riduciamo
il ruolo dei segretari generali, pensiamo a formule più collegiali. In passato ad esempio
c’erano i vice segretari e i segretari aggiunti».Sospettiamo che Landini non chiedesse una
maggiore collegialità nella formula di nuovi ruoli burocratici aggiuntivi ai capi: anche
perché il rischio è che tutto si riduca a una sterile prolificazione degli yes-men. Ma c’è una
risposta di Camusso anche sulla possibilità di mutuare i metodi di selezione dal Pd: «Altro
che primarie, qui ci vuole più partecipazione collettiva: nella Conferenza di organizzazione
del 2015 sperimenteremo sistemi più partecipativi». «È vero, dovevamo discutere di più»,
ammette poi Camusso sul Testo unico.
Una richiesta di maggiore coinvolgimento non era venuta solo dalla Fiom, ma ad esempio
anche dalla più grossa categoria di lavoratori attivi, la Filcams di Franco Martini.
«Qualcuno dice che dobbiamo discutere, discutere, discutere. Bene, ma è dal 10 gennaio
che lo facciamo. E il Direttivo, proprio per non chiudere il confronto, ha cambiato la sua
posizione originaria, acconsentendo a svolgere una consultazione. Però, adesso che i
referendum si sono svolti, dobbiamo pur mettere un punto». E qui scatta un applauso.
«Non ci si può chiedere di contrapporre il voto di tutti i lavoratori a quello dei nostri iscritti».
Quindi, insomma, «ora è il tempo di applicare quell’accordo, ed estenderlo a tutti:
ovviamente ci saranno dei campi in cui si potrà migliorare nella contrattazione nazionale,
30
dal tema delle Rsu a quello dell’esigibilità. Ora devono entrare in gioco le categorie,
perché la confederazione ha già svolto il suo ruolo».
Camusso ne ha approfittato per parlare di nuovo anche del rapporto con Renzi, con il
governo, e con Grillo. Alle richieste di maggiore trasparenza, spesso avanzate dai due
leader politici, risponde che «noi i bilanci li pubblichiamo tutti: ma non possiamo pubblicare
un bilancio consolidato, perché la legge ci impone di farne uno per ciascun nostro centro
di costo, visto che ciascuno di essi ha un suo codice fiscale. Si controlli: paghiamo Ici, Imu,
tutte le tasse. E i contributi pubblici riferiti ad esempio ai nostri patronati o ai caaf, non
vanno all’organizzazione: sono entità distinte». Ancora, secondo Camusso le accuse di
Renzi e Grillo ai sindacati, non vengono tanto dagli errori passati, come accusa Landini,
ma dal fatto «che loro hanno un’idea di organizzazione liquida, che salta le mediazioni
sociali e la rappresentanza; quindi non si ritrovano nel nostro modello».
Un altro attacco al premier, Camusso lo gioca poi sul nodo della concertazione: «Il Pd ha
aderito al Pse – dice – Ma ricordo che il candidato alla presidenza Shultz parla di
un’Europa che dovrà mettere al centro il dialogo sociale. Lo stesso mi pare faccia Tsipras.
Mi sembra che in Italia ci si proponga un’idea diversa». «Noi sappiamo che il rapporto
della politica con il sindacato non è più quello del passato e non lo sarà più: non dobbiamo
chiedere un posto a tavola ma capire come farci sentire anche da chi non ci vuole
ricevere». Sul rapporto con Cisl e Uil, infine, Camusso ribadisce la necessità dell’unità: «E’
vero che con loro ci sono ferite che bruciano, ma se ci mobilitassimo da soli sulle pensioni,
non rischieremmo di essere sconfitti di nuovo?».
31