Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo
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Osservatorio sulla giustizia civile n. 15 del 15 giugno 2009 a cura di Maria Concetta Rametta 1. Corte di cassazione, prima sezione civile, n. 14612 del 23 giugno 2009, in tema di responsabilità degli amministratori delle fondazioni e dei partiti politici per le obbligazioni contratte in nome e per conto di tali enti. Un istituto di credito cita in giudizio i segretari di un partito politico per sentirli condannare al pagamento delle obbligazioni da loro contratte in nome e per conto dell’ente, dato che, poiché al momento in cui era stata disposta l’apertura del conto corrente, era stato altresì stipulato un accordo nel quale si stabiliva che il debito doveva essere adempiuto mediante il conferimento alla banca della mandato ad incassare gli erogandi contributi statali, si riteneva che in tal modo tali soggetti avessero assunto una garanzia personale e solidale per l’obbligazione. Sia in primo che in secondo grado la domanda viene rigettata in base al disposto dell’art. 38 c.c., secondo il quale la responsabilità del soggetto che ha assunto obbligazioni in nome e per conto di un’associazione non riconosciuta (qual è il partito politico, data la mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione) non sorge per il solo fatto che egli rappresenta l’ente, ma sussiste solo se egli abbia agito effettivamente per conto; inoltre, i giudici, per quanto concerneva l’accordo sottoscritto dai convenuti, ritennero che con esso i convenuti non avevano assolutamente voluto assumere a proprio carico né l’obbligazione né garanzie a favore del suo adempimento. Innanzi alla cassazione viene, in primo luogo, in rilievo la questione sollevata dal Procuratore generale con riferimento alla legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 81 e 41 Cost., dell’art. 6 bis della legge 157/99, relativo al rimborso delle spese sostenute dal partito, che stabilisce, da un lato, che i creditori di tali enti non possono pretendere dai loro amministratori l’adempimento delle obbligazioni, salvo che essi abbiano agito con dolo o colpa grave e, dall’altro, istituisce un fondo di garanzia al servizio di tali obbligazioni. Nonostante la norma sia stata introdotta dalla legge 51/06, quindi successivamente alla proposizione dei ricorsi, la rilevanza della questione è determinata dal terzo comma della norma che estende la sua applicabilità anche ai giudizi in corso. La suprema corte ritiene infondati i dubbi di legittimità costituzionale poiché, anche se è vero che l’art. 6 bis descrive un regime di responsabilità degli amministratori dei partiti per le obbligazioni da essi assunte per conto dell’ente speciale e diverso rispetto alla norma generale contenuta nell’art. 38 c.c., tuttavia, è vero anche che nonostante i partiti siano riconducibili alle figura dell’associazione non riconosciuta presentano delle caratteristiche peculiari. Ne deriva che la previsione di norme particolari e diverse rispetto al regime generale non viola l’art. 3 Cost. ma è determinata dalle caratteristiche peculiari di tali enti, destinate ad agevolare il perseguimento delle loro finalità, come si desume dall’art. 49 Cost che istituisce un collegamento tra l’attività del partito ed il metodo democratico con cui si determina la politica nazionale. Pertanto, la scelta compiuta dal legislatore nell’art. 6 non è irragionevole poichè essa non solo non lede contrapposti interessi costituzionali di pari rango ma, per compensare l’esonero dalla responsabilità degli amministratori, ha previsto anche l’istituzione del fondo di garanzia. Inoltre, la norma non contrasta neanche con l’art. 41 poiché essa non lede in alcun modo l’iniziativa economica dei privati, né con l’art. 81 (per essere il fondo privo di copertura finanziaria) in quanto la norma stessa individua quali siano le fonti di finanziamento di esso; infine, la sua portata retroattiva non è irragionevole perché non è incompatibile con le disposizioni prive di contenuto sanzionatorio. La corte passa quindi ad esaminare il contenuto della norma in discussione ritenendola una norma eccezionale, oggetto pertanto di un’interpretazione restrittiva ed insuscettibile di applicazione analogica. La corte ritiene, quindi, necessario, al fine di ricostruire il corretto significato della disposizione, descrivere, innanzitutto, quale sia il regime generale di responsabilità per le obbligazioni contratte in nome e per conto delle associazioni non riconosciute. Secondo un primo orientamento, infatti, poiché la responsabilità sancita dall’art. 38 non è collegata alla mera titolarità del potere di rappresentanza, ma all’attività negoziale concretamente svolta, il terzo che richiede l’adempimento ai soggetti ivi indicati deve dimostrare non tanto e non solo la carica rivestita al’interno dell’ente dal soggetto agente, ma il fatto che egli effettivamente abbia agito per conto di esso. Al contrario, secondo un orientamento dottrinale condiviso dalla difesa dell’istituto di credito, la responsabilità dell’agente sussisterebbe comunque solo per il fatto di rivestire la carica istituzionale: ciò lo si ricaverebbe, in primo luogo , da un passo della relazione al re che intende l’art. 38 come norma che afferma la responsabilità di coloro che, pur non avendo partecipato all’operazione, l’hanno deliberata ed inoltre sulla base del confronto con l’abrogato art. 33 c.c., che con riferimento alle associazioni non ancora registrate, poneva la responsabilità a carico degli amministratori. La suprema corte conferma il consolidato indirizzo giurisprudenziale ritenendo non fondati gli argomenti addotti contro di esso, non essendo decisivo il valore interpretativo ricavabile dai lavori preparatori e dalle relazioni che accompagnano i testi di legge, laddove la norma abbia un chiaro tenore letterale, e ritenendo che il confronto tra le due norme erra nel non dare peso alle differenze esistenti tra i due enti e, quindi, alla diversa ratio sottesa alle due disposizioni. Infatti, mentre la disciplina contenuta nell’art. 38 si spiega con l’impossibilità per i terzi di conoscere quali siano i rapporti interni ad un associazione non riconosciuta e tende, quindi, a tutelare l’affidamento riposto in coloro che materialmente hanno agito, per le associazioni riconosciute tale esigenza non emerge, dovendo essa pubblicizzare questi rapporti. Confermato, pertanto, che la responsabilità ex art. 38 grava su cloro che hanno agito indipendentemente dalla carica rivestita all’interno del’ente, l’esonero di responsabilità previsto adesso dalla nuova norma si riferisce, invece, espressamente agli amministratori del partito e, quindi, a colui al quale fa capo la gestione e la rappresentanza dell’ente e non a chiunque abbia assunto obbligazioni per conto dell’ente, dato che l’intento del legislatore è quello di non far gravare sul partito le preoccupazioni di carattere personale che potrebbero condizionare l’azione di tali soggetti. Infine, la cassazione specifica che la nuova norma non può interferire con eventuali obbligazioni di garanzia assunte da chiunque volontariamente verso i creditori del partito; di conseguenza, con riferimento all’unico tra i soggetti convenuti che rivestiva la carica di amministratore dell’ente, la suprema corte rigetta la domanda della banca, applicando l’art. 6 bis, fatta salva, comunque, la necessità di accertare in sede di rinvio l’eventuale sussistenza del dolo o della colpa, che ai sensi di quanto disposto dalla norma, potrebbero escludere l’esonero dalla responsabilità. Per quanto concerne, poi, la responsabilità degli altri soggetti convenuti (ritenuta esistente dall’attore sulla base dell’accordo da esso sottoscritto ed esclusa, invece, dalla corte d’appello sulla base del fatto che nell’accordo si faceva pur sempre riferimento ad un debito preesistente e non personale dei sottoscrittori, ma del partito), la cassazione condivide quanto esposto dalla difesa sulla qualificazione giuridica da attribuire a tale accordo. Infatti, non avendo esso soltanto contenuto ricognitivo dell’esistenza del debito, ma anche determinativo delle modalità di pagamento del debiti, è vero che non può essere considerato un mero negozio di accertamento, ma la corte d’appello ha comunque correttamente statuito per il resto escludendo la sussistenza di una modificazione della causa del debito, ravvisabile in quella originaria dell’apertura di credito in conto corrente. 2. Corte di cassazione, terza sezione civile, n. 14545 del 22 giugno 2009, sull’immediato effetto traslativo che si produce a causa dell’aggiudicazione avvenuta a seguito di un’asta pubblica. Un ente pubblico propone azione di rivendicazione nei confronti di alcuni soggetti che si erano impossessati di immobili diversi da quelli oggetto di un contratto di vendita con essi stipulato. Contro la sentenza di accoglimento della domanda, i ricorrenti contestano che erroneamente i giudici hanno individuato il momento perfezionativo della traslazione nella sottoscrizione del contratto, piuttosto che nell’atto di aggiudicazione conseguente all’espletamento da parte dell’ente: infatti, ricordando l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il processo verbale di aggiudicazione cui si addiviene a seguito di un’asta pubblica non è un atto preparatorio del contratto, ma equivale ad esso per ogni effetto di legge, l’atto notarile stipulato nel caso de quo non faceva altro che riprodurre in forma pubblica una vendita già perfetta in tutti i suoi elementi. La cassazione analizzando la sentenza impugnata chiarisce che poiché, nel caso di specie, il contratto stipulato innanzi al notaio non era meramente riproduttivo di un accordo già perfetto, ma conteneva tutte le indicazioni necessarie per individuare l’oggetto della traslazione, il momento traslativo andava individuato nella stipulazione del contratto. Infatti, a fronte della deduzione dei ricorrenti secondo i quali, poiché l’aggiudicazione equivale a contratto, occorre fare riferimento ad essa per individuare gli elementi dell’accordo, il collegio assume che se è pur vero che il principio generale per il quale nei contratti traslativi di un diritto di proprietà o di altro diritto reale di una cosa determinata il diritto si trasmette per effetto dello scambio dei consenso non ha eccezioni, per cui ad esso sono assoggettate anche le procedure della licitazione privata o dell’asta pubblica espletate da un ente, tuttavia, affinchè l’effetto traslativo si produca è necessario che sia ben individuato l’oggetto della vendita. Pertanto, l’assunto dei ricorrenti, secondo i quali, nel caso dell’asta pubblica, la proprietà si trasferisce nel momento in cui viene redatto il verbale d’aggiudicazione, elude l’obiezione perchè la vendita, per esser valida, deve riferirsi ad un oggetto già ben individuato. In conclusione, occorre verificare, in concreto, se il contratto stipulato a seguito di una gara abbia effetto costitutivo o ricognitivo dell’effetto traslativo. La necessità di un approccio pragmatico è, infatti, sottesa alle disposizioni che regolano l’amministrazione del patrimonio degli enti pubblici e che prevedono solo in via eventuale che il verbale di aggiudicazione tenga luogo del contratto. Nella fattispecie concreta all’esame della corte, la sentenza impugnata ha individuato il momento del passaggio della proprietà analizzando la procedura posta in essere ed, in particolare, il fatto che al contrario del bando che conteneva un’indicazione generica della volumetria del fabbricato, l’atto notarile conteneva una precisa descrizione dei beni oggetto del trasferimento; pertanto, dalle difformità tra il contenuto del verbale e quello del contratto, poiché il giudice ha desunto che il bene è stato individuato per la prima volta nell’atto notarile, l’effetto traslativo si è verificato al momento della sua stipulazione. 3. Corte di cassazione, terza sezione civile, n. 13529 dell’11 giugno 22009, in tema di responsabilità dell’intermediario finanziario. La pronuncia tratta dell’interessante tematica relativa alla responsabilità degli intermediari per i danni arrecati ai clienti dai comportamenti dei promotori finanziari da essi dipendenti. In particolare la cassazione ha stabilito che tale responsabilità sussiste nei casi in cui esista un rapporto di occasionalità necessaria tra le incombenze affidate al promotore ed il fatto da lui commesso. A seguito del ricorso proposto dalla banca condannata dalla corte d’appello, che aveva affermato la sua responsabilità solidale per i fatti commessi da un promotore finanziario, la suprema corte rigetta le doglianze, ritenendo in primo luogo che nella fattispecie de quo il rapporto di occasionalità necessaria non poteva dirsi escluso sol perché i clienti avevano sottoscritto l’acquisto di valori mobiliari acquisiti non dalla banca che aveva dato l’incarico, ma da un’altra società ed inoltre che aveva concorso a cagionare il danno il comportamento colposo tenuto dalla banca che aveva versato direttamente sul conto corrente del promotore finanziario le somme del cliente, configurando così un condotta delineante il reato di appropriazione indebita. Tuttavia, nonostante la sussistenza della responsabilità solidale della banca la cassazione stabilisce che quest’ultima potrà comunque rivalersi per le somme versate al cliente a titolo di risarcimento dei danni sul proprio promotore finanziario. L’unica censura che la corte accoglie in relazione alla sentenza impugnata riguarda il profilo della corresponsabilità, nella produzione del danno, in capo all’investitore, il quale aveva violato le regole indicate nelle proposte di sottoscrizione dei valori mobiliari relative all’affidamento dei propri capitali all’intermediario, accettando, all’atto del disinvestimento, di versare le somme sul conto corrente proprio del promotore: la corte d’appello infatti, pur avendo, da un lato, riconosciuto la necessità di un comportamento maggiormente diligente dell’investitore dall’altro non ha indagato su una sua eventuale corresponsabilità nella produzione del danno. 4. Corte di cassazione, sezione lavoro, n. 13337 del 10 giugno 2009, in tema di dimissioni forzate del lavoratore e responsabilità del datore. Le disposizioni previste dalle normative in materia di diritto del lavoro sono improntate al principio della tutela del favor prestatoris, secondo il quale poiché, a differenza degli ordinari rapporti contrattuali, il rapporto di lavoro è caratterizzato, non dalla parità tra le parti contraenti, ma da una posizione di supremazia del datore, occorre tutelare la posizione del contraente più debole. Ne costituisce, per esempio, applicazione il fatto che il contenuto del rapporto è si regolamentato dal contratto individuale, ma, in realtà, la fonte negoziale ha un valore interpretativo residuale, dato che esso non può contrastare con la legge né con il contratto collettivo, salvo che si tratti di norme derogative in melius nei confronti del lavoratore. In particolare, per quanto concerne la materia del licenziamento e delle dimissioni, la legge prevede vari limiti al potere del datore di recedere dal contratto, ed anche se, in generale, è prevista la libertà della forma dell’atto delle dimissioni, al fine di evitare che dietro di esse si nasconda un licenziamento, in vari casi, come quello della donna in gravidanza o i. procinto di contrarre matrimonio. sono previste delle regole particolari per garantire la libertà e la validità delle dimissioni. In applicazione delle regole generali, la cassazione, in questa pronuncia, afferma che è possibile chiedere l’annullamento delle dimissioni del lavoratore laddove la volontà sia stata coartata dal comportamento intimidatorio del datore. In particolare, nel caso de quo, una commessa cita in giudizio il suo datore di lavoro, impugnando le proprie dimissioni, presentate a seguito della minaccia di licenziamento e di denuncia penale del reato di appropriazione indebita, commesso durante la vendita di un prodotto ad un cliente al quale non era stato emesso lo scontrino fiscale. In primo grado il giudice accoglie la richiesta dell’attrice, condannando il convenuto a pagamento delle retribuzioni ed ad un equo indennizzo. Tuttavia, la sentenza viene riformata in sede di appello, avendo il giudice accertato l’appropriazione da parte della commessa della somma indicata dal datore ed affermato che la minaccia del datore, atta a esercitare un proprio diritto, non era diretta a conseguire un vantaggio ingiusto. L’attrice propone ricorso per cassazione lamentando che il giudice di secondo grado non aveva tenuto conto di una serie di circostanze, quali il suo stato di gravidanza e la sussistenza, nel comportamento del datore, di un atteggiamento persecutorio ed ingiusto. La cassazione ritiene, da un lato, inammissibili le doglianze rivolte contro l’accertamento, da parte della sentenza, del fatto di appropriazione indebita, ed, inoltre, afferma che la minaccia di far valere un proprio diritto può portare all’annullamento dell’atto solo se essa sia diretta a conseguire vantaggi abnormi, mentre, nel caso di specie, il giudice con apprezzamento motivato e logico, e perciò insindacabile, ha accertato che il vantaggio non aveva assolutamente tali caratteristiche, trattandosi del risparmio della retribuzione per i cinque giorni successivi alla contestazione dell’addebito. La cassazione, al contrario, accoglie le doglianze relative al mancato accertamento del comportamento intimidatorio del datore e rinvia a tale fine il giudizio. A seguito dell’accoglimento della domanda da parte del giudice del rinvio, i soccombenti ricorrono in cassazione, ma la suprema corte rigetta il ricorso da un lato perché le minacce perpetrate dal datore costituiscono una minaccia ex art. 1434 e, dall’altro, perchè non è possibile in tale sede una nuova ricostruzione dei fatti. I soccombenti ricorrono nuovamente in cassazione chiedendo questa volta la revocazione della sentenza per errore di fatto. Tuttavia, la suprema corte dichiara inammissibile il ricorso ritenendo che i ricorrenti non stanno lamentano la sussistenza di un errore di fatto, cioè di un errore di percezione o di un errore materiale che abbia portato il giudice a ritenere esistente un fatto inesistente o viceversa, ma di un errore di diritto.