La luce elementare di Elio Fiore

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P O S T E D O N 21 APRILE 2016 B Y A N D R E A G A L G A N O
La luce elementare di Elio Fiore
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Il Direttore risponde
Il Vesuvio nel pallone
L'intervista
La nota di Antonio Colasanto
Libri
È un autentico scrigno prezioso l’intera e ingente raccolta dell’intero corpus poetico di
Moda e Tendenze
Elio Fiore (1935-2002) – L’opera poetica (Edizioni Ares), a cura di Silvia Cavalli, con una
corposa sezione di inediti e con la prefazione di Alessandro Zaccuri – sia per la
Napoli esoterica
rivitalizzazione di un autore che sorprende ed invita e sia per la straordinaria qualità
che, come scrisse Carlo Bo, nella Nota introduttiva all’Antologia Poetica, si sorprende
Napolisofia
nella «[…] capacità di concentrazione e nello stesso tempo di irradiazione» che chiama
«intorno a sé le voci di ieri e quelle di oggi, quelle dei suoi amici Ungaretti e Montale e i
Pensieri parole emozioni
canti delle Benedettine che conservano per i posteri il monastero di Viboldone. Un coro
però che riesce ad evitare le confusioni e i diversi sensi delle espressioni dei suoi fratelli
Saggezza popolare
Scuola e Territorio
Proprio Ungaretti, in una lettera-prefazione alla sua prima raccolta scriveva che «Se la
Urban… storie di periferia
poesia è bruciare di passione per la poesia, se è vocazione ansiosa, tormentosa a svelare
nella parola l’inesprimibile, nessuno è più poeta di Fiore», sottolineando così una sorta
Vesuvio–>Bruxelles andata e ritorno
di gremita predestinazione di occasioni e dettagli, luoghi e nomi, di un poeta, come
sottolineato dalla appassionata e ricca prefazione di Alessandro Zaccuri, «sempre alla
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quella della comunione».
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in poesia e in fede. Ecco perchè la sua poesia rientra nel registro della purezza e in
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ricerca di simboli che certificassero l’esattezza della sua cabala personale. Ogni
frammento si caricava di un valore simbolico».
La sua opera d’esordio, Dialoghi per non morire (1964), rielabora le rapide ungarettiane
e il simbolismo popolare attraverso una intensa visione esiliata, capace di ammantare il
grembo della sete lucente di bellezza, la straziata domanda e la proclamazione vitale, il
fulcro conteso della sperdutezza e il delirio visionario (Guido Ceronetti) e, infine, come
scrive Paolo Lagazzi, «[…] il gusto di un’autenticità remota, perduta: la fragranza del
pane azzimo; la tenerezza della colomba o dell’agnello; la dolcezza del sangue»,
affinchè la poesia possa testimoniare «[…] il peso del male nella storia: ma, insieme, la
speranza assoluta intrinseca all’amore. Sorta di lauda drammatica tra un figlio e una
mater dolorosa intenta, fra le rovine di un bombardamento, a colmare di luce il loro
buio, la poesia sgombra subito, con un gesto impetuoso, qualsiasi margine di cautela
dalla soglia dei Dialoghi: optando contro le esigenze della forma “finita”, per la forza di
uno scavo allo stremo nel male e nel bene del mondo[…]».
Nella crucialità estrema e memoriale, Fiore condensa la sua partitura di vasta maternità:
la guerra, attraversata nel ricordo della madre, che sotto le macerie della casa distrutta
dal bombardamento di Roma del 19 luglio 1943, fa della memoria carne rammendata,
respiro che si allunga nel buio, fiato spaesato nel silenzio, dove la vita sepolta in un
tumulo di dolore infrange l’arco rauco del tempo e le pietre spaccate: «L’invocazione del
bambino («Madre!») e la risposta della donna («Figlio!») e la sua preghiera alla «Madre di
Dio» stabiliscono il ritmo del tempo che si astrae e diviene sacro proprio in quel grido:
«Gente! Gente salvate / il figlio mio!». Tutto il ritmo della poesia si gioca tra l’urlo e la
stasi del grido, fino alla salvezza. Ma quel grido risuona ancora nella mente del poeta, in
altro tempo, di pace, quando osserva la madre che rammenda a sera. L’urlo della madre
che chiama per salvare il figlio, cui fa da scudo contro pietre e polvere col suo corpo, si
accosta nella poesia di Fiore a quello di Anna Magnani, che grida un nome, Francesco,
nome del suo compagno che viene catturato dai nazifascisti nel film Roma, città aperta di
Rossellini. Era il Natale del ‘44 e il bambino Fiore assiste alla scena senza comprenderne
la finzione, terrorizzato all’idea del ritorno dei tedeschi, scosso dal grido che gli ricorda
quello materno e dalla visione della donna uccisa a mitragliate. Anche questo urlo
divenne una poesia-dedica, intitolata Anna Magnani, che l’attrice considerò come un
canto d’amore» (Fabiana Cacciapuoti).
È la transizione della luce depredata la fibra d’amore che intreccia la radice di una forza
religiosa profonda, in cui, come afferma ancora Paolo Lagazzi, «l’umano e il divino, il
buio e lo splendore, l’ombra e la grazia s’incontreranno, scontreranno e stringeranno di
continuo tra loro – tutte le parole, le cose, le figure via via traendo senso dal loro
interagire con l’insieme».
Questa fitta nascente, che richiama l’intertestualità facendone mosaico libero e
celebrativo, lievita nell’indizio di un dialogo e di una profanazione che si spingono fino a
Brecht, Éluard, Neruda, illuminando il fondo dell’anima, la stagione, l’inquieta ombra dei
vivi, il cielo delle parole segrete, la radente chimera orfica di terra e canto (un Dino
Campana del secondo Novecento», hanno sostenuto Cesare Cavalleri e di recente
Alessandro Rivali), attraverso i rimandi e le deviazioni del «gioco intertestuale di citazioni
da altri poeti che diventano proprie, incastonandosi nei suoi versi, a testimonianza di
una poesia viva, che sia corpo di parole, sangue e dolore, pietra dura, mai retorica, e
ardua nella ricerca di una lingua plurima che renda il sentire nelle cose e attraverso le
cose, una lingua sperimentata nella resa dell’oggetto, del piccolo, del semplice, del
minimale» (Fabiana Cacciapuoti).
accordi, dove il paesaggio è prova di quella «perseveranza d’amore» senza fine, di quella
benedizione di acqua piovana «baciati dal sole di menta» che fa emigrare il tempo nelle
terre ondulate, negli ombrosi carrubi dolci alla luna e nella luce aperta e ritmata, carpita
nelle violente e violate irruzioni (Battevano i soldati alle porte coi fucili), nella visione
amorosa dell’estate del ’47 (Per Janka), tuffata nel «mare senza frontiere», nella rinascita
soffusa delle albe e nel trionfo glorioso degli squarci tra le mura.
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della memoria diventata coscienza storica, rappresenta il tessuto della sua tessitura di
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La solitudine, che convive con l’asprezza solitaria della smisuratezza e del messaggio
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La fedeltà alla vita è la soglia della sua apertura, la chiara attitudine di un mondo che si
consuma ma che si apre alla feracità del tempo redento e delle «orbite di luce» come
trama d’amore: «Questo ti prometto vita, disposto e puro / a salire le stelle nell’universo
se credi, / s’affinerà per le creature la trama d’amore: / qui si vedrà di pietra in pietra,
consumarsi / poetando la mia vita in altri cuori e volti, / sarà chiarezza la fonte del mio
cominciamento».
È attraverso la luce smussata, il rosso del mantello sfilato nel sudore («Figlio, non
tardare / alla festa di sera, figlio / quale mantello scegli? / Quello rosso filato / in una
notte, nella notte/ senza luna che mi dicesti: Madre / guarda queste mani e il mio cuore,
/ questo sudore. Sono poeta»), le parole di sangue, il solco che si appropria delle
lacrime, la fabbrica che consuma le orme del tempo e dei respiri impediti ma protesi, nel
limite misurato, alla domanda fraterna che non muore, che si unge di passione,
«L’avvenire mi dia la forza / della Tua voce, della Tua tempra / le parole possiedo la
concisa misura / la precisa forza che taglia i tralci / inutili alla vendemmia più che
futura», e al segreto dell’amore che «intende i colori cupi le ansie / in noi profonde
orbite, le ansie / occhi nei nostri occhi di gioia di morte / intense presenze non
apparenze, segnate per tutti», all’esilio di origine e taglio (Ode a Neruda)«Vestito di
cuoio e ossa / le tue parole sono pietre focaie originarie, fuoco / a questa generazione
che non crede».
Questa forza di grido che arde e che ama la libertà possiede lo slancio visionario e nitido
di una obbedienza e di un risveglio che rivolta la realtà, trasformandola in vera vita e in
vera tenacia a cui tendere, prima del giorno che scompare e nei silenzi dei popoli dove
egli avverte «i linguaggi dei loro riscatti / sommessi respiri tra i respiri»: «Miguel e
Torquato in carcere, l’Idiota / incatenato: l’esilio dei vivi poeti. / la sparizione degli
oggetti. Non è un triste / presagio: è la realtà la tua rivolta aperta: / si trasforma in vera
vita. Tu che vuoi conoscere / la presenza la ragione della vita. Ascolta. / Nella bianca
borsa devi contare, sii paziente / tutti gli oggetti: per salvare la fede / il coraggio la
memoria. Preparati il letto / sulle panche, non guardare in alto, riposa / accanto ai
fratelli assorti e con la barba nera. / Pregate per i calunniatori, stanotte fra le sbarre /
uomini liberi, ha per voi la vita pieno significato».
Fabiana Cacciapuoti afferma:
«La poesia di Fiore vuole quindi essere la risposta al male, ricerca di solidarietà e di
fratellanza; la sua parola, il suo molteplice linguaggio, muovono dalla conoscenza del
male per tendere oltre, in un superamento in cui ciò che è semplice, umile, naturale,
vince. La sua parola, la sua poesia testimoniano infine di una religiosità che non ha
bisogno di Dio, nel senso che seppure la fede accompagna la scrittura del poeta, la
religiosità che traspare è quella legata all’umano. Fiore si volge alla sofferenza
dell’uomo, sperimentata sulla propria carne, violata più volte dalle esperte mani della
scienza, che ha cercato di ricondurre alla norma il dire visionario, uccidendo – o
tentando di uccidere – la memoria. Hemingway all’ultimo elettroshock reagì con il
suicidio, perché gli toglievano la memoria. Fiore, dopo l’elettroshock, ha continuato ad
essere l’uomo semplice, puro, che a quella memoria calpestata e violentata ha tenuto
fede fino all’ultimo».
Maggio a Viboldone (1985) svela la radente misura di ciò che domina, irradia la
comunione di spirito con un’abbazia che diviene dono, forma di obbedienza e possibilità
risorta e bambina a cui destinare la propria contusione esistenziale, per
«ricaricarsid’amicizia ed essere, così, pronto al richiamo della poesia», come ricorda
«Qui, la luce trasforma i mattoni rossi / dell’Abbazia in note musicali senza tempo, / una
sinfonia eroica nello spazio eterno. / Apro la finestra: Dio, quante stelle in cielo!».
Questa condensa di visioni azzurre scoperchia la ruminata luce azzurra di dolcezza e
terribilità e, proclama gli annunci, come scrive Mario Luzi nella prefazione a In purissimo
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Una scoperta redenta, una sinfonia eroica, un miracolo di stelle impazzite di là da venire:
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Luisito Bianchi.
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azzurro (1986): «Sono annunci, lamentazioni, terribili accuse, luminose ascese e discese
della “profezia” che traversano il nostro tempo così impetuosamente e così
implacabilmente che io non conosco altro libro di poesia nostra dove la tragedia
dell’epoca sia altrettanto presente nei suoi grandi traumi apocalittici e nelle sue
quotidiane circostanze, sotto la trafittura della luce e del grido. Dal profondo non del
deserto ma del gonfio cuore della Roma israelita straziata dai nazi l’evangelico poeta
assume su di sé i mali e le ingiustizie conosciute da presso. Proprio questo dà a quei
mali e a quelle sventure una forza di protesta nuova, lieve e incontrastabile unita com’è a
quella d’una fede che pare abbia perduto la sua ineffabilità e trovato il soffio, il
movimento, il sorriso della presenza viva».
È nella collettanea dialogica che Fiore trova la folla gremita della pienezza (il chiaro
silenzio di Saba, Ungaretti e il suo astro incarnato nell’umane tenebre, l’eterna corsa di
Anna Magnani, il purissimo azzurro di Leopardi, gli scavi dei barlumi di Liliana Cavani, le
carte celesti di Miguel Hernández, le rose di Mario Luzi, le veglie di Hermann Hesse, i cieli
di Alfonso Gatto, ancora Neruda, il sabato implacabile di Sibilla Aleramo, le illuminazioni
di Joyce e le trombe finali del Giudizio, il fiorito spazio di Attilio Bertolucci), l’aria della
lingua che trapassa la bellezza, invoca plenitudine negli scarti delle lamiere forate che
forgiano nel dolore la speranza, la pena fertile delle radici contorte, le onde tremanti di
Cuma e il grido delle stelle di Rafael Alberti.
Silvio Ramat, a proposito di questo diarismo «confidenziale e minuto» che apre la piaga
del poeta a una sospensione indecisa e sospesa tra figuralità e nominalità, scrive che il
contrasto che si registra: «fra tale vivida tutelarità che ad essi compete (una sorta di
consulenza disinteressata, esemplare) e la dannazione, il male del mondo, al quale
restano vincolati sia la memoria individuale del poeta che il suo inalienabile istinto di
guardarsi, anche oggi, intorno».
Fiore scopre il cuore eterno nelle notti mondate, sillaba i pugni chiusi delle preghiere
sotto il cielo stellato e il fuoco dei deserti dove attendere l’alba e la consumazione dei
secoli nei frutti d’estate, la tenebra irradiata: «Mentre salgo queste scale / mi dico: sii
forte. Non invano / è caduta questa stella, / l’illimitato amore che nasce per l’aurora, / si
consuma, nelle tenebre vive e muore. / «Shalòm» sussurrano brividi nel cuore».
È grazia superstite, briciola risorta che viene sovrastata dalla materia poetica con un
trapasso lirico, attraverso una lunga feritoia squarciata tra i rotoli che semina antichità e
puntualità di vento, come la parola eterna della luce o i cedri del Libano: «Dall’azzurro
ancora le rose fiorite / nello squarcio d’infinito che mi è dato, / tra le antenne polverose,
tra fili corrosi / che gocciolano candidi vestiti / la costante / presenza della vita. E poi
altro. Sbarre, / vicoli e meandri, frecce che racchiudono / nel buio di cantine, misteri, il
futuro / di un orrendo passato. Anche lassù, vedo, / nello squarcio d’infinito che mi è
dato, / rose bianche tra le pietre antiche di un balcone, / che il vento puntuale d’Israele,
qui ha seminate. / le rose del deserto, ancora bianche, insanguinate».
In Nell’ampio e nell’altezza (1987), Fiore sperimenta la vasta consanguineità di poesia e
profezia e, come sostiene Emerico Giachery, «ad essa si affianca nello scrutare e
testimoniare e con sicura passione annunciare una modalità tutta particolare del vivere.
Un vivere in cui tutto è segno, presagio, “figura”, in cui i segni intrecciano un tessuto
significante di arcani riscontri e coincidenze e richiami. Un vivere che si offre […] come
luogo deputato ad apparizioni rivelatrici. Ora, dove tutto è segno, nulla è privo di
senso».
stelle rade e vive, rivelare la densità istantanea di un colloquio umano e quotidiano con
l’altezza e con il lievito intimo dell’esistere e del vivente, in ogni fluire di stanze e sciami
trascesi per «seppiare nell’anima».
Scrive Maria Di Lorenzo: «Tutto in Fiore allora è teofania, tutto è lotta incessante perché
il bene prevalga, e con il bene la Bellezza che imperitura governa il mondo. Tutto è
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Tabor a Recanati dove risillabare l’Infinito, ampliare l’abbraccio leopardiano in un alito di
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La consegna epifanica di lune e albe da attendere, il mormorio angolare del monte
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segno di qualcosa che nasce dalla Storia e che poi la trascende, la supera nell’avverarsi
della profezia, e di cui la poesia si fa, necessariamente strumento».
Così come i Notturni (1987) di Patmos, vivono nella carne e nel sangue nutriti di silenzio,
come sostiene Cesare Cavalleri, incorporando sequenze sillabate di eterno: nel vento
che mormora parole antiche, nella volta radente e paradisiaca, nell’agone di buio e di
vita estesi, che decifrano la rivelazione divina.
È il mistero della vita, l’indizio compiuto della sua opera che contempla nuovi cieli esatti
e puri, vegliando l’universo all’accendersi della prima stella, come reca il titolo di una
prosa del 1988, in cui il sovrasenso teologico si ammanta della realtà incarnata, in tutta
la sua potenza e decisività di oltraggio e bellezza, «Mentre la terra trema, / con dovizia il
massacro continua / tra Iran e Iraq. Continua / la Storia filmata e ogni sera, / su tutti i
televisori / del mondo, appaiono / gli assassini in mezzo al sangue degli / innocenti», a
cui indirizzare la propria domanda elementare e il proprio clamore di carne: «[…] Siamo
/ tutti poveri Signore, abbiamo / bisogno del tuo integro azzimo, / della tua vendemmia.
Abbiamo freddo / e solo tu puoi scaldarci, / in questo desolato inverno umano, / solo tu
puoi farci riaprire / gli occhi all’eterno».
Scrive infatti Alessandro Zaccuri: «Ma la prosa di Fiore non è soltanto documento di stile,
in quanto essa consente di rileggere in filigrana l’avventura visionaria e nel contempo
storicissima di questo poeta, una ricerca caparbiamente guidata dal riferimento costante
a un contenuto ed eteroclito drappello di figure e scritture».
È nell’impolverato e lucente grido improvviso che la sua lama profonda entra nel reale
per renderlo numinoso e sorretto, per sostanziare il fulcro dell’umano in un trionfo di
germogliazioni che si abbeverano alle fonti leopardiane con spasmo e prolificità,
entrando in quei diaspri di cielo e terra con il dettaglio e il colpo che cresce, decriptando
la parola nella speranza cristiana e nella gestazione dello Spirito in tutte le sue forme, e
«senti che l’infinito si svela nella poesia di Fiore», afferma Claudio Toscani «senti anche
le cose dello stato presente, è vero, e le immanenti immanenze; ma senti pure
l’irrappresentabile vertigine del divino». (Improvvisi, 1990).
Come la raccolta Myriam di Nazareth (1992), con la prefazione dell’allora arcivescovo di
Milano Carlo Maria Martini, in cui egli racconta di aver letto e meditato i versi nei pressi
del lago di Genesareth e riconducendoli a La vita di Maria di Rilke, che richiama la
giovanile impronta leopardiana, attraverso una breve preghiera, contenuta nel
supplemento degli Inni cristiani, solamente abbozzati dal poeta recanatese nel 1819 e
che Fiore mette in esergo nella raccolta.
Commenta, infatti, Fabiana Cacciapuoti: «Alla figura femminile, simbolo di un’infinita
accoglienza e di tutti gli arcaici significati insiti nella metafora del materno, Fiore dedica
questa raccolta che segue la vita di Miryam-Maria, non allontanandola però dalla cruda
realtà né dalla sua storia personale. Come la Maria di Leopardi, quella di Elio custodisce
un’antica sapienza; come per Leopardi questa vergine fanciulla può comprendere il
dramma degli uomini, dramma eterno, fatto di violenza, soprusi e morte».
Alla Rosa del Creato, al sì dell’Incarnazione, al colore del Paradiso, Fiore rivolge il suo
angolo sperduto e febbrile di usignolo smarrito che annuncia pienezza e sofferenza, in
un sovrabbondante empito religioso che cerca gli occhi dell’universo per segnare il
mondo dal suo portico e dal suo schermo di luce elementare.
segni invisibili», alla carità delle piccole cose e degli incroci miracolosi, fino alla porta del
nuovo giorno e del grido nel deserto: «Ascolta, giovane poeta, anch’io lascio / poco da
ardere, ma ho visto l’azzurra luce / di Leopardi. Matto per questo mi hanno preso,/ ma
visionario significa essere fisso e attento / alla chiamata del mistero dell’Universo, / alla
parola che tempera l’alto disegno / svelato del Creato. Ed io sono qui, per questo, /
povero e solo, ma nel mio cuore il Verbo dell’Universo, / il canto, non calcolato come di
certi nuovi credenti / del mio tempo. Ungaretti, Montale, Sbarbaro, / Bertolucci, Sibilla e
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smossa, in cerca di salvezza e fedeltà «alla musica segreta, / alla chiamata del Creato, ai
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È Il Cappotto di Montale (1996), a cui il poeta offre il suo isolamento e la sua fodera
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Luzi, li ho cercati e mi hanno / riconosciuto. Vivo e attento ad ogni loro verso, /
infiammato e fedele alle loro vite, riconosciuto / nel profondo del mio essere, scavo alla
radice / della poesia, mente da mente. Che dirti, / poeta che muovi i primi passi? Vivi
intensamente, / stai lontano dai letterati infidi, ama i versi / dei poeti che hanno pagato
con il sangue / la salita suprema, dopo la selva oscura e il principio / dell’anima
smarrita. Sii fedele alla musica segreta, / alla chiamata del creato, ai segni invisibili,/ e
drizza l’occhio alla visione improvvisa, / alla chiamata. Nella notte dell’anima, sentirai /
l’umiltà d’Iddio, la parola semplice, ispirata./ Altro non posso dirti, io che sono tra i vivi /
e prego i morti, solo, ma resuscitato».
Fiore E., L’opera poetica, a cura di Silvia Cavalli, prefazione di Alessandro
Zaccuri, Ares, Milano 2016, pp.728, Euro 20.
PENSIERI PAROLE
EMOZIONI
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C A P P O T T O D I M O N T A L E, I M P R O V V I S I, I N P U R I S S I M O A Z Z U R R O, M A G G I O A V I B O L D O N E, M A R I O L U Z I,
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