Lo sfruttamento criminale del minore

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Lo sfruttamento criminale del minore
Azur e Asmar
di Michel Ocelot
Sinossi lunga
In Europa, nel Quattrocento, Azur e Asmar sono due fratelli di latte, il primo figlio di un nobile del
posto, l’altro di una nutrice araba. Azur è biondo e ha gli occhi azzurri; Asmar ha gli occhi e la pelle scuri
e i capelli ricci. La nutrice cresce il figlio e Azur raccontando loro le fiabe tipiche del suo paese di origine,
il Maghreb; tra queste la leggenda della bellissima fata dei Djinn. I due crescono insieme affiatati,
nonostante le continue zuffe; ma un giorno il padre di Azur, arcigno e severo, decide che per il figlio è
tempo di abbandonare i giochi e andare a studiare in città. Così i due vengono dolorosamente separati;
Asmar e sua madre rimangono soli, sulla strada, e Azur parte da solo. Anni dopo, Azur non ha perso la
speranza di ritrovare la fata dei Djinn e parte per il Maghreb. Dopo un viaggio burrascoso, approda
finalmente in una spiaggia popolata da strani personaggi che, non appena lo vedono, lo sfuggono come la
peste. Sarà il bizzarro Rospù, uno strano mendicante che si finge cieco, a spiegargliene la ragione: in quel
paese chi ha gli occhi azzurri è considerato portatore di malaugurio. Azur però non si arrende; copre gli
occhi con occhiali da sole e insieme a Rospù raggiunge la città dove, fortunosamente, ritrova Asmar e la
madre, che è divenuta la più ricca mercante della città. Dopo i primi dubbi la donna lo riconosce e lo
accoglie come un figlio. Entrambi i giovani ambiscono alla mano della fata dei Djinn; e partono in due
spedizioni separate, aiutati dalla saggia principessa Chamsus-Sabah, una ragazzina vivace e di grande
cultura. Dopo una serie di prove da superare, i fratelli finiscono per salvare l’uno la vita dell’altro e
presentarsi insieme dalla fata: chi dei due avrà la sua mano? A risolvere l’impasse, la presenza della
bellissima cugina della fata; così entrambi i fratelli avranno un matrimonio felice.
Presentazione critica
Introduzione al film
Rileggere le fiabe
Azur e Asmar è il quarto lungometraggio del cineastra francese Michel Ocelot. Nato in Francia, Ocelot
trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Guinea - e delle fiabe africane intrise di magia si ricorderà per la
serie dei film dedicati al personaggio di Kirikù - per poi studiare belle arti in Francia e a Los Angeles.
Regista di molti corti d’animazione sia per la televisione francese che per il cinema, tra cui Les filles de
l’égalité (Francia 1981) e Les quatre vœux (Francia 1987), Ocelot si affaccia al lungometraggio nel 1998
con Kirikù e la strega Karabà (Kirikou et la sorcière, Francia), che ottiene un ottimo successo. Prodotto
in Europa - il lavoro si è svolto in Francia, Belgio e Lussemburgo, e alcune delle animazioni sono state
realizzate in Ungheria e in Lettonia - il film rielabora una leggenda africana acquistando un fascino esotico
per molti aspetti inedito, certo lontano dai cliché più consueti, cui contribuisce anche l’abilità del regista
- sul piano della narrazione - nell’uscire dalla morale tipica della fiaba per proporre una soluzione non
convenzionale. Il personaggio di Kirikù torna anche nel recente Kirikù e gli animali selvaggi (Kirikou et
les bêtes sauvages, Francia 2005), che però, pur nella gradevolezza del racconto, poco aggiunge
all’originale inventiva del primo film.
Il lavoro successivo del cineasta francese è Principi e principesse (Princes et princesses, Francia
1999), film composto da sei episodi e realizzato con la tecnica del découpage. Dal punto di vista del
racconto Ocelot continua qui la rilettura originale delle fiabe tradizionali già proposta nel precedente
Kirikù. Nelle sei sezioni del film, infatti, le principesse sono, una volta tanto, non mero oggetto del
desiderio maschile ma protagoniste e detentrici del potere. Così le piccole storie messe in scena da un
regista e da due attori-disegnatori che interpretano i protagonisti dei diversi episodi propongono, di volta
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Azur e Asmar – scheda critica
in volta, una principessa resa statua da un sortilegio, una regina egiziana padrona della vita e della morte
dei suoi sudditi, una strega medievale colta e intelligente che viene presa in sposa al posto della
principessa, una vecchietta giapponese d’inizio Ottocento dall’insospettata prestanza fisica, una
principessa del futuro esigente e sola, e, infine, un principe e una principessa che con una serie di baci si
trasformano in rana, lumaca, farfalla, rinoceronte, finché non si ritrovano l’uno nei panni dell’altra e
decidono di essere, comunque, una coppia. Con ironia e leggerezza, Ocelot mette in discussione gli
stereotipi del maschile e del femminile e indica agli spettatori la possibilità di una relazione uomo-donna
libera dai ruoli codificati della tradizione.
L’ultimo lavoro del regista francese è dunque il lungometraggio Azur e Asmar, realizzato in animazione
3D; e dal punto di vista stilistico, il film possiede una straordinaria eleganza formale, frutto di un lavoro
pluriennale con la tecnologia 3D, che tuttavia rifiuta la spettacolarità e le immagini ad effetto per le quali
di solito viene utilizzata per privilegiare invece la semplicità e la purezza espressiva.
La fiaba narrata dal film si muove su un doppio binario: quello del racconto in sé – su cui s’innerva una
molteplicità di riferimenti letterari, dal Piccolo principe alle Mille e una notte al Don Chisciotte - e quello
simbolico, in cui entrano in gioco tutti i discorsi relativi al rapporto tra l’occidente e il mondo arabo, ai
differenti modi di vedere le cose e di interpretare la vita. Così Ocelot ha scelto di modellare la sua storia
sulla figuratività (i colori, le forme, si direbbe i profumi e i sapori) della civiltà islamica medievale:
splendida nei suoi colori, vivace, e soprattutto capace di accogliere persone provenienti da un altro paese
e con un diverso credo religioso, come accade nella sequenza in cui la piccola principessa Chamsous-Sabah
mostra ad Azur la sua città, facendogli vedere in rapida successione la moschea, la sinagoga e una chiesa
cattolica, e come è evidente nella scelta del regista di portare avanti il racconto utilizzando sia il francese
che l’arabo, senza aggiungere sottotitoli per quest’ultimo in modo da immergere appieno lo spettatore
nell’atmosfera del tempo. Inoltre il film gioca molto sulla reversibilità dei pregiudizi per mostrarne la
stupidità. Azur è il classico esempio di bellezza europea: biondo, alto, gli occhi azzurri. Eppure sono
proprio quegli occhi ad attirargli il disprezzo di tutti; nella città in cui si trova a vivere, infatti, sono
considerati portatori di sfortuna. Lo spiega Rospù, anch’egli come Azur di origine europea, che disprezza
continuamente le abitudini e le usanze del Maghreb; salvo poi tremare davanti a un gatto nero, cedendo
così egli stesso al pregiudizio e alla superstizione. Come negli altri suoi film Ocelot sceglie di mostrare
sempre il rovescio delle cose e di smontare la struttura classica degli stereotipi: Azur è discriminato per il
suo aspetto che altrove suscita ammirazione, dunque tutti possono essere vittime di pregiudizi; Rospù è un
personaggio sgradevole, ma alla fine disposto ad aiutare Azur; dovunque si può sbagliare, e dovunque si
può essere nel giusto.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Tra fiaba e romanzo di formazione
Nella prima parte del film Azur e Asmar sono bambini, cresciuti insieme dalle cure amorevoli della
madre di Asmar che allatta entrambi. In questa parte il film tende a sottolineare la somiglianza dei due
ragazzini, nonostante l’evidente differenza fisica; bruno e ricciuto il secondo, biondo e pallido il primo, i
due giocano, studiano, litigano, dormono insieme, nutriti dallo stesso latte e dalle stesse leggende. La
dimensione materna, accogliente e calda, è contraddetta dalla presenza del padre di Azur, duro e
inflessibile, che rappresenta l’istanza dell’ordine costituito e della distanza sociale e che tende a separare
il figlio da un mondo, quello di Asmar e di sua madre, che vede come assolutamente estraneo e inferiore a
lui. Qui il regista lavora sul registro tipico della fiaba, creando con il padre un personaggio assolutamente
malvagio e privo di pietà, che è al contempo il motore della storia; l’intera vicenda prende avvio, infati,
dall’allontanamento forzato dei due fratelli voluto dall’uomo. Ancora, la ricerca della fata dei Djinn è
un’altra delle funzioni tipiche della fiaba: per conquistarla, sia Azur che Asmar dovranno affrontare
numerose prove in cui incontreranno nemici (tutti gli altri pretendenti della fata) e aiutanti (la
principessa, ma anche Rospù, che porta Azur a ottenere gli oggetti magici che gli apriranno la strada verso
la fata). Dunque le figure dei bambini restano, almeno all’inizio, confinate nei ruoli tipici della fiaba; gli
eroi che devono ottenere il loro oggetto del desiderio.
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Azur e Asmar – scheda critica
Poi subentra il modello del romanzo di formazione, ed è qui che le figure dei due adolescenti
acquistano uno spessore maggiore. Azur deve imparare ad affrontare un mondo in cui il suo aspetto fisico
gli è d’impaccio anziché d’aiuto; deve fingersi cieco, dunque perdere anche letteralmente i punti di
riferimento consueti e imparare a orientarsi in un mondo sconosciuto di cui ignora i codici. In altri termini,
il personaggio deve riconsiderare tutti i suoi atteggiamenti e modelli di comportamento e ricostruire una
relazione diversa con l’altro. Dal canto suo, Asmar deve accettare la presenza del fratello, che dapprima
respinge; deve accettare di condividere l’amore della madre con l’antico compagno di giochi e accettare
la sfida della conquista della fata dei Djinn. Qui emerge la ricchezza della sceneggiatura di Ocelot, che
senza troppe sottolineature retoriche o riletture filosofiche riesce a tratteggiare le diverse personalità dei
due – più titubante e timidamente curioso Azur, più sicuro di sé e arrogante Asmar – e la loro
trasformazione: se Azur acquista fiducia nelle proprie capacità e soprattutto riesce ad adattarsi a un modo
di vivere per lui del tutto inedito, Asmar capisce di non aver bisogno di lottare per imporre la propria
supremazia ma riesce ad accettare l’aiuto del fratello senza sentire la cosa come una debolezza o una
sconfitta.
Nel finale Ocelot si diverte a smontare, con ironia garbata, i modelli della fiaba e del romanzo di
formazione che ha seguito fin qui con coerenza. Finamente giunti dove la fata dei Djinn vive, i due fratelli
si trovano davanti il classico dilemma: due ingressi, e uno solo è quello giusto, che varrà loro la mano
della fata. Ma presto si rendono conto che non sta a loro indovinare la giusta entrata; è la fata a scegliere,
in base ai suoi gusti personali, quale dei pretendenti sarà ammesso al suo cospetto. Così la fata-donna
esce dal consueto ruolo subalterno che le spetta e diviene protagonista della sua scelta; e il classico “e
vissero per sempre felici e contenti” è prima dilatato dall’incertezza (tutti i protagonisti del film
intervengono per cercare di capire chi dei due fratelli sposerà la fata), poi raddoppiato dall’arrivo
imprevisto e assolutamente inconsueto della cugina della fata, che finirà per sposare Azur, in un intreccio
anche etnico: se la fata è bionda e dalla pelle chiara la cugina ha i tratti arabi, a creare due unioni
meticce che recuperano il tema della necessità della mescolanza di culture che innerva tutto il film.
Infine, l’altro personaggio di minore introdotto da Ocelot è la principessa Chamsous-Sabah. Anche qui il
regista gioca a contraddire gli stereotipi tipici della fiaba; la principessa ci viene presentata, senza che la
vediamo, come donna di grande saggezza e cultura, eppure costretta a rimanere chiusa nel palazzo reale:
siamo indotti ad immaginarla come una giovane donna affascinante e invece ci appare una ragazzina
impertinente, dotata di grande intelligenza e cultura ma anche birichina e ribelle, pronta a sfidare le
regole impostele dal padre e a uscire dal palazzo dove è confinata per apprezzare la bellezza del mondo.
Qui Ocelot esce dai ruoli tipici della narrazione fiabesca e apre il film a un’invenzione brillante che
presenta un modello di bambina/adolescente senz’altro positivo: curiosa e colta, la principessa è una
figura femminile autonoma, indipendente, determinata ma anche tollerante e aperta agli altri. In questo
senso, insieme alla fata che si libera dalla predominanza del maschile e diviene padrona delle sue scelte e
alla nutrice, capace di risalire la scala sociale conservando intatta la profondità di sentimenti, possiamo
dire senz’altro che Ocelot affida alle sue eroine femminili una posizione di grande rilievo: sono loro, alla
fine, a decidere della sorte degli altri personaggi, dunque assumono un ruolo decisamente attivo, e sono
loro a rappresentare le istanze di tolleranza, cultura e affettività che sono alle fondamenta del film.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Oltre alle pellicole già citate dello stesso Ocelot, il tema della tolleranza e del meticciato tra culture
viene affrontato in Pocahontas (id., USA 1995) di Eric Goldberg e Mike Gabriel, che narra la storia
d'amore tra una bellissima e saggia india dai capelli neri e un biondo giovane inglese sbarcato nel 1607
sulle coste della Virginia con un gruppo di colonizzatori.
Sul versante del cinema “dal vero”, il tema dell’intercultura connesso alla rappresentazione
dell’adolescenza è al cento di Monsieur Ibrahim e i fiori del corano (Monsieur Ibrahim et les fleurs du
Coran, Francia 2003) di François Dupeyron, che racconta la storia di Momo, undici anni, che nel quartiere
ebraico della Parigi anni '60, fa amicizia con un anziano droghiere arabo che gli insegna i principi del
Corano. Su un versante più drammatico, possiamo ricordare Quando sei nato non puoi più nasconderti
(Italia 2005), diretto da Marco Tullio Giordana e centrato sull’amicizia tra un ricco ragazzino italiano e
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Azur e Asmar – scheda critica
due immigrati clandestini di origine rumena; Vai e vivrai (Va, vis et deviens, Francia/Israele 2005) del
regista di Train de vie (Id., Francia/Romania 1999), Radu Mihaileanu, che narra la storia, ambientata in
Etiopia durante la carestia del 1984, del piccolo Schlomo che, benché non sia ebreo, viene convinto dalla
madre a mentire e a fingersi ebreo per sfuggire alla morte; arrivato in Israele il ragazzo si finge orfano e
viene adottato da una famiglia di ebrei sefarditi provenienti dalla Francia.
Chiara Tognolotti
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