1883 Della Comunione frequente
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1883 Della Comunione frequente
PIETRO GIOCONDO SALVAJ Per grazia di Dio e della Santa Sede Vescovo di Alessandria e Conte Abbate dei SS. Pietro e Dalmazzo Lettera Pastorale per la santa Quaresima 1883 Della comunione frequente Al Venerabile clero e dilettissimo popolo della Città e Diocesi Salute e Benedizione nel Signore S ono, la Dio mercè, sì splendide le solennissime dimostrazioni di inconcussa fede cattolica, che con alacrità di dì in dì sempre maggiore si vanno avventuratamente moltiplicando in pressoché ogni luogo della diocesi, non esclusi oramai più i centri più popolosi, e quindi più per ciò stesso difficili a commuoversi, sempre che una qualche occasione se ne dia con solennità o funzioni alcun po’ straordinarie (come avvenne non ha guari ancora nella sommamente pia, ammiratissima e veramente generale processione fattasi al cimitero della città vescovile per la chiusa delle Visite pastorali delle parrocchie della città stessa, e per corona insieme di tutte le altre già prima fattesi in diocesi): sono, dissi, sì splendide, sì pubbliche, e però sì incontrastabili codeste solennissime dimostrazioni, da non potersi ormai più ragionevolmente dubitare da nessuno, che se per l’iniquità dei tempi all’augusta nostra religione avversi, per l’assordante rombazzo della cattiva stampa che le fa guerra tanto più pertinace e furiosa quanto men giusta, e se si vuole altresì per le soverchianti cure di temporali interessi, in cui molti tra i buoni troppo più, che non si dovrebbe, affannosamente si avvolgono, la cattolica fede può pur troppo talora in alcuno tra noi rimanere inoperosa, e come a dire a modo di bragia sotto la cenere compressa essa non può però estinguersi, né infievolirsi così, che a scossa almeno un po’ poderosa, nei generosi figli di Alessandro III non erompa fuori, e salutevolmente divampi. Ora codesto durar vivo del sacro fuoco, benché poco giovi di per sé a salute, anzi torni a pur troppo talora in cagione di più grave condanna, secondo quelle giuste, ma spaventosissime sentenze dell’apostolo Giacomo e di Cristo stesso: “Scienti et non facienti peccatum est illi (Jacob. IV, 12); e Servus qui cognovit … et non fecit, vapulabit multis. Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Luc. XII, 47, 49). Chi meglio conosce il da farsi, e nol fa, si fa reo di colpa più grave, e riporterà pena maggiore di chi lo ignora: venni a portar fuoco in terra, non perché sia tenuto inerte sotto la cenere, ma sì perché scatti, e divampi: codesto fuoco tuttavia vivo, benché compresso, offre per altro preziosa agevolezza ad ottenere che si risolva ad operare chi ha fede assai meglio, che non si potrebbe sperare da quegli infelici, nei quali siasene del tutto estinta ogni favilla. Quindi è trepido per una parte su le condizioni di tanti miei figli, i quali fermi, la Dio mercè, nelle cattoliche loro credenze, non operano per altro che ad intervalli a norma di esse, e confortato per altro lato dalle già dette e ripetute prove a nulla, assolutamente nulla non isperare di dover poter ottenere da questi tuttavia fedeli miei carissimi figli di quanto da essi si implori a loro bene in nome ed in forza di loro fede, mi valgo con fiducia sommamente confortatrice dell’opportunità, che l’imminente Quaresima mi fornisce, di novellamente trattenermi con voi, VV. FF. e CC. FF., per proporvi e quanto più posso fervidamente supplicarvi di accogliere tutti quanti, e costantemente poi praticare voi stessi, e coadiuvare in ogni maniera a ciascun possibile i fratelli a mettere in pratica uno dei più poderosi mezzi, anzi il più doveroso insieme ed il più efficace, che la divina nostra cattolica fede stessa ci fornisce come da alimentare e fomentare ogni dì più in noi essa fede, così da farci vivere proprio della vita di essa, e renderci con ciò atti a raccogliere tutti quanti i frutti di salute, che dalla piena osservanza dei doveri, che la professione cattolica ci impone, abbondantemente, e quasi dissi naturalmente derivano a gran pro dalla vita presente, e quello che molto più importa, a rendere sicuri delle felici loro sorti future ed eterne i fortunati, che, fermi nella loro fede, vivono ed operano costantemente in conformità dei dettami di essa. Il salutevolissimo mezzo, di cui imprendo a ragionare, VV. FF. e DD. FF, è quel medesimo, che mi sono studiato di inculcare già ogni volta che me ne si diè opportuna occasione dacché, fatto vostro Vescovo, e divenuto perciò stesso padre delle anime vostre, non potei non sentirmi paternamente sollecito d’ogni maggior vostro bene: ed è pur quello, sul cui uso maggiormente si insistette in tutto il corso delle mie Visite pastorali nell’intiera diocesi. Se queste visite (e mi è caro il farne ancor qui questo ricordo ad argomento per me di sempre nuovo conforto e ad eccitamento per voi di perseveranza ognor più volenterosa) se queste visite riuscirono tanto profittevoli e liete, quanto vi è ben noto, ciò in massima parte è da reputarsi alla filiale corrispondenza in occasione di esse visite prestatasi pressoché universalmente al detto principalissimo eccitamento sì mio proprio che dei venerabili e benemeritissimi miei precursori e cooperatori nelle visite stesse: le quali riuscirono tanto più profittevoli e gioconde in ciascun luogo, quanto fu ivi più universale, non delle donne soltanto, ma altresì negli uomini, ed in questi più pronta od almeno egualmente volenterosa, che nelle donne, quella generosa e consolantissima corrispondenza. Il gran mezzo di santificazione, e per ciò stesso di felicità presente e futura, che tanta gioia infuse già nei vostri cuori, e fruttò tanto di bene per voi, e le vostre famiglie ed i paesi vostri, quando più numerosi e ferventi ne usaste; codesto gran mezzo a cui accenno, voi mi avete già prevenuto, VV. FF. e DD. FF., e molto bene capite non poter essere altro, che l’uso frequente dei Ss. sacramenti dei quali è libero a tutti il frequentemente giovarsi; val quanto dire i sacramenti dell’eucaristia e della penitenza, la confessione cioè e la comunione frequente. Oh sì, miei carissimi, sono questi principalmente quei benefici fonti d’ogni grazia a tutti sempre patenti, che Isaia, profeticamente magnificando le profittevoli gesta del venturo divino Messia parecchi secoli prima di sua venuta in terra, previde doversi da esso Messia dischiudere un dì, e tener poi per tutti i secoli aperti pei fortunati, che avrebbero creduto in lui, con quelle infuocate sue espressioni: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris. Fortunati, cioè, fortunati voi cristiani, esclamava in servizio nostro fin d’allora il grande profeta in un empito di santa invidia della sorte, che sarebbe toccataci tanto più felice di quella dei santi dei tempi suoi e della sua stessa, sebbene egli fosse a Dio sì caro; fortunati voi, i quali potrete attingere, anzi santamente inebbriarvi, non pur senza pena, ma con facilità e gioia ineffabile, sempre che il vogliate, a tali divinissimi fonti (Is. XII, 3). Ma ho accennato fin da principio, che a provarmi di tutti efficacemente persuadervi, o dilettissimi, a frequentemente attingere a queste fonti più di verun altro argomento, mi sarei giovato della saldezza stessa della cattolica vostra fede. Ebbene, smessa per istudio di brevità ogni altra ragione, ciò farò mostrandovi come contraddireste ai più essenziali dettami di codesta divina fede non solo collo sprezzo, che assolutamente non può aver luogo in animo cattolico, nel quale non si è affatto spenta la fede; ma sì pure colla trascuranza dei Ss. sacramenti, che pur troppo si scontra sovente in chi tuttavia ha fede; e, ciò che maggiormente addolora, si scontra (lasciate carissimi uomini, che il padre delle anime vostre vi parli liberamente per vostro bene); sì, si scontra codesta perniciosissima trascuranza, più che nelle donne in voi, o uomini, ed in quelli anche frequentemente, nei quali o per la più eletta coltura irragionevole trascuranza men dovrebbe scontrarsi, o per la più elevata condizione sociale, dove la frequenza tornerebbe sommamente vantaggiosa pel buon esempio, la trascuratezza, invece. Miseramente nuoce per l’esempio cattivo, che ne viene in essi più che in verun altro fatalmente contagioso. E per parlare per ora, a scanso di indiscreta prolissità della presente lettera, solo di quello fra i sacramenti, il quale, se non è il più assolutamente necessario, è certamente il più augusto per avere in sé e pel conferire, che però fa, colla grazia a chi degnamente lo riceve, l’autore stesso della grazia, l’eucaristia, vi domando, diletti figli: Credete voi proprio che nell’augusto sacramento eucaristico sta, coperto come da un velo sì, per non abbagliarci cogli splendori di sua divinità e lasciarci cogliere intiero il frutto di nostra fede ma sta proprio sotto il velo delle specie sacramentali in corpo, sangue, anima e divinità, vivo ed immortale, come sta in cielo, Gesù Cristo Signor nostro? Oh sì certo che il credente, poiché siete e vi professate cattolici, e sareste colla grazia di Dio pronti, non è vero? a suggellare, bisognando, con tutto il vostro sangue, l’incrollabile vostra credenza in questo incontestabile e sì caro domma di vostra fede. Ma vi siete voi mai posti di proposito, domando ancora, a meditare e far di bene intendere e profondamente scolpirvi nell’animo che questo Gesù Signore nostro, che sta velato sotto le specie dell’ostia consacrata e che si dà tutto a noi nella santissima eucaristia, è proprio tutto esso quel gran Verbo divino, che generato prima di tutti i secoli dal Padre in tutto lo splendore di sua gloria, è Dio come il Padre, facitore e reggitore sovrano, insieme col Padre e collo Spirito Santo, della immensità delle cose tutte create? È quel divin Gesù, che, fatto uomo come noi, e per noi nato di Maria Vergine, vissuto povero per trent’anni tra continui travagli in umil bottega, e scorsa quindi la Giudea evangelizzando e segnando ogni suo passo di strepitosi miracoli, con raddrizzare storpi, ridonare l’udito ai sordi, la vista ai ciechi, la vita ad estinti, colmando insomma tutti di grazie e benefici d’ogni maniera, compiva il corso di sua benefica dimora tra noi morendo d’immeritato ignominioso atrocissimo supplizio; e ciò tutto per riscattar noi dall’orrenda pena di morte eterna e giustamente dovuta alle nostre colpe? È quel Gesù, che, risorto per virtù propria dall’indarno suggellato e militarmente custodito sepolcro, risalì al cielo in corpo ed anima per esaltare in sé la povera nostra natura fino a farla sedere sopra tutte le gerarchie degli angeli alla destra del divin suo gran Genitore; e per prepararci, come ebbe a protestare di sua bocca egli stesso, e, facendo da avvocato presso il Padre per noi, tenerci ben guardato un posto in quella felicissima magione, solo che nol dispettiamo, e non vi rinunziamo stolidamente noi stessi con abuso fatale del nostro libero arbitrio? È quel Gesù infine; che così raccoltosi in cielo, benché più per nostro bene che non suo proprio, non ebbe però cuore di lasciarci privi di sé quaggiù quasi orfani di tanto padre; e nell’onnipotenza dell’infinita sua carità trovò modo da non solo rimanere corporalmente con noi, così vivo, come fu già pellegrino in terra prima di salire al cielo, e come è e sarà in eterno lassù; ma sì ancora da penetrare nei nostri cuori, da immedesimarsi con noi; da farci, non che godere, di sua confortatrice presenza, vivere addirittura della stessa sua vita; sicché accostatosi alla santa comunione, può, sempre che il voglia, con ragione e con verità prorompere ciascuno di noi pure coll’apostolo Paolo in quelle esclamazioni di riconoscenza e di giubilo, da cui tanto egli già coglieva di conforto e di gioia, e tanto ne colsero e ne colgono dopo di lui quanti mai furono e sono i veramente famelici di quel cibo di paradiso, che è l’eucaristia: Vivo autem iam non ego, vivit vero in me Christus? (Galat. II, 20 – In Ev. per tot.). Vi par egli, VV. FF. e DD. FF., che per chi creda e tenga bene scolpite in cuore le descrittevi magnificenze dell’augustissimo sacramento eucaristico abbia ad essere possibile tuttavia il dispettarlo, ed anche solo il non curarsi di parteciparvi colle migliori disposizioni e colla massima frequenza delle proprie condizioni consentitagli? E se questa infausta trascuranza è pur troppo possibile in chi ha fede sì, ma compressa, come dicevamo da principio, e quasi sopita od inerte; può essa riputarsi cosa degna d’uomo savio e generoso il lasciarvisi trascorrere o per inconsideratezza o per vanissimi umani rispetti? Non è invece conforme a ragione e dovere che il neghittoso si scuota una buona volta, e, riconosciuto ben bene e degnamente apprezzando l’immenso valore del dono, che ci si fa nella santa comunione, se ne accenda il desiderio e fermamente proponga di non lasciarsi vincere da nessuno più mai né nella doverosa stima di esso, né nel nobile impegno di parteciparvi, ad ogni costo, il più sovente che potrà, devotamente palesemente e con franchezza virile; calpestata, ove occorra, ogni vana paura di sciocche contraddizioni e di beffe ancora più schiocche? Ho detto, carissimi, che, se avete fede viva, non solo conviene che degnamente apprezziate l’immenso valore del dono, che vi si fa nella santa comunione; ma anche dovete fermamente proporre di frequentarla. Ebbene ho detto tuttavia poco, ed ora aggiungo che solo che con quella fede, la quale, la Dio mercé, non è morta, in veruno di voi, v’abbiate un po’ di cuore da rimanere chi immensamente vi ama, od almeno di amare di vero cuore voi stessi, non potete affatto non risolvervi di compiere con ogni maggior possibile sollecitudine e costanza tale caro sì, e, per chi ha fede viva, soavissimo, ma per ognuno, in cui non sia estinto colla fede stessa il natural sentimento del proprio bene, assolutamente impreteribile dovere. Ah! che direste, diletti figli, di un povero meschino, bisognoso di tutto, il quale da un grande personaggio, anzi dal proprio sovrano addirittura, fosse invitato, pregato, supplicato nei modi più paternamente efficaci a condursi da lui per ricevere un dono veramente regale, atto non solo a trarlo dal miserevole suo stato, ma a sublimarlo a condizione invidiabile ai maggiori uffiziali stessi di corte: che direste, che pensereste di costui, se contendo dell’onore che gli torna dalla profferta del generoso mobilissimo dono, anziché mostrarsi punto sollecito di comechessia profittarne, si contentasse di mandar dire all’augusto benefattore, che ha in istima altissima la generosità dell’offerta; ma che dell’accettarla non ne fa nulla? Che direste di codesto insipiente lodatore a parole e sprezzatore in effetto della più che reale munificenza del generoso suo principe, se questi reputando a tutt’altro che a disprezzo l’inconcepibile rinunzia, con amorevolezza più di padre che di sovrano gli spianasse ogni difficoltà, per cui potesse rendersi all’incurioso ardua comechessia l’accettazione, né però l’ottenesse? Che direste, che pensereste infine di questo infelice, quando il troppo buon re, anziché indispettito da tratti si villanamente insipienti del povero insano, mossone a viemaggior compassione, non per ira no, né vendetta, ma anzi a studio del vero bene del misero, gli mandasse intimare prigione e morte se non accetta; ed il disgraziato non si movesse meglio alla spaventosa minaccia, che già alle cortesi amorevolissime profferte? Caso sì strano non può in verità avvenire in affari di temporali interessi, fuori che per avventura tra pazzi; ma quanto pur troppo si verifica, e troppo sovente in ogni sua parte nelle cose di spirito, e precisamente nel fatto della comunione frequente, che il Signore con infinita bontà da noi desidera, resocene con ogni maniera di sacrifici suoi proprii agevolissimo l’uso, vi ci invita, ed ove l’invito non basti, con minaccie spaventosissime vi ci stimola, e più assai per desiderio del nostro bene, che non a vendetta dell’oltraggiato amor suo, vi ci sospinge! In effetto consideriamo un poco, carissimi, quanti sacrifici di umiliazione, di annegazione, e, se nello stato suo presente di gloria potesse esserne tuttavia capace, di dolori, di pene altresì costa e sino alla consumazione dei secoli sarà per costare al buon nostro Gesù il gran dono, che volle farci di tutto se stesso nell’augusto sacramento del suo amore, e l’impegno, che pose nello spianare a tutto suo costo ogni difficoltà, che mai potessero ritrarci non dall’uso solamente di esso come che sia, ma dall’usarne con frequenza corrispondendo all’eccellenza del dono ed all’immenso amore di Lui, che ce lo donò. Fu profondissima umiliazione certamente la sua quando, di Signore fatto servo, di immenso fatto bambino, dal cielo scese in terra e giacque stretto in poveri pannicelli nella mangiatoia di Betlemme. Codesta umiliazione di un Dio fu tanta da averne dovuto andar estatici per meraviglia tutti gli spiriti celesti: Misterium quod absconditum fuit a saeculis (Coloss. 1, 26); e l’apostolo Paolo, che rapito fino al terzo cielo aveva attinta da colassù sì gran parte dell’intelligenza di quegli spiriti sublimissimi, non seppe trovare altra parola umana. Con cui meglio esprimerci quell’umiliazione profondissima del Signore del cielo, che non chimarla addirittura annientamento: Exinanivit semetipsum formam servi accipiens (Philipp. II, 7). In ogni modo, l’umiliazione, a cui si assoggettò e soggetta ogni dì l’innamorato nostro Gesù, di ridursi e quasi costringersi, Dio e uomo com’è glorioso in cielo, sotto poche specie di pane per poter venire tutto in esso corporalmente nei poveri nostri cuori, non questa sua umiliazione non la cede per nulla a quella della sua incarnazione e sotto qualche rispetto può riputarsi profonda anche più. Ché dapprima l’incarnazione era nei consigli divini assolutamente necessaria per la redenzione dell’intiera umanità; e quindi quell’abbiezione dell’altissimo redentore veniva in qualche maniera nobilitata dall’altezza del fine e dell’eccellenza del largo frutto, a cui conseguire era indirizzata. Poi per quanto sia incommensurabile ad un modo l’infinita distanza, che separa Dio dall’uomo, e quella che lo separa da ogni altra cosa creata, anche minima; pare chi non vede, chi non sente, che il ridursi che fa Gesù, uomo-Dio, quasi a condizione di cosa insensata e da nulla, e ciò non per sopperire ad alcuna assoluta necessità di sue creature, ma per solo maggior bene di esse; chi non vede chi non sente, che codesto riesce ad un annientamento anche più assoluto, che non quello onde il divin Verbo si è fatto uomo per riscattare l’uomo da eterna morte, ed è conseguentemente codesto annientamento segno di amore in Gesù superiore ad ogni concetto di intelligenza creata, a cui bene intendere non basterà mai niuno sforzo di mente umana od angelica? Sicché, se poté già dire a Gesù paziente e morto per noi una innamorata di tanto amante, nello stringere che essa faceva in mano e sul petto un crocifisso: Sei pazzo d’amore, sì lo ripeto, sei pazzo d’amore o mio Gesù! altrettanto almeno potrà liberamente fare chi, o raccolga dall’altare, od ivi contempli esposta nell’ostia consacrata: e, sì sì, dovrà egli pure esclamare, con altrettanto e forse con più di ragione ancora, che non l’innamorata Maddalena de’ Pazzi: sì sì, mio Gesù, divenuto proprio quasi un nulla sotto queste specie, che non han senso, né moto, né sostanza, sì, mio Gesù, sei pazzo d’amore per noi, anzi per me. Sì, per me proprio individualmente, poiché ove nella ineffabile incarnazione prendesti un corpo da essere immolato per tutti, qui lo riprendi, perché tutto si consumi in esclusivo mio pro, nel proprio mio seno, e non una volta sola, come già sulla croce, ma ogni volta che, non distolto per vanissime cure della considerazione del vero mio bene, e non più ingrato a tanto tuo amore per me, consento ad aprirtene il varco nella santa comunione. Ma procediamo tuttavia innanzi, VV. FF. e DD. FF., procediamo innanzi; e poiché le molti e grandi cose tuttavia da dirsi non altro ormai più mi consentono, che di farvi anzi un cenno, che una piena esposizione di ciascuna di esse, rinnovatemi l’attenzion vostra, sicché al difetto di mie parole supplisca la intelligenza vostra, e più ancora il cuor vostro cristianamente educato, e però del tutto acconcio a molto bene cogliere come il senso, così il frutto delle cose e dei fatti, cui dovrò ancora accennare. A dimostrazione come dell’amore di Gesù Signor nostro per noi, così del vivo suo desiderio di venire ad abitare in noi, di farsi una cosa stessa con noi, era più che bastevole il fatto solo della istituzione del sacramento, in cui perpetuamente Gesù sarebbe dimorato, pronto sempre ad entrare nei nostri cuori: ed avrebbe potuto molto bene provvedere alcun poco almeno al decoro altresì di sua divina persona collo scegliere a materia, sotto le cui specie avrebbe a riporsi per così entrarci in seno, cosa terrena sì, ma almeno di qualche pregio: sicché la comunione avesse poi a costare alcun che di nostro anche a noi, non fosse altro perché con quel po’ di sacrifizio, che avremmo a sostenere per accostarvici, si facesse in qualche modo palese la stima, che si farebbe da noi del dono ineffabile, che in esso Gesù ci fa di se stesso. Sì certo, ciò potea fare; e per quanto preziosa esser dovesse e di costo per noi quella materia, niuno, sol che il potesse, avrebbe avuto ragione di rinunziare l’inestimabile dono per sottrarsi alla necessità della spesa. Eh! No; Gesù, più che alla dignità di sua persona divina, vuole provvedere alla soddisfazione dell’infiammatissimo suo amore per noi; ma questo suo amore per noi è tanto, che non lo lascia, stetti per dire, aver pace, se non da modo, anzi agevolezza, e con essa sprono a tutti quanti i suoi figli di stringersi ed immedesimarsi con lui sì spesso, da non lasciare che la sospirata unione mai si allenti, ma si rinforzi anzi opportunamente così, da far che i suoi cari vivano senza interruzione alcuna d’una stessa vita con lui. Quindi egli sceglie a materia da convertirsi nel grande preziosissimo dono un po’ di pane, cosa di nessun costo, facilissima a trovarsi in ogni più deserto luogo del mondo: e che per giunta formando il più universale e più sostanzioso alimento, del quale si ha bisogno ogni giorno pel corpo, giova molto bene a significare il nutrimento, che da all’anima la comunione, e con esso il bisogno, che si ha, di sovente ricorrervi per mantenere e crescere ad essa anima la vita di lei propria, che è la grazia, della quale non che rivoli, si riversa in noi nella comunione la pienezza con tutta la fonte. Ma v’è tuttavia più. Avrebbe potuto Gesù volere ed anche sarebbesi potuto riputare convenevole cosa che, appunto come non più che in una luogo ed in un tempio per ricchezza e splendore maraviglioso erasi consentito che gli ebrei si accogliesse l’arca levitica colle reliquie della prodigiosa manna, nulla più che figura del sacramento nostro eucaristico, volesse pure il divino Gesù, che codesto suo gran sacramento non altrove dai cristiani si conservasse, che in un’unica loro chiesa, e questa avesse ad essere la più magnifica, la più augusta, la più sotto ogni rispetto, stupenda di tutto quanto il mondo. Così ancora come per prendere umana carne volle egli avere in madre la più eccelsa fra tutte le sue creature, non altrimenti potea Gesù volere, e sarebbesi potuto riputare conveniente che volesse, che la consacrazione eucaristica, per cui, come ebbero ad esprimersi sapientissimi e piissimi padri, Gesù stesso in mano del sacerdote novellamente si incarna come già un dì nel seno di gran Vergine sua madre, avesse a riservarsi esclusivamente al massimo fra i sacerdoti, val quanto dire al solo Papa. Ma, come ben vedete, dilettissimi, se con ciò avesse Gesù provveduto in qualche modo alla dignità di sua persona, non avrebbe sufficientemente soddisfatto né all’infinito amor suo per noi, né al desiderio, che egli ha vivissimo, che non alcuni solo, ma tutti quanti i suoi figli possano agevolmente, e quindi stesso siano eccitati a voler frequentemente giovarsi del dono ineffabile di esso infinito suo amore. Imperocché ove dal solo Papa si consacrasse e solo in Roma si distribuisse l’augusto mistero, non vi avrebbe certamente cristiano veramente degno di tal nome, il quale da qualsivoglia più remota parte del mondo non aspirasse a giungere e non si sottoponesse ad ogni possibile sacrifizio di spesa e di travaglio per arrivare, almeno una volta in vita, alla privilegiata metropoli ed adorarvi presente nel divin sacramento, e ad accogliere (non già solo tra le braccia, come già un dì il fortunato Simeone, che, beato di tanto, non volle più altro che chiudere gli occhi al mondo e ridursi colà ove avrebbe aspettato di rivedere e riabbracciare fra non molto glorioso ed immortale chi tanto l’avea beatificato col darglisi a vedere ed abbracciare bambino); ma ad accogliere e serbarsi nel più intimo del cuore l’autore e consumatore di sua fede (Haebr. XII, 3), il creatore e redentore suo, l’amico, il padre, colui insomma, che, veduto svelatamente, avrà a formare un dì in cielo sua compiuta felicità, e ne da intanto nel sacramento dell’amor suo a chi degnamente lo riceve, di codesta felicità perfetta, come il più delizioso saggio possibile ad aversene in terra, così la caparra più confortatrice e più sicura. Ma troppi tuttavia sarebbero i derelitti, a cui tornerebbe del tutto impossibile il condursi fino a Roma per godere di sorte tanto preziosa e felice: pochissimi cui codesta felice sorte potesse toccare più d’una volta in vita; nessuno, o pressoché nessuno concorrerebbe a godersene con quella frequenza, che Gesù desidera, ed il bene de’ cari suoi figli assolutamente richiede. Quindi è che l’amantissimo Signore, non che voler ristretta la reale sua presenza in sacramento in una sola città ed in un solo splendido tempio, od in pochi altri per magnificenza di costruzione, ricchezza e sontuosità di addobbi, per affluenza di popoli, insigni, consente a fermarsi addirittura siavi un qualche suo fedele che lo desideri, fosse pure, al bisogno, in una landa deserta, od in una boscaglia, in cui vi avesse a tenere più celato, che riparato da insulti di infedeli, da zanne di belve, da incomodi di clima e di stagioni, per opera di un povero missionario inetto ad apprestargli miglior ricovero del proprio; un’umile capanna cioè, o poche fronde di albero selvaggio, sotto cui riparare. Né guarì più, che della nobiltà del luogo, ove riparare, l’amor di Gesù per noi gli consente che si dia troppo gelosa cura della elevatezza e dignità personale di chi avrà ad esercitare il sublime uffizio di consecratore. Volentieri l’innamorato nostro Gesù scenderà per entrare nel cuor de’ suoi cari, tanto su l’umile e disadorno, quanto sull’altare sfolgorante d’oro e di gemme, alla chiamata di un suo sacerdote qualsiasi; né vorrà che per questo suo sacramento, benché tanto più augusto di tutti gli altri, si abbia a ricorrere al Papa od almeno ad un vescovo, come pure si fa, per l’ordine e la confermazione; perché, se per questi sacramenti può facilmente bastare il ministero di pochi, per la consecrazione e comunione eucaristica invece, che Gesù vuole rendere agevolissima, a fine che in ogni luogo e da tutti i suoi figli il frequentemente se ne usi, appena basterà sempre l’opera di semplici preti, a nessuno dei quali però niegherà mai il buon Signore, di prontamente ubbidire; ma scenderà dal cielo nelle ostie debitamente consacrate in ogni più misero luogo, e ad ogni loro chiamata. Né basta ancora, quivi, e fosse pure un ricetto men degno della capanna stessa di Betlemme, come avviene pur troppo talora anche là dove assolutamente non dovrebbe scontrarsi, ferma volentieri sua dimora; né lasciato solo, derelitto affatto di adoratori le lunghe ore, e talora le settimane intiere, svillaneggiato pur troppo sovente da irriverenze, conculcato talora da empii d’ogni maniera, se ne diparte: contento abbastanza di tenersi presto sempre a soddisfare le pie brame di que’ suoi cari, e sian pur pochi, i quali con qualche frequenza si conducono alla chiesa per riceverlo od almeno tenergli un po’ di compagnia, o ad accorrere egli stesso a confortare in ogni ora del giorno e della notte nel letto del dolore quegli, al cuor suo anche più cari, perché addolorati e pericolanti suoi figli, che bisognosi per ciò stesso più che mai di tale conforto, non possono procacciarselo altrimenti con condursi da Lui, ma è loro forza di implorarlo dalla carità di una benigna visita sua. Oh! carissimi, che vi pare di tanta benignità, di tanto amore per noi di quel buon Gesù, che, Dio come il Padre e lo Spirito Santo, creatore e signor d’ogni cosa, non ha certamente verun bisogno di noi, e per provocarci ed in certo qual modo necessitarci ad aprirgli l’adito ad entrare, ad accoglierlo spesso ne’ poveri nostri cuori, vi ci spiana con tante sue umiliazioni, con tante sue pietose industrie la via; sicché altro propriamente non ci abbia a costare l’acquisto di tanto bene, quanto ci si reca da Gesù nella comunione, fuori che solo un po’ di studio appunto del vero nostro bene; un po’ di amore per chi tanto ne è degno, e tanto ama noi stessi; in una parola altro non ci costi che di volerlo? Ma non basta neppure ancora fin qui. Gesù che ha le viscere più che paterne, più che divinamente materne per noi, non poté volersi lasciar vincere in cosa di tanto nostro pro, quanto è la comunione frequente, da verun padre, da veruna per quanto affettuosissima madre terrena, nell’usare di ogni mezzo più efficace ad ottenere dagli amati suoi figli ciò, che da essa desidera pel loro bene. Quindi è, vedete, che come un buon padre, una tenera madre, fra noi, desiderosi di indurre il caro figlio, la diletta figliuola a compiere con esattezza e premura un’opera di somma importanza pel bene di quei loro pegni, non contenti di dimostrare ed essi il proprio desiderio dell’esecuzione dell’opera, non contenti di cooperare essi stessi alla sua esecuzione, spianandone ogni difficoltà, la quale possa renderla troppo ardua alla debolezza dei figli tuttavia pargoletti, si studiano di allettarli da prima all’opera con promessa di qualche ghiotto premio, ed ove temano che ciò stesso non sia per bastare, v’aggiungono infine minacce di castighi; così appunto ha fatto Gesù con noi e per noi. Promise ogni maniera di grazie per la vita presente e la felicità compiuta ed eterna per la futura a chi avrebbe aderito da buono e ragionevole figliuolo all’invito in tanti modi ripetutoci di frequentare la comunione; ma infine denunzia inevitabilmente l’orrenda pena di morte, e morte eterna, per chi, sordo a quell’invito tanto amorosamente paterno, ed alle voci stesse della ragione e del cuore, che in un cattolico non possono non concordare con esso, la comunione dispetta o non cura: “Qui manducat meam carnem … in me manet et ego in eo. Qui manducat hunc panem vivet in aeternum. Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, non habebitis vitam in vobis: Chi si nudrisce delle mie carni, sta in me ed io in lui, ed avrà la vita eterna: se non vi sarete giovati di questo vivifico divino nutrimento, non avrete tale vita, e morrete di eterna morte (Io VI, 54.57, 59 et). VV. Fratelli e CC. FF., non avea io ragione di sperare, come ho affermato fin da principio di questa ormai troppo lunga mia lettera, che ragionando con voi, i quali avete e professate di voler mantenere viva in voi la fede, quale la ereditaste dai cattolici vostri padri; non avea, dico, ragione di sperare che con soli argomenti, incontrastabili per chi abbia incorrotta nell’intelletto e nel cuore la cattolica fede, vi avrei persuasi, o certo almeno convinti di dovere strettissimo, anzi della assoluta necessità che tutti vi stringe di frequentare la santa comunione se non volete mostrarvi irragionevoli del tutto, e quello che è tuttavia peggio, ingratissimi all’autore di vostra fede stessa, al vostro benefattore sovrano, al Padre e redentore delle anime vostre, incuriosi, anzi nemicissimi di voi stessi e d’ogni vero vostro bene? Non avea io ragione di sperare che v’avrei segnatamente convinti tutti, e gli uomini in particolare maniera, e fra essi ancora i più assennati e più colti, che è non pur irragionevole, ma vergognoso vanto in un cattolico (e non cattolici, l’ho detto, intendo io solo di discorrere: ché con infedeli avrei dovuto certamente adoperare argomenti atti a farli prima credenti per poi tentar con isperanza di frutto di renderli osservanti); è, dissi, irragionevole, epperò vergognoso vanto il riputarsi, e peggio ancora il predicarsi da più del minuto volgo, della semplice donnicciuola per ciò solo che meno di essi siamo famelici del celeste convito, al quale Gesù non maggiormente no, ma non per altro è meno pronto, e desidere meno di accogliere essi, che i più semplici e più derelitti suoi figli? Deh! Sì dunque, VV. FF. e DD. FF., scuotiamo tutti quella cenere, che deplorevolmente comprime la luce e l’ardore della fede, che pur per divina grazia non ancora del tutto in noi estinta; e ponderatamente considerando ciò, che codesta nostra fede ci detta della grandezza del dono, che ci si fa nella santa comunione, il gran bene che ci tornerà dallo accorrervi colle debite disposizioni sovente; la spaventosissima sciagura, in cui ci trarrà, il non usarne, e peggio ancora il dispettarla; proponiam tutti quanti, noi, VV. FF., di prestarci in ogni possibile maniera e agevolare pei buoni nostri figli l’accesso a questa divina fonte di salute, che è la comunione e l’uso veramente profittevole di essa; voi, diletti figli, di accorrervi il più che potete sovente, vinto ogni torpore, superata ogni non del tutto invincibile difficoltà, e calpestato segnatamente ogni vano, vanissimo rispetto umano, che tenti di trattenervi. Voglia l’amoroso divino Signore benedire a queste povere mie parole, e benedire ai cuori vostri, VV. FF. e diletti figli, sicché esse penetrino in tutti quanti e producano i frutti, a cui ottenere con tutta l’anima le ho dettate e col più paterno affetto le indirizzo. Nutro sicura fiducia di trovare in tutti voi, VV. FF. e DD. FF., quella corrispondenza, che ho ogni ragione ripromettermi dalla vostra fede, e per ciò stesso dalla vostra pietà, infiammata di novello ardore per le considerazioni, alle quali, con tutte le forze del mio paterno affetto per voi, mi sono studiato di richiamarvi per istringervi sempre più all’amoroso Gesù umiliato e quasi annientato nel SS. sacramento per nostro bene. Confido quindi che sarete solleciti di moltiplicare in tutto l’anno, e più particolarmente nel santo tempo quaresimale, le vostre comunione; ma che tutti poi, assolutamente tutti vi farete una doverosa premura di ricevere il buon Gesù noi vostri cuori in adempimento del precetto pasquale. In questa confortatrice fiducia, più che ami altra volta, rivolgo a tutti calda preghiera che in quei momenti, in cui sarete felici di possedere Gesù nel vostro cuore e di sfogare con lui la piena dei vostri affetti, in quei preziosissimi momenti, in cui Gesù è disposto a tutto concedere a chi devotamente lo ha ricevuto, e debitamente lo prega, vogliate ricordare a lui i bisogni della sua Chiesa e del supremo Gerarca, il grande Leone XIII, che in nome e in vece di lui la governa; pregarlo per la maestà del nostro e, per l’augusta sua consorte, per la reale famiglia, pei poteri dello Stato; e raccomandargli il Vescovo pastore e padre delle anime vostre, che a sua volta non celebra mai il santo Sacrifizio, in cui si rinnova l’eucaristico mistero, mai non riceve Gesù nel suo cuore, senza pregarlo con tutto l’ardore di cui è capace per tutti e per ciascuno di voi, VV. FF. e DD. FF., per impetrarvi dal benignissimo Signore ogni più eletta benedizione per la vita presente e per la futura. Pegno della quale prego il pietosissimo Signore di voler fare che siavi la pastorale benedizione, che novellamente a tutti impartisco dal più intimo del cuore nel nome del Padre, del Fuigliuolo e dello Spirito Santo. + Pietro Giocondo, Vescovo