silloge - Alberto Beccari

Transcript

silloge - Alberto Beccari
44
CARMI V
2006
Carme CVI Gennaio
Dio ti ringrazio per la fresca neve,
Non la solita triste spolverata
Come zucchero a velo sulla torta,
Ma così lieta e soffice e abbondante.
Ora bambini stattemi a sentire:
Con le mani formate una pallina,
S’abbufferà di neve rotolando,
S’ingrosserà sino a sembrar’un corpo
Ed una palla formerà la testa;
Una buccia d’arancia per la bocca
Uno stecco ricurvo come naso
Due sassolini a modo d’occhi neri:
Ora esultate, ché il pupazzo è fatto
Ed alla fantasia vi s’apra il cuore
Com’io l’aprivo allora, da bambino,
Mentre guardavo scendere le falde
Bianche ed allegre come le farfalle.
Ed ingenuo pensavo che il futuro
Sarebbe corso via, sempre felice,
Sopra un manto di bianco vellutato.
Dio ti ringrazio ancor per quella neve
Anche se or so che poi verrà ‘l disgelo.
Carme CVII La prostituta.
Mentre assiugava i piedi coi capelli
Le lacrime scendendo ,giù dagli occhi
Facevano brillar le nere cilia
Come rugiada fresca sopra i fiori:
- T’amo Signore mio, T’amo e Ti credo
E sempre seguirò le tue parole,
Verrò dovunque Tu vorrai portarmi. E Lui la sollevo, pietoso, e disse
- Tu sei la prima e t’amo più dogni altra,
Perché viscido l’uomo ti disprezza,
Raccogli l’odio delle donne tutte
Che son gelose di figli e mariti;
Sei un fiore da sempre calpestato;
E l’umile tra gli umili tu sei,
Ma nel mio regno tu sarai tra i primi.
45
SILLOGE - A SILVANA
Carme XXX A Silvana
Non t’aspettar da me dei canti eletti
Di Romeo sugli amori e di Giulietta,
Di Giuda o di Medea sugli atti abietti,
D’Edipo sulla storia maledetta,
Ma solo versi docili e corretti
Dalla cadenza armonica e perfetta
Che dolcemente cullan gl’intelletti
Con la semplicità dell’operetta.
Son cose fresche, come a primavera
Zeffiro fa, accarezzando e via,
Per volar verso l’ombre della sera.
Sarà così, tutta la mia poesia,
Perché ti giunga soffice e leggera
Con un pizzico di malinconia.
Dal libro
CARMI I
‘VINCITORE DEL - PREMIO INTERNAZIONALE A. MANZONI 1966. ‘segnalazione speciale
- premio S. Marco - cita’ di Venezia 1995 - e al - premio Surrentinum - 1995
1948
Carme VIII
Ai raggi di pallide stelle,
Il labbro d’amor assetato,
Sul labbro assetato d’amore
Si posa.
È come un mistero, un incanto
Che avvince ed unisce due cuori
E voi stelle tacite in cielo
Guardate.
L’armonica pace del buio
Invade la timida notte:
La luna, tra un velo di nubi,
Scompare
E complice assiste il creato
Al compier del grande mistero
Che in anima e corpo, nel buio,
Ci unisce.
Carme IX
Spera,
poeta infelice,
spera d’aver quel labbro,
di suggere il miele
che Venere e Marte,
un tempo lontano,
poté,
ben più in alto d’Olimpo,
portar
regni eterni a scoprire.
Carme X
(Traduzione libera da Valerio Catullo.)
Ora viviamo, Silvana, ed amiamo,
46
Le chiacchiere dei vecchi maligni
Tutte un soldino stimare dobbiamo.
Possono i soli cadere e salire,
Ma quando spegnesi la nostra luce
Resta una notte d’eterno dormire.
Or mille baci tu dammi, poi cento,
Quindi altri cento ed ancor altri mille,
Infine ancor mille, ancora altri cento.
Poi, quando stanchi sarem di baciare,
Presto confonder le somme dovremo
Che niun malvagio ci possa invidiare.
Carme XII
Quando con l’ombra sua muta la notte
Ogni cosa mortal e la sfigura,
Se la tristezza, l’anima t’opprime,
Prova a pensar a quella ciocca nera
Che birichina starnutir ti fece,
Od al color di quegli occhietti vivi,
E a quante volte la baciasti, oh quante!
Vedrai che lieto giungerà il riposo
Rinnovellando del suo bel sembiante.
Carme XIV
Sognamo insieme, gioventù ci aiuta,
Amor ci guarda e ci sorride amico,
Siamo felici e ci vogliamo bene.
Che mai potrò più chiedere alla vita?
Che mai potrò più chiederti Signore?
Che possa tal felicità finire,
Quando dal mondo fuggirà l’amore.
Carme XVIII
Alta è la notte
e domani
sta già per venire.
Le palpebre grevi
si chiudon
sul sogno dorato:
sono felice.
Tra poco
gli occhietti graziosi,
il suo naso
e calda
la bocca sua
e i suoi capelli neri,
per me,
sol per me saran belli.
Alta è la notte
e, nel cuore,
sogno e realtà
si fondono insieme.
1993
Carme XX
(Premio Levico 1994 Menzione speciale della giuria)
La morte mi sta
muta davanti:
golosa di ghermirmi.
47
Nonostante l’amor tuo,
oltre la porta, resto
solo con lei.
Per quanto grande sia
la tua disperazione,
copioso il tuo pianto,
non potrai caricarti sulle spalle
nemmeno un soffio
del silenzio e del buio,
infiniti,
che mi attendono.
Eppur dall’amore tuo,
Silvana,
da quel tuo pianto
mi tornerà la luce.
Carme XXIII
Se ti venisse voglia di un sonetto
Dimmelo pure: subito lo scrivo
E spero che verrà grazioso e vivo,
Come le gambe allegre di un balletto.
Voglio che scorra il verso ognor perfetto
Come fa l’acqua del giocondo rivo
E nella mente già me lo descrivo
Sì coreografico, come un minuetto.
Or dal Foscolo sette rime prendo
E le mie sette affido a fausti eventi
Poi sulle bianche pagine le stendo.
Ecco che questi miei truccati accenti
Come mia merce, amore mio ti vendo,
Ma di malizia hai gli occhi rilucenti.
Carme XXV
Dopo la morte questo corpo stanco
Ardi col fuoco, e cenere ritorni;
Quando a tua volta il dolce capo bianco
Poserai fiacco, per i lunghi giorni,
Mano pietosa per eguale uffizio,
Dissolva al fuoco i tuoi dolci contorni.
Nell’urna stessa attenderem che il vizio
E la virtù si venga a giudicare
Per ritrovarci il giorno del giudizio,
Un attimo, amor mio, senza aspettare.
Carme XXVI
(Padus Amoenus Sissa: Premio Coltaro 1997)
Ogni mattina,
tu giaci al mio fianco nel letto,
con torpidi occhi
al risveglio.
Leggero odo uscire,
dalle labbra, il respiro:
la vita!
Ti guardo commosso,
incantato:
tu dolce, amorosa,
abitudine mia
felice.
Carme XXVIII
48
Silva mi sembri una capretta nera
quando ritorni dalla parrucchiera:
civettuola ed allegra,
coi capelli d’ebano
con i garbati riccioli minuti.
Così mi sembri una capretta nera
quando ritorni dalla parrucchiera.
Peccato! Un filo bianco,
un altro, un altro ancora,
si mescola al colore dei capelli.
E se non fosse per quei pochi fili,
tu sembreresti una capretta nera,
quando rincasi dalla parrucchiera.
ALTRE 1994 - 2004
Carme XXXIX
Se fossi nato in un diverso tempo
Senza saperlo, oh solo amore mio,
Come t’avrei cercata inutilmente!
Con Alessandro nelle donne indiane
Così sensuali e piene di mistero,
O con Cesare tra valchirie bionde
Nelle nebbiose selve dei Germani;
Con Marco Polo nell’antica Cina
tra le donnine sue di porcellana,
O con Colombo, verso un mondo nuovo,
L’orme seguendo del divino Ulisse.
È forse questa l’ansia che sospinge
Uomini seri, uomini sapienti
Le fonti a ricercar del Nilo azzurro,
La bianca vetta del Kilimangiaro,
Senza riuscire a darsene un perché?
Ecco un vero miracolo di Dio:
Trovarsi insieme nello stesso luogo,
In un attimo dell’eternità.
Carme XL
Ti ricordi la gioia
di quei giorni a Venezia
in quell’eterno camminare
senza una meta,
in quell’andare,
l’un dietro l’altra,
per le sue fresche calli
uscendo uniti
nel sole dei campi stupiti
dai limpidi bagliori
dei marmi,
dei mosaici, degli ori?
Ti ricordi la gioia
del mutar dei colori
dell’acqua
al cangiar del tuo viso,
del tuo sorriso
che lentamente
andava spegnendosi stanco,
49
nella notte rosata
dagli antichi lampioni,
in una romantica,
calda ballata?
Or nelle nebbie
d’un’età grigia,
avvolta nei bianchi capelli,
rammenta quei giorni monelli
pieni d’oblio, vuoti d’affanni;
quei giorni leggeri nel sole.
Carme XLI
Noi siam due note,
Do diesis re bemolle,
Un solo suono.
Carme LIII
Ti ricordi, Silvana,
quel primo fuggevole bacio
nella strada di periferia
al separarci
per ritornare a casa?
Quel casto bacio sulla bocca
nel buio della sera,
là, sotto lo spento lampione
della chiesetta
vicino all’ospedale?
Noi eravamo
in un romanzo rosa
dell’ottocento,
fatto d’amore
che rimava con cuore,
quasi ritratti
in un quadro di banalità.
Ma che felicità
nella casta promessa mantenuta
di quel continuo amore rinnovato
che, nel tempo disfatto,
ancora,
tu mi perpetui intatto.
Carme LIV - Conviviale - (alla tua zuppa inglese)
(Vincitore del prestigioso premio Giuseppe Tirinnanzi - Legnano 1999)
Ricordi quelle sagre di päese
Che dopo una fantastica mangiata
Finivan sempre con la - Zuppa Inglese - ?
Piena di crema casta e vellutata,
(Sopra la gialla, sotto quella nera
Divise da una brusca marmellata)
Avvolta in una rossa bomboniera
Fatta di savoiardi e di liquore,
Essa t’accompagnava sino a sera.
Colorata, così, come un bel fiore
Si disfaceva lentamente in bocca
Riempiendoti di gusto e di torpore
Come la nenia d’una filastrocca.
Carme LV
50
Quel giorno morirò.
Non sentirò mai più
quell’aria fresca delle Dolomiti
ricca di mille sensazioni estive;
né, suadente ed asprigno,
il profumo del mare;
né gl’incerti vagiti
delle nascenti, lievi primavere
nelle mattine del luogo natale.
Quel giorno morirò.
Il dolce volto, chino su di me,
d’una fresca infermiera
non potrà più formare nella mente,
neppure il desiderio d’un ricordo;
e forse in quel momento
le mani intorpidite
non palperanno più l’aspra carezza
del pulito lenzuolo di cotone.
Il cibo sarà fiele alla mia bocca,
una musica strana
giungerà da lontano,
fastidiosa come un ronzio di mosche,
mentre il pensiero formerà una voce
che l’arsa lingua modificherà.
Forse mi piegherà il dolore
dei muscoli contratti
a maledire il giorno d’esser nato;
o forse sarò cieco,
simile ai mostri
che popolano il mare
nei più profondi abissi,
nei sogni foschi delle notti cupe.
Ma sia qualunque cosa,
l’orribile momento
non potrà cancellare nel ricordo
quella mia vita, viva, insieme a te.
Allora amore mio,
prima d’entrar nel buio ad ascoltare
l’eterno e cieco suono del silenzio,
anche per un istante solamente,
io vorrei risentire la tua voce
Silvana mia.
Carme LIX
Ancora adesso, mogliettina mia,
Tu sei la mia letizia, la mia vita
Ed insieme la mia malinconia,
Perché si scioglie il tempo tra le dita;
Fugge il respiro, se ne va l’ardore,
Si fissa nel pensier la dipartita.
Ma dolce mi parrebbe il mio dolore
Se dalla trista caligine potessi
Sentir con la tua voce il tuo calore.
Carme LXII
Com’è ancor dolce il tuo pudore
Passato così tanto tempo:
Il buio è il regno del tuo amore.
Carme LXXII
51
Il dolce tuo sorriso
Si muta in ogni istante:
È l’acquerello verde
Dei prati in primavera,
È l’ombra che ristora
Chi va mietendo il grano,
Il rosso delle foglie
Che infuocano l’autunno,
Il brivido d’un lago
Blu nella casta neve;
Arsura ogni momento
E fresca sazietà.
Carme LXXVIII
Sei la mia luna
E quando brilli tu
Sorride il cielo.
Carme LXXXIV
Ricordi il caldo di quel giorno estivo!
Noi due sereni, sedevamo insieme
Sull’erba fresca, ai pié del monte Penna,
Là dove acuta s’inerpica la roccia,
Mentre il sole, giocando a luci ed ombre,
Alle cose donava lo spessore.
Il cocker di colore formentino
Scoperto aveva il giuoco della palla
E le ringhiava contro, ed abbaiava
Spingendola col muso e con le zampe;
Mentre la lunga lingua a penzoloni,
Per ricercare il fresco, s’agitava.
Insieme a lui giocavano i bambini
Correndo lieti sopra il prato verde
Col visetto arrossato dal calore.
E scoppiettava il fuoco della legna,
Mentre, posate in lastre di lavagna,
del bue cuocevan le rosate carni,
Atte ad ornare i tavoli di legno.
Poi pranzavamo allegri e spensierati
Con altri amici e col bicchiere in mano,
All’ombra fresa d’un maestoso pino,
Gettando al cane succulenti avanzi,
Quas’irridendo al tempo che passava.
Vi sarà ancora quella vecchia palla
In un vecchio solaio polveroso?
È morto quel grazioso cokerino,
Son diventati adulti i due bambini;
Ma noi siamo rimasti su quel prato,
Nell’erba fresca ai pié del monte Penna,
Dove acuta s’inerpica la roccia,
Sempre fermi, con lei, nel nostr’amore.
Carme LXXXV
Com’é dolce la sera
Dormire insieme a te,
E chiudere quel giorno
Con un tuo bacio lieve.
Svegliarmi nella notte,
Sentire la tua mano,
Così vicina e calda.
52
Destarmi la mattina
E porgere la guancia
A un assonnato bacio
Per dire con dolcezza,
- Buon giorno amore mio - .
Allora ti ringrazio
Lettone genovese
Di ferro ricciolino
Che sai render felice
Un bianco vecchierello
Ancora innamorato
De la sua vecchia amante.
Carme LXXXVIII
Ricordi quel sentiero di montagna
Che s’inerpica in mezzo ai pini verdi
Accompagnato da minute rocce,
Quasi pietre miliari d’una strada?
Poi vi s’apre la piana di Fuchiade
Ricca d’erbe e di fiori variopinti
Ornata d’orgogliosi martagoni
Torniti nei colori rosa e arancio.
Ricordi quella nuvoletta nera
Che sembrava giocare tra le rocce,
Quella piccola macchia contro il cielo?
In un atimo s’allargava tutta
Affamata d’azzurro luminoso,
Desiderosa di mangiarlo tutto.
E di tempesta s’imbruniva l’aria
Folgorata da dei bagliori vivi;
Il tuono percorreva le vallate
Mentre gli aghi di grandine, cadendo,
Penetravano, acuti, nei maglioni.
Poi d’improvviso tutto si taceva
E tornava a risplendere l’occaso
Come se Giove, già rasserenato,
Dopo riposti i fulmini infuocati,
Ci guardasse benigno e compiacente.
Tutto sembrava risvegliarsi allora:
Cantavano gli uccelli nella luce
Mentr’i cani spauriti, tra le panche,
Uscivano leccandoti la mano.
E gli insetti fecondi e laboriosi
Propagavan la vita d’ogni fiore;
S’intrecciavano i giuochi dei bambini,
Mentre noi due, avvinti e stupefatti,
Guardavami il tornare del sereno
E ‘l nuovo rifiorire della vita.
Carme LXXXIX
Tu, giovane e bella,
sembravi la vita
che limpida scorre:
grazioso zampillo
di fresca fontana.
53
SILLOGE ICONE.
(Segnalazione d’onore al Premio Firenze 1995:.)
A Sua Eccellenza il Cardinale Giacomo Biffi augurando che possa continuare a lungo nelle sue
coraggiose battaglie.
Per invocazione
Carme XXXIV Ave Maria
(Zingaresca: antica forma poetica.)
A Sua Santità Giovanni Paolo II° per un comune amore verso la madre celeste.
Ave Maria
di grazia piena,
chiara e serena,
il Signore è
sempre con te
e fosti tu
a dar Gesù
consolatore
al peccatore.
Tu tra le donne,
beata e insonne,
coi motti tuoi
preghi per noi;
per la mia sorte
sino alla morte.
.
Carme XLIII Icone.
a)
Egli era Dio presente ed infinito
Nell’eterno silenzio dello spazio
Quando dal giorno separò la notte,
Ponendo nel profondo e stelle e sole.
Così la luce con mille colori,
Mille armonie di suoni e di profumi
Suscitò la gran festa della vita
Che guizzò via vivificando l’onde,
Volando nell’azzurro all’infinito
E dando voce alla silente terra.
Tra piante, fiori, frutti saporosi,
Nacquero il bosco e la radura verde,
Il prato solatio con l’ombra fresca,
Il fuoco del vulcan ch’incendia i cieli
Ed il deserto, il rivo spumeggiante
Che corre come il tempo al suo destino.
Indi l’acqua sfuggente e multiforme
Venne a lambire la leggera arena
Ed Egli le impastò, fece una statua,
Un’anima v’infuse col respiro;
Poi graziosa e garbata una compagna,
Con grande amore, ancora gli donò.
b)
Eva tenendo sulle sue ginocchia,
54
Baciati gli occhi, accarezzando il capo:
- Eva - le disse - queste meraviglie
Che vanno sino al giunger della luce
Ed attorno rimiri all’infinito,
Tutte le fece Iddio, tutte ci diede. Ed ella a lui, fissa lo sguardo agli occhi:
- Amore mio di tutte queste cose
Tu puoi godere, ma nessuna è tua.
Le mucche tu le vedi ma non sai
Se son quante le dita d’una mano,
D’entrambe, oppure delle nostre insieme
Quando unite s’intrecciano amorose.
Vedi il lupo giocare con l’agnello,
Senti la fiera che ti lecca il viso,
Ma cosa muove mai le loro vite?
Che cosa batte dentro il loro petto?
Perché dormono e van brucando l’erbe?
Ma se saprai contarle ad una ad una,
Conoscere il perché di queste cose
Avrai la scienza e tutte saran tue:
Diverranno obbedienti al tuo comando,
Il tuo potere splenderà sul mondo. c)
Orgogliosa la mostra ad un’amica,
Stende la mano e l’indica col dito:
- Quella è Maria, mia figlia prediletta. Obbediente la bimba nella scala
S’avanza, verso il sommo sacerdote;
Questi l’attende sulla soglia sacra
Mite nel cuore, ma severo il viso
Incorniciato dalla folta barba.
Ricco di marmi la sovrasta il tempio,
Immenso appare agli occhi suoi, ma lei
Muove sicura incontro alla sua sorte.
d)
Venuto il tempo e giunto alla sua casa,
L’arcangelo Gabriele, mentre guarda
Quegli occhi liquidi com’é la notte,
Le dice - Ave Maria piena di grazia
Il Signore è con te. - Questo il saluto;
Poi le reca la volontà di Dio:
Del ventre suo santificato in Cristo
E della vita sua, del suo dolore.
Muta la donna, reclinato il capo,
Inginocchiata come una bambina
Al cospetto d’un mago misterioso
Che parlando le sveli il suo destino,
Trema pudica al verbo del Signore.
Dice: - Sia fatta la sua volontà. Lei, tra tutte le donne benedetta,
Pur subendo lo scherno dei vicini,
L’invidia delle sterili comari,
I primi ombrosi dubbi di Giuseppe,
Come una trepida, amorosa madre
Culla nel cuore la gioiosa attesa.
55
e)
Quando venne la notte misteriosa,
Prese il suo bimbo e, con le mani amiche,
Lo pose a riposare sulla paglia;
Un asino ed un bue soli compagni.
Dagli angeli avvisati nella notte,
Seguiti dal belar stanco del gregge,
Discesero i pastori alla capanna
Per adorare, ed al celeste coro
S’unirono a cantar con franca voce:
- Lode al Signore nei sereni cieli,
Pace in terra alle genti laboriose,
Ai popoli di buona volontà. Là dove il giorno va tingendo il cielo
Col velo rosa che la vaga Aurora
Gli porge al primo nascere del sole,
Già s’eran mossi i Magi dell’oriente.
Seduti sulle selle ricche d’ori,
Cavalcando magnifici destrieri
Di fini briglie e di gualdrappe ornati,
Seguon l’astro lucente nelle notti,
Per giungere alla misera capanna
Ad adorare il bimbo del presagio.
f)
Torbida e nera e complice, la notte
Nascose i cavalieri del monarca
Mentre, tra il pianto e la disperazione,
Strappavano i bambini dalle madri
Per soddisfar l’angoscia del tiranno.
Raccolti gli innocenti entro una sala,
Provvidero i soldati, ebbri di vino,
A perpetrare la più cupa strage.
Emblematico fu quel giorno orrendo:
Mutilazioni, aborti, stupri e fame,
Scandali e morte fatti sui bambini
Tutti son maledetti dal Signore,
Oltre il finir dei secoli in eterno!
g)
Il tempo in cui compiva i dodici anni,
Giunti a Gerusalemme per la Pasqua,
Ecco che sulla strada del ritorno
S’accorsero, sgomenti, i genitori
Che con loro non c’era più Gesù.
Oh tre giorni d’angoscia, di tormento,
Ed eterni, per la ricerca ansiosa.
Era nel tempio che parlava ai saggi
Muti, incantati dalle sue parole.
Che gioia fu trovarlo e quale orgoglio
Vederlo disputar tra quei vecchioni;
Ma ancor più grande lo stupore quando,
Rispondendo alle grida ed ai rimbrotti,
Disse: - Perché cercarmi, non sapete?
Sto curando le cose di mio Padre. Come fu muto e triste quel ritorno
Mentre ognuno dei tre, dentro il suo cuore,
56
Presagiva la fine della storia.
h)
Accadde che in quel dì, vicino al fiume,
Giovanni, circondato dalle genti,
Battezzasse con l’acqua del Giordano
Che, lì, scendeva pigra alla sua foce
Sbiancando in lievi spume contro i sassi;
Dietro c’era, invisibile al suo fianco,
L’ombra nera ed immobile d’Erode.
Mentre Cristo pregava a capo chino,
Lo benedì Giovanni con quell’acqua;
Stupito s’aprì il cielo e la Colomba
Discese su Gesù, s’udì la Voce:
- È questo il mio figliuolo prediletto,
Perciò di lui mi sono compiaciuto. i)
Celeste padre, Dio dell’universo,
Noi canteremo sempre la tua gloria.
Venga il tuo regno e la tua volontà
Sia fatta così in terra come in cielo.
Sotto la neve tieni caldo il grano
Frutto della fatica quotidiana
E del sudore della nostra fronte.
Perdonaci le offese ed i peccati,
Come i debiti noi rimetteremo
All’orfano che chiede con la mano,
Alla vedova, al padre disperato.
Allontanaci dalle tentazioni,
Dalle bassezze, dai pensieri turpi
E quando giunge l’ora della morte,
Quando si spegne l’umile candela,
Vienci incontro, Signore, sulla via.
l)
Quante sono le belle cortigiane,
Il volto dolce come una madonna,
Occhi torpidi e morbida la bocca
Che ancheggiano sinuose e compiacenti!
Così la peccatrice s’avvicina
Alla tavola ornata per la cena.
La guardano con sdegno i convitati,
Ma subito si piega sui ginocchi
E prende l’acqua fresca e lava i piedi,
E li asciuga con i capelli sciolti.
È piena di speranza e d’umiltà,
Non parla, nella mente ha la preghiera.
Gesù capisce e stende la sua mano:
- T’ha redenta la fede, Maddalena:
Io ti perdono d’aver molto amato,
Vattene in pace e non peccare più. m)
Mentre il povero implora con la mano
Per chiedere un po’ d’acqua, un po’ di pane,
Epulone si sazia di peccato.
Sdraiato al desco con le cortigiane,
Ch’espongono le carni vellutate
57
Come cibi preziosi al suo palato,
Egli v’affonda ingordo ed occhi e mani.
Fanno cornice a quella ricca mensa
Quattro virtuosi, siedono per terra
Suonando delle musiche sensuali,
Con preziosi strumenti a corda e a fiato.
La presenza del triste mendicante
Aumenta per contrasto ogni piacere.
Or, nel rugghiante fuoco dell’inferno,
Nuovo Prometeo ognor incatenato,
Con gli occhi riarsi ed arida la gola,
D’un rivo sente il fresco mormorare,
Chiede stremato un solo sorso d’acqua;
Di bagnargli le labbra con un dito,
Ma nessuno l’ascolta, ché l’ingordo
Ha già bevuto in vita a sazietà.
n)
Quando giunge vicino a quella tomba
Già l’odore dolciastro della morte
Aleggia sulla gente disperata.
Ma la donna lo prega e tanta fede
Tocca il Signore ed egli si commuove.
Lazzaro, uscito dalla nera morte,
Come un bimbo svegliato la mattina
Sbatte le palpebre alla viva luce
Che gli ferisce gli occhi all’improvviso;
Barcollando, insicuro nel cammino,
Lascia il sepolcro per entrar nel sole.
Tra i parenti, gli amici, i famigliari
C’è chi trema, chi tace ammutolito,
Chi s’accascia travolto dall’orrore
E chi per non veder fugge lontano.
Ma il sasso è già caduto nello stagno
Ed il cerchio s’allarga all’infinito:
Più nulla può restar com’era prima.
o)
Mentre prega sul monte degli ulivi,
Dormono gli altri in quella notte orrenda
Che lo consegna al tragico destino.
Come il fratello che il fratello uccide
Corre lungi dal luogo del delitto,
Giuda nel buio cerca un nascondiglio
Per sfuggire allo sguardo del Creatore,
Ma la voce di Dio lo segue ovunque.
Veloce il cuore pulsa nelle orecchie,
Affannoso diventa il suo respiro,
Il rimorso s’incolla come un’ombra,
Più non resiste; un albero robusto
Gli porge un ramo per il suo destino.
p)
- Forza gli dice il re, fammi vedere
Che tu sai tramutare l’acqua in vino,
Volar per l’aria come un lieve uccello,
Edificare templi, i vaghi amici
Richiamar dalle tenebre dell’orco.
58
Se tu non compi qui questi prodigi,
Tu che d’essere dici il re dei re,
Sei solo un miserabile cialtrone. Così beffardo lo deride Erode,
Ma sa che non ha colpe e la sua vita
Non osa consegnare al passo estremo:
È macerato dentro dal rimorso
D’aver donata, su d’un piatto d’oro,
La testa di Giovanni a Salomé.
Neri i capelli, gli occhi del cerbiatto,
Sinuoso il fianco, il petto seduttore,
Nuda danzando candida e lasciva,
Gli aveva soggiogato sensi e mente
Strappando quell’orribile regalo.
Così rimanderà Cristo a Pilato
Ed egli invano Lo vorrà salvare.
q)
Sotto la frusta trasudava il sangue
Rosso rubino su quei fianchi scarni,
Sul corpo fatto a reggere la croce.
Ed egli sale lungo il suo Calvario
Mentre il sudore lucido e copioso
Lo bagna macerando le sue carni.
- Sali re dei Giudei verso la morte. Urla la gente immemore e crudele.
E cade, attende aiuto e gli occhi stanchi
Invocano un sollievo al suo soffrire.
- Sali re dei Giudei verso la morte. Si sente solo, là su quella croce,
Ed anche il dubbio turba la sua mente:
- Oh Padre mio! Perché tu m’abbandoni? Muovendo lento, l’astro della notte
Oscura il sole, e tutti gli animali
Zittiti dal terrore del portento
Corrono a ripararsi nelle tane.
Si nasconde il serpente tra ‘l fogliame,
Gli uccelli il capo coprono con l’ale,
Trema la terra mentre Cristo muore;
Degli amici lo segue il tradimento
Al cantare del gallo nel mattino.
r)
Risorto tornerà dentro la barca
Che, rossa macchia contro il cielo nero,
Vaga squassata sull’ondoso lago.
Si distendon placate l’acque stanche
Al lento segno della man di Cristo;
E l’astro bianco che risplende in cielo
Lenti di fuoco va segnando intorno
Che guizzano al rollio come folletti.
Calan le reti dentro quell’incantato,
Vibrano i pesci avvinti dalle maglie
Già catturati dal divino verbo,
Mentre sale sicura la sua voce:
- D’anime Pietro sei mio pescatore
La Chiesa erigerò sulla tua pietra. -
59
s)
È verde la collina degli ulivi
Quando viene il momento del commiato,
Ma s’inargenta al sole mentre Cristo
Sale al cielo, sparendo tra le nubi,
Per sedere alla destra di Dio Padre.
Qui si compie la vita di Gesù,
Qui comincia la storia della Chiesa
Nell’attesa dell’ultimo Vangelo.
Per ringraziamento
Carme XLIV all’Angelo Custode
Al Sindaco di Venezia Massimo Cacciari per una eguale simpatia verso l’Angelo Custode.
Angelo del Signore
Posa benedicente
La mano sul mio capo;
Se l’ombra del peccato
S’allunga su di me,
Sorreggi il piede mio,
Governa il mio cammino,
Ridona la tua luce
All’insicura mente.
Così tu sia per sempre
Custode di quell’anima
Che t’ha affidato Iddio.
60
SILLOGE A VENEZIA
Carme XIX Acrostico.
(Premio internazionale di poesia Mario Rapisardi Catania 1993
Diploma di merito.)
Vedo le cupole, e son sodi seni,
E lei che s’apre al mio peregrinare;
Nella laguna sua calda e sensuale
Entro felice come nell’oblio:
- Zitto, mi dice, adagiati sul ventre,
Il capo stanco posa sulla spalla,
Amore mio, son Veronica Franco. Carme XXXVI: Mosaico..
Voglio Venezia che tu donna sia
Per poter farti carnalmente mia.
Vorrei Venezia, splendida città,
Per poter farti carnalmente mia.
Che tu fossi una donna; e voluttà
E gioia aver con te. Forse é pazzia.
Vorrei Venezia, splendida città,
Per poter farti carnalmente mia
Che tu fossi una donna; e voluttà
E gioia aver con te. Forse è pazzia;
Ma se m’aggiro di trifora in merletto,
Perché scoloro come un giovanetto?
Vorrei Venezia, splendida città,
Per poter farti carnalmente mia
Che tu fossi una donna; e voluttà
E gioia aver con te, con bramosia
Frugare ogni tua magica realtà,
Ogni mistero tuo. Forse è pazzia;
Ma se m’aggiro di trifora in merletto,
Perché scoloro come un giovanetto?
Carme XL. A Silvana.
Ti ricordi la gioia
di quei giorni a Venezia
in quell’eterno camminare
senza una meta,
in quell’andare,
l’un dietro l’altra,
per le sue fresche calli
uscendo uniti
nel sole dei campi stupiti
dai limpidi bagliori
dei marmi,
dei mosaici, degli ori?
Ti ricordi la gioia
del mutar dei colori
dell’acqua
al cangiar del tuo viso,
61
del tuo sorriso
che lentamente
andava spegnendosi stanco,
nella notte rosata
dagli antichi lampioni,
in una romantica,
calda ballata?
Or nelle nebbie
d’un’età grigia,
avvolta nei bianchi capelli,
rammenta quei giorni monelli
pieni d’oblio, vuoti d’affanni;
quei giorni leggeri nel sole.
Carme XLVI Alla Fenice.
L’ala spezzata,
il fantastico uccello
che tu vedevi volare nel cielo
tra mille suoni, tra mille colori,
muto si tace, ferito, per terra.
Là, prigioniere tra nere rovine,
grevi penombre
confondono insieme maschere e volti,
cupi fantasmi di cori lontani
coprono i canti.
Genti cortesi
che tutte le cose più belle adorate,
or di lacrime è tempo;
or che Venezia va sciogliendo in pianto
gli occhi cerulei della sua laguna,
ora straziate il cuore
col suo tormento.
Carme IL Davanti a Burano
Poesia vincitrice del - Premio Internazionale S. Marco cita di Venezia - 1996. (Sezione: - Una poesia
per Venezia - ).
Davanti a Burano
Col sole morente
T’accendi di rosso
Laguna d’opale;
È solo un istante.
La gondola nera,
Quell’ombra cinese
Che scivola lieve
Sull’acqua cangiante,
Ti porta la sera.
Lontano Torcello,
Al blu della notte,
Si chiude nel mare.
Carme LXIII
Dolce amante nell’acqua,
dove si van formando
fantastici colori della luce
e della fantasia.
Sull’assolata piazza
suona la voce tua nella campana
e si frantuma, lì,
in cubetti d’argento,
62
sull’ali dei colombi,
nel piombo opaco delle tue vetrate.
E rivoli di luce;
vanno ad illuminare
i marmi ed i mosaici delle chiese;
si spargono nei cieli
delle notti serene
frusciando via come gondole nere
sui nastri di cobalto.
Nel sole dei campielli,
uno strambo Arlecchino
va mescolando capriole e sberleffi
agl’inviti suadenti
dell’amante nell’acqua.
Carme LXVIII Lo giuro.
Nell’aria che s’imbruna
C’è una gondola - verde Che scivola sull’acqua
Della verde laguna.
È come un quadrifoglio,
Raro nel verde prato,
Ma non porta fortuna:
È solo una stranezza,
Una testa di legno
Assurda, inopportuna
Che nera tornerà
Come l’altre, di notte,
Contro la gialla luna.
Carme LXXI
Quando traspari, tremula sull’acqua,
Dietro una nebbia diafana e sottile,
Ti porgi all’occhio mio com’un ventaglio
In un morbido pizzo di Burano.
Vedo San Giorgio, vedo le Zitelle,
Il Redentore, rigido rinascimento,
Lezioso per gli arditi minareti
E la Salute, eretta sulla poppa,
Sembra venirmi incontro
Fendendo l’acque della tua laguna.
Sulla destra la chiesa di Vivaldi
E di colonne e di finestre ornato
Il palazzo ducal ricco di fregi.
La Cattedrale e le Procuratie
Racchiudono un salotto: la tua piazza.
Ed al suonar dell’ore, il campanile
Un volo grigio di piccioni innalza
Che ti nasconde il sole e il cielo incanta.
Apollo padre della fresca aurora
Che porti il dì con l’infuocato carro
Sulla laguna ferma i tuoi destrieri:
Mille cose vedrai forse più grandi
Mai nessuna più bella di Venezia.
Carme LXXXIII
Scrigno di splendide gioie,
Avvolta in marmi pregiati,
Delle tue chiese, Venezia,
63
È la più casta e pudica:
Maria Santa del Miracolo,
Palcoscenico di Dio..
Carme LXXXVII
Uccisa dalla gretta
stupidità dell’uomo,
alla vita risorge la Fenice.
Signore ti ringrazio!
Limpidi suoni melodia di canti
e morbidi colori,
cacciano l’ombre d’orridi fantasmi.
Rotta l’oscura notte,
come Lazzaro uscita dalla tomba
tolte le bende grigie
porge ancora le maschere e le voci.
Votate a nuova gloria,
libera vola verso l’infinito
sopra l’acque cangianti.
Carme CIV
(dall’isola dei morti a Venezia.)
Dal verde sacro, dalle grigie tombe
torno all’imbarcadero.
Guardo. Davanti quell’antica chiesa,
sul fondo blu del cielo,
si staglian le montagne
disegnate con la matita bianca.
L’aria dell’atmosfera,
tersa come la fede,
limpida come l’occhio d’un bambino,
sembra che te le ponga
sul palmo della mano.
Tu fermale pittore sulla tela,
e conservale per l’eternità.
64
G.V. CATULLO Carmi - Delinea Libri
Traduzione di Alberto Beccari
Edizione fuori commercio
Maggio 1996
‘II
Passer, deliciae meae puellae,
Quicum ludere, quem in sinu tenere,
Qui primum digitum dare adpetenti
Et acris solet incitare morsus,
Cum desiderio meo nitenti
Karum nescioquid libet iocari
Credo ut, cum gravis aquiescet ardor,
Sit solaciolum sui doloris,
Tecum ludere sicut ipsa possem
Et tristis animi levare curas!
‘2
Passero, gioia della mia fanciulla,
Che gioca con lui, se lo tiene in seno;
Per eccitarlo porge all’acre morso
La punta del suo dito da beccare,
E lei, lo splendido amor mio, quel giuoco,
Non so per qual motivo, ami giocare:
Credo che possa, dall’affanno suo,
Distrarla: il suo focoso ardor sopire.
Con te potessi come lei svagarmi,
Dall’animo levar le tristi cure!
‘III
Lugete, o Veneres Cupidinesque
Et quantumst hominum venustiorum.
Passer mortuus est meae puellae,
Passer, deliciae meae puellae,
Quem plus illa oculis suis amabat:
Nam mellitus erat suamque norat
Ipsam tam bene quam puella matrem,
Nec sese a gremio illius movebat,
Sed circumsiliens modo huc modo illuc
Ad solam dominam usque pipiabat.
Qui nunc it per iter tenebricosum
Illuc unde negant redire quemquam.
At vobis male, sit, malae tenebrae
Orci quae omnia bella devoratis:
Tam bellum mihi passerem abstulistis.
O factum male! O miselle passer!
Tua nunc opera meae puellae
Flendo turgiduli rubent ocelli.
‘3
Voi Amorini e Veneri piangete
E quanti sono gli uomini gentili,
Della mia Lesbia é morto il passerotto,
Vera delizia della mia fanciulla
E lei l’amava più degli occhi suoi:
Era il suo miele e la riconosceva
Come il bimbo la madre riconosce,
65
Né mai non si muoveva dal suo grembo,
Di qua, di là correva saltellando
E cinguettava solo alla padrona.
Ora s’avanza per la strada oscura
Donde nessuno fece mai ritorno.
Sii maledetto tu, buio dell’Orco
Che le cose più belle ti divori:
M’hai rapito quel passero grazioso.
Misero passerotto! Oh turpe cosa!
Ora, per colpa tua, si fanno gonfi
E rossi gli occhi della mia fanciulla.
‘V
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
Rumoresque senum severiorum
Omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
Nobis cum semel occidit brevis lux,
Nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
Dein mille altera, dein secunda centum,
Deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa facerimus,
Conturbabimus illa ne sciamus,
Aut nequis malus invidere possit,
Cum tantum sciat esse basiorum.
‘5
Ora, mia Lesbia, viviamo ed amiamo,
Il mormorare dei vecchi maligni
Dobbiam stimarlo soltanto un soldino
Possono i soli morire e risorgere,
A noi, se spegnesi la breve luce,
Resta una notte d’eterno dormire.
Or mille baci tu dammi, poi cento,
Quindi altri cento ed ancor altri mille,
Infine mille, poi cent’ancora;
Dopo aver fatte parecchie migliaia,
Rimescoliamole senza contarle,
Ché nessun osi di farci il malocchio,
Quando saprà che ci son tanti baci. ‘VII
Quaeris quot mihi basiationes
Tuae, Lesbia, sint satis superque.
Quam magnus numerus Libyssae harenae
Lasarpiciferis iacet Cyrenis,
Oraculum Iovis inter aestuosi
Et Batti veteris sacrum sepulcrum,
Aut quam sidera multa, cum tacet nox,
Furtivos hominum vident amores,
Tam te bastia multa basiare
Vesano satis et super Catullost,
Quae nec pernumerare curiosi
Possint nec mala fascinare lingua.
‘7
Tu chiedi quanti baci Lesbia sian
Sufficienti per farmene saziare.
Quanti granelli son le sabbie libiche,
66
Dove, ricca di silfio, sta Cirene,
Tra l’assolato oracolo di Giove
E l’antica sacral tomba di Batto,
O quante stelle nella muta notte
Vedon furtivi degli uomini gli amori,
Se tu mi bacerai con tanti baci
Catullo ingordo si potrà saziare;
Ne possano contarli i più curiosi
Ne far lingue maligne la fattura.
‘VIII
Miser Catulle, desinas ineptire,
Et quod vides perisse perditum ducas.
Fulsere quondam candidi tibi soles,
Cum ventitabas quo puella ducebat
Amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa tum iocosa fiebant,
Quae tu volebas nec puella nolebat.
Fulsere vere candidi tibi soles.
Nun iam illa non vult: tu quoque, impotens, (noli),
Nec quae fugi sectare, nec miser vive,
Sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale, puella. Iam Catullus obdurat,
Nec te requiret nec rogabit invitam;
At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, vae te! Quae tibi manet vita?
Quis nunc te adibit? Cui videberis bella?
Quem nunc amabis? Cuius esse diceris?
Quem basiabis? Cui labella mordebis?
At tu, Catulle, destinatus obdura.
‘8
Triste Catullo, più non vaneggiare,
Ciò che vedi morire è già perduto.
Ti rifulsero un dì candidi soli,
Quando venivi dove lei voleva,
Amata da me più d’ogni altra amante.
D’amore, insiem, faceste molti giuochi,
Che tu volevi e lei non ti negava.
Ti rifulsero inver candidi soli.
Ciò che non vuole lei, tu non volere,
Non viver triste per seguir chi fugge,
Ma tieni duro con ostinazione.
Fanciulla addio, Catullo ti resiste;
Non più voluto non ti cercherà,
Ti pentirai: non ti vorrà nessuno.
Malvagia, guai per te! Che vita avrai?
Sembrerai bella a chi t’accosterà?
E chi amerai? Di chi diran che sei?
A chi, baciando, morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, con forza, resisti.
‘XI
Furi et Aureli, comites Catulli,
Sive in extremos pennetrabit Indos,
Litus ut longe resonante Eoa
Tunditur unda,
Sive in Hyrcanos Arabasve molles,
Seu Sagas sagittiferosque Parthos,
Sive quae septemgeminus colorat
Aequora Nilus,
67
Sive trans altas gradietur Alpes,
Cesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum, orribilesque ultiMosque Britannos
Omnia haec, quaecumque feret voluntas
Caelitum, temtare simul parati,
Pauca nuntiate meae puellae
Non bona dicta:
- Cum suis vivat valeatque moechis,
Quos simul complexa tenet trecentos,
Nullum amans vere, sed identidem omnium
Ilia rumpens;
Nec meum respectet, ut ante, amorem,
Qui illius culpa cecidit velut prati
Ultimi flos, praeter eunte postquam
Tactus aratro est - .
‘11
Furio ed Aurelio che mi seguireste
Se penetrassi nell’India lontana,
Dove battendo sulla sponda Eoa
Ruggisce l’onda,
Sia tra gli Ircani e gli Arabi lascivi,
In mezzo ai Saci e tra i lancieri Parti,
sia dove il Nilo con le sette foci
Colora il mare.
Sia camminando tra le vette alpine
Per riveder di Cesare i trionfi
Il Reno della Gallia, sin agli ultimi
Torvi Britanni
Voi che qualunque cosa voglia il cielo
Sareste pronti, insieme, ad affrontare
Dite alla mia fanciulla queste poche
Acri parole:
- Viva felice con i suoi amanti
Che trecento n’abbraccia tutt’insieme
E senz’amarne alcuno, a tutti quanti
Spezza le reni
All’amor mio trascorso non si volga,
Reciso per sua colpa, ultimo fiore
Toccato dall’aratro che passava
in riva al prato - .
‘XIII
Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
Paucis, si tibi di favent, diebus,
Si tecum attulleris bonam atque magnam
Cenam, non sine candida puella
Et vino et sale et omnibus cachinnis,
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
Cenabis bene: nam tui Catulli
Plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
Seu quid suavius elegantiusvest:
Nam unguentum dabo, quod meae puellae
Donarunt Veneres Cupidinesque,
Quod tu cum olfacies, deos rogabis,
Totum ut te faciant, Fabulle, nasum.
;
68
‘13
Mio Fabullo, da me cenerai bene
Col favor degli dei tra pochi dì,
Se porterai con te vitto copioso
E buono ed una candida fanciulla
E sale e vino e risa fragorose.
Portando tutto ciò, leggiadro amico,
Cenerai bene, ché di ragnatele
È pieno il borsellino di Catullo.
In cambio ti darò sincero affetto
E quanto è di più fine e delicato:
L’unguento raro che alla mia fanciulla
Ebbe in dono da Veneri e Amorini.
Tu, quando quel profumo sentirai,
Pregherai Dio di farti tutto naso.
‘XIVa
Siqui forte mearum ineptiarum
Lectores eritis manusque vestras
Non horrebitis admovere nobis.
‘14a
Se per caso di queste inezie mie
Un lettore sarai, non vergognarti,
Vienimi incontro a stringermi la mano.
XXVI
Furi, villula vostra non ad Austri
Flatus oppositast neque ad Favoni
Nec saevi Boreae aut Apheliotae,
Verum ad milia quindecim et ducentos.
O ventum horribilem atque pestilentem!
‘26
Furio, la tua villetta non è esposta
Ne del Favonio al vento, ne dell’Austro,
Dell’Euro e di crudele Tramontana,
Ma una cambiale di quindicimila
Orribil vento, il più pestilenziale.
‘XXXI
Paene insularum, Sirmio, insularumque
Ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
Marique vasto fert uterque Neptunus,
Quam te libenter quamque laetus inviso,
Vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
Liquisse campos et videre te in tuto.
O quid solutis est beatius curis,
Cum mens onus reponit ac peregrino
Labore fessi venimus larem ad nostrum
Desideratoque acquiescimus lecto?
Hoc est, quod unum est pro laboribus tantis.
Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude:
Gaudete vosque, o Lydiae lacus undae:
Ridete quicquid est domi cachinnorum.
‘31 (a Giuseppe)
Delle isole e penisole, Sirmione,
Perla di quante avvolge il dio Nettuno
69
Nell’ampio mar, nei trasparenti laghi;
Che gioia che letizia al rivederti,
D’aver lasciato non mi sembra vero
I Tini ed i Bitini ed ammirarti!
Cos’è più caro che, tolti gli affanni
E deposta la mente ogni sua cura,
Tornare stanchi al nostro focolare
E coricarsi nel desiato letto,
Unico premio per i tuoi affanni?
Salve bella Sirmione godi tutta,
E voi godete Lidie onde del lago:
Ridete ad ogni mio scroscio di risa.
‘XXXII
Amabo, mea dulcis Ipsitilla,
Meae deliciae, mei lepores,
Iube ad te veniam meridiatum.
Et si iusseris, illud adiuvato,
Nequis liminis obseret tabellam;
Neu tibi lubeat foras abire,
Sed domini maneas paresque nobis
Novem continuas fututiones.
Verum, siquid ages, statim iubeto:
Nam pransus iaceo, et satur supinus
Pertundo tunicamque palliumque.
‘32
T’amo dolce Ipsitilla mia delizia,
Piacevolezza mia, così ti prego:
Fammi venir da te nel pomeriggio,
E se ti fa piacere, per favore,
Non chiudermi la porta dell’ingresso,
Né ti venga la voglia d’andar fuori.
Resta nella tua casa a prepararmi
Nove chiavate senza interruzione.
Fammi venire subito se vuoi:
Giacendo sazio, con la pancia all’aria,
Sto perforando tunica e mantello.
‘XXXIII
O furum optime balneariorum
Vibenni pater et cinaede fili
(Nam dextra pater inquinatiore,
Culo filius est voraciore);
Cur non exilium malasque in oras
Itis, quandoquidem patris rapinae
Notae sunt populo et nates pilosas,
Fili, non potes asse venditare.
^’33
Dei ladri delle terme ecco i migliori:
Vibennio il padre, il figlio gran finocchio
(La destra di quel padre è la più sozza,
Il culo del figliolo il più vorace).
Ora in esilio andate alla malora,
Del padre tutti sanno le rapine
E le pelose chiappe di suo figlio
Tu vender per un soldo non sapresti.
‘XL
70
Qauanam temala mens, miselle Ravide,
agit prarecipitemin mleos iambos?
Quis deos tibi non bene advocatus
Vecordem parat excitare rixam?
An ut pervenias in ora vulgi?
Quid vis? Qualubet esse notus optas?
Eris, quandoqudem meos amores
Cum longa volusti amare,poena.
‘40
Per quale pazzia, misero Ravido
A precipizio corri nei, miei giambi?
Quale divinità male invocata
Ti spinge verso questa folle rissa?
Tu vuoi finire sopra ad ogni bocca?
Che cosa cerchi? D’accuistare fama?
L’avrai, volendo amare l’amor mio
Tu pagherai con una lunga pena.
.’XLI
Ameana puella dufututa
Tota milia me decem poposcit,
Ista turpiculo puella naso,
Decoctoris amica Formiani.
Propinqui, quibus est puella curae,
Amicos medicosque convocate:
Non est sana puella, nec rogare
Qualis sit solet aes imaginosa.
‘41
Ammiana verginella strafottuta,
Brutta ragazza dal nasone sconcio
Amica d’un Formiano (1) in bancarotta,
M’ha chiesto un diecimila tondo tondo.
Oh voi parenti che l’avete a cuore
Presto chiamate medici ed amici:
È matta la fanciulla, allucinata,
Non vede nello specchio com’è fatta.
(1) Mamurra, originario di Formia,
ladrone politico amico di Cesare.
‘XLIII
Salve, nec minimo puella naso
nec bello pede nec nigris ocellis
Nec longis digitis nec ore sicco
Nec sane nimis elegante lingua,
Decoctoris amica Formiani.
Ten provincia narrat esse bellam?
Tecum Lesbia nostra comparatur?
O saeclum insapiens et infacetum!
‘43
Salve fanciulla dal non picciol naso
Ne bello il piede, neanche gli occhi neri
Nemmeno lunghe dita e secche labbra
Non scelta ne forbita la parola,
D’un Formiano spiantato l’amichetta.
Ed in provincia dicon che sei bella?
71
Con la mia Lesbia fanno paragoni?
Che secolo ignorante e senza gusto!
‘XLV
Acmen Septimius suos amores
Tenens in gremio: - Mea - iniquit - Acme,
Ni te perdite amo atque amare porro
Omnes sum assidue paratus annos
Quantum qui pote plurimum perire,
Solus in Libya Indiaque tosta
Caesio veniam obvius leoni - .
Hoc ut dixit, Amor, sinistra, ut ante
Dextra, sternuit approbationem.
At Acme leviter caput reflectens
Et dulcis pueri ebrios ocellos
Illo purpureo ore saviata:
- Sic - inquit - mea vita Septimille,
Huic uni domino usque serviamus,
Ut multo mihi maior acriorque
Ignis mollibus ardet in medullis. Hoc ut dixit, Amor, sinistram, ut ante
Dextra, sternuit approbationem.
Nunc ab auspicio bono profecti,
Mutuis animis amant amantur.
Unam Septimius misellus Acmen
Mavolt quam Syrias Britanniasque:
Uno in Septimio fidelis Acme
Facit delicias libidinesque.
Quis ullos homines beatiores
Vidit, quis Venerem auspicatiorem?
‘45
Acme tenendo sulle sue ginocchia,
- Acme - Settimio disse - amore mio,
Se pronto non sarò sempre ad amarti
Per infiniti dì perdutamente
Tanto forte che ne potrei morire,
Possa trovarmi nella riarsa Libia
Contro una fiera dal ceruleo sguardo.
Ciò disse e, come prima da sinistra,
Da destra amore starnutì propizio.
Ed Acme lieve reclinando il capo,
Baciando con la sua purpurea bocca
Gli occhi inebriati e dolci del fanciullo
Disse: - Così Settimio mio, mia vita
Voglio servire sempre un sol padrone,
Si che un gran fuoco ognora più cocente
Arda nelle ossa il tenero midollo. Ciò disse e, come prima da sinistra,
Da destra amore starnutì propizio.
Ora partiti da sì buon auspicio,
Amanti entrambi s’amano riamati.
Settimio, trepido per Acme sola,
Lascerebbe le Sirie e le Britanne; (1)
Acme fedele, sol nel suo Settimio
Ripone ogni delizia, ogni piacere.
Chi vide mai persone così liete
Di Venere con un miglior auspicio?
72
(1) donne divenute di moda per la recente conquista di quelle terre.
‘XLVI
Iam ver egelidos refert tepores,
Iam caeli furor aequinoctialis
Iocundis Zephyri silescit aureis.
Linquantur Phrygii, Catulle, campi
Niceaeque ager uber aestuosae:
Ad claras Asiae volemus urbes.
Iam mens praetrepidans avet vagari,
Iam laeti studio pedes vigescunt.
O dulces comitum valete coetus,
Longe quos simul a domo profectos
Diversae varie viae reportant.
‘46
Già primavera coi tepori miti
Ritorna, già dal ciel dolce Zefiro
Sopisce le tempeste equinoziali.
Lascia Catullo le pianure frige,
I caldi di Nicea fertili campi;
Voliam dell’Asia alle Città famose.
Già la tua mente ha frenesia d’andare,
I piedi tuoi son pieni di vigore.
Addio d’amici miei dolce brigata,
Partiti insiem dalla lontana patria
Ora torniamo per diverse strade.
‘XLVIII
Mellitos oculos tuos, Iuventi,
Siquis me sinat usque basiare,
Usque ad milia basiem trecenta,
Nec mi unquam videar satur futurus,
Non si densior aridis aristis
Sit nostrae seges osculationis.
‘48
Se gli occhi tuoi melati, mio Giovenzio,
Baciare li potessi a volontà,
Li bacerei trecentomila volte
Senza raggiunger mai la sazietà,
Anche se i nostri baci fosser tanti
Quante pungenti spighe son nei campi.
‘LI
Ille mi par esse deo videtur,
Ille, si fas est, superare divos,
Qui sedens adversus identidem te
Spectat et audit
Dulce ridentem, misero quod omnis
Eripit sensus mihi; nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(vocis in ore.)
Lingua sed torpet, tenuis sub artus
Flamma demanat, sonitu suopte
Tintinnat aures, gemina teguntur
Lumina nocte.
‘51
Mi pare che sia simile ad un dio,
73
Se è possibile degli dei più grande,
Chi talora, sedendoti di fronte,
Guarda e t’ascolta
Ridere sì dolce: misero me,
Lesbia, che perdo i sensi al tuo cospetto;
Appena ti vedo mi resta in gola
Un fil di voce,
S’addormenta la lingua, un tenue fuoco
Scorre le membra, rombano le orecchie
Per un interno suono, entrambi gli occhi
Vela la notte.
LIb
Otium, Catulle, tibi molestumst:
Otio exultas nimiumque gestis,
Otium et reges prius et beatas
Perdidit urbes.
51b
Insopportabile è l’ozio, Catullo
In tutto quel che fai t’eccita l’ozio,
L’ozio rovinò prima i re, poi tante
Città felici.
‘LVI
O rem ridiculam, Cato, et iocosam
Dignamque auribus et tuo cachinno.
Ride, quicquid amas, Cato, Catullum:
Res est ridicula et nimis iocosa.
Deprendi modo pupulum puellae
Crusantem: hunc ego, si placet Dionae,
Pro telo rigida mea cecidi.
‘56
Catone, o cosa buffa e divertente
Degna del riso e dell’orecchio tuo.
Ridine per l’amore che mi porti
È cosa troppo buffa e divertente.
Testé vedo stuprare da un pivello
una fanciulla ed io col cazzo duro
a Venere piacendo, l’ho inculato.
‘LVII
Pulcre convenit inprobis cinaedis,
Mamurrae pathicoque Caesarique.
Nec mirum: maculae pares utrisque,
Urbana altera et illa Formiana,
Impressae resident nec eluentur:
Morbosi, pariter, gemelli utrique,
Uno in lecticulo erudituli ambo,
Non hic quam ille magis vorax adulter,
Rivales socii et puellularum.
Pulcre convenit improbis cinaedis.
‘57
Che bella intesa di finocchi sconci:
Son Cesare e Mamurra il bagascione.
Non stupite: son pari per le colpe
(Una di Formia e l’altra cittadina), (1)
L’hanno impresse, ne si cancellan mai:
74
Morbosi uguali, tutti e due gemelli,
Sul letto insieme entrambi gli eruditi,
L’un più dell’altro ingordi d’adulterio
Con le fanciulle son rivali e soci.
Oh bella intesa di finocchi sconci.
(1) Mamurra è di Formia e Cesare di Roma.
‘LVIII
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
Illa Lesbia, quam Catullus unam
Plus quam se atque suos amavit omnes,
Nunc in quadriviis et angiportis
Glubit magnanimi Remi nepotes.
‘58
Oh Celio, Lesbia nostra, quella Lesbia,
La Lesbia che Catullo, unica e sola,
Più dei suoi tutti e di se stesso amò,
In angiporti e trivi lo scappuccia
Di Romolo ai magnanimi nipoti.
‘LX
Num te leaena montibus Libystinis
Aut Scylla latrans infima inguinum parte,
Tam mente dura procravit ac taetra,
Ut supplicis vocem in novissimo casu
Contemptam haberes, a nimis fero corde?
‘60
Sì d’animo duro e feroce ti fece,
Una leonessa sulle libiche vette,
O Scilla latrante dall’inguine fondo,
Oh cuore crudele che tanto disprezzi
la supplice voce d’un disperato?
‘LXX
Nulli se dicit mulier mea nubere malle
Quam mihi, non si se Iupiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
In vento et rapida scribere oportet acqua.
‘70
La donna mia mi dice di voler far l’amore
Soltanto con me, pur se glielo chiedesse Giove;
Ma quel che donna dice col suo voglioso amante,
Devi scriver nel vento, dentro l’acqua veloce.
‘LXXV
Huc est mens deucta tua, mea Lesbia, culpa,
Atque ita se officio perdidit ipsa suo,
Ut iam nec bene velle queat tibi, si optuma fias,
Nec desistere amare, omnia si facias.
‘75
Tale è ‘l mio stato per tua colpa, o Lesbia,
Che ormai la mente mia s’è persa il senno:
Anche pudica amarti non potrei,
Anche sgualdrina ancora t’amerei.
75
‘LXXXIII
Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit:
Haec illi fatuo maxima laetitiast.
Mule, nihil sentis. Si nostri oblita taceret,
Sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,
Non solum meminit, sed quae multo acrior est res,
Iratast, hoc est, uritur et loquitur.
‘83
Lesbia con suo marito parla male di me
Fatuo. di tutto questo, molto se ne compiace.
Mulo, tu non capisci. Se di noi due tacesse
Risanata sarebbe, ma se sparla e borbotta
Ecco che ancor mi pensa, ma quel ch’è assai più grave
Mi pensa con la rabbia, perché ne parla e brucia.
‘LXXXV
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
‘85
Io t’amo e t’odio; forse tu chiedi come faccia,
Non lo capisco, sento che m’accade e ne soffro.
‘LXXXIX
Gelius est tenuis: quid ni? quoi tam bona mater
Tamque valens vivat tamque venusta soror
Tamque bonus patruus tamque omnia plena puellis
Cognatis, quare is desinat esse macer?
Qui ut nihil attingat, nisi quod fas tangere non est,
Quantumvis quare sit macer invenies.
‘89
Gelio, per forza, è smunto. Abita con sua madre
Tanto focosa e bella, la sorella sensuale,
Uno zio compiacente, tante parenti fresche;
Perché ti vuoi stupire che sia così sciupato?
Anche attingendo solo là dove gli è proibito
Ne avrebbe a sufficienza per esser macilento.
s’XCIII
Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
Nec scire utrum sis albus an ater homo.
‘93
Non faccio alcuna cosa, Cesare, per piacerti,
Né un uomo, per sapere, se bianco o nero sei.
‘XCIV
Mentula moechatur. Moechatur mentula? Certe:
Hoc est, quod dicunt, ipsa olera olla legit.
‘94
Il Minchia (1) fotte. Fotte la minchia? Certamente:
Si dice che ogni botte dà il vino che contiene.
(1) Il poeta col nome di Minchia intende Mamurra,
‘CI
Multas per gentes et multa per aequora vectus
76
Advenio has miseras, frater, ad inferias,
Ut te postremo donarem munere mortis
Et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
Heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec, prisco, quae more parentum
Tradita sunt tristi munere ad inferias,
Accipe fraterno multum manantia fletu,
Atque in perpetuum, frater, ave atque vale.
‘101
Condotto tra le molte contrade e i molti mari,
A queste esequie tristi, fratello, son venuto,
A te, l’estremo dono di morte per portare,
Invano per parlare col tuo cenere muto,
Poiché volle il destino te, proprio te, carpirmi
Oh misero fratello rapito indegnamente.
Ed or, com’è l’usanza dei nostri antichi padri
Ti son offerti, intanto, tristi doni di morte.
Accettali bagnati d’un copioso pianto
E ti lascio fratello con un eterno addio.
‘CIX
Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem
Hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
Atque id sincere dicat et ex animo,
Ut liceat nobis tota perducere vita
Aeternum hoc sanctae foendus amicitiae.
‘109
Proponi, vita mia, che questo amore
Felice sia, eterno per entrambi.
Oh fate sommi Dei che il ver prometta
E che lo dica con sincero cuore,
Perchè si possa, per l’intera vita
Serbar quel patto d’un amore eterno.
77
GLI SBERLEFFI (poesia satirica)
At non effugies meos iambos
Ma tu, ai giambi miei, non sfuggirai
G.V.Catullo
Premessa
Gli Sberleffi con nome e cognome si riferiscono ovviamente alle persone medesime; gli altri, invece,
sono dedicati a certi gruppi di individui facenti parte di certe categorie di persone o di attività. È ovvio
che non tutti gli attori sono finocchi, che non tutte le radicali sono puttane e così via .Se qualcuno dei
mie lettori, dotato di una fantasia malata, nell’ambito delle sue elucubrazioni mentali si riconosce in
queste satire o pensa di collegare una stanza con un nome, affari suoi; non era nelle mie intenzioni e la
cosa è puramente casuale.
Capirete! Chi si attenterebbe a fare una corbelleria del genere in questa nostra farsa di democrazia!
Nel primo secolo Avanti Cristo, nella libera e democratica Repubblica Romana, il poeta Valerio Catullo
scriveva:
CARME LVII
- Che bella intesa di finocchi sconci
Son Cesare e Mamurra il bagascione, _ _ Ma parlava solamente di Cesare, allora, insieme a Pompeo e Crasso, signore e padrone dell’Impero
Romano.
Cicerone, in un clamoroso processo, definiva notoria puttana la bella Clodia: nobile romana sposata a de
un uomo dell’antica famiglia dei Claudi e sorella di uno dei più potenti politici di quel tempo.
Vi figurate se oggidì dicessimo cose del genere anche solo di qualche mediocre politico, o di qualche
sciupata donniciola della Roma bene?
Povera e libera Italia democratica nella quale finalmente si può parlare male di Garibaldi ma nella quale
esiste ancora il buffo reato di vilipendio del capo dello stato.
Heu Heu! - Mala tempora currunt. Sberleffo I L’opinionista velenoso.
(seconda classificata premio Pablo Neruda 1955 , sezione poesia satirica)
Il mellifluo serpente dagli occhiali
L’intelligenza a messo a far bottega
Per realizzar discreti capitali,
Pontificando come un gran stratega
Alla bifida lingua ha messo l’ali;
Con argomenti da retrobottega,
Usando del villan l’eloquio osceno,
Infanga tutti con il suo veleno.
Sberleffo II La Ninfa Egeria.
T’hanno dipinto il culo, quale onore,
Per una dama colta e spiritosa;
Della persona tua scelto ha il pittore
La cosa più sublime e sostanziosa,
Usando il suo pennello con vigore.
Con gli anni diventò gelatinosa
La parte che nei quadri puoi mostrare:
Ora ti serve sol per defecare.
Sberleffo III C’era una volya un opinionista cattivo.
(ora è diventsato quasi buono.)
Quale colombo dal disio chiamato,
Il deretano, oscena mongolfiera,
Posto su d’uno scanno rassegnato,
È pronto per vociar da mane a sera.
Con la faccia di corno levigato
Va ripetendo la sua tiritera
(Laida, volgare, inutile concione):
78
Un disco de - La voce del padrone .
Sberleffo IV Occhetto.
Marciando - Fiero l’occhio, svelto il passo Contro i nemici del proletariato
I compagni ondeggiando menò a spasso
Finché, fortuna loro, fu cacciato.
Caduto in man dei Nazi, colpo basso,
Pelo per pelo i baffi han depilato,
Ma, fiero lui del suo parlare vivo,
Non gli han strappato un sol congiuntivo.
Sberleffo V Una pornostar.
Una voliera pare la tua fica
Ove volando corrono gli allocchi,
Ali spiegate, come in valle aprica,
Scontrandosi l’un l’altro, questi sciocchi.
Come chiamati da una voce amica,
Incuranti di spendere i baiocchi,
Ottenebrati dalla loro foia,
Si trovan nel porcile di una troia.
Sberleffo VI Il direttore.
Del basasotto col mesto mugolare,
Dentro lo schermo ognor scodinzolando
Par sciocco, ma con trucchi da comare
Le quattro ciarle sue sta sciorinando.
Del Dio signore pregi e virtù rare
Va, genuflesso, al volgo propinando;
Ma c’è chi dice: - In questo amore raro
Più della fede, ahimè, potrà il denaro? Sberleffo VII La opinionista.
T’ha punto un’ape? corri all’ospedale
Per far curare i tumidi labbroni,
Ché l’infezion, davvero un po’ speciale,
T’ha trasformato il seno in due meloni.
Coi tuoi arguti motti da pitale
Non convinci nemmeno i più coglioni;
Perché le tue parole ci sian care
Le labbra tra le gambe fai parlare
Sberleffo VIII Umberto Bossi 1966.
Del tribuno la gran testa di cazzo
È sempre dura, un colpo mai non perde.
Seguita dai minchioni per codazzo,
Il saper suo sul popolo disperde
Farneticando come un vecchio pazzo
E lancia in resta va pestando merde.
Dell’Italia vuol fare un gran macello
Bella la testa, ahimè, poco cervello
Sberleffo IX Silvio Berlusconi 1966.
Dal volto eliminata ogni rughetta,
Tutto spalmato con il fondo tinta,
Gli hanno insegnato bene l’etichetta
Togliendo dal suo dir l’ira e la grinta.
Così con quella faccia che è perfetta
Da sembrare una stampa, un’acqua tinta,
Lo compri per sapone profumato,
79
Ma lui é solo Marsiglia da bucato.
Sberleffo X Un attore.
Ti pavoneggi in scena con mossette
Dimenando il culetto da finocchio,
Ma Dio ti fece, ahimè, senza le tette.
Se te lo trovi dietro tienlo d’occhio,
Che non ti sottometta a cose abbiette
Usando quel suo lurido batocchio.
Tu dici che ti prendo pel sedere?
Amico mio, t’ho fatto un gran piacere.
Sberleffo XI Il trombone demagogo.
Dipinto il viso di superba grinta
Sgrana un rosario di banalità;
Sembra vino ma é solo broda tinta :
Demagogia con falsa ingenuità.
C’é chi ci crede, i più fan solo finta,
Stanno al giuoco con vile ambiguità;
Va sul fine, ma quella tiritera
S’insozza uscendo dalla sua dentiera.
Sberleffo XII Fini.
Con quel visetto suo da grande attore,
Fatto sparire l’asso di bastoni
Messosi nell’occhiello un bianco Fiore,
Sembra avere calato i pantaloni;
Ma questo gesto é stato traditore:
Ha mostrato che sotto ha due coglioni.
Attenti tutti che la ditta Fini
Non ci trasformi in ciccioli ed affini.
Sberleffo XIII La vecchia attrice.
(Medaglia d’oro per la poesia satirica Premio Brontolo 1999)
Un buon chirurgo t’ha rifatto il viso
Cancellando le zampe di gallina,
A fondo nel sedere t’hanno inciso,
Ti han tolto due bistecche alla pancina,
Or ti sembra di stare in paradiso,
D’esser tornata quasi una bambina;
Ma sbatti gli occhi, mamma mia che orrore,
T’apri di dietro con un gran fragore.
Sberleffo XIV La vecchia animalista.
Mostrarti nuda, via, non ti conviene;
Più che una donna sembri una salsiccia:
La pelle delle tette più non tiene
E tutto il resto è solo pappa e ciccia
Sì che al vederti s’addormenta il pene.
Di bello c’è soltanto la pelliccia
Ch’ orna la ripa e merita un pëana.
Al sei Gennaio dì della Befana.
Sberleffo XV Massimo Dalema Luglio 1996.
Parlando ognor da primo della classe,
Intrisi ha i baffi con melassa e miele
Per sedurre conigli, merli e masse.
Attento stia che può tornargli in fiele
E stenderlo stecchito sopra un asse
Con un pubblico fatto di candele;
80
Ma sempre col visetto acqua e sapone
E vestito da prima comunione.
Sberleffo XVI Il conduttore.
Per nascondere quello che non ha
D’una fine camicia ha messo il collo;
Mentre avanza con tonda venustà
Lecca il potente, ma deride il pollo,
Dando del suo vangel la verità.
Dei radicali morbido rampollo,
Per mascherarsi va stirando il viso
Nel più fatuo ed insipido sorriso.
Sberleffo XVII Ad una radicale.
Il petto é piatto, il culo son due seni
Sopra due stecchi con le cosce storte
E camminando invano lo dimeni.
Sempre in calor sotto le gonne corte
Apri le gambe, più non ti trattieni,
Abbandoni il pudore alla sua sorte
Poi se la iella un pargolo ti sgancia,
Corri alla mutua per smunir la pancia.
Sberleffo XVIII Una sposina.
Or mentre attendi quel radioso giorno
Col corpo già panciuto, il viso stanco,
Ti dai da far guardandoti d’attorno
Dei ricchi maschi nel copioso branco.
Già pregustando qualche ricco corno,
Al fatidico si tu vieni in bianco,
Ma di ben poco cara mia ti vanti:
Usata dietro sei, lisa davanti.
Sberleffo XIX Ad una femminista.
Ti si vede ogni dì in televisione
Con atre quattro o cinque belle menti
Spaparazzate in comode poltrone
A parlare di gravidi argomenti
Assistono alla bella trasmissione
Cervelli di idee ricchi e di fermenti
Mentre il moderatore gira il disco
Del più laido e ritrito conformismo.
Sberleffo XX Romano Prodi Luglio 1996.
Ma dove vai bellezza in bicicletta!
Quadra la testa, con le braccia corte,
Tozzo e pesante sopra la pancetta,
Stai pedalando con le gambette storte;
Mi sembri un corridore da burletta
Che vada incontro ad una triste sorte.
Baffetto: tu lo vedi che marpione?
Lascialo andare e torna allo zampone
Sberleffo XXI Alcune femministe
Ho visto un vecchio film un po’ cretino
Di quelli che ti rompono i coglioni
Ma l’attrice sembrava un modellino:
Aveva due magnifici coscioni,
Due fianchi tondi con un bel culino.
Ora se penso a certi scheletroni
81
Di femministe dico: - Alla riscossa,
Buttate ai cani quel mucchietto d’ossa. XXII Per giurie di certi concorsi letterari.
- Metri e stanze son cose sconvenienti,
Pattume le terzine ed i sonetti;
Noi siam delle giurie di competenti
Ripiene di sofismi e preconcetti:
Premiamo sol versacci ed escrementi. Satira mia di versi maledetti,
Non recare dolcezza e cortesia:
Non ti curar di loro e ‘pussa’ via.
Sberleffo XXVIII Veltroni.
Veltroni caro dalla faccia onesta
Guardati attorno ed apri bene l’occhio,
Ché l’esperienza tua mi par modesta.
Di tutti i gay che, dell’eletto crocchio,
Tra ghirlande di fiori han fatto festa
Per la vittoria tua, al più finocchio,
Dotato d’esperienza duratura,
Cl ministero dai della cultura
Sberleffo XXIV Visco.
Mentre dentro lo schermo va ghignando
Con la faccia da spettro infarinato
Il pudore e il ritegno messi al bando
Tutto il denaro mio se l’è fregato.
Un giorno se n’andrà, ma chissà quando;
Nel frattempo qualcosa va cambiato
Ecco, mettiamo Dracula sul fisco
E sopra l’AVIS ìl ministro Visco
Sberleffo XXV Testamento.
(Ad un po’ di - cacca - in vasetto alla - Biennale d’arte - a Venezia.)
Se morirò tagliatemi i coglioni
E poneteli sotto formalina,
Poi trovatevi un gruppo di minchioni
Che si possano mettere in berlina,
Due critici sofistici e tromboni
Disposti a fare un poco di manfrina:
Così potrete far tanti baiocchi
Alla faccia dell’arte e degli sciocchi.
Sberleffo XXVI Berlinguer.
(per una sana riforma della scuola.)
Con la faccia da Gongolo stranito,
Per esaltare la geniale impresa,
Declama con l’eloquio suo forbito:
- Tutto va ben madama la marchesa. Così non si nasconde dietro un dito,
Anzi, usando le mani a sua difesa,
Con giuochi di prestigio molto rari
Fa diventar cavalli anche i somari.
Sberleffo XXVII. Rosi Bindi.
E tu mi sembri come una patata
Con dei germogli bianchi e velenosi
Che si difende tutta spiritata,
82
Con modi saputelli ed altezzosi,
Dalla critica dura e scervellata
Di giornalisti vili e tendenziosi.
Ma in ospedali tuoi, oh cosa stramba,
Tagliano il braccio per salvar la gamba.
Sberleffo XXVIII Rutelli.
Forse non è un atleta il buon Francesco
Ma ciribirin che bel faccin.
Fiorito il dire, con eloquio fresco
Quando sorride mostra i bei dentin
Per le mamme lo sguardo bambinesco
Per le pupe lo sguardo d’assassin
Per voi concittadini che dolore
Fa il politico invece che l’attore
Sberleffo XXIX L’arabo.
Ecco che giunge l’arabo infedele,
Che se ne frega del buon Dio Maomettto;
E si presenta tutto lattemiele,
Perché l’accogli con fraterno affetto.
Se l’infingardo ha il cuor pieno di fiele
E ti mette una bomba sotto il letto
Tu parti in armi come un bersagliere
O gentilmente porgi anche il sedere?
Sberleffo XXX Fassino.
Col tempo il suo nasetto tutto tondo
A forza di mentir, ma che macello,
S’è allungato in un modo inverecondo
Per trasformarlo in un rapace uccello.
Causa il belare suo mite e facondo
Potrebbero comprarlo per agnello
Fuor della Pasqua, si sa, per risparmiare,
Ma s’è tutt’osso; cosa vuoi mangiare!
Sberleffo XXXI Bertinotti.
Con la parlata un poco stizzosetta
Forse ti può sembrare un pechinese,
M’avvolto in una splendida giaccietta
Ti porge, per salvezza del paese,
Demagogia, in punta di forchetta.
Ha tutta l’aria dessere un borghese
Frequentator di nobili salotti:
Parliam del proletario Bertinotti
Ogni riferimento a persone non nominate
è puramente casuale e non voluto.