Orario di lavoro e produttività

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Orario di lavoro e produttività
■ L’analisi
Orario di lavoro e produttività*
Franco Farina**
Premessa
Il lavoro affronta il legame tra occupazione, gestione degli orari e incrementi di
produttività nelle mutate organizzazioni del lavoro e della produzione. Nella storia
rivendicativa italiana questi aspetti hanno fatto parte di una cultura aziendale e sindacale che caratterizzava, spesso in maniera dominante, i negoziati tra le parti sociali. Difatti per il sindacato, storicamente, gli orari e la loro riduzione si giustificavano per due ragioni: la prima riguardava la diminuzione della presenza lavorativa
in un’organizzazione del lavoro (taylor/fordista) fonte d’infortuni, d’incidenti mortali e causa di uno sfruttamento «scientifico» della mano d’opera; la seconda la relazione degli orari con l’occupazione. Siffatti rimandi si scontravano sugli aspetti dei
costi e sul tema della produttività aziendale. In altri termini, con le riduzioni di lavoro settimanali e annuali, si riduceva la durata della prestazione definita dalla «densità» delle operazioni o dei compiti nell’unità di tempo così com’era individuata nelle singole postazioni lavorative. Questi aspetti aprirono un conflitto permanente tra
orari e produttività. Difatti la riduzione degli orari, oltre a limitare il tempo d’impiego dell’indice di produttività nell’ambito dell’utilizzo degli impianti di un sito
produttivo, comportava, a sua volta, soprattutto nei sistemi di produzione a turni,
l’incremento occupazionale.
Tutti questi aspetti sono ancora oggi presenti nel dibattito sindacale e tra le forze politiche ma spesso con accentuazioni di carattere ideologico e senza supporti
scientifici. Innanzitutto si confonde la quantità prodotta con l’indice di produttività. Questa confusione porta a dire che è sufficiente prevedere l’aumento delle giornate lavorative (questa è una strada molto battuta dalla Confindustria) e una maggiore liberalizzazione degli straordinari in quantità e in possibilità per incrementare
la produttività aziendale. Si confonde sempre la quantità di prodotto con l’indice di
produttività che è, invece, segnato da un indicatore che mostra i costi di produzione e la loro diminuzione e che determina in ragione di essi una maggiore competi-
* Tratto da AE n. 11/2012. ** Fondazione Metes.
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tività aziendale. Le giornate o le ore in più sia in ragione della cancellazione della festività del santo patrono (ad esempio) sia per il ricorso allo straordinario possono incrementare le quantità prodotte ma non modificano l’indice di produttività. Spesso, anzi, l’indice di produttività, come studi aziendali universalmente dimostrano, è
inferiore qualora si ricorra, come prova, agli straordinari.
L’indice di produttività è sempre il rapporto tra produzione e ore lavorate. Ciò
che è cambiato nel tempo sono i contenuti della prestazione nelle ore di lavoro. Nei
decenni passati, prevalentemente, le ore lavorate s’identificavano nel compito lavorativo della mansione in cui erano definiti e prescritti i modi di esecuzione (la densità delle operazioni). Oggi il calcolo della produttività non è più sulla funzione operativa o sulla mansione ma è sull’attività di lavoro e sull’insieme del processo produttivo. Quest’aspetto introduce e qualifica il rapporto tra occupazione, orari di lavoro e produttività.
Sulla produttività e organizzazione del lavoro
Nel secolo passato la produttività dipendeva dall’intensità del lavoro e scaturiva
dalla «densità» delle operazioni o dei compiti nell’unità di tempo. In particolare, stabilita la professionalità del lavoratore e la concomitanza con la tecnologia, la produttività si realizzava attraverso la saturazione dei tempi di lavoro. La persona nel lavoro doveva semplicemente adattarsi alle regole della «via migliore» (one best way)
per compiere una qualsiasi operazione. Questa era individuata, attraverso la sperimentazione, dalla direzione aziendale e regolata, nella sua durata, dall’orario contrattuale. Oggi, per le innovazioni organizzative e tecnologiche, i fattori che determinano la produttività hanno una combinazione, un’ottimizzazione e una natura significativamente diverse dal passato.
Agli inizi degli anni ’80, in particolare nelle produzioni manifatturiere con l’applicazione della microelettronica e dell’informatica, l’introduzione dell’automazione flessibile comportò il superamento del modello tecnologico, quello, cioè, delle
macchine specializzate, che governò per decenni il Novecento industriale. L’innovazione tecnologica con l’automazione flessibile fu motivata dalla «necessità di ampliare la gamma produttiva, per soddisfare la crescente esigenza di varietà proveniente dal mercato»1. Sotto questo profilo la flessibilità tecnologica garantì il cambiamento duttile dei mix produttivi e la possibilità di rispondere rapidamente alle
1
Questo passaggio fu l’inizio di una vera e complessa trasformazione dell’impresa, dell’organizzazione
della produzione e del lavoro. Difatti in quegli anni prendeva avvio significativamente il processo della globalizzazione dei mercati: s’intensificava la concorrenza tra le imprese a livello internazionale, veniva meno il vantaggio della domanda indifferenziata che aveva caratterizzato i processi produttivi
standardizzati e s’imponeva una competizione sulla coppia prezzo-qualità del prodotto.
2
La specializzazione flessibile consiste in macchine e sistemi integrati che, grazie a un hardware e software avanzati, consentono la progettazione e/o la produzione di una definita varietà di prodotti per via
automatica.
L’analisi
variazioni della domanda, mentre si evidenziò, a differenza dell’uniformità della
produzione di massa, la complementarità tra l’efficienza e la flessibilità della produzione. In questo quadro il modello d’impresa assunse sempre di più il carattere
della «specializzazione flessibile» su una specifica gamma produttiva e non più sulla varietà dei prodotti nello stesso stabilimento. La specializzazione flessibile2 da
una parte determinò vantaggi organizzativi (il miglioramento della qualità, una
sollecita risposta alle variazioni della domanda, una diversa e positiva economia
nelle lavorazioni) e dall’altra modificò gli assetti tradizionali dell’impresa. In particolare per questi ultimi, con la perdita di riferimento delle economie di scala, si affievolì la concezione d’impresa per funzioni a favore di un calcolo organizzativo per
processi.
In concomitanza alla specializzazione flessibile si avrà da una parte un maggiore
utilizzo degli impianti secondo schemi rigidi e dall’altra l’introduzione degli orari di
lavoro flessibili. È in questa fase (inizi anni ’80) che avvenne per alcune imprese il
passaggio dai 15 turni (5 giorni per 3 turni, dal lunedì al venerdì) ai 18 turni (6 giorni per 3 turni, dal lunedì al sabato) con orari plurisettimanali su base annua e l’introduzione contrattuale di orari flessibili (settimane di 48 ore con settimane a 32
ore, orari pluriperiodali) per dare al processo produttivo una maggiore elasticità data la variabilità del mercato e per ridurre il ricorso alla cassa integrazione e al ripetersi degli straordinari.
Queste innovazioni, però, troveranno delle difficoltà applicative inaspettate. Infatti la sincronizzazione tra la produzione, la variabilità e la variazione del mercato,
nonostante l’allungamento del tempo di utilizzo degli impianti, segnalò dei limiti
che paradossalmente furono imputabili alla stessa automazione flessibile. La scelta
di fronteggiare la globalizzazione, la domanda e la variabilità del mercato per via tecnologica, senza innovare l’organizzazione e la gestione del processo produttivo e lavorativo, si rivelò, difatti, in quegli anni tanto insufficiente che nei primi anni ’90
iniziò l’innovazione organizzativa-gestionale del modo di produzione che consistette nell’integrare l’information technology non più con una logica di produzione standardizzata ma con un’organizzazione della produzione snella.
A tale proposito i fattori per la produttività variarono secondo la struttura organizzativa della tecnologia e soprattutto mutarono secondo le loro combinazioni in
uno specifico contesto lavorativo. In un’organizzazione piramidale e prescrittiva la
produttività e il rendimento, infatti, dipendevano soltanto da alcuni fattori che costituirono o crearono il rendimento del lavoro, mentre in un’organizzazione snella,
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con la finalizzazione lavorativa sul binomio produttività-qualità, il rendimento dipese e dipende dalla somma equilibrata e intelligente dei diversi fattori.
Nel caso dell’organizzazione snella, un giusto rilievo della produttività esige dunque il riferimento a una logica di processo secondo il criterio della produzione a flusso. Le condizioni per realizzare il flusso sono in particolare l’elevata qualità del prodotto, del processo e la riduzione del tempo di transito con la riduzione dei tempi
di attesa.
Un elemento fondamentale del rapporto produttività/qualità riguarda l’occupazione impiegata in un singolo stabilimento sia per l’aspetto numerico sia per il valore professionale. Infatti diversamente da un’organizzazione per funzioni dove il lavoro è la sommatoria delle singole operazioni o mansioni, la finalità di un’organizzazione per processi è l’ottimizzazione e la stabilità produttiva che per essere tali richiedono la certezza occupazionale e una forte qualificazione professionale delle
persone nel lavoro come sono previste dalle nuove modalità di lavoro (lavoro in
gruppo, autonomia, flessibilità professionale).
Accanto a questi aspetti il rendimento del lavoro si origina anche da condizioni
immateriali come il linguaggio. Difatti il linguaggio è ritenuto indispensabile sia
per gli svolgimenti attinenti all’informazione aziendale sia per le forme di relazioni
e di comunicazione tra i team di processo (direzionale, gestionale, operativo…) interni all’azienda. Solitamente il piano comunicativo riguarda l’apprendimento e le
motivazioni delle novità e delle ragioni che comportano lo svolgimento organizzativo e la rete relazionale delle persone coinvolte nel processo lavorativo. In particolare quest’ultimo significato della comunicazione (rete relazionale) va valutato in
analogia ai diversi ruoli professionali come un processo di scambio tra le conoscenze e come opportunità per la soluzione dei problemi organizzativi. Infatti tutti i motivi che regolano le attuali organizzazioni (specializzazione e flessibilità produttiva, innovazione tecnologica, automazione flessibile, tecnologia dell’informazione e della comunicazione, Ict, qualità del prodotto e del processo…) richiamano l’esperienza, il sapere e la conoscenza da parte di chi lavora, direttamente o indirettamente, nei processi produttivi e trovano naturalmente nel linguaggio e nella
interazione comunicativa la sede della loro manifestazione positiva per la produttività aziendale.
Catena del valore e produttività
Sussiste, dunque, la stretta relazione tra le innovazioni dei modelli organizzativi,
la produttività e la qualità. Tale rapporto è da qualche tempo oramai al centro della discussione per i temi della competitività aziendale e per l’innovazione dei modelli organizzativi. Parecchi studi e ricerche stabiliscono il rapporto stretto tra l’in-
3
L. Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Einaudi, Torino, 1983; Aa.Vv., Economia dell’innovazione. Disegni organizzativi, pratiche di lavoro e performance d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2008;
Aa.Vv., Innovazione, relazioni industriali e risultati d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2004.
4 G.C. Cerruti, M. Pedaci, Innovazione nell’organizzazione della produzione e nelle relazioni di lavoro
nel postfordismo, in Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 2, 2012, p. 82.
L’analisi
novazione dei modelli organizzativi, la qualità del lavoro e la produttività3; infatti
tale rapporto comporta una feconda «complementarità» tra i fattori innovativi (tecnologie, modalità di lavoro, relazioni sindacali). Viceversa, su questi temi, spesso si
esclude sul piano dell’analisi la funzione reciproca tra le componenti del rinnovamento per addivenire a considerazioni tra di loro separate e fuorvianti. In particolare sulla produttività, troppo spesso, si utilizzano «spiegazioni standard» che, pur
nell’elencazione di cause reali (pochi investimenti in attività di ricerca e sviluppo,
poca internazionalizzazione delle imprese, poca formazione, poca innovazione nella produzione materiale e così via), mal si conciliano con una spiegazione plausibile ed esaustiva del blocco della produttività in Italia. Tali condizioni standard sono
presenti in Italia da molto tempo anche nelle fasi di forte crescita della produttività
industriale. Stesso discorso vale sull’enfasi dei mutamenti organizzativi quando ci si
sofferma sulla descrizione formale dell’innovazione senza interpretare l’interazione e
gli adattamenti «a grappolo» che queste innovazioni comportano sul piano organizzativo. In questi casi si perde la validità dei mutamenti organizzativi che, di là
dalle sigle con le quali tali mutamenti si annoverano e di là dalle caratteristiche con
le quali questi si mostrano, dipende dalla «complementarità» tra «misure tecnologiche, organizzative e di governo delle relazioni di lavoro» su cui poggia la possibilità
di una maggiore produttività e l’affermazione della qualità del lavoro come criterio
strategico aziendale4. Questi errori non dipendono da metodologie interpretative errate ma da un giudizio inesatto di partenza del cambiamento. Infatti il mutamento
organizzativo non ha valore di paradigma ma, a differenza del modello
taylorista/fordista, i mutamenti organizzativi si avvalgono di adattamenti che spesso corrispondono alle esigenze della singola impresa rispetto alle tecnologie, alle risorse e al mercato, tanto da richiedere una mirata indagine sul campo.
Il carattere particolare di questi mutamenti, come abbiamo visto, è quello della
riduzione della struttura gerarchica, delle rigidità lavorative e della riconsiderazione
delle persone nel proprio lavoro. Questo schema organizzativo è riconducibile, secondo un’approssimazione descrittiva, a varie classificazioni del cambiamento. Difatti le diverse classi delle organizzazioni che possono considerarsi innovative (Learning organizations, Lean production, World-class manufacturing, Total productive
maintenance) nella loro descrizione mantengono spesso gli stessi caratteri riformatori del sistema taylor-fordista. Questi caratteri sono riassumibili in compiti di fles-
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sibilità professionale, autonomia lavorativa, lavoro in gruppo, coinvolgimento del
personale, just in time, qualità totale e così via. Siffatti segni organizzativi con i quali si organizzano il lavoro e la produzione indubbiamente stabiliscono il mutamento del modello taylor-fordista ma la loro caratteristica nell’impiego concreto delle attività organizzative non sempre coincide con la descrizione della classe di appartenenza al modello preso in esame. C’è di solito uno scarto tra le caratteristiche del
modello in questione e la sua applicazione nelle realtà produttive. Questo scarto dipende, appunto, dalle strategie di una singola impresa che stabilisce la specificità di
adattamento al modello e alla contrattazione sindacale sugli stessi mutamenti organizzativi. Dunque il valore del cambiamento è rilevabile secondo un’indagine mirata all’attività lavorativa della singola realtà aziendale; indagine le cui particolarità dipendono dalle coincidenze o dalle differenze tra la realtà di lavoro e la mappa organizzativa che ricorre comunque ad alcune caratteristiche fondamentali comuni che
vale ancora ripetere. La prima riguarda il criterio di base su cui le innovazioni fondano l’applicazione organizzativa. La regola prima «consiste in un profondo ribaltamento del modo di concepire l’organizzazione delle attività che si svolgono all’interno dell’impresa: dalla funzione si passa al processo»5. Questo passaggio, ed è la
seconda caratteristica, comporta e trascina diversi mutamenti della prestazione lavorativa. Viene meno, infatti, l’aspettativa dell’efficienza sulle singole operazioni per
introdurre, invece, una produttività di flusso produttivo, in concomitanza cioè della regolarità del flusso, del miglioramento della qualità intesa come riduzione degli
errori di lavorazione e della risposta alle variazioni della domanda. Tale rovesciamento porta a identificare il lavoro non più come mansione ma come attività seguendo alcuni criteri innovativi che annunciano la stessa operosità e che si mostrano con la crescita e la flessibilità professionale (polivalenza, polifunzionale), con il
lavoro in gruppo e, più in generale, con la ri-personalizzazione del lavoro6.
Questi cambiamenti, oltre a giustificare la necessità di una maggiore competitività, produttività e qualità dei prodotti nel mercato globale, hanno una stretta colleganza con la catena del valore. Oramai il processo di valorizzazione dei prodotti,
in un’azienda leader, si misura sul dispositivo seriale delle attività concomitanti al
processo di valorizzazione dalla progettazione alla distribuzione e assistenza dei prodotti aziendali e sul flusso produttivo. Infatti la catena del valore è un insieme di attività interdipendenti collegate tra loro, come il flusso produttivo è «il gendarme
dell’attività lavorativa quotidiana»7 e risultano come i termini di paragone sul pia-
5
R. Leoni, Nuovi paradigmi produttivi, performance d’impresa e gestione delle relazioni di lavoro: promesse e occasioni mancate, in, Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 2, 2012, p. 103.
6 F. Farina, Persona e lavoro, Ediesse, Roma, 2005.
7 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 184.
Sugli orari
Assumiamo la produttività in una situazione lavorativa in cui il rendimento non
dipende dalle singole funzioni ma deriva dalla somma equilibrata e intelligente dei diversi fattori innovativi (tecnologie e modalità di lavoro). A tale riguardo prendiamo
in esame il criterio aggregativo d’impianto (lo stesso metodo vale nel caso del processo, del flusso, dell’area e del reparto). Un impianto si definisce come unione tra la
tecnologia e l’insieme di lavoratori che operano su di esso. È suddiviso in posti di lavoro ai quali è addetto un gruppo di lavoratori, con i relativi compiti assegnati (ruolo professionale) che costituiscono l’organico. Da questo breve ragionamento si rica-
8
M.E. Porter, Il vantaggio competitivo, Einaudi, Torino, 2004, p. 56.
L’analisi
no aziendale della produttività e della qualità del prodotto. Per questi motivi il sistema della catena del valore dell’impresa s’inquadra prevalentemente nella valutazione del flusso produttivo o/e del prodotto. Per definire le attività «generatrici di
valore più rilevanti [è necessario] isolare le attività che hanno tecnologie e logiche
economiche diverse» e suddividere coerentemente in attività le funzioni a largo raggio, come la produzione o il marketing; a tale riguardo «si possono utilizzare il flusso del prodotto, il flusso degli ordini o il flusso della carta»8. Queste considerazioni
riassumono due aspetti del rapporto della catena del valore e dei modelli organizzativi. Il primo, già in precedenza asserito, è che i nuovi modelli organizzativi si avvalgono come criterio fondante della produzione in flusso, il secondo, strettamente
collegato al primo, è che un’analisi del valore e delle modalità generatrici del valore
in una impresa comporta lo studio del modo con il quale il flusso produttivo o/e
del prodotto è organizzato. Sul piano del merito ciò implica la comprensione delle
dinamiche aziendali sui temi dell’occupazione, degli orari, della professionalità, delle relazioni sindacali e come il flusso nella sua organizzazione d’interdipendenze è
ottimizzato e coordinato.
Sotto questo profilo il discorso sulla produttività non può prescindere dalle logiche interne della catena del valore e del flusso produttivo. A tale proposito abbiamo
già indicato i temi della produttività/qualità (occupazione, competenze, flessibilità
professionale, comunicazione intersoggettiva…) senza i quali è impensabile stabilire gli incrementi di produttività alla luce dei fattori competitivi del mercato internazionale. Un aspetto fondante riguarda proprio gli aspetti occupazionali di un sito produttivo che vuole competere sui mercati in funzione della qualità del prodotto e dei mutamenti organizzativi ottenuti rispetto ai modelli novecenteschi. Tutto
ciò chiama in causa lo stretto rapporto tra organici aziendali e orari di lavoro.
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vano i seguenti fattori: impianto, posto di lavoro e organico. Questi tre fattori sono dati numerici per il posto di lavoro e per l’organico mentre sono dati tecnici per l’impianto. Siffatti dati hanno nel tempo il loro esclusivo riferimento. L’apparato è valutato secondo le ore di utilizzo mentre l’orario di lavoro stabilisce la prestazione per i
lavoratori in organico. Questa equazione ci porta a dire che le ore prestate da parte
dei lavoratori in organico corrispondono al funzionamento dei posti di lavoro e al
funzionamento dell’impianto stesso. Dunque i fattori di calcolo concernenti l’occupazione sono: le ore di utilizzo dell’impianto, l’orario contrattuale, l’organico in apparato e i posti di lavoro. Queste cause comportano la seguente proporzione: le ore
di utilizzo dell’impianto stanno all’orario contrattuale come l’organico sta ai posti di
lavoro. Se A sono le ore di utilizzo dell’apparato, B l’orario contrattuale, C l’organico in impianto, D i posti di lavoro, la proporzione corrispondente è la seguente, A:B
= C:D. Tale proporzione come è stata formulata (con alcune integrazioni che vedremo di seguito) assume la regola di calcolo da cui partire per impostare i problemi relativi agli orari, agli organici e alla utilizzazione degli impianti.
Pervenuti alla regola di calcolo, è possibile attraverso essa stabilire e definire il numero dei lavoratori per posto di lavoro. Indistintamente sia il rapporto C/D (cioè
l’organico in apparato fratto i posti di lavoro) sia A/B (e cioè le ore di utilizzo dell’impianto fratto l’orario contrattuale) rivelano i numeri dei lavoratori per posto di
lavoro.
Turnazione e addetti per posto di lavoro
Ora ci soffermiamo sulla relazione tra le diverse turnazioni (6 x 3, 7 x 3, ciclo continuo) e i posti di lavoro necessari9. Tale rapporto è evidenziato in conformità dei
calcoli annunciati nel paragrafo precedente. Iniziamo a cogliere tale relazione nelle
turnazioni a ciclo continuo10. Innanzitutto la sua organizzazione del lavoro si basa
su impianti che funzionano 24 ore per tutti i giorni dell’anno (365 gg.) in turni avvicendati rigidamente vincolati (ciclo continuo). La copertura continuativa ed effettiva dei posti di lavoro nel ciclo continuo è definita dal rapporto tra le ore di utilizzo dell’impianto e l’orario contrattuale. L’orario di lavoro contrattuale va inteso al
netto delle ferie e delle assenze che a diverso titolo (malattia, infortunio, permessi)
9 Per facilitare la comprensione dei calcoli, useremo l’orario contrattuale in giornate di lavoro su base
annua.
10 Spesso si confondono i 21 turni con il ciclo continuo. Per ciclo continuo qui s’intende l’utilizzo degli impianti per 365 gg. l’anno. È una turnazione vincolata dalla tecnologia di processo che non prevede fermate per evitare danni e deterioramento agli impianti (siderurgici, petrolchimici). Mentre i 21
turni si differenziano dal ciclo continuo in quanto prevedono alcune fermate collettive durante l’anno, escludendo così la turnazione su 365 gg.
si possono determinare nel corso dell’anno. La finalità di quest’operazione è l’individuazione precisa e numericamente corretta dei turnisti necessari alla copertura dei
posti di lavoro. Sotto questo profilo si può schematizzare nel modo seguente il meccanismo di calcolo standard per l’individuazione del numero degli addetti per posto
di lavoro considerando che per K si intende il numero di addetti necessari per ogni
posto di lavoro:
Utilizzo impianti x 24 ore
Orario contrattuale11 - (godimento ferie + fruizione permessi +
malattia/infortunio) x 8 ore
Lo stesso meccanismo di calcolo si applica sui 18 e sui 21 turni, ciò che muta sono i giorni di utilizzo degli impianti nell’anno. Facciamo un esempio di calcolo sui
18 turni. L’utilizzo degli impianti sui 18 turni dipende dai 6 gg. x 24 ore di impiego in ragione delle 52 settimane dell’anno solare. A questo calcolo vanno sottratte
le fermate collettive. In questo caso la proporzione ha le seguenti caratteristiche:
K=
24 ore x 6 gg. x (52,1412 settimane - 4 settimane di chiusura collettiva)
Orario contrattuale - (godimento ferie + fruizione permessi +
malattia/infortunio) x 8 ore
Nell’esempio abbiamo utilizzato i 18 turni di utilizzo (24 x 6 gg.) x le 4 settimane di chiusura del sito produttivo (per convenzione le chiusure collettive possiamo
indicarle con tre settimane ad agosto per ferie e una settimana a Natale). Lo stesso
calcolo vale per i 21 turni. Si tratta di concordare le fermate collettive e di calcolare
le giornate di utilizzo degli impianti. Costruiamo anche qui un esempio con l’ipotesi delle stesse fermate collettive (4 settimane di chiusura) utilizzate sui 18 turni:
K=
11
24 ore x 7 gg. x (52,14 settimane - 4 settimane di chiusura collettiva)
Orario contrattuale - (godimento ferie + fruizione permessi +
malattia/infortunio) x 8 ore
L’orario contrattuale è inteso al netto della riduzione dell’orario di lavoro, delle festività e delle ex
festività e a lordo delle ferie. Questi aspetti sono diversamente trattati (in particolare la quantità della
riduzione degli orari) dai contratti nazionali.
12 La media delle settimane annue è di 52,14. Infatti 52,14 x 7 gg. dà 364,98 gg. annui.
L’analisi
K=
a
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Ora facciamo degli esempi concreti. Iniziamo con il calcolo ipotetico sui 18
turni. Manteniamo il calcolo su base e in giornate annue. Il calcolo si basa su 365
gg. annui -104 gg. di riposo del sabato e della domenica - 4 ex festività - 22 gg.
di ferie - 11 gg. di rol - 7gg di festività infrasettimanali13 = 217 gg. di lavoro annuo. Simuliamo 4 settimane di chiusura (3 settimane di ferie in agosto e una settimana nel periodo di Natale) più 4 giorni di chiusura in coincidenza delle festività infrasettimanali (delle 7 che abbiamo calcolato ne abbiamo previste solo 4 dal
momento che le chiusure collettive prevedono sia la festività di ferragosto sia alcune festività natalizie).
K=
24 ore x 6 gg. x (52,14 settimane - 4 settimane di chiusura collettiva - 4 gg.)
217 gg. - (6 gg. di assenza media per malattia e permessi) x 8
K=
a
e
144 x 47,56 settimane utilizzo impianti
211 gg. effettive di lavoro x 8 ore di lavoro
K=
88
6848,64
1688
K = 4,05 numero di addetti necessari per ogni posto di lavoro
Questo calcolo indica la necessità di coprire ogni posizione di lavoro con perlomeno 4 persone in uno schema di 18 turni. Il calcolo che abbiamo fatto si può ripetere anche per i 21 turni. Il risultato dipende sempre dalle settimane di utilizzo
degli impianti al numeratore e dalle giornate effettive di lavoro al denominatore. Le
prime derivano dalle fermate collettive, le seconde scaturiscono dalle festività infrasettimanali cadenti tra il lunedì e il venerdì, dalle giornate di riduzione di lavoro
(queste variano secondo le turnazioni tra i 18, i 21 turni e il ciclo continuo e i contratti collettivi di lavoro) e dall’assenza media per malattia e permessi. Ora tenendo
conto che in un impianto ci sono 12 posizioni di lavoro e per ogni posto di lavoro
gli addetti necessari sono 4,05 (è il risultato dell’esempio sui 18 turni), l’organico
13
Le 11 festività annue cadono in giorni lavorativi mediamente 5 volte su 7. Perciò: 11 festività x 5
gg. : 7 gg. = 7,85.
Tab. 1 - Schema di 6 gg. di lavoro per la 1a settimana e 3 gg. di lavoro
per la successiva
L
M
Squadra A
3
3
Squadra B
2
2
Squadra C
1
1
Squadra D
R
R
M
G
V
S
D
L
M
M
G
V
S
D
3
R
R
R
R
1
1
1
1
1
1
R
2
2
2
2
R
3
3
3
R
R
R
R
1
1
1
1
R
R
R
R
3
3
3
R
R
3
3
3
R
2
2
2
2
2
2
R
Tab. 1 bis
Squadre
l m m g v s d
l m m g v s d
l m m g v s d
l m m g v s d
A
R R R 3 3 3
1 1 1 1 1 1
3 3 3 R R R
2 2 2 2 2 2
B
2 2 2 2 2 2
R R R 3 3 3
1 1 1 1 1 1
3 3 3 R R R
C
1
1 1 1 1 1
3 3 3 R R R
2 2 2 2 2 2
R R R 3 3 3
D
3 3 3 R R R
2 2 2 2 2 2
R R R 3 3 3
1 1 1 1 1 1
Questo schema prevede un’alternanza di sei giorni lavorativi nella prima settimana e tre nella successiva (9 x 8). Sono nove giorni di lavoro per 8 ore in due settimane. Tale schema esige quattro squadre, negli avvicendamenti in turno una riposa (questo è possibile secondo i calcoli che abbiamo fatto sui 18 turni) con una
media di 36 ore settimanali. Siffatto modello prevede quattro giorni di riposo di
seguito ogni due settimane mentre la presenza di sabato avviene tre settimane su
quattro.
L’analisi
necessario complessivo è di 4,05 x 12 = 48,6 addetti. Differentemente dal conteggio sull’organico la definizione del numero delle squadre necessarie prevede un’operazione in cui al numeratore si mantengono le ore di marcia dell’impianto mentre
al denominatore le giornate di lavoro annuali per addetto sono calcolate al lordo
delle ferie. Questo rapporto stabilisce le squadre necessarie in un sistema di 18, 21
turni e del ciclo continuo e fissa i riferimenti per gli schemi dei turni. A tale riguardo sul numero di 4 squadre per i 18 turni e con una media oraria di 36 ore (di solito il computo sopra indicato comporta una media oraria settimanale di 36 ore e
l’introduzione della 4a squadra in organico) gli schemi di turnazione sono di solito
due. Questi modelli dimostrano gli effetti occupazionali (la 4a squadra organica) così come gli esiti degli avvicendamenti e dei riposi in turno. Vediamo ora nella loro
applicazione le turnazioni possibili.
a
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Tab. 2 - Schema di 5 gg. di lavoro per la 1a settimana e 4 gg. di lavoro
per la successiva
L
M
Squadra A
1
1
Squadra B
R
R
Squadra C
3
3
Squadra D
2
2
M
G
V
S
D
L
M
M
G
V
S
D
1
R
2
2
R
2
2
3
3
R
R
R
2
2
3
3
R
1
1
R
2
2
R
R
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Questo schema ha lo stesso orario plurisettimanale medio di 36 ore del modello precedente. La differenza riguarda la distribuzione sui turni. Difatti il modello
precedente si articola con 6 giorni continuativi in turno nella prima settimana e 3
giorni di lavoro nella seconda. Lo schema sopra esposto, invece, prevede 5 giorni
la prima settimana con i 4 giorni di lavoro la seconda. Entrambi confermano le 9
giornate per 8 ore di lavoro nell’arco delle due settimane (9 x 8) ma con criteri di
distribuzione fra loro diversi. Il primo schema conferma per ogni squadra la stessa
turnazione settimanale (o di mattina 6.00-14,00 o di pomeriggio 14.00-22.00 o
di notte 22.00-6.00) mentre il secondo prevede delle variazioni nell’arco della settimana. Questa differenza sulla preferenza di scelta dello schema è stata di solito
uno degli argomenti più discussi tra i turnisti per l’applicazione dei 18 turni14. Va
detto infine che entrambi i modelli, nel rispetto delle giornate annue e della media dell’orario settimanale di 36 ore, prevedono un periodo lungo di settimane a
36 ore (45 settimane circa) con settimane di alto orario di 48 ore in coincidenza
con il godimento delle ferie15.
14
La discussione riguarda l’impegno e l’interesse sui 6 giorni continuativi in turno del primo schema
di fronte ai 5 giorni di lavoro con i diversi cambi del secondo schema nell’arco di una settimana.
15 Abitualmente questi schemi a 18 turni prevedono 45 settimane a 36 ore, 3 settimane a 48 ore, 3
settimane di ferie collettive da godere normalmente nel mese di agosto e 1 settimana di ferie a scorrimento programmata con le settimane lavorative a 48 ore delle altre 3 squadre. Questo esempio può
intendersi come un riferimento esemplare dell’applicazione dei 18 turni.
I calcoli sugli orari che abbiamo fatto, in conformità con il computo annuale in
giornate (ciò vale anche per un conteggio sulle ore settimanali e annuali), prevedono la schematizzazione collettiva di tutti i riposi contrattuali (ferie, ex festività, riduzione degli orari di lavoro, permessi e così via). Questo metodo implica un abbassamento degli orari di lavoro per via contrattuale e comporta di conseguenza una
crescita occupazionale. Contiene, altresì, un avvicendamento in turni meno intensivi e invasivi a seguito degli orari plurisettimanali (sui 18 turni la presenza in fabbrica prevede normalmente in due settimane 9 gg. lavorativi invece di 10 gg.) e uno
schema di turno che è di solito concordato agli inizi dell’anno in cui sono previste
e programmate le giornate di lavoro e di riposo16.
L’applicazione degli orari in turno da noi indicata comporta, inoltre, almeno due
successivi chiarimenti che corrispondono al tema della flessibilità degli orari, degli
impianti e della produttività. La flessibilità sulla variabilità del mercato si attua attraverso lo scorrimento dello schema di turno in ragione dei picchi e dei flessi della
produzione in cui si conferma la media oraria della turnazione di riferimento e in
cui il maggiore utilizzo degli impianti e l’incremento degli orari di lavoro assecondano la pratica degli accantonamenti da utilizzare poi nei periodi dei flessi attraverso il godimento collettivo dei risparmi e conseguentemente con il regime di basso
orario17. La produttività si conferma in virtù di un sistema di lavoro in turni le cui
prerogative applicative implicano un’occupazione professionalizzata e quantitativamente stabile. Infatti sia la flessibilità sia l’indice di produttività sono sorvegliati da
un insieme operativo che si può identificare in un impianto, in un processo o nel
flusso produttivo in cui la corretta applicazione dipende da un criterio occupazionale definito dal grado di copertura continuativa dei posti di lavoro.
Difatti tale copertura si avvale del principio della prestazione effettiva in cui gli addetti necessari per ogni posizione di lavoro sono in grado di sostituire le assenze dei
lavoratori. La certezza numerica degli occupati in una posizione di lavoro esclude
16
F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare, in AE Agricoltura Alimentazione Economia Ecologia, Edizioni Lariser, Roma, n. 7/2011, pp. 24-25.
17 Tale flessibilità, con le relative turnazioni, è significativamente presente nel settore dell’industria alimentare. Alla Ferrero la flessibilità sui 15 turni è con il sabato lavorativo di 6 ore per turno. Tale prestazione ha il godimento collettivo degli accantonamenti dei riposi compensativi nei periodi di bassa
produzione; alla Parmalat l’effettivo orario delle 36 ore sui 18 turni, a seguito della schematizzazione
collettiva dei rol e delle ferie, è alla base della stessa flessibilità dove si regolano i picchi e i flessi e dove gli accantonamenti sono utilizzati nei periodi di bassa produzione; alla Plasmon l’orario effettivo
delle 38 ore medie settimanali sui 15 turni con la schematizzazione delle rol stabilisce la flessibilità sui
picchi e sui flessi secondo la regola della media oraria delle 38 ore. Su questo punto si veda la ricerca
su La catena del valore nel settore agroalimentare, in Quaderni AE, Edizione Lariser, Ediesse, n. 1, 2012,
in particolare, F. Farina, Catena del valore e modelli organizzativi, p. 21.
L’analisi
La flessibilità degli orari
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così una copertura improvvisata e rabberciata a causa delle assenze in cui si rimette
il carico di lavoro degli assenti sui lavoratori presenti o si procrastinano in un secondo tempo le funzioni del lavoratore assente o si ricorre allo straordinario dei lavoratori presenti. Sono tutte forme che pregiudicano la flessibilità e il mantenimento degli indici di produttività di un impianto o di un flusso produttivo. Infatti
la flessibilità, la produttività e la qualità del prodotto inseguono logiche organizzative in cui la produttività e la qualità si calcolano sull’impianto o sul flusso. Ed è un
computo che mira a un’attività produttiva fluida, snella e senza interruzioni, tempi
morti o di attesa. Tutto questo comporta sempre un adeguato organico e una flessibilità professionale giocata sull’impianto, sul flusso e a seguito di conoscenze, competenze e autonomia dei lavoratori interessati nei processi produttivi. Difficilmente
una sostituzione per la copertura delle assenze disorganica ed estemporanea ha gli effetti desiderati sulla produttività e qualità del prodotto. Anzi l’improvvisazione professionale in questi casi produce effetti dannosi rispetto agli obiettivi di qualità e di
produttività ambiti nei processi produttivi.
Sugli straordinari
In sostanza i mutamenti organizzativi e le stesse logiche di mercato hanno modificato i criteri di flessibilità dell’organizzazione del lavoro e della produzione. A
differenza del sistema taylor/fordista in cui la flessibilità degli impianti era stabilita
dalla cassa integrazione e dallo straordinario secondo le diverse manifestazioni cicliche dei mercati, in un’organizzazione snella e alla presenza di mercati organicamente variabili e molto competitivi su scala globale, la flessibilità è parte integrante delle organizzazioni del lavoro sia per le tecnologie flessibili, sia per le continue mutate condizioni di mercato, sia per gli adattamenti delle linee di produzione sui prodotti. Tali cambiamenti radicali comportano una flessibilità costitutiva delle organizzazioni. Una flessibilità del sistema produttivo e non un’elasticità dettata, attraverso lo straordinario o la cassa integrazione ordinaria, dagli andamenti esterni alla
singola fabbrica a cui un’organizzazione rigida, come quella taylor/fordista, volta per
volta doveva per necessità adattarsi.
I nuovi sistemi d’impresa richiedono, dunque, un’adattabilità fisiologica agli
stessi criteri della produzione e della competitività. È una flessibilità di struttura
in grado di interpretare e anticipare le fluttuazioni del mercato e di incorporare,
nella sua fatticità produttiva, gli incrementi di produttività e di qualità del prodotto. In questo quadro lo straordinario, più che un criterio di flessibilità, si mostra come una disfunzione organizzativa. Ha una sua ragione unicamente per necessità imprescindibile, indifferibile e di durata temporanea ed è comprensibile secondo un’eccezione della stessa normale attività produttiva. Pertanto la regola del-
L’analisi
la flessibilità è comprensibile nelle diverse variazioni degli andamenti dei mercati
e in ragione della flessibilità degli orari il cui saldo finale è, però, l’applicazione
dell’orario contrattuale. In questi casi lo straordinario interviene come una necessità improvvisa, non programmabile e come supporto temporaneo ed eccezionale di un bisogno produttivo. Diversamente riproduce un’anomalia della stessa efficienza organizzativa.
In una realtà produttiva rinnovata nella sua organizzazione (lavoro in team, autonomia operativa, flessibilità professionale) e con parte del lavoro organizzato in
turni avvicendati (5 x 3 - 6 x 3 - 7 x 3), le cause dello straordinario possono ricondursi ad una mancata schematizzazione collettiva degli orari di lavoro (ferie,
ex festività, riduzione degli orari di lavoro, permessi e così via) o ad una schematizzazione contraddittoria rispetto alla organizzazione del lavoro (il numero dei
posti di lavoro). In entrambi i casi il deficit di schematizzazione trascina una strutturale mancanza di personale. Nel primo caso l’assenza della schematizzazione
collettiva degli orari di lavoro comporta la scissione tra l’orario collettivo delle 40
ore e il godimento individuale dei lavoratori della riduzione dell’orario, dell’ex festività e di parte delle ferie. In questi casi il calcolo sul numero delle squadre è sulle 40 ore mentre l’orario effettivo del singolo lavoratore è abbondantemente al di
sotto di quella media. Tale scarto, in questi casi, produce – qualora il lavoratore
si assenti in funzione del godimento individuale della riduzione di orario e/o delle ferie – una insufficienza di personale che è solitamente corretta con il ricorso
agli straordinari. Di solito in questi casi si apre un circolo vizioso tra riposi individuali come godimento delle assenze previste dai contratti, ricorso agli straordinari come copertura delle assenze e forme di assenteismo soprattutto per quelle
turnazioni maggiormente disagiate come i 18 e i 21 turni con orari settimanali di
40 ore. Un giro iniquo che trascina lontano ogni criterio di efficienza e di produttività.
Nel secondo caso il ricorso allo straordinario è la conseguenza della mancata
schematizzazione sia per l’individuazione del numero di addetti necessari per ogni
posto di lavoro sia per la riduzione numerica degli stessi senza, però, la cancellazione delle competenze assegnate ad essi. In altri termini lo straordinario, nel primo caso, è per rimediare alla mancanza strutturale dei rimpiazzi mentre, nel secondo caso, è per provvedere ai carichi di lavoro formalmente eliminati ma sostanzialmente attivi e accorpati nelle diverse posizioni di lavoro. In entrambi i casi il ricorso allo straordinario non si configura come uno strumento di flessibilità
produttiva. Infatti in queste eventualità lo straordinario è fisiologico ed è organicamente pianificato per l’attuazione dell’organizzazione produttiva. È finalizzato
per la mancanza strutturale degli organici e opera per la riduzione dei costi attraverso l’incremento delle ore straordinarie a discapito delle ore ordinarie il cui co-
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sto è più elevato. È una forma di razionalizzazione occupazionale più che un criterio di flessibilità18.
Conclusioni
L’orario di lavoro, dunque, stando alla nostra elaborazione, comporta vari aspetti dell’organizzazione della produzione. Oltre a stabilire la durata di lavoro ha una
rilevante conseguenza sui mutamenti organizzativi, sul piano occupazionale, sulla
qualità del prodotto e sulla produttività; questi quattro elementi sono strettamente
legati tra di loro. Una trasandata applicazione degli orari porta inevitabilmente alla
riduzione degli standard competitivi dell’unità produttiva. Abbiamo visto e ripetuto che la produttività del lavoro oggi è calcolata non più sulla singola funzione o
mansione ma è misurata sulla logica della produzione a flusso o di processo o di prodotto. Tale calcolo richiede il doppio obiettivo dell’elevata qualità del prodotto e del
processo. In questi casi la produttività è solitamente calcolata con la riduzione dei
tempi di transito del prodotto e con la riduzione dei tempi di attesa del processo.
Questa condizione è possibile se si determina una flessibilità professionale (polivalenza e polifunzionalità), una corretta definizione del numero dei posti di lavoro e
il numero di lavoratori necessari. Queste condizioni sono stabilite sostanzialmente
dalla corretta applicazione degli orari contrattuali e dal valore professionale dei dipendenti. Gli orari effettivi, sia come calcolo sia nei criteri applicativi, sono quantificati sulla base delle ore o delle giornate di lavoro previste in ogni contratto. Il criterio applicativo dipende dalla schematizzazione collettiva dei riposi a diverso titolo
previsti dai contratti di lavoro. Se a questa dipendenza si procede con delle deroghe
in cui le ore collettive di lavoro sono di 40 ore e i riposi (ex festività, rol, parte delle ferie…) sono individuali, il ricorso allo straordinario, a cui necessariamente bisogna rivolgersi, stabilisce nella operatività del lavoro una condizione d’improvvisazione e di precarietà le cui conseguenze comportano la perdita di produttività e di
qualità del prodotto. Oltretutto il lavoro si prefigura come un’attività in cui la com18 Esemplare da questo punto di vista è l’accordo della Fiat di Pomigliano. Qui la strutturale carenza
di organico è compensata dalle ore di straordinario che dalle 40 ore previste dal contratto sono passate a 120 ore pari a 15 giornate di 8 ore annue a livello aziendale! Questo straordinario interviene soprattutto a compensare la mancanza strutturale del personale sui 18 turni a 40 ore settimanali e non
ha nessuna funzione di elasticità per la produzione. Tale contraddizione si predispone, prima dei contratti di solidarietà, a una diversa applicazione oraria sui 18 turni per favorire, attraverso la verifica sulla 4a squadra organica, il reintegro del personale discriminato dalla Fiat stabilito dall’ordinanza del tribunale. Stesso discorso vale per quelle forme di lavoro diffusissime (polivalenza, polifunzionale) in cui
si scambia un criterio di flessibilità professionale con accorpamenti di posti di lavoro che riducono le
posizioni, innalzano l’intensità della prestazione e ricorrono frequentemente agli straordinari per compensare l’insufficienza del personale.
L’analisi
petenza, l’esperienza di lavoro, le conoscenze e le capacità di comunicazione sono le
caratteristiche che consentono a una professionalità attiva, considerata indispensabile, gli obiettivi di efficienza e di regolarità del processo produttivo e che qualsiasi
ricorso di fortuna allo straordinario, per sua natura, non concede. In aggiunta, oggi, con i mutamenti organizzativi, un posto di lavoro è contrassegnato dai dati tecnici e tecnologici e contemporaneamente dall’attività del lavoratore in gruppo, in
reparto o in impianto, considerata, quest’ultima, come un’operosità autonoma con
le sue prerogative di esperienza e responsabilità, sugli obiettivi di produttività e di
qualità del flusso produttivo, tanto da richiedere una relazione attenta tra orari, posti di lavoro e occupazione.
Questi sono temi che hanno forti implicazioni sindacali. Oggi più di ieri, come
più volte abbiamo ribadito, gli orari di lavoro incidono, oltre che sul dato numerico dell’occupazione, sul funzionamento dell’attività produttiva e direttamente sulla
produttività e sulla qualità. È indispensabile che su questi obiettivi il sindacato riprenda una sua coerenza rivendicativa dove, attraverso una corretta applicazione degli orari, ci sia il tema della crescita occupazionale che sia in grado professionalmente
di affrontare gli obiettivi dei mutamenti organizzativi, di predisporsi sul tema della
qualità dei prodotti e delle sfide competitive globali. Tutto questo comporta una
scelta rivendicativa degli orari di lavoro in cui i calcoli sul numero degli addetti necessari per posto di lavoro e per la definizione delle squadre nelle diverse turnazioni
ritornino a considerare la schematizzazione collettiva degli orari. Un ritorno che stabilisca una maggiore sicurezza, una più alta qualità del lavoro e una migliore efficacia rivendicativa del sindacato e delle Rsu sugli aspetti dell’organizzazione del lavoro, temi sui quali la rappresentanza e la legittimità della funzione sindacale trovino
la loro autenticità di principio.
È un quadro che presuppone una scelta di campo e di contrasto per le aziende
che continuano a praticare scelte competitive sulla riduzione del costo del lavoro,
sulla limitazione dei diritti e delle tutele stabilendo spesso, proprio sul terreno degli
orari, un calcolo disperato tra occupazione e straordinari; superando, così, i criteri
della competizione sulla qualità, la stabilità occupazionale e la flessibilità professionale nell’illusione che sia ancora possibile nell’occidente capitalistico competere attraverso il peggioramento delle condizioni di lavoro. Infine è opportuno, proprio
sull’impegnativa strategia per il Piano del lavoro della Cgil, definire una logica stringente tra le politiche generali per lo sviluppo e la contrattazione nei luoghi di lavoro. Gli orari sono una delle condizioni di questo legame, un presupposto in grado
di aprire i cancelli delle fabbriche alle nuove generazioni e su cui vale la pena di impegnarsi sindacalmente.
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