Continueranno a insegnare ea fare ricerca?
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Continueranno a insegnare ea fare ricerca?
Continueranno a insegnare e a fare ricerca? Hanno falsificato i dati ma continueranno a insegnare e a fare ricerca. La commissione di indagine dell’Università Federico II di Napoli ha giudicato colpevoli di frode scientifica il professore di veterinaria Federico Infascelli e i co-firmatari di tre dei suoi studi (ma i bene informati sostengono che le ricerche manipolate sarebbero più numerose). In questo caso i dati falsi sono stati utilizzati in un dibattito al Senato per sostenere la tesi della pericolosità degli ogm, nonostante la comunità scientifica internazionale sia sempre concorde nel ritenerli altrettanto sicuri degli altri alimenti convenzionali. Vedi articolo Ricerche truccate sugli OGM: riconosciuta la frode, nessuna sanzione Il caso Infascelli, il professore ordinario dell’Università di Napoli Federico II che, per oltre un decennio, ha falsificato i suoi dati sugli OGM per dimostrarne una pericolosità inesistente, presenta oggi tre importanti novità. 1) la manipolazione dei dati è stata confermata I lavori della commissione d’indagine, voluta dal Rettore dell’Università Federico II, Gaetano Manfredi, dopo la segnalazione della Senatrice a Vita Elena Cattaneo, si sono conclusi. I tre membri, il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Lucio De Giovanni, il professore ordinario di Genetica medica Vincenzo Nigro e il direttore di ricerca dell’Istituto di genetica e biofisica del CNR Pasquale Verde, già a gennaio aveva riscontrato manipolazioni gravi – probabilmente intenzionali – finalizzate a dimostrare la pericolosità degli Ogm creando risultati sperimentali falsi. Tale giudizio è stato confermato anche dopo aver preso in esame la difesa del gruppo di Infascelli. Il condizionale dunque non è più d’obbligo. I dati pubblicati da Infascelli e collaboratori sono stati manipolati intenzionalmente. 2) sanzionare tutti per non sanzionare nessuno Il Rettore, dopo un passaggio in Senato accademico, ha deciso di sanzionare non solo Infascelli, ma anche gli altri dieci co-autori delle sue ricerche. Si tratta di 4 professori associati (Pietro Lombardi, Monica Isabella Cutrignelli, Nicola Mirabella e Serena Calabrò), 5 ricercatori (Raffaella Tudisco, Vincenzo Mastellone, Fulvia Bovera, Giovanni Piccolo e Maria Elena Pero) e un ordinario (Luigi Avallone)… Vedi articolo Insetti OGM per combattere malattie infettive e parassiti agricoli Un recente rapporto della Camera dei Lords invita il governo britannico a realizzare una prova in campo su insetti geneticamente modificati (OGM), essendo il Regno Unito leader mondiale in questo filone di ricerca. La tecnologia consiste nel rendere gli insetti incapaci, per esempio, di trasmettere malattie infettive come la malaria, il che potrebbe aiutare quasi la metà della popolazione mondiale che vive in zone a rischio. La tecnologia biotech potrebbe anche essere impiegata in agricoltura, per ridurre le popolazioni di insetti che minacciano gli animali e le coltivazioni, risparmiando così miliardi di sterline a livello globale. La tecnologia utilizza le tecniche di “gene drive”, che inducono il declino di una specie dannosa agendo direttamente sui suoi geni. La Commissione su scienza e tecnologia della Camera dei Lords ha prodotto un report, dopo un’indagine di quattro mesi sulla questione. Il report conclude che: 1. gli insetti OGM hanno un notevole potenziale per il controllo delle malattie trasmesse dagli insetti e contro i parassiti agricoli e che il Regno Unito, come leader mondiale in questo settore della ricerca, potrebbe trarne notevole potenziale economico; 2. la mancanza di linee guida internazionali sulla regolamentazione e la governance delle tecnologie di insetti OGM potrebbe influenzare di più i Paesi che possono beneficiare di tali tecnologie. Le principali raccomandazioni contenute nel report sono le seguenti: • Il Governo deve agire per garantire che l’attuale sistema di regolamentazione sia in grado di funzionare correttamente e deve impegnarsi a lavorare con l’UE per capire come migliorare il sistema. • La ricerca e il quadro normativo delle politiche UE sugli OGM devono essere validati, pertanto i Dipartimenti del governo dovrebbero lavorare insieme al fine di avviare una prova sul campo. • Accanto alle prove sul campo, il governo dovrebbe avviare un programma di impegno pubblico supportando la ricerca e la diffusione commerciale di questa tecnologia. • L’UE deve rivedere la sua regolamentazione, in modo da riflettere anche sui benefici e non solo sui rischi degli organismi OGM. Considerata l’evoluzione delle nuove tecniche di ingegneria genetica, nel lungo periodo la regolamentazione dovrebbe essere rivista sulla base delle caratteristiche della tecnologia, piuttosto che sul processo. Vedi articolo Ricerca, MIPAAF: finanziato piano per sviluppo biotecnologie sostenibili sulle principali colture italiane MARTINA: INVESTIAMO NELLA RICERCA PUBBLICA ANCHE IN CAMPO AGRICOLO Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali rende noto che sono stati stanziati 21 milioni di euro nella Legge di stabilità per il finanziamento del più importante progetto di ricerca pubblica fatto nel nostro Paese su una frontiera centrale come il miglioramento genetico attraverso biotecnologie sostenibili. Il piano è articolato su tre anni e la regia dell’operazione sarà gestita dal Crea, il centro di ricerca specializzato del Ministero delle politiche agricole, che è stato rinnovato e reso più efficiente negli ultimi 12 mesi. Proprio il nuovo Crea ha dentro di sé alcune delle più importanti professionalità italiane nel campo della ricerca agroalimentare, come ad esempio lo staff che è stato protagonista del sequenziamento del genoma del frumento con importanti riconoscimenti internazionali . “Vogliamo tutelare al massimo il nostro patrimonio unico di biodiversità – ha dichiarato il Ministro Maurizio Martina – che è il tratto distintivo che fa dell’Italia un punto di riferimento per il mondo a livello agroalimentare. Per farlo investiamo nella ricerca pubblica, concentrando le risorse su un programma di attività che punta su innovazione e sostenibilità. In pochi anni possiamo essere leader sul fronte dell’agricoltura di precisione e delle biotecnologie sostenibili legate al nostro patrimonio colturale. Non siamo all’anno zero e vogliamo mettere a frutto le grandi professionalità dei nostri ricercatori, riconosciute anche a livello internazionale. Investiamo sulle migliori tecnologie per tutelare le nostre produzioni principali, dalla vite all’olivo, dal pesco al pero. Obiettivi chiari e ben definiti, con un percorso che guarda al futuro della nostra agricoltura. Anche in Europa va condotta una discussione definitiva perché queste biotecnologie vengano pienamente riconosciute, anche sotto il profilo giuridico, diversamente dagli Ogm transgenici”. BIOTECNOLOGIE SOSTENIBILI Il Piano triennale prevede iniziative di ricerca in laboratorio, a legislazione vigente, con biotecnologie più moderne e sostenibili come il genome editing e la cisgenesi. Questi strumenti possono consentire infatti un impegno mirato di miglioramento genetico senza alterare le caratterizzazioni produttive del sistema agroalimentare, migliorandone le performance anche rispetto alla resistenza alle malattie. I ricercatori italiani sono impegnati su queste frontiere, ma fino ad oggi non erano mai state investite risorse da parte del Governo per finanziare questi studi. Verranno così potenziati i filoni di ricerca già attivi e soprattutto avviati nuovi percorsi sulle colture che caratterizzano di più l’agricoltura italiana. È bene ricordare che per la maggior parte dei prodotti servono ancora anni di studi in laboratorio, prima di poter arrivare eventualmente alla fase sperimentale in campo. Su questo approccio si sono espresse favorevolmente le principali società scientifiche italiane. Tra loro: Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Società Italiana di Genetica Agraria (SIGA), Società Italiana di Biologia Vegetale (SIBV), Società Italiana di Ortoflorofrutticoltura (SOI), Società Italiana di Agronomia (SIA), Società Italiana di Patologia Vegetale (SIPAV), Accademia dei Georgofili, Unione Nazionale delle Accademie per le Scienze Applicate allo Sviluppo dell’Agricoltura, alla Sicurezza Alimentare ed alla Tutela Ambientale (UNASA), Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani (ANBI). TRATTO ESSENZIALE DELLE BIOTECNOLOGIE SOSTENIBILI Il tratto essenziale che caratterizza queste biotecnologie è dato dal risultato finale ottenuto: i prodotti cisgenici o ottenuti per genome editing, non essendo realizzati con “inserimenti” estranei a quelli propri della specie, sono del tutto simili a prodotti ottenuti per incrocio tradizionale. Il miglioramento genetico vegetale rappresenta uno dei settori attraverso il quale è possibile aumentare competitività, efficienza produttiva e sostenibilità del sistema agricolo, favorendo l’adattamento ai cambiamenti climatici, e contribuendo alla qualità delle produzioni, sia con riferimento al potenziamento delle proprietà salutistiche e nutraceutiche, sia diminuendo la necessità di ricorrere all’uso dei fitofarmaci. LE COLTURE COINVOLTE Vite, olivo, pomodoro, pesco, albicocco, agrumi, frumento, melanzana, melo, ciliegio, pioppo. CASI DI APPLICAZIONE Negli ultimi anni, l’approccio cisgenico in Italia è stato utilizzato per migliorare la resistenza ai patogeni nel melo, creando ad esempio una mela che resiste alla ticchiolatura. Sempre con studi italiani siamo riusciti a modificare la forma e la crescita nel pioppo o a migliorare la qualità delle proteine nel grano duro, un elemento fondamentale per la nostra tradizione di produzione di pasta. Tutte applicazioni che potranno essere supportate attraverso ricerca in laboratorio in attesa che Bruxelles faccia chiarezza sulla diversità di queste biotecnologie rispetto al transgenico, aspetto che aprirebbe alla possibilità di sperimentazione in campo. L’Italia, insieme all’Olanda e diversi Stati membri, ha già sollevato più volte il tema all’interno del Consiglio dei Ministri dell’Ue e la Commissione europea ha annunciato un primo documento tecnico al riguardo per inizio anno. BIOTECNOLOGIE SOSTENIBILI DIVERSE DA TRANSGENICO Diversi documenti redatti da organizzazioni scientifiche europee indicano che i prodotti delle tecniche di cisgenesi e genome editing non rientrano nella casistica degli OGM transgenici, dal momento che esse non sono diverse da quelle ottenibili attraverso un miglioramento genetico convenzionale. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno già dichiarato che le piante ottenute attraverso il genome editing non sono da considerare OGM – e allo stesso modo si è recentemente espressa anche la Svezia con riferimento a due specifici prodotti – ed è già stato redatto un parere dell’EFSA nel 2012 su richiesta dell’UE in cui si conclude che le piante ottenute per cisgenesi non presentano differenze rispetto a quelle costituite attraverso un normale processo di incrocio. Vedi articolo Lettera del presidente della Società Italiana di Genetica Agraria (SIGA) al Ministro Martina Ill. mo Signor Ministro, a seguito del Suo intervento pubblicato su “l’Espresso”, desideriamo esprimerLe il nostro apprezzamento per la Sua dichiarata intenzionedi sostenere, immaginiamo con finanziamenti pubblici, la ricerca su alcune tecnologie di miglioramento genetico delle piante agrarie, nella fattispecie le tecnologie cisgeniche e di genome editing. Riteniamo anche di poter interpretare la Sua intenzione di sollecitare ”in Europa una discussione definitiva perché queste tecnologie vengano pienamente riconosciute” come un’apertura ad adottare per tali prodotti regolamentazioni simili a quelle già applicate a nuove varietà ottenute con il miglioramento genetico tradizionale, permettendone quindi la coltivazione, una volta ottenuta l’approvazione da parte delle autorità EU competenti. Prendiamo atto, pur senza condividerla, della Sua posizione, comunque già nota, di chiusura totale verso le colture OGM finora commercializzateche appare motivata da considerazioni esclusivamente di tipo politico. In qualità di Società scientifica desideriamo ricordare ancora una volta che, come è stato anche testimoniato in diversi convegni tenutisi presso EXPO, decine di anni di studi non hanno individuato alcuna motivazione scientifica che possa giustificare un divieto alla coltivazione degli OGM in quanto tali e che i presunti i pericoli per la salute, la biodiversità , l’agricoltura familiare o di piccola scala sono del tutto infondati. E’ invece convinzione largamente condivisa dagli scienziati, dalla FAO e dall’OMS, che ogni alimento e prodotto agricolo, che sia tradizionale, biologico o OGM, vada giudicato e autorizzato o meno dopo valutazione delle sue caratteristiche verificate e non in base al metodo utilizzato per produrlo, siano esse le tecnologie che producono quelli che Ella definisce “OGM tradizionali” sia quelle più recenti che intende sostenere. Immaginiamo anche che Ella sia a conoscenza delle sempre più numerose piante GM prodotte per fini umanitari da ricercatori pubblici o da piccole imprese, per migliorare la qualità degli alimenti. Ribadiamo infine la nostra forte richiesta di individuare e rendere disponibili alla comunità scientifica i siti in Italia in cui poter fare sperimentazione in pieno campo di piante geneticamente modificate con tutte le diverse tecnologie. Ciò è fondamentale per poter valutare la funzione dei diversi geni studiati nelle condizioni di coltivazione e successivamente perseguire il loro utilizzo nel miglioramento genetico con le tecnologie ammesse dalla normativa del momento. In questo senso chiediamo fermamente che anche in Italia si possa seguire l’esempio di Paesi come Svizzera e Germania che, pur non permettendo la coltivazione di piante transgeniche comunque ottenute, hanno deciso di non chiudere anche alla sperimentazione per fini di ricerca, realizzando siti che permettono di valutare in campo piante GM di ogni tipo nella massima sicurezza, né hanno smesso di finanziare gli studi in questo settore, lanciando anzi ambiziosi programmi nazionali di ricerca competitiva dotati di cospicui finanziamenti e rivolti all’intera comunità scientifica di riferimento dei rispettivi Paesi. Siamo sempre disponibili per ogni ulteriore chiarimento e contributo sull’argomento sopra esposto. Distinti saluti. Il Presidente Prof. Michele Morgante Vedi lettera: Lettera di Morgante Da Strampelli a Borlaug: una nuova Rivoluzione Verde da Expo 2015? La nutrizione del Pianeta è un argomento che coinvolge tutta la comunità internazionale ed ognuno si sente di poter dire la sua, nella grande kermessemilanese di Expo 2015. L’agricoltura è sentita come qualcosa di dominio pubblico, che è nel DNA di ognuno, come un’attività produttiva rivolta al bene comune, applicata al fine esclusivo di soddisfare il consumatore e garantire la sicurezza alimentare della popolazione. Solleva contrapposizioni quando tende invece a risolversi nel rappresentare situazioni esclusive di businnes e di interesse privato. Sulla base di questa discriminante sembrano contrapporsi le diverse valutazioni sulla possibile agricoltura sostenibile del futuro, nella percezione largamente condivisa che sia ancora il potenziale di crescita della produttività agricola la principale possibile risposta all’aumentata domanda di cibo, collegata all’incremento demografico, per una popolazione del Pianeta raddoppiata dal 1950 ad oggi e prevista di oltre 9 miliardi nel 2050. Incremento dei consumi alimentari atteso anche con una diversificazione degli stessi, in relazione al maggior potere di spesa delle popolazioni in via di sviluppo, all’aumento della classe media in una popolazione più urbanizzata (70% nel 2050 rispetto al 50% di oggi), ed alla riduzione generalizzata dei bacini rurali, con la previsione di 2 miliardi in meno di persone attive in agricoltura (da “Corsa alla terra” di Paolo De Castro, Donzelli editore 2012). Tali previsioni rientravano già nel documento che la FAO ha presentato nella Conferenza del 2009, dal titolo “How to feed the World in 2050”, e nel quale viene valutato nell’ordine del 70% l’aumento del fabbisogno globale in derrate agricole, in un più rigido contesto di sostenibilità ambientale che imporrà una sensibile riduzione degli input chimici ed energetici, riproponendo pertanto le condizioni per affrontare una nuova fase della Rivoluzione Verde, che sarà chiamata a sviluppare i temi innovativi delle Agroenergie e delle Biotecnologie, e che potrà interessare anche il Continente Africano, dove la popolazione raddoppierà per il 2050, passando a 2 miliardi di persone. Dal confronto in atto si dovrebbe trovare una ragione per la coesistenza di un’agricoltura intensiva, legata al progresso scientifico, per una naturale sintesi di genetica, chimica e meccanica, in grado di massimizzare le rese produttive, ed altre forme di agricoltura meno produttiva, ma richieste da un’opinione pubblica sempre più attratta dalle suggestioni del “ritorno alla terra” e dal fascino primitivo di determinate discipline, come quelle dell’agricoltura biologica e biodinamica, mediaticamente sempre molto esposte e sostenute. Il dibattito in corso in questi primi mesi nell’ambito di Expo 2015 non sembra ancora entrato nel vivo di queste tematiche, privilegiando la presentazione delle eccellenze alimentari dei diversi Paesi partecipanti, gli aspetti più innovativi in tema di agrotecnica sostenibile e sfumando sugli aspetti più controversi, come quelli degli OGM e delle colture dedicate per la produzione di energia verde da fonte rinnovabile, in competizione con la produzione di cibo. Gli aspetti che hanno caratterizzato la Rivoluzione Verde del Novecento, con il grande incremento delle rese nel frumento attraverso l’applicazione delle nuove acquisizioni scientifiche in campo genetico, chimico e meccanico, senza il condizionamento di riserve ideologiche, d’influenze geopolitiche di parte o di particolari suggestioni alternative, dovrebbero essere riconsiderati, ripercorrendo le strade percorse dagli illuminati agronomi che l’hanno a loro tempo realizzata. L’agricoltura intensiva, oggi oggetto di riserve anche scientifiche, si basa su una vasta ed interdisciplinare gamma di conoscenze in continua evoluzione. Essa è stata travolgente nell’ultimo secolo e gli scienziati e gli agronomi che se ne sono occupati e se ne occupano, vanno considerati come protagonisti di progresso scientifico e tecnologico, oltre che come operatori di pace e pianificatori di orizzonti produttivi sostenibili. Lo testimonia l’assegnazione del premio Nobel “per la Pace” nel 1970 a Norman Borlaug. E’ universalmente riconosciuto che tale Premio sarebbe sicuramente toccato anche a Nazareno Strampelli qualche decina di anni prima e probabilmente non fu favorito dal fatto di aver raggiunto la massima notorietà nel corso del Ventennio fascista e mediante l’autarchica “battaglia del grano”, che ebbe comunque il grande merito granaria. di portare l’Italia all’autosufficienza In realtà la figura di questo grande genetista agrario, di cui l’anno prossimo ricorre il 160° dalla nascita a Crispiero di Macerata, è rimasta in ombra, ma egli è stato l’autentico artefice della prima fase della Rivoluzione Verde, dall’inizio del Ventesimo secolo a tutti gli Anni Trenta. Per oltre 10.000 anni, gli agricoltori si erano adoperati, con scarso successo, per aumentare la produttività del grano; finalmente, agli inizi del secolo scorso, quando in Italia la produzione media per ettaro oscillava tra 4 e 6 quintali, l’agronomo Nazareno Strampelli, nato a Crispiero di Castelraimondo e laureato in Scienze Agrarie a Pisa, cominciò a incrociare diverse varietà di grano con l’obiettivo di ottenere piante più precoci, più resistenti alle malattie e, soprattutto, più basse e, quindi, più resistenti al vento e alla pioggia. Di particolare aiuto fu una varietà di grano giapponese (Aka Komugi) che nel 1913 gli consentì di effetture l’incrocio più significativo e di selezionare e ottenere grani bassi, precoci, resistenti alle malattie e più produttivi (oltre 60-70/quintali ad ettaro). Mediante i suoi incroci egli combinò in un solo tipo, una sola varietà, la biodiversità che proveniva da grani francesi, olandesi, inglesi e giapponesi. Fu l’inizio di una rivoluzione che si sarebbe estesa in tutto il mondo: i pro-nipoti dei grani di Strampelli, forniscono attualmente due terzi dei 6 miliardi di quintali di grano prodotto, annualmente, nel mondo. Tale rivoluzione, accompagnata dall’analogo sviluppo delle altre colture, è stata favorita dalla meccanizzazione agricola e dall’utilizzo della chimica in agricoltura. La straordinaria e più conosciuta Rivoluzione Verde di Norman Borlaug, tanto simile e altrettanto diversa per storia, attori e luoghi, avverrà soltanto 40 anni più tardi. (Luigi Rossi, in stampa, EXPO2015) Le nuove varietà costituite da Nazareno Strampelli, presso la Regia Stazione Sperimentale di Granicoltura di Rieti, e diffuse dal 1920, furono definite “I grani della Vittoria” ed erano rappresentate dalle varietà Ardito, Mentana, Villa Glori e Damiano Chiesa ( dal nome del martire irredentista sepolto con Cesare Battisti e Fabio Filzi al Castello del Buon Consiglio di Trento). E proprio da questo materiale genetico e dalla tecnica dell’ibridazione dei grani collaudata da Strampelli, ebbe l’opportunità di muoversi Norman Borlaug, l’indiscusso protagonista della seconda fase della Rivoluzione Verde del XX secolo, la sola riconosciuta ufficialmente a livello mondiale. Nato nel 1914 in una fattoria dello Iowa da una famiglia di agricoltori di origini norvegesi, s’impose all’attenzione per le Sue qualità di agronomo e di pianificatore, ottenendo prestigiosi incarichi che gli consentirono, in poco più di un ventennio, di esaltare le rese produttive del frumento in Paesi popolosi come Messico, Pakistan ed India, rendendoli autosufficienti per il fabbisogno alimentare ed affrancandoli dalle ricorrenti carestie e dalla fame. Per questi meriti, universalmente riconosciuti, all’agronomo era stato assegnato nel 1970 il Premio Nobel per la Pace e, successivamente in Patria, gli venne conferita la Medaglia d’Oro del Congresso, una delle massime onorificenze negli USA. All’epoca non esistevano infatti riserve sull’operato di Borlaug mentre oggi, a quarant’anni di distanza, le cose sembrano cambiate. Nella ricorrenza del Centenario dalla nascita, l‘agronomo era stato ricordato in Messico, a Ciudad Obregon dove aveva a lungo operato, con manifestazioni e convegni dedicati alla Sua opera scientifica ed ai Suoi studi, dedicati anche agli Organismi Geneticamente Modificati, di cui era stato un convinto sostenitore, coerente con la Sua storia professionale di scienziato. In occasione della sua scomparsa, avvenuta il 12 settembre 2009, un blogger di Matera, agronomo libero professionista, ambientalista dichiarato e sedicente marxista puro, aveva trovato il modo di ricordarlo nella Rete sottolineandone sempre gli straordinari meriti, sotto l’aspetto umano e professionale,“nonostante il sostegno agli OGM”. Per questa sua posizione sono insorte di recente anche altre riserve sull’opera del Premio Nobel, espresse da determinate correnti di pensiero che considerano inopportuna l’ estensione dei Suoi metodi alla futura nuova frontiera della Rivoluzione Verde, il Continente africano, dopo i “danni ambientali e sociali che gli stessi ebbero a determinare in Pakistan ed in India ( sono messi in discussione l’impatto ambientale del consumo d’acqua e dell’impiego di fertilizzanti da un lato, con l’arricchimento dei grandi agricoltori ed impoverimento dei piccoli dall’altro)”. E’significativa anche la motivazione che ne determinò l’inizio, sviluppandosi a partire dal Messico nel 1944, nell’esecuzione del Mexican Government-Rockefeller Foundation Agricultural Program, nato per iniziativa del Vicepresidente USA Henry Wallace, ex Segretario all’Agricoltura e fondatore nel 1926 della Hi-Bred Corn Company, divenuta poi Pioneer-Hi- Bred International. Wallace era stato in Messico nel 1940 ed aveva potuto constatare le misere condizioni delle popolazioni a sud del Rio Grande, anche a causa di inadeguate produzioni della coltura del mais, la principale risorsa alimentare del Paese. Il Vicepresidente Wallace riuscì a coinvolgere nelle problematiche della nutrizione la Fondazione Rockfeller, all’epoca impegnata esclusivamente in campo medico, promuovendo l’invio in Messico di alcuni esperti dal cui Rapporto nacque il Progetto d’intervento che venne affidato a Norman Borlaug. Lo stesso premio Nobel, in visita a Roma in occasione di una Conferenza della FAO, ebbe modo di confermare il supporto fondamentale fornitogli dall’opera di Nazareno Strampelli, di cui dichiarò esplicitamente di aver utilizzato le tecniche di ibridazione e le collaudate varietà di grano costituite a Rieti, in particolare la varietà Mentana che ha rappresentato il parentale sul quale Borlaug fondò lo sviluppo di altre numerose varietà, nel corso della prima fase messicana del Suo lavoro, dal 1944 al 1956, quando permise al Messico di quadruplicare la produzione di frumento. Queste importanti testimonianze sono state raccolte da Benito Giorgi, ex ricercatore dell’ENEA e Presidente del Comitato Scientifico del CERMIS, il Centro Ricerche e Sperimentazione per il Miglioramento Vegetale intitolato a Nazareno Strampelli, in una pubblicazione che ripercorre la storia del rivoluzionario miglioramento genetico della coltura del frumento nel mondo, nel corso del XX secolo. Il grano è una coltura strategica per la nutrizione umana, passata in pochi anni dalle rese di 5/10 q.li/ha di fine Ottocento ai 60/80 q.li/ha, potenziando le risorse alimentari mondiali in misura da poter sostenere la concomitante, esplosiva crescita demografica del Pianeta, per una popolazione passata dai 2 miliardi di fine Ottocento agli oltre 7 miliardi attuali, smentendo la teoria Maltusiana delle inevitabili cicliche crisi alimentari del Pianeta, con arresto dello sviluppo, per la supposta incapacità di adeguare la produzione agricola globale all’incremento demografico. Straordinario poi il contributo lasciato dal loro operato alle Scienze Agronomiche ed al Miglioramento Genetico del frumento, quello tenero in particolare ma, in un secondo tempo, anche per il grano duro, partendo dalla varietà Senatore Cappelli, registrato nel 1915 ma ancora oggi d’attualità per le sue qualità merceologiche nutrizionali e salutistiche. Dalla stessa varietà, Borlaug seppe ottenere altre linee molto produttive, trasferendovi il gene della bassa taglia dal genotipo di tenero Norin 10, proveniente dal Giappone. Incrociando tali linnee con il mutante Cp B144 del Senatore Cappelli, i genetisti dell’ex CNEN (ora ENEA) riuscirono a selezionare in Italia la prestigiosa varietà Creso. Per quanto riguarda infine il contributo scientifico di Borlaug, merita di essere ricordata la presentazione finale dei risultati delle sue ricerche, al 3° Simposio sulla Genetica del Frumento, tenutosi a Canberra (Australia) nel 1968, che rappresenta per un agronomo quanto di più affascinante e coinvolgente si possa trovare in una relazione scientifica, caratterizzata inoltre da valenze strategiche di grande prospettiva per l’agricoltura mondiale, capace all’epoca di essere protagonista di una svolta epocale per la nutrizione del Pianeta. Tale svolta attende un rinnovamento all’inizio del Terzo Millennio, per un progetto di agricoltura innovativa e sostenibile, fondata su un rilancio delle rese produttive. Anche se il dibattito internazionale sulla sicurezza alimentare nel futuro del Pianeta continua ad essere condizionato da posizioni ideologiche e da politiche contradditorie (alcuni ambientalisti oggi celebrano la rivoluzione verde di Strampelli e criticano invece duramente quella di Borlaug!), riuscendo a mettere in minoranza, agli occhi dell’opinione pubblica, anche il parere del mondo scientifico ai più alti livelli: si avverte la mancanza di politiche libere da condizionamenti e capaci di promuovere il lavoro di agronomi quali Strampelli e Borlaug. L’Expo milanese sembra ancora non essere entrato nel vivo di queste contrapposizioni. Eppure la strada segnata da chi ci ha preceduto appare chiara ed evidente, mentre sussistono tutte le condizioni per pervenire ad un progetto globale che, nel rispetto della sostenibilità ambientale e nell’impegno di ridurre l’attuale concentrazione di CO2 nell’atmosfera, per contrastare il riscaldamento globale in atto del pianeta ed i cambiamenti climatici, possa aumentare le rese della produzione agricola e sostenere i nuovi fabbisogni nutrizionali ed energetici. Portogruaro, 20 luglio 2015 Meglio una cisgenica bella mela Riaccendere la fiammella della conoscenza “Non c’è ricerca sugli Ogm se non è in pieno campo. Nella scienza vincono solo l’intelligenza, le idee, l’ingegno e non la forza. E basterebbe davvero poco: basterebbe, cioè, raccogliere la raccomandazione dell’Unione europea a sostenere la ricerca pubblica in campo pieno su OGM e non OGM, per ridare speranza ad un settore dell’economia italiana che è strategico rispetto al futuro. Se questo accadesse sarebbe anche un segnale della volontà del nostro Paese di riaccendere la fiammella della conoscenza su questo argomento”. Elena Cattaneo Vedi articolo di Antonio Pascale: cisgenica Meglio una bella mela Ecco gli OGM naturali Un numeroso gruppo di studiosi, appartenenti a Istituzioni scientifiche di Ghent (Belgio), Lima (Perù), Beijing (Cina), Griffin (USA) ha pubblicato (su “PNAS” early edition, dell’Accademia Americana delle Scienze) una documentata ricerca che dimostra la presenza nel genoma delle patate dolci coltivate (Ipomoea batatas) di alcune sequenze geniche trasferitevi da frammenti del DNA di Agrobacterium rhizogenes e A. tumefaciens. Un’attesa e importante prova scientifica che dimostra l’esistenza di spontanee transgenesi con le quali madre natura ha arricchito la biodiversità evolutiva, attraverso gli stessi meccanismi usati per ottenere preziosi e mirati OGM. Non ci meraviglieremmo se qualche potentato del nostro Paese chiedesse ora di privarci anche delle patate dolci, magari con una precauzionale proibizione di coltivarle. Mentre è possibile che vengano individuate analoghe situazioni genomiche in altre specie. Articolo PNAS Vedi articolo originale Non c’è ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo Intervento della sen. Elena Cattaneo il 13 maggio 2015, in Senato. Gentile Presidente, cari colleghi, ho chiesto di intervenire in questa discussione per approfondire con voi un aspetto del disegno di legge connesso alla direttiva europea n. 412 del 2015, che lascia liberi gli Stati di scegliere in autonomia se coltivare o meno OGM. Io voglio trattare un tema che è rappresentato in uno specifico ordine del giorno, tangente ma autonomo rispetto alla coltivazione, ovvero la raccomandazione richiamata nei considerata della stessa direttiva di promuovere la ricerca scientifica sugli OGM nella sua completezza. Mi rendo conto che discutere di OGM è difficilissimo: al solo pronunciarne il nome, scattano riflessi condizionati di rifiuto, che li associano alle multinazionali, alle grandi monoculture, a rischi ignoti per la salute e per l’ambiente, al timore della contaminazione delle coltivazioni tradizionali. Mi chiedo se possiamo provare a non farlo per i prossimi quindici minuti, perchè vorrei ragionare con voi di ricerca pubblica in pieno campo sugli OGM, cioé quella ricerca pubblica che si fa in tanti Paesi europei, anche quelli che sono contro la coltivazione commerciale degli OGM. Vorrei parlare con voi di ricerca pubblica basata sulle biotecnologie per tutelare le nostre tipicità, per proteggere le nostre piante nei campi in cui sono coltivate, per ridurre l’impiego di dannosi pesticidi, per sviluppare le biotecnologie su semi non brevettati e complessivamente consentire all’agricoltura italiana di rimanere o diventare più competitiva. Questo il mio specifico intento con voi oggi. Gli OGM sono piante geneticamente modificate, come tutte quelle che l’uomo ha addomesticato dall’invenzione dell’agricoltura in poi. Si tratta di una tecnologia che non è più nuova, lo sappiamo tutti. Fino ad ora questa tecnologia spostava un gene d’interesse da una specie – ad esempio da un batterio resistente ad un parassita – ad un’altra specie – ad esempio il mais – per conferire ai tanti tipi diversi di mais resistenza a quei dannosi parassiti e quindi ridurre notevolmente l’impiego di pericolosi pesticidi. Oggi le biotecnologie fanno molto di più e, direi, molto meglio e non possiamo stare a guardare: spostano geni di interesse tra piante della stessa specie (un gene di un melo resistente spostato in un altro melo) oppure spengono un gene in un’altra pianta allo scopo di migliorarla, quindi non introducono niente di nuovo dall’esterno. Ho passato dei mesi a studiare questi aspetti, a studiare come i ricercatori agrari in altri Paesi fanno ricerca su queste piante, usando le biotecnologie, con quali obiettivi. I loro Governi sostengono la loro sperimentazione in campo aperto. Ho studiato le tecniche per produrli, le procedure di protezione dei campi sperimentali, affinché niente esca e niente entri, i dati sulla sicurezza, il loro uso nell’alimentazione, l’impatto ambientale. Studiando questi temi ho dovuto anche affrontare le contraddizioni del nostro Paese e confesso di essermi appassionata all’argomento, senza avere alcun diretto interesse. Mi interessa, infatti, capire come si affronta, in una società laica, un tema percepito come controverso e pieno di contraddizioni, che tocca le nostre emozioni più profonde, le nostre sensibilità più estreme, come la dipendenza dal cibo e dal buon cibo, la tradizione italiana e la nostra idea del «naturale quindi buono»; un tema davvero culturalmente affascinante nel quale dobbiamo inserire i fatti. Come vi ho anticipato, l’ordine del giorno che ho presentato non riguarda la coltivazione commerciale, ma quello che si può studiare a monte di tutto ciò. La stessa direttiva, nel lasciare liberi gli Stati, raccomanda l’investimento in ricerca. L’ordine del giorno mira a dare la possibilità ai nostri ricercatori di studiare le nostre piante, mira a lasciare liberi i nostri ricercatori pubblici, insieme agli agricoltori, di capire come evitare che le nostre piante, quelle che ci interessano e che abbiamo nei nostri campi, siano devastate, alle nostre latitudini, da tanti parassiti. Sto parlando – vorrei chiarirlo ancora una volta – non della generazione di presunte piante omologate e standardizzate, prodotte con semi di multinazionali, ma, al contrario, di come le biotecnologie, soprattutto le nuove biotecnologie, non OGM (cioè quelle che non spostano geni da una specie all’altra, ma che usano geni della stessa specie) possano aiutare a tutelare la tipicità dei prodotti e delle piante italiani, che altrimenti – lo sapete bene – sarebbero presto persi (molti sono già persi). Sto anche parlando – e mi permetto di parlare anche di questo – del tema della libertà di ricerca; della libertà di ricerca su OGM in pieno campo, quella che fanno i tanti Paesi europei che non hanno mai impedito tale attività. Da noi, invece, i progetti dei nostri ricercatori universitari o degli istituti di ricerca controllati dal Ministero dell’agricoltura sono chiusi da quindici anni nei cassetti. Dunque, noi paghiamo scienziati per scoprire, inventare, insegnare e applicare cose di utilità nazionale che, allo stesso tempo, impediamo loro di realizzare. Mi rendo conto che questo blocco alla ricerca pubblica è frutto dell’avversione cresciuta negli anni verso le coltivazioni commerciali degli OGM e verso le multinazionali che producono i semi OGM. Ma, attenzione onorevoli senatori, sono le stesse multinazionali da cui ormai siamo dipendenti per i semi non OGM. Mi rendo anche conto che l’avversione è verso l’idea di questa omologazione, verso il controllo totale sulla produzione di beni vitali, ma la coltivazione commerciale e la ricerca pubblica sulle piante sono due cose diverse. Si può bloccare la prima pagando un caro prezzo economico – e non mi cimento su questo – ma non ci si può vietare di studiare qualcosa nella misura in cui le procedure sono sicure (e lo sono). Vietare la ricerca, colleghi, è come censurare la libertà d’espressione: si lede un diritto fondamentale. Vorrei essere chiara ancora una volta su un concetto: impedire le sperimentazioni in pieno campo su OGM significa impedire la ricerca pubblica, perchè l’unica ricerca vera su OGM è quella che sperimenta le migliorie genetiche nelle condizioni di campo che attaccano quella pianta. L’Italia ha fatto ciò per tredici anni, ha impedito la conoscenza vietando la sperimentazione in campo aperto, mentre nel resto dell’Europa sono state condotte migliaia di sperimentazioni di OGM in pieno campo, anche in Paesi come la Germania e la Francia che osteggiano la coltivazione commerciale. Guardate che la posizione del nostro Paese diventa ancora più singolare e addirittura contraddittoria quando si scopre che, mentre si vieta la ricerca biotecnologica pubblica sulle piante in generale, importiamo e mangiamo gli OGM – per così dire – classici e ormai di vecchia generazione. Questa è la prima contraddizione dalla quale trae spunto l’ordine del giorno sulla ricerca pubblica: li vietiamo, ma li importiamo; li mangiamo in modo massiccio da vent’anni, ma non li studiamo. Tra l’altro, se li mangiamo, la prima cosa che mi viene in mente è che, quindi, non è vero che sono pericolosi per la salute e che possiamo farne a meno. Non si può mentire. Al Paese bisogna dire che non li vogliamo coltivare, ma li acquistiamo a tonnellate; nutriamo gli allevamenti e poi finiscono nel nostro piatto, nelle forme di parmigiano reggiano o nel prosciutto di San Daniele. Questa contraddizione viaggia insieme a un altro paradosso che mi interessa per l’ordine del giorno. Abbiamo il terrore del monopolio delle multinazionali (sempre quelle a cui diamo il monopolio anche dei semi non OGM, non nascondiamolo mai questo), ma allo stesso tempo lasciamo loro campo libero non investendo in ricerca, nel senso che non facciamo proprio niente per limitare il loro monopolio. Non muoviamo un passo nella ricerca di forme di tutela e di rafforzamento dei nostri semi e delle nostre tipicità. Non abbiamo quasi neanche più un’industria sementiera nel nostro Paese. Vietiamo cose che importiamo. Mangiamo ciò che non studiamo. Ci consegniamo alle multinazionali, non producendo innovazione. Vengo ora alla seconda contraddizione, che è ancora più rilevante per l’ordine del giorno. Le nostre piante sono invase da parassiti e noi stiamo perdendo delle tipicità agricole di cui andiamo fieri nel mondo, perchè non vogliamo studiare, sperimentare e usare le bio-tecnologie OGM e non OGM. Tutti o quasi tutti i semi che piantiamo in Italia sono progettati all’estero, anche le piante da orto. Scusate se mi ripeto, onorevoli senatori, ma questo ordine del giorno non chiede di sostenere la coltivazione commerciale, che lasciamo agli altri, alla Spagna, da cui poi acquisteremo. Lo scopo non è sdoganare OGM prodotti dalle multinazionali, non è avere mele omologate. L’obiettivo è l’opposto: sollecitare con voi una riflessione pubblica sulle contraddizioni della nostra politica in materia, per capire se la ricerca pubblica che impiega le biotecnologie agrarie può esserci utile, almeno per proteggere e mantenere le nostre piante tipiche. Ne stiamo perdendo troppe. Esistono progetti da anni chiusi nei cassetti, che dovreste leggere, ve ne racconto uno. Si tratta di un OGM pubblico, tutto italiano, persino ecosostenibile. L’Italia – come sappiamo bene – esporta mele in tutta Europa: sono dei prodotti tipici, dalle splendide mele dei nostri colleghi trentini a quelle della Valle d’Aosta, alle mele annurche campane. Tra l’altro, nel nostro Paese queste piantagioni hanno anche una rilevanza ambientale e culturale notevole e, alcune, arrivano dal Medioevo. Tuttavia, il clima è cambiato e in tutto il mondo – ripeto in tutto il mondo – i meli sono attaccati da un flagello, un fungo responsabile della più grave e diffusa malattia delle mele: la ticchiolatura, che danneggia la pianta e produce delle macchie sul frutto, rendendolo non più commerciale. Lo scorso anno in una Regione d’Italia sono stati effettuati più di 30 trattamenti di pesticidi per difendere le mele dai parassiti. Anche le mele biologiche sono trattate con le sostanze chimiche consentite per questo tipo di coltivazioni. Si tratta dei sali di rame, un metallo pesante, tossico, che resta nel terreno per decenni. Non sarebbe bello avere delle mele che resistono alla malattia, cosicchè si ridurrebbe drasticamente il numero di trattamenti con agrofarmaci? Ecco la storia del professor Silviero Sansavini dell’università di Bologna, un distinto signore, ora professore emerito, che ha piu` di settant’anni. Insieme al professor Tartarini scopre che una mela selvatica è immune dalla ticchiolatura perchè porta un gene, che si chiama Vf, che la protegge ed è un dono della natura. E` una selezione naturale. I ricercatori cercano di incrociare questa mela selvatica con le mele che noi siamo abituati a mangiare, ma non ci riescono perchè, durante l’incrocio, non passa solo il gene di interesse, ma possono anche migliaia o centinaia di altri geni che tolgono il valore organolettico a quella mela. Sansavini e Tartarini, in un laboratorio universitario, prendono una mela della varietà Gala, una delle favorite dagli italiani, che deve però essere spruzzata con decine di trattamenti, e vi impiantano quel gene, quello che la rende immune dal parassita. Erano gli anni 1992-1993, e l’Italia era all’avanguardia nel mondo nel campo delle biotecnologie agrarie. I nostri genetisti agrari tenevano ancora alta nel mondo la bandiera di Nazareno Strampelli, universalmente riconosciuto come il fondatore del miglioramento delle piante su basi scientifiche. Ma torniamo alle mele. Dopo pochi anni, le prime prove sulla mela Gala, fatte su meli coltivati in serra, danno i risultati sperati e, nel 2002, il nostro Paese è il primo al mondo ad arrivare ad un risultato desiderato da tutti. A Bologna ci sono meli geneticamente modificati, che ridurrebbero l’impatto ambientale, se coltivati, ma stanno in un cassetto. Dobbiamo aver paura di questa mela? Viene chiamata cisgenica, perchè si sposta un gene da una pianta ad un’altra pianta della stessa specie. Non è progettata per essere venduta insieme ad un pesticida. Anzi, ne riduce fortemente la necessita`, e la pianta non deve essere riacquistata tutti gli anni dall’agricoltore. Il professore Sansavini avrebbe potuto brevettare la tecnologia di trasferimento del gene, ma non ha voluto. Ha pensato bene che non fosse giusto e l’ha reso di dominio pubblico. Chiunque nel mondo può utilizzare quel metodo per produrre mele resistenti alla malattia. E` una bellissima storia, che però finisce qui, con la soddisfazione di un professore di essere stato il primo al mondo a realizzare un risultato a cui tutti ambivano, ma anche con la lacerazione professionale di non avere mai visto la sua scoperta in campo, perchè il Ministero dell’agricoltura, dal 2002, vieta la sperimentazione in campo aperto. E sapete cosa hanno fatto gli altri? Olanda e Svizzera hanno sviluppato l’uso del gene scoperto da Sansavini, hanno avuto l’autorizzazione alla coltivazione in esterno, con tutte le norme di sicurezza, e ora hanno campi di meli resistenti alla malattia. Sono tanti gli esempi di questo tipo. Il professor Eddo Rugini, dell’Università della Tuscia, ha assistito impotente, il 12 giugno 2012, al rogo di trent’anni di conoscenza: la distruzione delle sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificati per resistere ad alcuni parassiti o per tollerare meglio la siccità. Decenni di ricerca sono stati distrutti dalla mancanza di rinnovo di un’autorizzazione. Vorrei citare anche Francesco Sala, scomparso nel 2011, grande genetista della mia università, la Statale di Milano. Non potendo sperimentare in campo i suoi meli valdostani resistenti al parassita melolontha, una larva che mangia le radici, e il suo riso Carnaroli, oramai rarissimo per l’attacco di un fungo, si dedicò allo sviluppo di pioppi resistenti agli insetti, che riuscì finalmente a vedere coltivati, ma non in Italia, in Cina, dove ve ne sono centinaia di migliaia di ettari. E possiamo anche citare il pomodoro San Marzano, che ormai non esiste più. Era una tipicità di cui la Campania era il maggior produttore in Italia. Ma la pianta è attaccata da virus con sigle orribili: CMV, TSWV, CAMV. Non esistono preparati antivirali. Negli anni 2000 alcuni ricercatori stavano lavorando su geni capaci di dare resistenza a questo attacco virale. Il progetto è nel cassetto, e del nostro pomodoro tipico San Marzano non vi è ormai più alcuna traccia. Tra gli anni Novanta e Duemila, noi nel settore delle biotecnologie in prodotti tipici, per proteggerli: pomodori, kiwi, peperoni, riso, vite, eravamo all’avanguardia agricoltura sui nostri mele, ulivi, ciliegi, melanzana e tanto altro; prodotti nostri, della nostra agricoltura, che non interessano alcuna multinazionale. Si aspettava solo l’emanazione di un regolamento dei Ministeri competenti per poter effettuare, in tutta sicurezza, le sperimentazioni in campo. Esattamente come un farmaco salvavita deve essere sperimentato sull’uomo per poterne verificare sicurezza ed efficacia. Ma dal Duemila la politica italiana decide di bloccare tutto. Il regolamento non fu mai emanato. Sapete qual è stato, secondo me, l’errore principale? Il fatto di non rendersi conto che i nostri ricercatori, nei nostri centri di ricerca pubblici, stavano lavorando su esigenze nostre, tutte italiane. Un senatore mi ha chiesto – e lo ringrazio, perchè la domanda è giusta e pertinente – come si affronta il timore della contaminazione, conseguente alla sperimentazione in campo aperto con OGM. La domanda sorge spontanea, se non si è specializzati sull’argomento o se non lo si ha studiato, ma ciascuno di noi studia argomenti diversi. Questo timore si annulla, come hanno fatto gli altri 19 Paesi europei che sperimentano in campo aperto, applicando i protocolli rigorosi che riducono a zero il rischio di contaminazione. Questi protocolli contemplano soluzioni tecniche che gli specialisti conoscono bene e sono applicati nei Paesi che confinano con noi e fanno ricerca in campo aperto. E si tratta anche di questioni tecniche, con problematiche e soluzioni gestite in maniera assolutamente diversa rispetto alla coltivazione commerciale, anche a livello di legislazione europea. Il raccolto di un campo sperimentale – teniamolo bene a mente – che sia OGM o sperimentale di altro tipo, non può mai entrare nella filiera commerciale o alimentare, ma resta a disposizione solamente per le analisi scientifiche dei laboratori di ricerca che compiono quella sperimentazione. Le due filiere sono strutturalmente separate per regola ed è scontato che tale separazione vada ribadita e sottolineata nelle normali procedure di autorizzazione. Sapete, colleghi, non sarebbe la prima volta che sperimenteremmo piante OGM in campo aperto in Italia. Tra il 1992 e il 2004 abbiamo coltivato in campo aperto quasi 300 tipologie di piante OGM diverse, senza leggi speciali e senza inventarsi nulla di particolare, ma semplicemente osservando le norme e i protocolli definiti pianta per pianta. Abbiamo messo in campo decine di piante OGM di pomodoro, melanzana, cicoria, vite, fragola, grano, mais o insalata, senza che ci fosse il minimo problema. Nella seconda metà degli anni Novanta in Italia si coltivarono anche decine di migliaia di campi di mais OGM, senza che ne sia rimasta traccia a livello sanitario e ambientale. Chiudo, gentili colleghi, sottolineando che forse oggi abbiamo l’opportunità di richiamare l’attenzione del Governo verso una questione che – a mio avviso – deve essere, per coerenza, risolta. Vi ripeto che non c’è ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo. La scienza ha una qualità formidabile, che io non mi trattengo mai dal raccontare ai giovani. Non conosce le espressioni «è troppo tardi», «abbiamo perso il treno» o «cosa potremo mai fare noi con poche risorse di fronte ai giganti dei mondo». Nella scienza vincono solo l’intelligenza, le idee, l’ingegno e non la forza. E basterebbe davvero poco: basterebbe, cioè, raccogliere la raccomandazione dell’Unione europea a sostenere la ricerca pubblica in campo pieno su OGM e non OGM, per ridare speranza ad un settore dell’economia italiana che è strategico rispetto al futuro. Se questo accadesse sarebbe anche un segnale della volontà del nostro Paese di riaccendere la fiammella della conoscenza su questo argomento. La disunione europea Il TTIP (partenariato transatlantico per commercio e investimenti) é in corso di negoziato tra Usa e U.E. dal 2013. L’obiettivo è quello di facilitare i rapporti commerciali tra i due mercati, eliminando o riducendo gli ostacoli oggi frapposti da regolamenti diversi. Secondo notizie di stampa, mercoledì scorso la U.E. avrebbe proposto che ciascuno dei Paesi membri europei possa autonomamente decidere se autorizzare non solo la coltivazione dei pochi OGM già ammessi da Bruxelles, ma anche l’importazione di prodotti OGM, invece già largamente attuata dai Paesi membri per coprire il fabbisogno di buona parte dei mangimi per i nostri allevamenti. La proposta sarebbe partita dal Presidente della Commissione Europea (Jeanne Claude Junker), ma dovrebbe essere ratificata dal Parlamento e dal Consiglio Europeo. Essa comunque contraddice la stessa esistenza di un Mercato Comune Europeo e quindi inficia dalle basi il TTIP e i negoziatori che rappresentano la U.E. Sarebbe, infatti, come dire che i 27 singoli Stati della U.E. possano contrattare autonomamente con gli Usa (e allora per analogia, forse anche con i loro singoli Stati?). Confuse complicazioni che ci riportano indietro nel tempo anziché avanzare verso il futuro. Gli Usa ritengono che questi atteggiamenti non abbiano alcuna ragione di essere, ma possano essere dettati solo da interessi locali, politici e commerciali. Essi rafforzano i dubbi sul Patto Transatlantico e sulla volontà degli Europei di raggiungere accordi seri. Gli ambasciatori a Bruxelles di Stati Uniti, Argentina, Brasile e Canada (Paesi esportatori di OGM in Europa), avrebbero già scritto alla Commissione U.E., mettendo anche in dubbio che la proposta formulata rispetti le regole del WTO (Organizzazione Mondiale per il Commercio). Purtroppo, gli errori sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Aver evitato di adottare un doveroso indirizzo unico per tutta la U.E., in merito alla coltivazione degli OGM, ritengo sia stato un errore e una manifestazione di debolezza. Era più facile “lavarsene le mani”, lasciando libera scelta ai singoli Stati membri. Si è quindi semplicemente pensato di poter ora fare altrettanto per le importazioni dei relativi prodotti, trascurando le conseguenze. Anche ammettendo, infatti, l’ipotesi che la controparte Usa potesse accogliere una tale proposta complicata, non si sono valutati i possibili effetti negativi in Europa. Alcuni Paesi che continuano a vietarne la coltivazione (ma non le massicce importazioni dei rispettivi prodotti), avendo la possibilità di redimersi da tale incoerenza non esiterebbero a vietare anche le importazioni, sempre senza alcun’altra motivazione scientifica e sempre a danno degli agricoltori che si troverebbero in serie difficoltà anche per mantenere i propri allevamenti. L’Europa ha bisogno di trovare compattezza se vuole avere peso nella geopolitica attuale. Ha comunque bisogno di essere guidata da vertici autorevoli che sappiano assumere la responsabilità di decisioni lungimiranti, anche se non ancora del tutto comprese e condivise. Le manifestazioni di disunione, soprattutto quando riguardano rapporti internazionali, non giovano a nessuno, ma offrono, anche al proprio interno, l’immagine di una Europa troppo poco solidale e costruttiva. The European Disunion The negotiations for the TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) have been going on between the United States and the E. U. since 2013. The objective is to facilitate business relations between the two markets, eliminating or reducing the barriers interposed today by the different regulations. According to press reports, last Wednesday the E.U. proposed that each of the European member countries independently decide whether to allow not only the cultivation of the only GMO (a maize) already accepted by Brussels, but also the importation of GMO products, a course of action already widely implemented. For example, 90% of the soya beans and other animal feeds we import today are produced using GMOs in various American countries. The proposal seems to have come from the President of the European Commission (Jeanne Claude Junker), but must be ratified by the European Parliament and Council. It contradicts the existence of a Common European Market and therefore invalidates TTIP and the negotiators representing the E.U. The United States think such an attitude has no scientific reason to exist but only political and commercial ideologies or interests. It reinforces doubts regarding the Transatlantic Pact and the European willingness to reach a serious agreement. Unfortunately one thing leads to another, even mistakes. I maintain that it was a mistake and a display of weakness to have refrained from adopting a proper single policy for the entire E.U. as regards the GMO cultivation. Finding it more convenient to leave the choice to individual member states, they plainly thought the same approach could be taken for the importation of related products, irresponsibly disregarding the consequences. Vedi articolo