LibertàEdizioni

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LibertàEdizioni
LibertàEdizioni
Marco Battista
INFINITO E BESTIA
RACCONTI FANTASTICI
LibertàEdizioni
Ai vivi e ai morti, con amore
MEMORIE ALLEGORICHE
Onesti lavoratori
Si presentarono in forma smagliante, tutti
uguali, sulla cinquantina, calvi, sorriso a
trentadue denti, denti bianchi, profumati di
pulito e di dopobarba, nella loro impeccabile salopette di jeans. Era una domenica mattina, una di quelle domeniche a cavallo fra
inverno e primavera, l’aria tersa e cristallina, sole ovunque, monti innevati in lontananza. Avrei potuto andarmene quando volevo, nessuno mi avrebbe trattenuto, ma
nessuno si aspettava che io me ne andassi,
tutti si aspettavano che io sarei rimasto, ed
io ero rimasto, infatti, non li avevo delusi.
Dovevano conoscermi molto bene. Ero lì
che aspettavo, con angoscia, non avevo
dormito. Quando entrarono in casa mia con
tutti i loro attrezzi, la loro gentilezza, i loro
materiali, mi sentii violato, umiliato, calpestato. Ciò nonostante fui cortese, feci loro
strada, offrii loro un caffè (che rifiutarono
con garbo: etica professionale). Entrarono
in casa mia e mi investirono coi loro modi
affabili, coi loro sorrisi. Mi sedetti in disparte, in salotto, mentre gli onesti lavoratori erano intenti alla loro opera. Seghe, martelli,
cacciaviti, chiodi. Il sole illuminava obliquamente la stanza e si fondeva al brusio di
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tutta quella laboriosità, mi ricordai di quando da bambino ascoltavo il brusio della gente, in strada, i giorni di mercato, tutto quel
vociare, quel battere, quel muovere. Prendevo la mano di mia nonna e mi facevo portare fuori, in quella marea umana, gli occhi
grandi, curiosi, stupefatti, incantati. Stavo
davanti al banco del pesce ed ero come rapito dentro una fiaba di pescherecci, di cuoche, di uomini, di colori, di amore. Stavo
seduto in disparte, nel mio salotto, e, ricordando con commozione profonda queste
sensazioni, capii che qualcosa mi stava suggerendo come un senso di piacevolezza in
quello che mi stava accadendo, la laboriosità degli operai, il loro brusio, ma io rifiutai
seccamente quel qualcosa e lo maledii. Avrei potuto andarmene, anche allora, ma
stavo lì, fermo. Li guardavo mentre costruivano la loro opera, sudavo freddo, eppure
con gesto meccanico raccolsi addirittura il
martello caduto a un operaio e glielo porsi,
sorridendo. “Grazie, lei è molto gentile” mi
disse l’operaio investendomi di denti bianchi, dopobarba, dentifricio.
Poco prima di mezzogiorno il patibolo era
pronto. Bello, di un bel colore mogano chiaro, stagliato contro la finestra, su invito degli operai salii gli scalini e vi montai sopra,
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complimenti, buon lavoro ripetevo, notai
che i miei piedi erano all’incirca all’altezza
del davanzale, guardai fuori ed era bellissimo, non avevo mai visto tanta luce entrare
da quella finestra. Avrei dovuto pensarci
prima. Avrei dovuto costruirmi un piccolo
soppalco e godermi quello spettacolo, in
santa pace, da solo o con Emilia, nei giorni
felici, e invece me ne stavo lì, rincoglionito,
a guardar fuori gli alberi e i campanili dalla
stessa pedana che fra qualche ora sarebbe
stata il palcoscenico della mia impiccagione. Avevano fatto davvero un buon lavoro.
Cominciai a sentir male allo stomaco, avevo
freddo, sudavo. Gli operai mi dissero che
era normale, che non dovevo preoccuparmi.
Mi fecero un tè.
Ebbi uno scatto d’ira e urlai “Andiamo! Fate presto! Che cazzo stiamo aspettando?”
Volevo sputargli in faccia e infilare la mia
testa di cazzo in quel fottuto cappio, guardarli negli occhi mentre crepavo e tirare le
cuoia senza dar loro la minima soddisfazione, con disprezzo. Con grande tempismo si
strinsero attorno a me, tecnicamente molto
preparati, mi bloccarono, mi calmarono, mi
spiegarono che sarebbe dovuto arrivare il
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pubblico, e che avremmo dovuto attendere
anche le autorità di condominio.
Qualcosa si era rotto dentro di me, non ero
più la stessa persona di prima. Avvertii come una frattura, spezzatura di ossa, come
una consapevolezza che restava tuttavia vaga, aveva delle implicazioni, avrei dovuto
capire tutte le conseguenze di quella frattura, sudavo, probabilmente avevo la febbre,
eppure ero lucido, maledettamente lucido,
ma non avevo tempo. Risi pensando che sarei morto proprio quello stesso giorno. Ero
cambiato per sempre il giorno della mia
morte, della mia esecuzione. Che cazzo me
ne facevo di quel cambiamento? A che cazzo sarebbe servito comprenderlo, capirlo
appieno? Ma ero ancora vivo, e quel pensiero mi teneva ancora in vita, mi avrebbe tenuto in vita ancora per qualche ora. Una
parte di me, molliccia, era già morta, stava
già morendo.
Un furgone posteggiò sotto casa mia e gli
operai cominciarono a portar su sedie, sedie
e poi ancora sedie. Bianche, di legno, del
modello che si usa per i tavolini da mare. Le
ordinarono in cinque file, ci saranno stati,
credo, cinquanta posti.
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La gente cominciò ad arrivare. Erano gentili, mi salutavano. Anch’io ero gentile. Salutavo tutti, signori e signore. Ma qualcosa era
davvero cambiato in me, lo sentivo ormai
perfettamente. Ma che cosa? Febbricitavo,
ansavo, sudavo freddo. Una vicina di casa
mi pose amorevolmente sulla fronte un asciugamano bagnato, fresco. Ancora mi ricordo il suo profumo di bucato. Fu a quel
punto che ebbi un lampo di genio. Fu davvero un lampo di genio, lo dico senza presunzione, un vero lampo di genio. Dissi
“Abbiate pazienza, scendo un minuto in
strada a prendere un po’ d’aria, sono certo
che mi riprenderò subito.” Ottenni sorrisi e
rassicurazioni in cambio, e nessuno si oppose.
Scesi in strada e respirai profondamente.
Nessuno si preoccupava, nessuno faceva
troppo caso a me. La gente continuava ad
arrivare, mi salutava. Gli operai portavano
su le ultime cose, un paio di luci, qualche
altra sedia nel caso servissero.
Avevo come intuito il significato di quella
frattura che era avvenuta in me. Non c’era
niente da ridere. Quella frattura avrebbe potuto salvarmi la vita. Altro che un inutile
cambiamento in punto di morte.
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Tornai a casa, quasi perfettamente tranquillo, e anzi con la mente già rivolta al futuro.
Nella confusione generale, salutando ancora
questo e quello, riempii una borsa di libri ed
effetti personali. Presi con me un po’ di soldi e scesi di nuovo in strada.
Doveva essere quasi l’ora, sentivo il brusio
come comporsi, forse erano arrivate le autorità di condominio, forse era arrivato il boia.
Ripetei mentalmente il mio ragionamento
per l’ennesima volta, come a cercare riprova
del fatto che avrebbe potuto funzionare. Salii in macchina e me ne andai, senza voltarmi indietro. Ero libero.
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La sfida
Giaragàt aveva lanciato la sfida a Savoràt e
adesso stavano l’uno di fronte all’altro, ognuno seduto agli estremi di un lunghissimo
tavolo, in piazza, circondati dai loro clan. I
clan vociavano rumorosamente a sostegno
del proprio capo, e lanciavano grida di odio
contro tutti gli altri. “Morte a Giaragàt e ai
suoi bastardi” gridavano i savorattiani.
“Morte a Savoràt e ai suoi figli di cani” gridavano i giaragattiani. I due sfidanti tenevano un contegno altero, austero e sussiegoso,
e non parlavano se non nelle pause di silenzio. Con un gesto del braccio Giaragàt ottenne il silenzio del suo clan. Lo stesso fece
Savoràt e a quel punto la sfida cominciò.
L’oste portò in tavola due tacchini enormi, e
sei fiaschi di vino. Giaragàt infranse il silenzio con una risata infernale e si avventò
voracemente sul proprio tacchino, mentre il
suo clan esplose in gravi urla di sostegno e
di insulti. Savoràt si limitò a lanciare uno
sguardo d’odio a Giaragàt, poi, levando di
scatto al cielo entrambe le braccia, incitò il
suo clan all’ira e al fragore. Ai due tacchini
seguirono due lunghissimi rotoli di salcicce,
ai tre fiaschi di vino seguirono tre bottiglie
di distillato. Ai due rotoli di salcicce segui15
rono due teste di maiale, alle tre bottiglie di
distillato seguirono tre bottiglie di cognac.
Savoràt stramazzò a terra dopo aver trangugiato la seconda bottiglia di cognac, fra la
delusione del suo clan e gli sberleffi di Giaragàt e dei giaragattiani. Si accartocciò e si
contorse, vomitò, provò a ricominciare, si
rialzò come un pugile caduto al tappeto, si
cacciò in bocca un orecchio di porco ma
stramazzò di nuovo a terra, sputando e vomitando, infine raccolse al corpo le braccia
e le ginocchia come in posizione fetale, attorno allo stomaco sconquassato.
Giaragàt era arrogante e fresco come una
rosa. Stringeva mani, dispensava sorrisi,
ruttava in modo stentoreo e straordinario.
Per festeggiare la vittoria brindò a cognac
con quelli del suo clan.
Savoràt il giorno dopo stava già meglio,
bianco come un cencio ma sostanzialmente
in forze, considerato tutto. Un coro festante
di uomini e di donne lo informò di buon
mattino, da sotto la sua finestra, che Giaragàt era morto d’infarto durante la notte.
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Il giardino incantato
Nel giardino incantato c’erano i bambini
con la testa di porco. Portavano una camicia
bianca dal colletto inamidato, da cui uscivano due zampine di porco. Avevano pantaloni corti, e anche da questi uscivano zampine
di porco. Ognuno aveva la sua cartella, e
dentro la sua cartella il suo bel sussidiario.
Il giardino era dominato dalla scuola, e la
scuola era dominata da un maestro terribile.
Insegnava la Bibbia ai bambini e li puniva
orrendamente quando non sapevano rispondere a qualcuna delle sue domande. Il maestro interrogava ogni giorno, puniva ogni
giorno. Il giardino incantato era perfetto. Vi
regnava un perfetto ordine. Il maestro ne era
molto fiero. Non vi erano genitori in quel
giardino. Solo il maestro e i bambini con la
testa di porco. Che perfezione! Che ordine
meraviglioso regnava in quel giardino!
Ma i bambini erano tanti, e il maestro uno
solo. I bambini erano tristi, avrebbero voluto dei genitori. Così il maestro, sia pure in
via provvisoria e sperimentale, ordinò che
nel giardino venissero ad abitare un certo
numero di genitori, due per ogni bambino.
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Genitori irreprensibili, dominati dal maestro. Genitori dalla testa di porco.
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La fine di tutto
Il sole era di nuovo dappertutto e gli ombrelloni colorati a spicchi erano pennellate
di gioia sull’olio della spiaggia. Tu assorta
con il tuo libro, io meditabondo dietro gli
occhiali da sole trovati in terra al matrimonio della tua amica. Suonano le radio, piangono i bambini, coppie si baciano. C’è
un’atmosfera di anonimato che avvolge tutto e sembra volerci redistribuire a ruoli a
noi più consoni, arcanamente. Mi sdraio e
non esisto più: sono un uomo che prende il
sole. Ti allontani e non esisti più: sei una
ragazza che cammina sulla battigia, coi piedi nell’acqua. In tutto questo sembra perpetuarsi qualcosa che va al di là di noi. Sembriamo niente in questo contesto, evaporati,
rarefatti, e in me subentra una strana sensazione di pace che si mischia indefinitamente
al benessere fisico, venata di inquietudine,
inafferrabile. Sarebbe straordinario, penso,
se fossimo già morti, passati, se potessimo
ricordare col sorriso la nostra vita precedente, qui dall’eternità, da questa spiaggia senza tempo, dove tutto esiste in compresenza
e dove tutti ci ritrovassimo un po’ alla volta,
con grida e con saluti. Che bello se fossi già
morto, se questa fosse l’eternità, se tutta la
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vita ci stesse adesso davanti, liquida, assolata.
In quel mentre ci fu un silenzio come da terremoto. Si alzò un vento improvviso. Se
fosse un’onda anomala o un maremoto non
so dirlo, non chiedetemelo. Una muraglia di
mare si stagliava altissima, verde, contro al
sole, contro di noi, si avvicinava, cupa, facendosi tuttavia più alta, nera, distruttrice.
L’uomo del cocco - vidi la sua silhouette
contro al sole - smise persino di respirare.
Diventò di sale. Gli uomini che prendevano
il sole alzarono il collo, il busto: guardavano, senza dire niente. Le ragazze che camminavano sulla battigia pensarono forse ai
loro amori. Potei soltanto immaginarle.
In quella bolla d’aria e di tempo sembrò
sperimentarsi davvero l’eternità, ma il terrore che mi assalì in quel punto mi ricordò infallibilmente che stavo ancora dentro al
tempo. Dov’eri? Ti cercai con disperazione,
con lo sguardo. Invano. Poi fu la fine.
Non chiedetemi se dopo fu la luce, oppure
la tenebra, se vidi qualcuno dopo di allora,
oppure fui da solo, sperso, nebulizzato in
atomi di grigio non-essere o in schegge di
infinità.
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John Rambo
Sdraiati sul nostro divano fuori dallo spazio
e dal tempo, ti tengo tra le braccia come si
tiene tra le braccia la cosa più preziosa
dell’universo. Mi è stata affidata questa
missione: di custodire per un po’ di tempo
una porzione di eternità. Il mio sonno è leggero, vigile. Devo proteggerti dai nemici
senza farti accorgere di niente. Sei così fragile a volte, così ignara delle condizioni
particolari della guerra. Ti cuci addosso, a
volte, una serenità o un turbamento che
hanno qualcosa di infantile. Devo proteggerti. Dormo con una mano sulla tua nuca e
con l’altra sul fucile mitragliatore. Lo sai
che siamo in guerra ma non sai dei pericoli
che corriamo di ora in ora, di minuto in minuto. Eppure sprofondo anch’io, a volte, in
un sonno primordiale. Torno come bambino, quel bambino con l’elmetto e il fucile di
plastica che sta dentro la foto in bianco e
nero che mi scattò mio nonno, milioni di
anni fa. L’hai veduta, ti ricordi? Non è un
fuggire dal tempo. I bambini non stanno
fuori ma dentro la realtà, dentro la verità. Si
accostano a lei, soltanto, da un altro punto
di vista, da un altro suo lato. Non ho una
missione stavolta. Stavolta sei tu che mi
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salvi, armata di sangue e di cuore che batte
all’impazzata, armata di strali, di raggi di
sole tutti d’oro che brandisci, che vibri con
forza, con violenza, contro le Tenebre, contro il Male, contro i miei nemici. Forse neanche lo sai: sei una guerriera straordinaria.
Combatti con valore, vinci per me. Tu mi
liberi da me stesso. Ecco: tu mi liberi da me
stesso. Chissà se lo sai, se lo immagini, se
lo intuisci.
Spuntano le prime luci dell’alba. Dormo un
sonno leggero, vigile. Tengo una mano sulla
tua nuca e l’altra sul fucile mitragliatore. Ti
tengo tra le braccia come si tiene tra le
braccia la cosa più preziosa dell’universo.
Con l’immaginazione ti accarezzo, ti stringo, ti parlo. Ti desidero. Ma resto ammirato
dal tuo russare e ti lascio dormire. Esposto
ai raggi d’oro della tua sottoveste fumo una
sigaretta, una soltanto, senza farmene accorgere.
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Cento piccoli mostri
Sono meteoropatico e ho imparato ad accettarlo con serenità. Oggi è una di quelle
giornate in cui mi aspetto una loro visita.
Senza combattere. Il cielo è plumbeo, tutto
uguale, piove acqua mischiata a nevischio, è
freddo, è domenica, ho finito il vino. Mi
sdraio sul divano, completamente nudo per
semplificare le cose, mi copro solo con un
sacco a pelo che uso come una coperta. Li
aspetto. So che verranno. Sono ragionevolmente certo che verranno. E infatti eccoli,
puntuali, silenziosi, flemmatici. Hanno il
corpo di cuccioli di cane. Si muovono incerti, teneri. Le loro teste invece sono sproporzionatamente grosse, come quelle di un dinosauro per intenderci, e hanno denti orribili e acuminati, come quelli di un tyrannosaurus rex (fatte naturalmente le dovute
proporzioni). Sono insomma cuccioli di cane con la testa di mostro. Non abbaiano. Si
muovono lentamente, scodinzolano. Non mi
ribello, non li mando via, perché ho imparato che è impossibile lottare contro di loro. A
volte riesco a non aver paura di loro, pur
sapendo quello che vogliono farmi. Si arrampicano sul divano e pian piano mi circondano, come piccole bestie intente a nu23
trirsi del latte della mamma. Metto via anche il sacco a pelo, per semplificare le cose.
Sono ormai circondato, altri piccoli mostri
attendono sul pavimento il loro turno, mi
guardano con occhioni sonnacchiosi mentre
chiudono il naso fra le zampe o mentre si
stiracchiano. Il pasto comincia. Con movimenti sorprendentemente decisi cominciano
a strapparmi, a mangiarmi, li vedo scodinzolare mentre affondano ciechi i loro denti
aguzzi nelle mie carni. Mi scorticano, mi
svuotano, mi spolpano, e io non posso farci
niente. Uno di loro si è portato via qualcosa,
se lo è trascinato in un angolo della stanza,
ora si è acquattato e lo divora. Deve essere
un pezzo di fegato o di polmone, è una gelatina scura, sanguinolenta. Alla fine tutta la
stanza è appiccicata di sangue. Le mie ossa
sono dovunque, sparse, qualcuna negletta,
le altre perlopiù tra le fauci di qualche piccolo mostro intento a sgranocchiarle. Li vedo non so con quali occhi, visto che i miei
occhi non esistono più. Molti mostriciattoli
dormono, fanno la pennichella. Ho come
l’impressione che un raggio di sole ferisca
la stanza adesso, per un attimo vedo un riflesso giallo-oro scolorare le cose e confondere i contorni, mi ricordo di pomeriggi sul
mare in compagnia di ragazze, abbracciati,
sonnacchiosi, salati, dopo aver fatto l’amore.
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Odore di catrame, odore di sperma, odore di
fica ancora sulle mie mani. Il tuo respiro, il
battito del tuo cuore, alcuni gabbiani che si
stagliano contro il sole rosso, basso, desideroso di tuffarsi nel mare. Il rumore del mare, il ritmo del mare, della vita. Un movimento delle tue cosce, acerbe, sode, cosce
che strusciano l’una contro l’altra, producendo un suono impercettibile, cosce acquattate contro la fica dopo essersi aperte in
un’epifania d’amore, di sangue, di bellezza.
Com’è spengersi? Cos’è morire? Decadere
e crescere sono la stessa cosa? Dov’è la mia
casa? Esiste la mia casa? Sono solo nella
mia casa, o qualcuno vive con me nella mia
casa?
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La prova
Fui caricato sul carro dell’ignominia e portato via dalla vita. La cospirazione era vasta,
la stessa che ebbe successo nel vessare molti uomini nati all’amore. Dalle sbarre del
carro che si inerpicava per un sentiero alpestre e tortuoso potevo vedere il mare allontanarsi, svanire ogni mio orizzonte più caro.
Mi rimase sul volto un sorriso inebetito, cucito addosso come da una fiducia arcana,
lontana e impalpabile ma viva nel ricordo e
nella speranza. Il carro dell’ignominia mi
portò in un castello romito, nei cui sotterranei fui castrato e legato in ceppi. Ogni giorno ero divorato dai cani e ogni giorno una
strega malefica mi tagliava la testa con una
roncola, dopodiché me la immergeva in un
secchio pieno di sterco e inveiva contro di
me in una lingua che non comprendevo.
Nelle lunghe pause di silenzio in cui la mia
testa rimaneva negletta dentro al secchio,
rannicchiandomi tutto nel mio spirito, così
senza corpo come ero, ricordo di aver sognato più volte di fumare una sigaretta, una
sola, di quelle che si fumano una volta
l’anno, a Natale, insieme ai parenti più cari
e più preziosi, in uno di quei momenti che ti
pentirai poi per sempre di non aver saputo
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cogliere in tutta la sua bellezza e irripetibilità. Ricordo di aver vagheggiato l’infanzia,
le mani di mio nonno che mi sostenevano
nei miei primi passi, nelle mie prime escursioni sulla scogliera, nei miei tentativi di
imparare a nuotare. Cos’è che fa un uomo e
cos’è che lo sfa. Quale mistero ci sta sopra e
quale ci rapisce via dal cielo. Ma, soprattutto, quale origine di tanto accanimento contro gli uomini che semplicemente vivono,
vivono e basta, anche se egoisticamente,
modestamente, anche se isolati, senza far
danno ad alcuno. A chi dispiace l’amore?
A chi dispiace la vita? A chi dispiace la
felicità?
L’amore non basta a sé, l’amore ha bisogno
di un’arma, di un talismano, l’amore ha bisogno di una magia.
Un giorno, durante l’ora della pennichella,
quando i cani digerivano sonnacchiosi dopo
avermi divorato, mi apparve mio nonno, in
un luogo dello spirito dove, sia pur privo del
corpo, ero tuttavia cosciente. Stringeva in
mano una pietra verde legata a una cordicella, e me la porgeva. Era serio, e mi diceva:
“Prendi in mano il tuo destino.” Io presi la
pietra e la strinsi nel palmo. Poi distesi il
palmo e la guardai.
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L’amore mi invase e mi ridiede la vita,
quella piena, quella vera. Vi sembrerà incredibile, ma ero riuscito ad abituarmi a
quelle condizioni, per quanto orribili. C’è
qualcosa di primordiale dentro l’uomo che
ti dà l’illusione di poter sopravvivere a tutto. Ti aggrappi a quel qualcosa e hai davvero l’illusione della salvezza, o quantomeno
di una salvezza accettabile. Avevo strutturato la giornata in momenti topici, come il pasto dei cani o la mia decapitazione ad opera
della strega, dopodiché avevo elaborato tecniche per vincere il dolore, o lenirlo, e intorno a tutto ciò avevo costruito una routine
di abitudini che mi faceva passare il tempo,
mi rendeva la vita sopportabile. Pensavo al
giorno dopo. Pensavo al futuro. Dopotutto
l’essere divorato ogni giorno era una certezza, e mi dava delle certezze. Non avevo paura dell’ignoto.
Ma adesso avevo la pietra. Avevo di nuovo
la vita. Avevo l’amore. Potevo guardare in
faccia la verità e sconfiggere tutti i miei
nemici.
Bagnai la pietra con le mie lacrime e trasformai i miei ceppi in mazzette di banconote. Con quei soldi corruppi le guardie ed
evasi dal castello. Caddi in ginocchio quan28
do, sulla via del ritorno, uno scollettamento
della strada scoprì ai miei occhi l’immensità
del mare, come un velo che scopre la bellezza del sesso dell’amata.
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INFINITO E BESTIA
Delio
Il sole precipitò nel mare e il cielo si tinse di
tenebra. Le stelle luccicavano a bassa voce
e la luna non c’era. C’era il vento, forte e
freddo, che sbatteva il mare sugli scogli e
fischiava tra le case, strappando rami dagli
alberi e sporcizia dai cassonetti rovesciati.
Delio parlava da solo, cercando interlocutori, nella penombra della sua stanza. “Voglio
morire” - disse - “Che ci sto a fare al mondo? Non ce la faccio più, merda non ce la
faccio più a tirare avanti questa vita!” Nella stanza accanto, sua madre paralizzata, a
letto.
Gli alieni lo ascoltarono, e, dopo averne discusso col comandante anziano, decisero,
indulgendo alla loro etica compassionevole,
di esaudire il desiderio del terrestre.
Dalla loro astronave partì un raggio Zeta
che penetrò attraverso i muri, senza ferirli, e
tranciò di netto la testa di Delio.
La testa rotolò sul pavimento, per un attimo
la sua espressione, come sorpresa, parve di-
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re: “Che avete da piangere, ridete! Sono un
pagliaccio, ridete!”
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Decomposizione
Cominciò tutto una mattina d’estate davanti
allo specchio. Mi pettinai con la spazzola di
ferro, la mia preferita perché dà un piacere
assurdo, un solletico fresco e lieve sulla cute che accappona la pelle e scende elettrico
giù alla schiena. Quel giorno tuttavia una
piccola zolla di cuoio capelluto si strappò
dal mio cranio come cuoio secco e marcio
di una scarpa d’altri tempi. Ebbi subito terrore, sudore freddo e mal di stomaco, ma mi
ripresi abbastanza bene la sera stessa dopo
aver constatato come il mio benessere fisico
non fosse mai venuto meno per tutta la
giornata. Stavo bene, mi sentivo in piena
forma, soltanto avevo scoperta una zona di
cranio. Al tatto non mi dava nessun fastidio,
l’osso era secco e la cute intorno non doleva
neanche se ci grattavo sopra. Cominciai a
farmene una ragione.
Indossavo berretti di ogni tipo, solo, in verità, per risparmiarmi il disco rotto di chiacchiere dei benpensanti. Frequentavo ragazzi
punk ed ero l’idolo del gruppo. Avevo una
ragazza tatuata dalla testa ai piedi con un
piercing su un labbro della vagina. Impazzi-
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va per il mio cranio scoperto e la mia vita
era straordinaria, normale insomma.
Ma un brutto giorno successe di nuovo.
Passeggiavo da solo, al porto, mi incuneai
sotto una recinzione per raggiungere un
vecchio molo in disuso dove andavo a pensare ai miei guai quando ero adolescente.
Facendomi strada fra macerie e vecchi rottami picchiai la spalla violentemente contro
un’impalcatura arrugginita. Incredibile, il
mio braccio destro si staccò di netto. Non
sentii male. Stava in terra tra la polvere,
secco, come una vecchia scopa, come un fastello di paglia. Che schifo. Mi sentii venir
meno, nausea, mi sdraiai, era caldo, forse
svenni, forse mi addormentai dentro un oblio di quiete, cullando la speranza di potermi svegliare al di fuori di quell’incubo.
Ma niente da fare. Ritrovai le forze che era
notte. Avevo un braccio solo, il mio braccio
non c’era più, al suo posto un moncone.
Neanche riuscii a trovarlo, al buio, fra quelle schifezze, chissà che un cane non se lo
sia portato via, pensai.
La mia ragazza andò in estasi quando mi
vide. Volle che io imparassi a cantare trash,
una roba di urla e ruggiti, e così dopo qual36
che tempo diventai il cantante di un gruppo
musicale che subito diventò famoso nella
zona. Facevamo concerti ovunque, mi
chiamavano “Lo zombie”. Stavo bene, benissimo. Ero di nuovo nel pieno delle forze,
anzi avevo dentro di me una potenza nuova,
grande, la potenza di chi si è temprato in
grandi avversità.
Ma il terzo colpo mi stroncò. Ancora adesso
lo racconto con dolore. Fu forse un anno
dopo. Facevamo l’amore, io e la mia ragazza. Le stavo sopra, la baciavo in bocca mentre con la mano sinistra le artigliavo i capelli neri sulla nuca. L’amplesso cresceva, diveniva una battaglia d’amore. La feci venire
con la lingua e poi la penetrai di nuovo, con
ardore, con foga, fra le sue urla di passione.
Quando a un tratto successe l’indicibile,
l’impensabile, l’orrore e l’umiliazione, la
vessazione di un perseguitato. Fu come lo
spezzarsi di un fiammifero, il mio pene si
troncò e rimase dentro di lei, come legno
marcio. Non ricordo più niente o quasi da
quel punto in poi, la mia ragazza urlava inorridita, io ridotto a un uomo di fango
mosso da spasmi isterici in un vortice di allucinazione.
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Mi ritrovai da solo, senza la possibilità di
avere mai più una compagna. Provai a reagire, a dire il vero. Cominciai a scrivere, a
frequentare suore preti e gruppi di preghiera, ma niente, la vena mistica non mi si addiceva. O forse mi si addiceva troppo. Il fatto è che senza il sesso non provavo più nessun interesse per la vita sociale. Mi davano
fastidio le persone che ridevano e scherzavano in compagnia. Non provavo brividi.
Non avevo interessi. Cominciai a fare il volontario in ospedale. Stavo bene solo quando stavo coi malati terminali. Li sentivo
come me, fratelli nel dolore e nella pallida
castità, carne della mia carne e sangue del
mio sangue.
La decomposizione continuò, ma fu solo
una questione di gradualità. Perdevo pezzi
di me ma non ci facevo più caso. Andavo
avanti giorno dopo giorno sul mio sentiero
di disfacimento, quasi sereno, in completa
solitudine.
Una sera di me rimasero solo gli occhi. Tutto era buio e i miei occhi stavano sul letto,
bianchi, grandi. Pensavo a me stesso con
grande pena. Ma ecco che vidi altri occhi
bianchi nel buio, e poi pian piano altri occhi, e poi altri ancora. Si raccolsero intorno
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al mio letto, placidi. Mi parve di udire qualche sospiro, qualche risolino, forse una risatina infantile e sadica. “Questa è la morte?”
- pensai - “Me la rido se questa è la morte!”
Nel buio scoppiarono risatine e sghignazzi.
Era davvero la morte. Era giunta la mia ora.
Tanta paura, tanta angoscia, tante riflessioni
per niente. Tonnellate di libri e di rovelli per
arrivare a questo: un coro di sghignazzi intorno a due occhi.
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Guerra
La febbre di Ermete cresceva. La sua mente
scopriva nuovi fili rossi, invisibili agli uomini medi, nuovi legami tra le cose che erano sintomi, e, per la quantità, prova
dell’esistenza di forze, di complotti, di nemici potenti organizzati in modo sistematico
contro di lui. Era la vigilia del Trilunio ed
Ermete non riusciva a fare quello che voleva. Non poteva, bloccato dai complotti.
“Perché?” - si chiedeva - “Perché?”
Non aveva da lavorare quel giorno ed era
andato al supermercato a comprare qualcosa
da mangiare, in tutto relax. Ma il supermercato, nonostante l’orario fosse ben lontano
da quello di punta, era stracolmo di gente.
Alla cassa c’era una fila interminabile ed
Ermete dovette rinunciare perché di lì a poco sarebbe dovuto andare a prendere suo figlio Neno a scuola.
Pioveva ed Ermete si domandò se fosse
davvero un caso. Quando c’è il sole la maggioranza dei bambini tornano a casa a piedi
o in bicicletta. Quando piove invece tutti i
genitori vanno a prenderli con la macchina,
creando una bolgia infernale di traffico da40
vanti alla scuola. Quel giorno la bolgia fu
anche maggiore perché molti genitori erano
in ferie, a causa della vigilia del Trilunio, e
potevano recarsi a scuola a prendere i figli.
Ermete e Neno arrivarono a casa stremati e
affamati. Neno, la solita aria catatonica. Ma
Ermete non trovò granché pace. Siria, la
moglie di Ermete, era infatti una fanatica
della vita salottiera e aveva invitato a pranzo due cariatidi dell’Esercito stellare conosciute a teatro durante l’intervallo di una cerimonia commemorativa. Quando Ermete e
suo figlio entrarono, una delle due cariatidi,
un ex-comandante di vascello, stava enfaticamente raccontando gesta militari dimenticate che gli erano valse l’onorificenza di “Onesto commodoro”.
Ermete, che pure era collezionista di vecchi
libri di cronache militari, fece buon viso a
cattivo gioco e fece finta di ascoltare con interesse, ma sognò di sbronzarsi, di accoppiarsi con una giovenca in un amplesso liberatorio, di masturbarsi, di riempirsi lo
stomaco di pasticche benessere “Occhio
sereno”.
Che schifo, sua moglie e le cariatidi avevano mangiato come porci e non c’era rimasto
41
niente, solo la minestrina messa da parte per
il bimbo e del pane schietto.
“Come può tutto ciò essere un caso? Come
non vedere un lucido complotto di forze ostili dietro questi avvenimenti?” Ermete
sprofondò in pensieri cupi e con una scusa
scese in strada.
Avrebbe voluto passeggiare ma si ritrovò a
camminare a passo svelto, nervoso, non appena ebbe chiaro a se stesso di dover raggiungere il giornale il prima possibile. Una
voce interna gli ingiungeva di andare, ansiosa, preoccupata.
Ermete era il direttore di “Spazio”, un giornale di media diffusione. Persona schiva ma
influente, era stato decorato in più occasioni
per meriti di servizio alla Nazione.
Al giornale non c’era nessuno, a causa della
festività. Il giorno seguente l’edizione quotidiana di Spazio non sarebbe uscita. Ermete
entrò nel suo studio, trafelato, concentrato.
Febbrilmente si mise a lavorare al QOP
(Quantificatore Ottico di Probabilità), mettendo in campo le forze in gioco e avvenimenti a suo parere significativi, alla ricerca
di un nesso, di una sorgente, di una causa.
42
Telefonò a casa per avvertire che sarebbe
tornato tardi, forse anche il giorno dopo.
Passò la notte insonne, bevendo caffè, davanti al QOP.
Alle prime luci dell’alba finalmente il QOP
dipingeva un mondo ordinato: nessi, cause
ed effetti, fili rossi univano le cose, le più
lontane, le più disparate. Lo schermo del
QOP pullulava di colori, meravigliosamente. Tutti i complotti erano svelati. Sul viso
di Ermete l’ansia e la preoccupazione avevano lasciato il posto a un sentimento di
soddisfazione, temperato da un profondo
senso di giustizia e di responsabilità. Che
fare adesso?
Fece una pausa per rilassarsi. Stanco, dormì
due ore sulla poltrona. Poi si lavò, si sbarbò,
si profumò. Diede un’ultima occhiata al
QOP. Telefonò quindi a casa per salutare e
avvertire la moglie. “Amore lo so bene che
oggi è festa, ma usciamo in edizione straordinaria. Poi ti spiego, adesso non posso. Dai
un bacio a Neno. A più tardi, ciao.” Telefonò ai più stretti collaboratori per convocarli
al giornale.
Si mise al lavoro, stilando una bozza di editoriale sul suo computer portatile. Scrisse
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infine a lapis, su un foglio bianco, quello
che ebbe deciso essere il titolo, a lettere cubitali, dell’edizione straordinaria: “MUOVERE GUERRA AGLI ABITANTI DEL
PIANETA AXOLOTL!”
“Brutti mostri” pensò fra sé.
44
Mezzogiorno di marzo
Alberi e nebbia dalla finestra. È la finestra
della mia astronave. Sono lontani i tempi
dei complotti, dei sordidi agglutinamenti di
Male contro di me, arcani. La vita di famiglia è tribolata, dura, ma densa di soddisfazioni: i cuccioli, un magnifico cane, una
moglie lussuriosa e solare che è pure pazza,
devota, letterata, cuoca sopraffina, crapulona. La mia casa è un porto di mare. È un
giardino di odori. La porta è sempre aperta.
Amici vengono, vanno, si sbronzano insieme a me al tepore dell’abbraccio della famiglia felice. Mi scoppia il cuore, a volte,
e vorrei tanto essere all’altezza di tutto
questo.
Se chiudo gli occhi corro all’impazzata, fra
l’erba, annuso, ansante e muscolare, poi,
orgoglioso, lo sguardo mischiato al sole,
porto trionfante al comandante Kirk il tesoro che ho trovato, stretto tra i denti, il ramo
che mi ha lanciato, con grida, desideroso e
certo del suo premio, della sua carezza: sono un cane felice.
45
Necrophilus
I
Se c'è una categoria di gente che mi sta veramente sul cazzo questi sono gli scrittori.
Eccolo che arriva, vestito male perché disprezza la plebe che ama ben vestirsi, fottere e piacere agli altri. Ma porta una sciarpa
raffinata ed eccentrica per farti capire che si
veste male per scelta e non perché viene da
un paesino di bifolchi. Se poi ci parli capisci
che la rivoluzione copernicana è stata un errore della scienza perché l'universo intero in
realtà gira intorno alla sua meravigliosa testa di cazzo. Lui si intende di tutto, tu non
capisci niente. No, perché tu guardi la tv e
leggi i giornali, lui invece ha accesso a informazioni top secret debitamente occultate
al popolo dalla Spectre di 007, che ha lavato
il cervello a tutti e governa su un pianeta di
dementi (tutti dementi tranne lui naturalmente). Per fortuna esiste uno straccio di
giustizia e lui vive solo e senza amici, circondato da ammiratori e ammiratrici sottomessi e plagiati per un periodo a cose normali transitorio. Dopo morto andrà all'Inferno, nel girone degli accademici. Ma non
tutti gli scrittori sono come lui. Ce ne sono
46
di peggio. Ecco quello che vuol venire dal
popolo e incarnarne la cultura, si veste male
stando attento a non mettersi roba elegante
che potrebbe rivelare la sua natura aristocratica, sta coi poveri, fa volontariato e quando
parla sembra abbia la terza elementare. È il
massimo dello snobismo, te ne accorgi perché le sue fidanzate, i suoi fidanzati, i suoi
amici intimi sono tutti cervelloni laureati.
II
Anch'io sono uno scrittore (modestia a parte, molto bravo), ma appartengo a una terza
categoria. Sono uno scrittore necrofilo, e
l'averne consapevolezza mi riempie la vita
di disgusto. Ho una malattia mentale.
Se prendo in mano un libro, e me lo guardo,
e me lo sfoglio, con l'acquolina in bocca mi
trasformo, provo il piacere, la libidine di chi
scopa fiche secche di cadaveri (che c'è di
più bello?), sono orgasmi intensi, esplosivi,
ma il piacere che provo è disgustoso e non
posso più vivere né scrivere. Ho comprensione per chi prova una compulsione violenta a bruciare libri, oppure al suicidio. Ce ne
sono di questi individui (oltre me), ve lo garantisco. Se frequentate le sale d'aspetto di
un neuropsichiatra ne vedete di mondo.
47
Ho fluttuato per anni tra picchi e valli, fra
entusiasmi e depressioni, tra putrefazione e
nobiltà, alla ricerca del farmaco giusto, senza mai aver rapporti sessuali, solo masturbandomi, tutto nudo, su letti e divani pieni
di libri. Che vita! D'accordo col mio neuropsichiatra ho cominciato di recente a frequentare corsi per imbalsamatori finanziati
dal governo, si tratta di nuove attività, nuove professioni. Nuove si fa per dire. Ti
piacciono i morti? Eccoteli, caro mio scrittoruccio del cazzo.
Non so se avete mai sentito parlare di tanatoesteti e tanatoprattori. La differenza è
fondamentale. Il tanatoesteta interviene sulla superficie del cadavere, lo sbarba, lo incipria, lo lava, lo veste, lo compone, gli taglia le unghie e via dicendo. Il tanatoprattore interviene invece sottocute, purifica il
morto dai liquami schifosi che ne accelerano la putrefazione, inietta sostanze miracolose che possano prolungarne l'esposizione
ai parenti e che letteralmente credetemi lo
ringiovaniscono, lo abbelliscono, lo rasserenano nell'espressione e gli ridanno vita, se
così si può dire di un cadavere. È un mercato di grande umanità, un mercato che gira
intorno all'amore per i propri defunti. Una
cosa assai bella, a veder bene.
48
Diventerò presto un tanatoprattore professionista.
La terapia sembra funzionare. La compagnia dei cadaveri in obitorio o sul lettino sul
quale opero mi purifica, quasi mi guarisce,
mi riporta alla realtà (bella o brutta) delle
cose. In frigorifero abbiamo tante belle ragazze, ma ho smesso di abusare di loro la
notte o nei ritagli di tempo. Stando a giornate con la morte va a finire che mi abituo ai
morti e mi innamoro di nuovo della vita.
Che meraviglia la natura! La fica, il buon
vino francese. Mi scordo della malattia
mentale e torno a vivere gagliardo, senza
paura e senza remore, io tutt'uno di infinito
e bestia.
Mi lascio annegare in un sonno sano pieno
di vita sulle tette di mia moglie. Mi addormento pensando a un nuovo romanzo, a un
nuovo racconto. E le scrittrici? Vecchie baldracche! Se ho fortuna avrò anche una polluzione.
49
Il bimbo
Avevano sempre desiderato avere un figlio.
Abitavano in una casa di legno, nel bosco.
Erano molto poveri. Vendevano legna nel
paese a valle e mangiavano i propri animali.
Non sapevano leggere e avevano la fama di
essere due svitati. Sbagliavano i giorni della
settimana, scendevano in paese vestiti bene
per la Funzione domenicale ma non era domenica, era sabato, oppure lunedì. Li vedevi
arrivare col loro carico di legna da vendere
e invece era domenica. Suscitavano l’ilarità
generale ma tutti volevano loro bene perché
in fondo erano due poveri diavoli e non avevano mai fatto male a nessuno.
Una notte d’estate piena di stelle stavano sul
divano a dondolo fuori la loro casetta. Si tenevano per mano e bevevano grappa, discorrendo e guardando il cielo.
Pensarono a una stella cadente quando videro un bagliore striare il cielo in lontananza.
In segreto espressero un desiderio. Ma il
bagliore invece di svanire aumentò, e quella
che era sembrata una stella cadente si rivelò
essere un meteorite. La stria di luce si avvicinava e fece loro intuire che il masso sa50
rebbe caduto nelle vicinanze. In men che
non si dica ci fu un tuono e la stria di luce si
schiantò nel bosco, in un punto non molto
lontano dalla loro abitazione. “Andiamo a
vedere, forse è un segno del Cielo.” Disse
lei con occhi spiritati di eccitazione. Lui più
sospettoso, lì per lì non trovò argomenti per
contrastare la moglie e annuì in silenzio.
Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi
fu incredibile. In mezzo a foglie bruciate e
rami schiantati ancora ardenti stava un masso spaccato a metà, della grandezza di un
alveare. In una delle due metà stava qualcosa come in una culla. Quel qualcosa pareva
muoversi. Si avvicinarono ed era un baco
rosa, aveva come due braccine e due gambine, e una roba come una testa, minuscolo,
della grandezza di un palmo. Non ebbero
dubbi: era il loro bambino, il loro bambino
mandato dal Cielo. Colmi di gioia avvolsero
il bimbo in una sciarpa di lana e lo portarono a casa.
51
Gli ultimi anni del pianeta terra
“Guarda la terra, mamma, è pieno d’occhi!”
Questo il commento di Emolo alla vista
straordinaria del mondo dall’alto dell’ultima
collina verde.
Gli occhi cominciarono a diffondersi col
diminuire dell’intensità solare. Palmo dopo
palmo, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, metro dopo metro ricoprivano
ormai quasi tutta la superficie del pianeta.
Bellissime creature piene d’amore, vivevano a contatto l’una con l’altra, pacifiche,
mute, quasi tristi, le membrane intrecciate
come a tenersi per mano, molli, le grandi
pupille verdi rivolte verso il cielo rosso tinto
dal lento crepuscolo del sole.
Gli occhi aumentavano, gli esseri umani
diminuivano. Questa la storia degli ultimi
tempi. Non ci fu lotta. I genitori di Emolo
erano sereni, sapevano di essere tra gli ultimi e che Emolo sarebbe stato forse l’ultimo
uomo mai nato. Ma erano felici.
Emolo si addormentò fra le braccia di sua
madre, seduta sull’erba accanto a suo padre,
che li abbracciava entrambi e li baciava,
52
mentre miliardi di occhi sulla superficie del
pianeta si tenevano per mano sotto il crepuscolo del sole.
53
LE RADICI DEL BENE
Le radici del bene
I
Erano passati anni. Erano tutti morti. Il
tempo li aveva maciullati a uno a uno. Ci
aveva maciullati. Non ero più stato in quella
casa. Ero come bloccato dall’idea di un dolore disumano che mi avrebbe assalito e dilaniato, ucciso per sempre. Pensavo ad altro,
ma in realtà pensavo solamente alla mia desolazione. Una lastra di ferro, fredda, arida,
che mi sigillava perfettamente in me con la
mia estraniata e decisiva complicità.
Un giorno mi resi conto che non avevo più
niente da perdere. Ero già morto, compiutamente, perfettamente. Deambulavo per il
mondo con il mio corpo ma non avevo più
anima. Ero solo, completamente solo, né
poteva essere diversamente. Non avevo più
lacrime né amarezza. Mi guardavo nello
specchio e vedevo lì incorniciata l’immagine
perfetta della morte.
Trovai il coraggio di aprire il cassetto dove
stavano le vecchie chiavi. Le vidi e per un
attimo li rividi tutti, sentii le loro voci. Poi
niente, scomparvero di nuovo. Questa volta
57
fui io ad ucciderli. C’era una lacrima sul
mio viso ma era il viso di un morto, era stato il sussulto di un cadavere percorso da una
scossa elettrica, la fotocopia di un sentimento, di un lampo.
Scesi in strada e non c’era nessuno. Montai
in macchina e percorsi di nuovo la vecchia
strada, chilometro dopo chilometro. Non
c’era nessuno, non c’erano macchine.
C’erano i semafori ma non c’erano macchine. Non c’erano persone sui lati della strada.
Parcheggiai sotto la vecchia casa. Sudavo
freddo. Avevo gli occhi asciutti. Meccanicamente aprii il portone. Riconobbi l’eco
dei passi che restituiva l’androne. Salii in
ascensore e raggiunsi con angoscia il terzo
piano, in un’ascesa interminabile. Non pensavo. Sudavo. Dovevo farcela. Presi le
chiavi, e, come in un altro tempo, aprii la
porta con il fac-simile di un gesto leggero.
Ero dentro. Chiusi la porta di casa finalmente dietro di me e alzai lo sguardo. Ce
l’avevo fatta.
II
Mia moglie e i miei figli sapevano quello
che sapevo, vedevano quello che vedevo, si
58
erano armonizzati perfettamente con la
nuova, vecchia casa.
Il pavimento sempre pulito, la cucina sempre piena di colori, i miei morti non se ne
erano mai andati, non erano mai morti. Solo
io ero stato morto. Erano felici del mio ritorno.
Quante persone di nuovo nella vecchia casa.
Quanta gente per strada quando andavo al
mercato a far la spesa, col cuore grande
quanto il cielo sopra Livorno. Gli occhi
grandi di mio figlio erano i miei davanti al
banco del pesce. I miei cari mi salutavano
dalla finestra. Mi accoglievano sulla porta
di casa. Era Natale e tutti insieme brindavamo a questo ennesimo miracolo
dell’amore, a questa nuova occasione sortita
dagli astri, quella di vivere ancora, tutti insieme, in eterno.
59
Il nuovo mondo
Alle 13:45 le strutture del mondo cambiarono. La logica si attenuò. Gli orologi persero
pian piano la loro perfetta forma circolare e
diventarono oblunghi.
Alle 16:00 la dichiarazione congiunta del
Presidente degli Stati Uniti d’America e dei
redivivi Marx, Lenin e Che Guevara: “Le
radici della guerra e dell’ingiustizia sono
nel cuore dell’uomo.”
Alle 16:25 il Presidente dei Supermercati
riuniti della Galassia dichiara che il consumismo non dà la felicità.
Gli angeli del Signore distribuirono Prozac
a tutti gli abitanti della terra e le guerre cessarono.
60
APPENDICE
Il condominio
La riunione cominciò una sera dopo cena,
nell’Aula delle riunioni. A presiederla uno
dei condomini, incolore ex-avvocato della
Sacra Rota ma eccelso nozionista di giurisprudenza condominiale. Accanto a lui
l’Amministratore del condominio, un ragioniere non infallibile che per pochi spiccioli
si era messo a disposizione dei condomini.
La sua faccia parlava da sola, il suo corpo
era lì, nell’Aula delle riunioni, ma la sua
mente era altrove, forse davanti a Sport
Channel, forse davanti all’ultimo film porno
amatoriale suggeritogli dall’esperto commesso del Sexy Shop.
“Dunque dalle carte dell’Amministratore risulta che il Signor Naverchi, stasera assente,
non paga la retta condominiale da cinque
anni” - esordì l’ex-avvocato. “Sono esterrefatto” continuò, “con il Signor Naverchi ho
avuto un rapporto quasi di amicizia, se così
si può dire, non riesco a comprendere come
io possa essermi sbagliato così grandemente
sul suo conto.” Nell’aula si diffuse un brusio via via interrotto da sussurrate bestemmie e da manifestazioni di sdegno. “Se ho
ben capito noi tutti, in tutti questi anni, ab63
biamo pagato il riscaldamento al Signor
Naverchi, mentre lui si è riscaldato gratis, è
questo quello che lei vuole dire?” sbottò
uno dei condomini. “Sì è esattamente così”
disse l’ex-avvocato, “l’Amministratore qui
presente può confermarlo.” Per un attimo
tutti guardarono l’Amministratore che, in silenzio, annuì con espressione assente. “È
una vergogna!” Sbottò un altro condomino
alzandosi in piedi e dimenando le braccia.
“Che schifo” gli fece eco un altro condomino. “Silenzio per favore” intervenne l’exavvocato, “purtroppo questi sono i fatti, non
ci resta, se siete d’accordo, che procedere
alla giustizia. Ci rifaremo sulla sua casa. Il
Signor Naverchi è proprietario, la faremo
vendere all’asta e otterremo giustizia dalla
vendita della sua casa, incassando ognuno il
dovuto.” Ci fu silenzio, forse a qualcuno per
un attimo dispiacque l’idea che il Signor
Naverchi, tanto una brava e umile persona
fino a pochi istanti prima, venisse pignorato
e cacciato dalla sua casa. Sarebbe finito sicuramente in un ospizio per vecchi, data
l’età. Ma il fuoco della giustizia andava placato, giustizia, appunto, si chiamava, e la bilancia della giustizia, sacra, andava pareggiata. “Sì” disse un condomino, “Sì, assolutamente”, fece eco un altro, finché l’Aula
delle riunioni divenne un coro unanime di
64
assenso e di condanna. Tutto era deciso, la
casa del Signor Naverchi sarebbe stata pignorata, venduta all’asta e il ricavato diviso
tra i condomini, vittime e parte lesa. Si respirava adesso un clima più sereno, ognuno
già faceva i conti di quanti soldi la giustizia
gli avrebbe restituito.
“Neanche hanno pensato a interpellarlo”
disse l’Entità aliena che supervisionava la
riunione. “Niente, neanche il beneficio del
dubbio. Lo hanno condannato e basta.”
“Come sono andate le cose?” chiese l’Entità
aliena di supporto. “È stato un errore
dell’Amministratore” rispose l’Entità superiore. “E l’ex-avvocato? Non era suo amico? Non gli è passato per la testa di parlargli
un attimo in privato prima di procedere alla
pubblica condanna?” “No” rispose l’Entità
superiore, “lo ha condannato e basta.” “Che
miserabile, quello non ha mai conosciuto il
significato della parola Amicizia.” “Sì è così.” “Che farai adesso, li punirai?” chiese
l’Entità di supporto. “No” rispose l’Entità
superiore, sospirando, “ma darò loro quello
che liberamente hanno scelto per sé e per le
proprie vite.”
L’Entità dispose che i condomini presenti
alla riunione fossero dispersi nell’universo,
65
ognuno su un pianeta disabitato fatto di solitudine e di aridità.
66
La bimba dagli occhi gialli
In un villaggio sperduto tra le montagne viveva una bambina con gli occhi gialli. Viveva nella sua casetta di legno insieme alla
nonna. Gli abitanti del villaggio conferirono
molto sulla faccenda del colore dei suoi occhi, finché un giorno, riuniti segretamente
in assemblea a casa del sindaco, decisero,
dietro calorosa sollecitazione del parroco, di
uccidere la bambina. Non si sarebbe trattato
di omicidio, naturalmente, ma di una semipubblica (o semi-segreta) esecuzione. La
bambina era evidentemente un demone che
andava rimandato all’Inferno per il bene
della comunità. C’erano già stati casi simili
in passato, anche se mai si era trattato di
bambini. La procedura, trattandosi di un
demone, era tuttavia la stessa. La bambina
sarebbe stata portata in un campo, di notte,
sbudellata, e poi, ancora viva, data in pasto
alle scimmie purificatrici. Così decisero e
così fecero. La sera stessa, senza indugio, si
riunirono di nuovo e si diressero a casa della bimba. Entrarono e la presero, strappandola dalle braccia della nonna. La portarono
in un campo umido e nebbioso, e qui la
sbudellarono. Il parroco benedisse le scim-
67
mie purificatrici e le liberò verso le interiora
della bambina.
Ma la bambina, ancora ben viva, era davvero
un demone, e se ne ricordò. All’avvicinarsi
delle scimmie fameliche le sue interiora
cominciarono a muoversi come fossero tentacoli di una piovra. Le scimmie si avventarono su di lei ma le sue viscere si attorcigliarono ai loro colli e le strangolarono. A
quella vista gli abitanti del piccolo villaggio
sperduto fuggirono terrorizzati, parroco in
testa.
La bimba rimase sola, nel campo, sdraiata e
con le viscere aperte al cielo della notte. Sospirò e si stirò, come fosse in un letto. Le
sue viscere scivolarono all’interno delle sue
cosce e la bambina-demone provò un piacere mai provato. La carezza sugli inguini diventò pian piano una carezza sul pube e il
piacere mai provato si espanse, la riempì, la
travolse come un’onda calda che la lasciò
come una spiaggia nuova al sorgere del
nuovo sole. Era diventata donna?
Coi suoi poteri demoniaci richiuse le sue interiora e tornò di corsa a casa, dalla nonna,
che la riabbracciò felice. Piansero insieme
lacrime di immensa gioia.
68
Libertà
Nel regno delle belle colline e del bel mare
c’erano un miliardo di leggi, cioè non ve
n’era nessuna di plausibile certezza. Era inoltre invalsa l’abitudine, da parte degli
sciamani, di interpretare le leggi secondo le
proprie idee e la propria soggettività, e questo dava a tutti i sudditi la certezza assoluta
di una assoluta incertezza. Siccome poi le
vite degli uomini vanno pur vissute, ognuno
in ultima analisi faceva affidamento su se
stesso e sulla fortuna. Era il regno dei poeti
e dei navigatori? No. Poeti e navigatori erano incatenati e imbrigliati, avevano bisogno
di grandi spazi ma non c’era spazio per loro
nel regno delle belle colline e del bel mare.
Il regno era tutto un proliferare di scarafaggi, che avevano buon gioco nel muoversi tra
ragnatele, muffe, anfratti, cantine e vecchie
soffitte. Gli scarafaggi erano di mille tipi e
di mille sottospecie. Lo scarafaggio grigio,
ad esempio, era specializzato nell’assurgere
a posizioni importanti nella società attraverso il baratto della propria dignità e le relazioni con gli altri scarafaggi. Con questo
metodo, cioè attraverso le relazioni e il baratto della propria dignità, lo scarafaggio
grigio poteva indifferentemente diventare
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professore di Latino o di Matematica o di
Chirurgia generale senza avere conoscenze
particolari della materia da insegnare. Si sarebbe poi arrangiato sul momento, dall’alto
della posizione acquisita. Lo scarafaggio
giallo, per fare un altro esempio, faceva affari con gli scarafaggi grigi, e insieme si arricchivano. La bandiera dello scarafaggio
giallo era l’assoluta incertezza della legge,
che a loro dire autorizzava i furbi e gli spericolati a vivere calpestando ogni moralità e
ogni diritto. L’assoluta incertezza della legge li favoriva, anche se ogni tanto qualcuno
veniva torturato e spettacolarmente giustiziato per incutere terrore ai sudditi e ricordare loro che il potere, anche se gestito in
modo del tutto arbitrario, esisteva, e non
apparteneva certo ai sudditi. C’erano poi gli
scarafaggi viola. La loro forza consisteva
nel numero e nella disciplina militare. I loro
capi (scarafaggi grigi cangianti), forse ingannandoli, li avevano resi “coscienti” (così
dicevano) della loro assoluta mediocrità.
Erano convinti di non esser degni di niente
e di non valere niente singolarmente. Ma
tutti insieme, annientandosi ognuno nella
moltitudine viola, potevano dirsi orgogliosi
di essere qualcosa di socialmente rilevante.
La loro bandiera era la moralità. Si vantavano di osservare scrupolosamente tutte le
70
leggi, anche se umanamente era impossibile
persino conoscere tutte le infinite leggi del
regno. Erano obbedienti, felici di fare la
spesa allo stesso supermercato color viola,
fieri di fare ordinatamente la fila agli uffici
del regno che dava loro il pane.
Che piccolezze, che miseria nel regno delle
belle colline e del bel mare! E che grettezza,
che mancanza di amore, ovunque!
Finché un giorno poeti e navigatori si alzarono e spezzarono le proprie catene. Si presero per mano e inondarono di amore il regno delle belle colline e del bel mare. Il regno cadde su se stesso, miseria su miseria,
muffa su muffa, grettezza su grettezza. Gli
scarafaggi vennero travolti dal vento e dalle
onde del mare. I sopravvissuti, anche se bene accolti, morirono in seguito perché non
poterono sopportare il suono meraviglioso
della poesia.
Il regno cadde e fiorì un giardino di uomini
liberi.
71
INDICE
MEMORIE ALLEGORICHE
9
Onesti lavoratori
15
La sfida
17
Il giardino incantato
19
La fine di tutto
21
John Rambo
23
Cento piccoli mostri
26
La prova
INFINITO E BESTIA
33
Delio
35
Decomposizione
40
Guerra
45
Mezzogiorno di marzo
46
Necrophilus
50
Il bimbo
52
Gli ultimi anni del pianeta terra
LE RADICI DEL BENE
57
Le radici del bene
60
Il nuovo mondo
APPENDICE
63
Il condominio
67
La bimba dagli occhi gialli
69
Libertà
Stampato in Italia
nell’ottobre 2009 per conto di
LibertàEdizioni