Continueranno a insegnare ea fare ricerca?

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Continueranno a insegnare ea fare ricerca?
Continueranno a insegnare e a
fare ricerca?
Hanno falsificato i dati ma continueranno a insegnare e a fare
ricerca. La commissione di indagine dell’Università Federico
II di Napoli ha giudicato colpevoli di frode scientifica il
professore di veterinaria Federico Infascelli e i co-firmatari
di tre dei suoi studi (ma i bene informati sostengono che le
ricerche manipolate sarebbero più numerose).
In questo caso i dati falsi sono stati utilizzati in un
dibattito al Senato per sostenere la tesi della pericolosità
degli ogm, nonostante la comunità scientifica internazionale
sia sempre concorde nel ritenerli altrettanto sicuri degli
altri alimenti convenzionali.
Vedi articolo
Ricerche truccate sugli OGM:
riconosciuta
la
frode,
nessuna sanzione
Il caso Infascelli, il professore ordinario dell’Università di
Napoli Federico II che, per oltre un decennio, ha falsificato
i suoi dati sugli OGM per dimostrarne una pericolosità
inesistente, presenta oggi tre importanti novità.
1) la manipolazione dei dati è stata confermata
I lavori della commissione d’indagine, voluta dal Rettore
dell’Università Federico II, Gaetano Manfredi, dopo la
segnalazione della Senatrice a Vita Elena Cattaneo, si sono
conclusi. I tre membri, il direttore del Dipartimento di
Giurisprudenza Lucio De Giovanni, il professore ordinario di
Genetica medica Vincenzo Nigro e il direttore di ricerca
dell’Istituto di genetica e biofisica del CNR Pasquale Verde,
già a gennaio aveva riscontrato manipolazioni gravi –
probabilmente intenzionali – finalizzate a dimostrare la
pericolosità degli Ogm creando risultati sperimentali falsi.
Tale giudizio è stato confermato anche dopo aver preso in
esame la difesa del gruppo di Infascelli. Il condizionale
dunque non è più d’obbligo. I dati pubblicati da Infascelli e
collaboratori sono stati manipolati intenzionalmente.
2) sanzionare tutti per non sanzionare nessuno
Il Rettore, dopo un passaggio in Senato accademico, ha deciso
di sanzionare non solo Infascelli, ma anche gli altri dieci
co-autori delle sue ricerche. Si tratta di 4 professori
associati (Pietro Lombardi, Monica Isabella Cutrignelli,
Nicola Mirabella e Serena Calabrò), 5 ricercatori (Raffaella
Tudisco, Vincenzo Mastellone, Fulvia Bovera, Giovanni Piccolo
e Maria Elena Pero) e un ordinario (Luigi Avallone)…
Vedi articolo
Insetti OGM per combattere
malattie
infettive
e
parassiti agricoli
Un recente rapporto della Camera dei Lords invita il governo
britannico a realizzare una prova in campo su insetti
geneticamente modificati (OGM), essendo il Regno Unito leader
mondiale in questo filone di ricerca.
La tecnologia consiste nel rendere gli insetti incapaci, per
esempio, di trasmettere malattie infettive come la malaria, il
che potrebbe aiutare quasi la metà della popolazione mondiale
che vive in zone a rischio.
La tecnologia biotech potrebbe anche essere impiegata in
agricoltura, per ridurre le popolazioni di insetti che
minacciano gli animali e le coltivazioni, risparmiando così
miliardi di sterline a livello globale.
La tecnologia utilizza le tecniche di “gene drive”, che
inducono il declino di una specie dannosa agendo direttamente
sui suoi geni.
La Commissione su scienza e tecnologia della Camera dei Lords
ha prodotto un report, dopo un’indagine di quattro mesi sulla
questione.
Il report conclude che:
1. gli insetti OGM hanno un notevole potenziale per il
controllo delle malattie trasmesse dagli insetti e contro i
parassiti agricoli e che il Regno Unito, come leader mondiale
in questo settore della ricerca, potrebbe trarne notevole
potenziale economico;
2. la mancanza di linee guida internazionali sulla
regolamentazione e la governance delle tecnologie di insetti
OGM potrebbe influenzare di più i Paesi che possono
beneficiare di tali tecnologie.
Le principali raccomandazioni contenute nel report sono le
seguenti:
• Il Governo deve agire per garantire che l’attuale sistema di
regolamentazione sia in grado di funzionare correttamente e
deve impegnarsi a lavorare con l’UE per capire come migliorare
il sistema.
• La ricerca e il quadro normativo delle politiche UE sugli
OGM devono essere validati, pertanto i Dipartimenti del
governo dovrebbero lavorare insieme al fine di avviare una
prova sul campo.
• Accanto alle prove sul campo, il governo dovrebbe avviare un
programma di impegno pubblico supportando la ricerca e la
diffusione commerciale di questa tecnologia.
• L’UE deve rivedere la sua regolamentazione, in modo da
riflettere anche sui benefici e non solo sui rischi degli
organismi OGM. Considerata l’evoluzione delle nuove tecniche
di ingegneria genetica, nel lungo periodo la regolamentazione
dovrebbe essere rivista sulla base delle caratteristiche della
tecnologia, piuttosto che sul processo.
Vedi articolo
Ricerca, MIPAAF: finanziato
piano
per
sviluppo
biotecnologie
sostenibili
sulle
principali
colture
italiane
MARTINA: INVESTIAMO NELLA RICERCA PUBBLICA ANCHE IN CAMPO
AGRICOLO
Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali
rende noto che sono stati stanziati 21 milioni di euro nella
Legge di stabilità per il finanziamento del più importante
progetto di ricerca pubblica fatto nel nostro Paese su una
frontiera centrale come il miglioramento genetico attraverso
biotecnologie sostenibili.
Il piano è articolato su tre anni e la regia dell’operazione
sarà gestita dal Crea, il centro di ricerca specializzato del
Ministero delle politiche agricole, che è stato rinnovato e
reso più efficiente negli ultimi 12 mesi. Proprio il nuovo
Crea ha dentro di sé alcune delle più importanti
professionalità italiane nel campo della ricerca
agroalimentare, come ad esempio lo staff che è stato
protagonista del sequenziamento del genoma del frumento con
importanti riconoscimenti internazionali .
“Vogliamo tutelare al massimo il nostro patrimonio unico di
biodiversità – ha dichiarato il Ministro Maurizio Martina –
che è il tratto distintivo che fa dell’Italia un punto di
riferimento per il mondo a livello agroalimentare. Per farlo
investiamo nella ricerca pubblica, concentrando le risorse su
un programma di attività che punta su innovazione e
sostenibilità. In pochi anni possiamo essere leader sul fronte
dell’agricoltura di precisione e delle biotecnologie
sostenibili legate al nostro patrimonio colturale. Non siamo
all’anno zero e vogliamo mettere a frutto le grandi
professionalità dei nostri ricercatori, riconosciute anche a
livello internazionale. Investiamo sulle migliori tecnologie
per tutelare le nostre produzioni principali, dalla vite
all’olivo, dal pesco al pero. Obiettivi chiari e ben definiti,
con un percorso che guarda al futuro della nostra agricoltura.
Anche in Europa va condotta una discussione definitiva perché
queste biotecnologie vengano pienamente riconosciute, anche
sotto il profilo giuridico, diversamente dagli Ogm
transgenici”.
BIOTECNOLOGIE SOSTENIBILI
Il Piano triennale prevede iniziative di ricerca in
laboratorio, a legislazione vigente, con biotecnologie più
moderne e sostenibili come il genome editing e la cisgenesi.
Questi strumenti possono consentire infatti un impegno mirato
di miglioramento genetico senza alterare le caratterizzazioni
produttive del sistema agroalimentare, migliorandone le
performance anche rispetto alla resistenza alle malattie.
I ricercatori italiani sono impegnati su queste frontiere, ma
fino ad oggi non erano mai state investite risorse da parte
del Governo per finanziare questi studi. Verranno così
potenziati i filoni di ricerca già attivi e soprattutto
avviati nuovi percorsi sulle colture che caratterizzano di più
l’agricoltura italiana. È bene ricordare che per la maggior
parte dei prodotti servono ancora anni di studi in
laboratorio, prima di poter arrivare eventualmente alla fase
sperimentale in campo.
Su questo approccio si sono espresse favorevolmente le
principali società scientifiche italiane. Tra loro: Consiglio
Nazionale delle Ricerche (CNR), Società Italiana di Genetica
Agraria (SIGA), Società Italiana di Biologia Vegetale (SIBV),
Società Italiana di Ortoflorofrutticoltura (SOI), Società
Italiana di Agronomia (SIA), Società Italiana di Patologia
Vegetale (SIPAV), Accademia dei Georgofili, Unione Nazionale
delle Accademie per le Scienze Applicate allo Sviluppo
dell’Agricoltura, alla Sicurezza Alimentare ed alla Tutela
Ambientale (UNASA), Associazione Nazionale Biotecnologi
Italiani (ANBI).
TRATTO ESSENZIALE DELLE BIOTECNOLOGIE SOSTENIBILI Il tratto
essenziale che caratterizza queste biotecnologie è dato dal
risultato finale ottenuto: i prodotti cisgenici o ottenuti per
genome editing, non essendo realizzati con “inserimenti”
estranei a quelli propri della specie, sono del tutto simili a
prodotti ottenuti per incrocio tradizionale.
Il miglioramento genetico vegetale rappresenta uno dei settori
attraverso il quale è possibile aumentare competitività,
efficienza produttiva e sostenibilità del sistema agricolo,
favorendo l’adattamento ai cambiamenti climatici, e
contribuendo alla qualità delle produzioni, sia con
riferimento al potenziamento delle proprietà salutistiche e
nutraceutiche, sia diminuendo la necessità di ricorrere
all’uso dei fitofarmaci.
LE COLTURE COINVOLTE
Vite, olivo, pomodoro, pesco, albicocco, agrumi, frumento,
melanzana, melo, ciliegio, pioppo.
CASI DI APPLICAZIONE
Negli ultimi anni, l’approccio cisgenico in Italia è stato
utilizzato per migliorare la resistenza ai patogeni nel melo,
creando ad esempio una mela che resiste alla ticchiolatura.
Sempre con studi italiani siamo riusciti a modificare la forma
e la crescita nel pioppo o a migliorare la qualità delle
proteine nel grano duro, un elemento fondamentale per la
nostra tradizione di produzione di pasta.
Tutte applicazioni che potranno essere supportate attraverso
ricerca in laboratorio in attesa che Bruxelles faccia
chiarezza sulla diversità di queste biotecnologie rispetto al
transgenico, aspetto che aprirebbe alla possibilità di
sperimentazione in campo. L’Italia, insieme all’Olanda e
diversi Stati membri, ha già sollevato più volte il tema
all’interno del Consiglio dei Ministri dell’Ue e la
Commissione europea ha annunciato un primo documento tecnico
al riguardo per inizio anno.
BIOTECNOLOGIE SOSTENIBILI DIVERSE DA TRANSGENICO Diversi
documenti redatti da organizzazioni scientifiche europee
indicano che i prodotti delle tecniche di cisgenesi e genome
editing non rientrano nella casistica degli OGM transgenici,
dal momento che esse non sono diverse da quelle ottenibili
attraverso un miglioramento genetico convenzionale.
Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno già dichiarato che le
piante ottenute attraverso il genome editing non sono da
considerare OGM – e allo stesso modo si è recentemente
espressa anche la Svezia con riferimento a due specifici
prodotti – ed è già stato redatto un parere dell’EFSA nel 2012
su richiesta dell’UE in cui si conclude che le piante ottenute
per cisgenesi non presentano differenze rispetto a quelle
costituite attraverso un normale processo di incrocio.
Vedi articolo
Lettera del presidente della
Società Italiana di Genetica
Agraria (SIGA) al Ministro
Martina
Ill. mo Signor Ministro,
a seguito del Suo intervento pubblicato su “l’Espresso”,
desideriamo esprimerLe il nostro apprezzamento per la Sua
dichiarata intenzionedi sostenere, immaginiamo con
finanziamenti pubblici, la ricerca su alcune tecnologie di
miglioramento genetico delle piante agrarie, nella fattispecie
le tecnologie cisgeniche e di genome editing. Riteniamo anche
di poter interpretare la Sua intenzione di sollecitare ”in
Europa una discussione definitiva perché queste tecnologie
vengano pienamente riconosciute” come un’apertura ad adottare
per tali prodotti regolamentazioni simili a quelle già
applicate a nuove varietà ottenute con il miglioramento
genetico tradizionale, permettendone quindi la coltivazione,
una volta ottenuta l’approvazione da parte delle autorità EU
competenti.
Prendiamo atto, pur senza condividerla, della Sua posizione,
comunque già nota, di chiusura totale verso le colture OGM
finora commercializzateche appare motivata da considerazioni
esclusivamente di tipo politico. In qualità di Società
scientifica desideriamo ricordare ancora una volta che, come è
stato anche testimoniato in diversi convegni tenutisi presso
EXPO, decine di anni di studi non hanno individuato alcuna
motivazione scientifica che possa giustificare un divieto alla
coltivazione degli OGM in quanto tali e che i presunti i
pericoli per la salute, la biodiversità , l’agricoltura
familiare o di piccola scala sono del tutto infondati. E’
invece convinzione largamente condivisa dagli scienziati,
dalla FAO e dall’OMS, che ogni alimento e prodotto agricolo,
che sia tradizionale, biologico o OGM, vada giudicato e
autorizzato o meno dopo valutazione delle sue caratteristiche
verificate e non in base al metodo utilizzato per produrlo,
siano esse le tecnologie che producono quelli che Ella
definisce “OGM tradizionali” sia quelle più recenti che
intende sostenere. Immaginiamo anche che Ella sia a conoscenza
delle sempre più numerose piante GM prodotte per fini
umanitari da ricercatori pubblici o da piccole imprese, per
migliorare la qualità degli alimenti.
Ribadiamo infine la nostra forte richiesta di individuare e
rendere disponibili alla comunità scientifica i siti in Italia
in cui poter fare sperimentazione in pieno campo di piante
geneticamente modificate con tutte le diverse tecnologie. Ciò
è fondamentale per poter valutare la funzione dei diversi geni
studiati nelle condizioni di coltivazione e successivamente
perseguire il loro utilizzo nel miglioramento genetico con le
tecnologie ammesse dalla normativa del momento. In questo
senso chiediamo fermamente che anche in Italia si possa
seguire l’esempio di Paesi come Svizzera e Germania che, pur
non permettendo la coltivazione di piante transgeniche
comunque ottenute, hanno deciso di non chiudere anche alla
sperimentazione per fini di ricerca, realizzando siti che
permettono di valutare in campo piante GM di ogni tipo nella
massima sicurezza, né hanno smesso di finanziare gli studi in
questo settore, lanciando anzi ambiziosi programmi nazionali
di ricerca competitiva dotati di cospicui finanziamenti e
rivolti all’intera comunità scientifica di riferimento dei
rispettivi Paesi.
Siamo sempre disponibili per ogni ulteriore chiarimento e
contributo sull’argomento sopra esposto.
Distinti saluti.
Il Presidente
Prof. Michele Morgante
Vedi lettera: Lettera di Morgante
Da Strampelli a Borlaug: una
nuova Rivoluzione Verde da
Expo 2015?
La nutrizione del Pianeta è un argomento che coinvolge tutta
la comunità internazionale ed ognuno si sente di poter dire la
sua, nella grande kermessemilanese di Expo 2015. L’agricoltura
è sentita come qualcosa di dominio pubblico, che è nel DNA di
ognuno, come un’attività produttiva rivolta al bene comune,
applicata al fine esclusivo di soddisfare il consumatore e
garantire la sicurezza alimentare della popolazione. Solleva
contrapposizioni quando tende invece a risolversi
nel
rappresentare situazioni esclusive di businnes e di interesse
privato.
Sulla base di questa discriminante sembrano contrapporsi le
diverse valutazioni sulla possibile agricoltura sostenibile
del futuro, nella percezione largamente condivisa che sia
ancora il potenziale di crescita della produttività agricola
la principale possibile risposta all’aumentata domanda di
cibo, collegata all’incremento demografico, per una
popolazione del Pianeta raddoppiata dal 1950 ad oggi e
prevista di oltre 9 miliardi nel 2050. Incremento dei consumi
alimentari atteso anche con una diversificazione degli stessi,
in relazione al maggior potere di spesa delle popolazioni in
via di sviluppo, all’aumento della classe media in una
popolazione più urbanizzata (70% nel 2050 rispetto al 50% di
oggi), ed alla riduzione generalizzata dei bacini rurali, con
la previsione di 2 miliardi in meno di persone attive in
agricoltura (da “Corsa alla terra” di Paolo De Castro,
Donzelli editore 2012).
Tali previsioni rientravano già nel documento che la FAO ha
presentato nella Conferenza del 2009, dal titolo “How to feed
the World in 2050”, e nel quale viene valutato nell’ordine del
70% l’aumento del fabbisogno globale in derrate agricole, in
un più rigido contesto di sostenibilità ambientale che imporrà
una sensibile riduzione degli input chimici ed energetici,
riproponendo pertanto le condizioni per affrontare una nuova
fase della Rivoluzione Verde, che sarà chiamata a sviluppare i
temi innovativi delle Agroenergie e delle Biotecnologie, e che
potrà interessare anche il Continente Africano, dove la
popolazione raddoppierà per il 2050, passando a 2 miliardi di
persone.
Dal confronto in atto si dovrebbe trovare una ragione per la
coesistenza di un’agricoltura intensiva, legata al progresso
scientifico, per una naturale sintesi di genetica, chimica e
meccanica, in grado di massimizzare le rese produttive, ed
altre forme di agricoltura meno produttiva, ma richieste da
un’opinione pubblica sempre più attratta dalle suggestioni del
“ritorno alla terra” e dal fascino primitivo di determinate
discipline, come quelle dell’agricoltura biologica e
biodinamica, mediaticamente sempre molto esposte e sostenute.
Il dibattito in corso in questi primi mesi nell’ambito di
Expo 2015 non sembra ancora entrato nel vivo di queste
tematiche, privilegiando la presentazione delle eccellenze
alimentari dei diversi Paesi partecipanti, gli aspetti più
innovativi in tema di agrotecnica sostenibile e sfumando sugli
aspetti più controversi, come quelli degli OGM e delle colture
dedicate per la produzione di energia verde da fonte
rinnovabile, in competizione con la produzione di cibo.
Gli aspetti che hanno caratterizzato la Rivoluzione Verde
del Novecento, con il grande incremento delle rese nel
frumento attraverso l’applicazione delle nuove acquisizioni
scientifiche in campo genetico, chimico e meccanico, senza il
condizionamento di riserve ideologiche, d’influenze
geopolitiche di parte o di particolari suggestioni
alternative, dovrebbero essere riconsiderati, ripercorrendo le
strade percorse dagli illuminati agronomi che l’hanno a loro
tempo realizzata.
L’agricoltura intensiva, oggi oggetto di riserve anche
scientifiche, si basa su una vasta ed interdisciplinare gamma
di conoscenze in continua evoluzione. Essa è stata travolgente
nell’ultimo secolo e gli scienziati e gli agronomi che se ne
sono occupati e se ne occupano,
vanno considerati come
protagonisti di progresso scientifico e tecnologico, oltre che
come operatori di pace e pianificatori di orizzonti produttivi
sostenibili. Lo testimonia l’assegnazione del premio Nobel
“per la Pace” nel 1970 a Norman Borlaug. E’ universalmente
riconosciuto che tale Premio sarebbe sicuramente toccato anche
a Nazareno Strampelli qualche decina di anni prima e
probabilmente non fu favorito dal fatto di aver raggiunto la
massima notorietà nel corso del Ventennio fascista e mediante
l’autarchica “battaglia del grano”, che ebbe comunque il
grande merito
granaria.
di
portare
l’Italia
all’autosufficienza
In realtà la figura di questo grande genetista agrario, di
cui l’anno prossimo ricorre il 160° dalla nascita a Crispiero
di Macerata, è rimasta in ombra, ma egli è stato l’autentico
artefice della prima fase della Rivoluzione Verde, dall’inizio
del Ventesimo secolo a tutti gli Anni Trenta. Per oltre 10.000
anni, gli agricoltori si erano adoperati, con scarso successo,
per aumentare la produttività del grano; finalmente, agli
inizi del secolo scorso, quando in Italia la produzione media
per ettaro oscillava tra 4 e 6 quintali, l’agronomo Nazareno
Strampelli, nato a Crispiero di Castelraimondo e laureato in
Scienze Agrarie a Pisa, cominciò a incrociare diverse varietà
di grano con l’obiettivo di ottenere piante più precoci, più
resistenti alle malattie e, soprattutto, più basse e, quindi,
più resistenti al vento e alla pioggia.
Di particolare aiuto fu una varietà di grano giapponese (Aka
Komugi) che nel 1913 gli consentì di effetture l’incrocio più
significativo e di selezionare e ottenere grani bassi,
precoci, resistenti alle malattie e più produttivi (oltre
60-70/quintali ad ettaro). Mediante i suoi incroci egli
combinò in un solo tipo, una sola varietà, la biodiversità che
proveniva da grani francesi, olandesi, inglesi e giapponesi.
Fu l’inizio di una rivoluzione che si sarebbe estesa in tutto
il mondo: i pro-nipoti dei grani di Strampelli, forniscono
attualmente due terzi dei 6 miliardi di quintali di grano
prodotto, annualmente, nel mondo. Tale rivoluzione,
accompagnata dall’analogo sviluppo delle altre colture, è
stata favorita dalla meccanizzazione agricola e dall’utilizzo
della chimica in agricoltura. La straordinaria e più
conosciuta Rivoluzione Verde di Norman Borlaug, tanto simile e
altrettanto diversa per storia, attori e luoghi, avverrà
soltanto 40 anni più tardi. (Luigi Rossi, in stampa, EXPO2015)
Le nuove varietà costituite da Nazareno Strampelli, presso la
Regia Stazione Sperimentale di Granicoltura di Rieti, e
diffuse dal 1920, furono definite “I grani della Vittoria” ed
erano rappresentate dalle varietà Ardito, Mentana, Villa Glori
e Damiano Chiesa ( dal nome del martire irredentista sepolto
con Cesare Battisti e Fabio Filzi al Castello del Buon
Consiglio di Trento). E proprio da questo materiale genetico e
dalla tecnica dell’ibridazione dei grani collaudata da
Strampelli, ebbe l’opportunità di muoversi Norman Borlaug,
l’indiscusso protagonista della seconda fase della Rivoluzione
Verde del XX secolo, la sola riconosciuta ufficialmente a
livello mondiale.
Nato nel 1914 in una fattoria dello Iowa da una famiglia di
agricoltori di origini norvegesi, s’impose all’attenzione per
le Sue qualità di agronomo e di pianificatore, ottenendo
prestigiosi incarichi che gli consentirono, in poco più di
un ventennio, di esaltare le rese produttive del frumento in
Paesi popolosi come Messico, Pakistan ed India, rendendoli
autosufficienti per il fabbisogno alimentare ed affrancandoli
dalle ricorrenti carestie e dalla fame.
Per questi meriti, universalmente riconosciuti, all’agronomo
era stato assegnato nel 1970 il Premio Nobel per la Pace e,
successivamente in Patria, gli venne conferita la Medaglia
d’Oro del Congresso, una delle massime onorificenze
negli
USA. All’epoca non esistevano infatti riserve sull’operato di
Borlaug mentre oggi, a quarant’anni di distanza, le cose
sembrano cambiate. Nella ricorrenza del Centenario dalla
nascita, l‘agronomo era stato ricordato in Messico, a Ciudad
Obregon dove aveva a lungo operato, con manifestazioni e
convegni dedicati alla Sua opera scientifica ed ai Suoi studi,
dedicati anche agli Organismi Geneticamente Modificati, di cui
era stato un convinto sostenitore, coerente con la Sua storia
professionale di scienziato.
In occasione della sua scomparsa, avvenuta il 12 settembre
2009, un blogger di Matera, agronomo libero professionista,
ambientalista dichiarato e sedicente marxista puro, aveva
trovato il modo di ricordarlo nella Rete sottolineandone
sempre gli straordinari meriti, sotto l’aspetto umano e
professionale,“nonostante il sostegno agli OGM”. Per questa
sua posizione sono insorte di recente anche altre riserve
sull’opera del Premio Nobel, espresse da determinate correnti
di pensiero che considerano inopportuna l’ estensione dei Suoi
metodi alla futura nuova frontiera della Rivoluzione Verde, il
Continente africano, dopo i “danni ambientali e sociali che
gli stessi ebbero a determinare in Pakistan ed in India (
sono messi in discussione l’impatto ambientale del consumo
d’acqua e dell’impiego di fertilizzanti da un lato, con
l’arricchimento dei grandi agricoltori ed impoverimento dei
piccoli dall’altro)”.
E’significativa anche la motivazione che ne determinò
l’inizio, sviluppandosi a
partire dal Messico nel 1944,
nell’esecuzione del Mexican Government-Rockefeller Foundation
Agricultural Program, nato per iniziativa del Vicepresidente
USA Henry Wallace, ex Segretario all’Agricoltura e fondatore
nel 1926 della Hi-Bred Corn Company, divenuta poi Pioneer-Hi-
Bred International. Wallace era stato in Messico nel 1940 ed
aveva potuto constatare le misere condizioni delle popolazioni
a sud del Rio Grande, anche a causa di inadeguate produzioni
della coltura del mais, la principale risorsa alimentare del
Paese.
Il Vicepresidente Wallace riuscì a coinvolgere nelle
problematiche della nutrizione la Fondazione Rockfeller,
all’epoca impegnata esclusivamente in campo medico,
promuovendo l’invio in Messico di alcuni esperti dal cui
Rapporto nacque il Progetto d’intervento che venne affidato a
Norman Borlaug. Lo stesso premio Nobel, in visita a Roma in
occasione di una Conferenza della FAO, ebbe modo di confermare
il supporto fondamentale fornitogli dall’opera di Nazareno
Strampelli, di cui dichiarò esplicitamente di aver utilizzato
le tecniche di ibridazione e le collaudate varietà di grano
costituite a Rieti, in particolare la varietà Mentana che ha
rappresentato il parentale sul quale Borlaug fondò lo sviluppo
di altre numerose varietà, nel corso della prima fase
messicana del Suo lavoro, dal 1944 al 1956, quando permise al
Messico di quadruplicare la produzione di frumento.
Queste importanti testimonianze sono state raccolte da Benito
Giorgi, ex ricercatore dell’ENEA e Presidente del Comitato
Scientifico del CERMIS, il Centro Ricerche e Sperimentazione
per il Miglioramento Vegetale intitolato a Nazareno
Strampelli, in una pubblicazione che ripercorre la storia del
rivoluzionario miglioramento genetico della coltura del
frumento nel mondo, nel corso
del XX secolo.
Il grano è una coltura strategica per la nutrizione umana,
passata in pochi anni dalle rese di 5/10 q.li/ha di fine
Ottocento ai 60/80 q.li/ha, potenziando le risorse alimentari
mondiali in misura da poter sostenere la concomitante,
esplosiva crescita demografica del Pianeta, per una
popolazione passata dai 2 miliardi di fine Ottocento agli
oltre 7 miliardi attuali, smentendo la teoria Maltusiana delle
inevitabili cicliche crisi alimentari del Pianeta, con arresto
dello sviluppo, per la supposta incapacità di adeguare la
produzione agricola globale all’incremento demografico.
Straordinario poi il contributo lasciato dal loro operato
alle Scienze Agronomiche ed al Miglioramento Genetico del
frumento, quello tenero in particolare ma, in un secondo
tempo, anche per il grano duro, partendo dalla varietà
Senatore Cappelli, registrato nel 1915 ma
ancora oggi
d’attualità per le sue qualità merceologiche nutrizionali e
salutistiche. Dalla stessa varietà, Borlaug seppe ottenere
altre linee molto produttive, trasferendovi il gene della
bassa taglia dal genotipo di tenero Norin 10, proveniente dal
Giappone. Incrociando tali linnee con il mutante Cp B144 del
Senatore Cappelli, i genetisti dell’ex CNEN (ora ENEA)
riuscirono a selezionare in Italia la prestigiosa varietà
Creso.
Per quanto riguarda infine il contributo scientifico di
Borlaug, merita di essere ricordata la presentazione finale
dei risultati delle sue ricerche, al 3° Simposio sulla
Genetica del Frumento, tenutosi a Canberra (Australia) nel
1968, che rappresenta per un agronomo quanto di più
affascinante e coinvolgente si possa trovare in una relazione
scientifica, caratterizzata inoltre da valenze strategiche di
grande prospettiva per l’agricoltura mondiale, capace
all’epoca di essere protagonista di una svolta epocale per la
nutrizione del Pianeta.
Tale svolta attende un rinnovamento all’inizio del Terzo
Millennio, per un progetto di agricoltura innovativa e
sostenibile, fondata su un rilancio delle rese produttive.
Anche se il dibattito internazionale sulla sicurezza
alimentare nel futuro del Pianeta continua ad essere
condizionato da posizioni ideologiche e da politiche
contradditorie (alcuni ambientalisti oggi celebrano la
rivoluzione verde di Strampelli e criticano invece duramente
quella di Borlaug!), riuscendo a mettere in minoranza, agli
occhi dell’opinione pubblica, anche il parere del mondo
scientifico ai più alti livelli: si avverte la mancanza di
politiche libere da condizionamenti e capaci di promuovere il
lavoro di agronomi quali Strampelli e Borlaug.
L’Expo milanese sembra ancora non essere entrato nel vivo di
queste contrapposizioni. Eppure la strada segnata da chi ci ha
preceduto appare chiara ed evidente, mentre sussistono tutte
le condizioni per pervenire ad un progetto globale che, nel
rispetto della sostenibilità ambientale e nell’impegno di
ridurre l’attuale concentrazione di CO2 nell’atmosfera, per
contrastare il riscaldamento globale in atto del pianeta ed i
cambiamenti climatici, possa aumentare le rese della
produzione agricola e sostenere i nuovi fabbisogni
nutrizionali ed energetici.
Portogruaro, 20 luglio 2015
Meglio
una
cisgenica
bella
mela
Riaccendere la fiammella della conoscenza
“Non c’è ricerca sugli Ogm se non è in pieno campo. Nella
scienza vincono solo l’intelligenza, le idee, l’ingegno e non
la forza. E basterebbe davvero poco: basterebbe, cioè,
raccogliere la raccomandazione dell’Unione europea a
sostenere la ricerca pubblica in campo pieno su OGM e non
OGM, per ridare speranza ad un settore dell’economia italiana
che è strategico rispetto al futuro. Se questo accadesse
sarebbe anche un segnale della volontà del nostro Paese di
riaccendere la fiammella della conoscenza su questo
argomento”.
Elena Cattaneo
Vedi articolo di Antonio Pascale:
cisgenica
Meglio una bella mela
Ecco gli OGM naturali
Un numeroso gruppo di studiosi, appartenenti a Istituzioni
scientifiche di Ghent (Belgio), Lima (Perù), Beijing (Cina),
Griffin (USA) ha pubblicato (su “PNAS” early edition,
dell’Accademia Americana delle Scienze) una documentata
ricerca che dimostra la presenza nel genoma delle patate dolci
coltivate (Ipomoea batatas) di alcune sequenze geniche
trasferitevi da frammenti del DNA di Agrobacterium rhizogenes
e A. tumefaciens.
Un’attesa e importante prova scientifica che dimostra
l’esistenza di spontanee transgenesi con le quali madre natura
ha arricchito la biodiversità evolutiva, attraverso gli stessi
meccanismi usati per ottenere preziosi e mirati OGM.
Non ci meraviglieremmo se qualche potentato del nostro Paese
chiedesse ora di privarci anche delle patate dolci, magari con
una precauzionale proibizione di coltivarle. Mentre è
possibile che vengano individuate analoghe situazioni
genomiche in altre specie.
Articolo PNAS
Vedi articolo originale
Non c’è ricerca sugli OGM, se
non è in pieno campo
Intervento della sen. Elena Cattaneo il 13 maggio 2015, in
Senato.
Gentile Presidente, cari colleghi,
ho chiesto di intervenire in questa discussione per
approfondire con voi un aspetto del disegno di legge connesso
alla direttiva europea n. 412 del 2015, che lascia liberi gli
Stati di scegliere in autonomia se coltivare o meno OGM. Io
voglio trattare un tema che è rappresentato in uno specifico
ordine del giorno, tangente ma autonomo rispetto alla
coltivazione, ovvero la raccomandazione richiamata nei
considerata della stessa direttiva di promuovere la ricerca
scientifica sugli OGM nella sua completezza. Mi rendo conto
che discutere di OGM è difficilissimo: al solo pronunciarne il
nome, scattano riflessi condizionati di rifiuto, che li
associano alle multinazionali, alle grandi monoculture, a
rischi ignoti per la salute e per l’ambiente, al timore della
contaminazione delle coltivazioni tradizionali.
Mi chiedo se possiamo provare a non farlo per i prossimi
quindici minuti, perchè vorrei ragionare con voi di ricerca
pubblica in pieno campo sugli OGM, cioé quella ricerca
pubblica che si fa in tanti Paesi europei, anche quelli che
sono contro la coltivazione commerciale degli OGM. Vorrei
parlare con voi di ricerca pubblica basata sulle biotecnologie
per tutelare le nostre tipicità, per proteggere le nostre
piante nei campi in cui sono coltivate, per ridurre l’impiego
di dannosi pesticidi, per sviluppare le biotecnologie su semi
non brevettati e complessivamente consentire all’agricoltura
italiana di rimanere o diventare più competitiva. Questo il
mio specifico intento con voi oggi.
Gli OGM sono piante geneticamente modificate, come tutte
quelle che l’uomo ha addomesticato dall’invenzione
dell’agricoltura in poi. Si tratta di una tecnologia che non è
più nuova, lo sappiamo tutti. Fino ad ora questa tecnologia
spostava un gene d’interesse da una specie – ad esempio da un
batterio resistente ad un parassita – ad un’altra specie – ad
esempio il mais – per conferire ai tanti tipi diversi di mais
resistenza a quei dannosi parassiti e quindi ridurre
notevolmente l’impiego di pericolosi pesticidi. Oggi le
biotecnologie fanno molto di più e, direi, molto meglio e non
possiamo stare a guardare: spostano geni di interesse tra
piante della stessa specie (un gene di un melo resistente
spostato in un altro melo) oppure spengono un gene in un’altra
pianta allo scopo di migliorarla, quindi non introducono
niente di nuovo dall’esterno.
Ho passato dei mesi a studiare questi aspetti, a studiare come
i ricercatori agrari in altri Paesi fanno ricerca su queste
piante, usando le biotecnologie, con quali obiettivi. I loro
Governi sostengono la loro sperimentazione in campo aperto. Ho
studiato le tecniche per produrli, le procedure di protezione
dei campi sperimentali, affinché niente esca e niente entri, i
dati sulla sicurezza, il loro uso nell’alimentazione,
l’impatto ambientale. Studiando questi temi ho dovuto anche
affrontare le contraddizioni del nostro Paese e confesso di
essermi appassionata all’argomento, senza avere alcun diretto
interesse.
Mi interessa, infatti, capire come si affronta, in una società
laica, un tema percepito come controverso e pieno di
contraddizioni, che tocca le nostre emozioni più profonde, le
nostre sensibilità più estreme, come la dipendenza dal cibo e
dal buon cibo, la tradizione italiana e la nostra idea del
«naturale quindi buono»; un tema davvero culturalmente
affascinante nel quale dobbiamo inserire i fatti. Come vi ho
anticipato, l’ordine del giorno che ho presentato non riguarda
la coltivazione commerciale, ma quello che si può studiare a
monte di tutto ciò. La stessa direttiva, nel lasciare liberi
gli Stati, raccomanda l’investimento in ricerca. L’ordine del
giorno mira a dare la possibilità ai nostri ricercatori di
studiare le nostre piante, mira a lasciare liberi i nostri
ricercatori pubblici, insieme agli agricoltori, di capire come
evitare che le nostre piante, quelle che ci interessano e che
abbiamo nei nostri campi, siano devastate, alle nostre
latitudini, da tanti parassiti.
Sto parlando – vorrei chiarirlo ancora una volta – non della
generazione di presunte piante omologate e standardizzate,
prodotte con semi di multinazionali, ma, al contrario, di come
le biotecnologie, soprattutto le nuove biotecnologie, non OGM
(cioè quelle che non spostano geni da una specie all’altra, ma
che usano geni della stessa specie) possano aiutare a tutelare
la tipicità dei prodotti e delle piante italiani, che
altrimenti – lo sapete bene – sarebbero presto persi (molti
sono già persi). Sto anche parlando – e mi permetto di parlare
anche di questo – del tema della libertà di ricerca; della
libertà di ricerca su OGM in pieno campo, quella che fanno i
tanti Paesi europei che non hanno mai impedito tale attività.
Da noi, invece, i progetti dei nostri ricercatori universitari
o degli istituti di ricerca controllati dal Ministero
dell’agricoltura sono chiusi da quindici anni nei cassetti.
Dunque, noi paghiamo scienziati per scoprire, inventare,
insegnare e applicare cose di utilità nazionale che, allo
stesso tempo, impediamo loro di realizzare. Mi rendo conto che
questo blocco alla ricerca pubblica è frutto dell’avversione
cresciuta negli anni verso le coltivazioni commerciali degli
OGM e verso le multinazionali che producono i semi OGM.
Ma, attenzione onorevoli senatori, sono le stesse
multinazionali da cui ormai siamo dipendenti per i semi non
OGM. Mi rendo anche conto che l’avversione è verso l’idea di
questa omologazione, verso il controllo totale sulla
produzione di beni vitali, ma la coltivazione commerciale e la
ricerca pubblica sulle piante sono due cose diverse. Si può
bloccare la prima pagando un caro prezzo economico – e non mi
cimento su questo – ma non ci si può vietare di studiare
qualcosa nella misura in cui le procedure sono sicure (e lo
sono).
Vietare la ricerca, colleghi, è come censurare la libertà
d’espressione: si lede un diritto fondamentale.
Vorrei essere chiara ancora una volta su un concetto: impedire
le sperimentazioni in pieno campo su OGM significa impedire la
ricerca pubblica, perchè l’unica ricerca vera su OGM è quella
che sperimenta le
migliorie genetiche nelle condizioni di
campo che attaccano quella pianta. L’Italia ha fatto ciò per
tredici anni, ha impedito la conoscenza vietando la
sperimentazione in campo aperto, mentre nel resto dell’Europa
sono state condotte migliaia di sperimentazioni di OGM in
pieno campo, anche in Paesi come la Germania e la Francia che
osteggiano la coltivazione commerciale.
Guardate che la posizione del nostro Paese diventa ancora più
singolare e addirittura contraddittoria quando si scopre che,
mentre si vieta la ricerca biotecnologica pubblica sulle
piante in generale, importiamo e mangiamo gli OGM – per così
dire – classici e ormai di vecchia generazione. Questa è la
prima contraddizione dalla quale trae spunto l’ordine del
giorno sulla ricerca pubblica: li vietiamo, ma li importiamo;
li mangiamo in modo massiccio da vent’anni, ma non li
studiamo. Tra l’altro, se li mangiamo, la prima cosa che mi
viene in mente è che, quindi, non è vero che sono pericolosi
per la salute e che possiamo farne a meno. Non si può mentire.
Al Paese bisogna dire che non li vogliamo coltivare, ma li
acquistiamo a tonnellate; nutriamo gli allevamenti e poi
finiscono nel nostro piatto, nelle forme di parmigiano
reggiano o nel prosciutto di San Daniele. Questa
contraddizione viaggia insieme a un altro paradosso che mi
interessa per l’ordine del giorno. Abbiamo il terrore del
monopolio delle multinazionali (sempre quelle a cui diamo il
monopolio anche dei semi non OGM, non nascondiamolo mai
questo), ma allo stesso tempo lasciamo loro campo libero non
investendo in ricerca, nel senso che non facciamo proprio
niente per limitare il loro monopolio. Non muoviamo un passo
nella ricerca di forme di tutela e di rafforzamento dei nostri
semi e delle nostre tipicità.
Non abbiamo quasi neanche più un’industria sementiera nel
nostro Paese. Vietiamo cose che importiamo. Mangiamo ciò che
non studiamo. Ci consegniamo alle multinazionali, non
producendo innovazione.
Vengo ora alla seconda contraddizione, che
è ancora più
rilevante per l’ordine del giorno. Le nostre piante sono
invase da parassiti e noi stiamo perdendo delle tipicità
agricole di cui andiamo fieri nel mondo, perchè non vogliamo
studiare, sperimentare e usare le bio-tecnologie OGM e non
OGM. Tutti o quasi tutti i semi che piantiamo in Italia sono
progettati all’estero, anche le piante da orto.
Scusate se mi ripeto, onorevoli senatori, ma questo ordine del
giorno non chiede di sostenere la coltivazione commerciale,
che lasciamo agli altri, alla Spagna, da cui poi acquisteremo.
Lo scopo non è sdoganare OGM prodotti dalle multinazionali,
non è avere mele omologate. L’obiettivo è l’opposto:
sollecitare con voi una riflessione pubblica sulle
contraddizioni della nostra politica in materia, per capire se
la ricerca pubblica che impiega le biotecnologie agrarie può
esserci utile, almeno per proteggere e mantenere le nostre
piante tipiche.
Ne stiamo perdendo troppe. Esistono progetti da anni chiusi
nei cassetti, che dovreste leggere, ve ne racconto uno. Si
tratta di un OGM pubblico, tutto italiano, persino
ecosostenibile. L’Italia – come sappiamo bene – esporta mele
in tutta Europa: sono dei prodotti tipici, dalle splendide
mele dei nostri colleghi trentini a quelle della Valle
d’Aosta, alle mele annurche campane. Tra l’altro, nel nostro
Paese queste piantagioni hanno anche una rilevanza ambientale
e culturale notevole e, alcune, arrivano dal Medioevo.
Tuttavia, il clima è cambiato e in tutto il mondo – ripeto in
tutto il mondo – i meli sono attaccati da un flagello, un
fungo responsabile della più grave e diffusa malattia delle
mele: la ticchiolatura, che danneggia la pianta e produce
delle macchie sul frutto, rendendolo non più commerciale. Lo
scorso anno in una Regione d’Italia sono stati effettuati più
di 30 trattamenti di pesticidi per difendere le mele dai
parassiti. Anche le mele biologiche sono trattate con le
sostanze chimiche consentite per questo tipo di coltivazioni.
Si tratta dei sali di rame, un metallo pesante, tossico, che
resta nel terreno per decenni. Non sarebbe bello avere delle
mele che resistono alla malattia, cosicchè si ridurrebbe
drasticamente il numero di trattamenti con agrofarmaci?
Ecco la storia del professor Silviero Sansavini
dell’università di Bologna, un distinto signore, ora
professore emerito, che ha piu` di settant’anni. Insieme al
professor Tartarini scopre che una mela selvatica è immune
dalla ticchiolatura perchè porta un gene, che si chiama Vf,
che la protegge ed è un dono della natura. E` una selezione
naturale. I ricercatori cercano di incrociare questa mela
selvatica con le mele che noi siamo abituati a mangiare, ma
non ci riescono perchè, durante l’incrocio, non passa solo il
gene di interesse, ma possono anche migliaia o centinaia di
altri geni che tolgono il valore organolettico a quella mela.
Sansavini e Tartarini, in un laboratorio universitario,
prendono una mela della varietà Gala, una delle favorite dagli
italiani, che deve però essere spruzzata con decine di
trattamenti, e vi impiantano quel gene, quello che la rende
immune dal parassita. Erano gli anni 1992-1993, e l’Italia era
all’avanguardia nel mondo nel campo delle biotecnologie
agrarie. I nostri genetisti agrari tenevano ancora alta nel
mondo la bandiera di Nazareno Strampelli, universalmente
riconosciuto come il fondatore del miglioramento delle piante
su basi scientifiche.
Ma torniamo alle mele. Dopo pochi anni, le prime prove sulla
mela Gala, fatte su meli coltivati in serra, danno i risultati
sperati e, nel 2002, il nostro Paese è il primo al mondo ad
arrivare ad un risultato desiderato da tutti. A Bologna ci
sono meli geneticamente modificati, che ridurrebbero l’impatto
ambientale, se coltivati, ma stanno in un cassetto.
Dobbiamo aver paura di questa mela? Viene chiamata cisgenica,
perchè si sposta un gene da una pianta ad un’altra pianta
della stessa specie. Non è progettata per essere venduta
insieme ad un pesticida. Anzi, ne riduce fortemente la
necessita`, e la pianta non deve essere riacquistata tutti gli
anni dall’agricoltore. Il professore Sansavini avrebbe potuto
brevettare la tecnologia di trasferimento del gene, ma non ha
voluto. Ha pensato bene che non fosse giusto e l’ha reso di
dominio pubblico. Chiunque nel mondo può utilizzare quel
metodo per produrre mele resistenti alla malattia.
E` una bellissima storia, che però finisce qui, con la
soddisfazione di un professore di essere stato il primo al
mondo a realizzare un risultato a cui tutti ambivano, ma
anche con la lacerazione professionale di non avere mai visto
la sua scoperta in campo, perchè il Ministero
dell’agricoltura, dal 2002, vieta la sperimentazione in campo
aperto.
E sapete cosa hanno fatto gli altri? Olanda e Svizzera hanno
sviluppato l’uso del gene scoperto da Sansavini, hanno avuto
l’autorizzazione alla coltivazione in esterno, con tutte le
norme di sicurezza, e ora hanno campi di meli resistenti alla
malattia.
Sono tanti gli esempi di questo tipo. Il professor Eddo
Rugini, dell’Università della Tuscia, ha assistito impotente,
il 12 giugno 2012, al rogo di trent’anni di conoscenza: la
distruzione delle sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di
ulivi geneticamente modificati per resistere ad alcuni
parassiti o per tollerare meglio la siccità. Decenni di
ricerca sono stati distrutti dalla mancanza di rinnovo di
un’autorizzazione.
Vorrei citare anche Francesco Sala, scomparso nel 2011, grande
genetista della mia università, la Statale di Milano. Non
potendo sperimentare in campo i suoi meli valdostani
resistenti al parassita melolontha, una larva che mangia le
radici, e il suo riso Carnaroli, oramai rarissimo per
l’attacco di un fungo, si dedicò allo sviluppo di pioppi
resistenti agli insetti, che riuscì finalmente a vedere
coltivati, ma non in Italia, in Cina, dove ve ne sono
centinaia di migliaia di ettari.
E possiamo anche citare il pomodoro San Marzano, che ormai non
esiste più. Era una tipicità di cui la Campania era il maggior
produttore in Italia. Ma la pianta è attaccata da virus con
sigle orribili: CMV, TSWV, CAMV. Non esistono preparati
antivirali. Negli anni 2000 alcuni ricercatori stavano
lavorando su geni capaci di dare resistenza a questo attacco
virale. Il progetto è nel cassetto, e del nostro pomodoro
tipico San Marzano non vi è ormai più alcuna traccia.
Tra gli anni Novanta e Duemila, noi
nel settore delle biotecnologie in
prodotti tipici, per proteggerli:
pomodori, kiwi, peperoni, riso, vite,
eravamo all’avanguardia
agricoltura sui nostri
mele, ulivi, ciliegi,
melanzana e tanto altro;
prodotti nostri, della nostra agricoltura, che non interessano
alcuna multinazionale. Si aspettava solo l’emanazione di un
regolamento dei Ministeri competenti per poter effettuare, in
tutta sicurezza, le sperimentazioni in campo. Esattamente come
un farmaco salvavita deve essere sperimentato sull’uomo per
poterne verificare sicurezza ed efficacia.
Ma dal Duemila la politica italiana decide di bloccare tutto.
Il regolamento non fu mai emanato. Sapete qual è stato,
secondo me, l’errore principale? Il fatto di non rendersi
conto che i nostri ricercatori, nei nostri centri di ricerca
pubblici, stavano lavorando su esigenze nostre, tutte
italiane. Un senatore mi ha chiesto – e lo ringrazio, perchè
la domanda è giusta e pertinente – come si affronta il timore
della contaminazione, conseguente alla sperimentazione in
campo aperto con OGM.
La domanda sorge spontanea, se non si è specializzati
sull’argomento o se non lo si ha studiato, ma ciascuno di noi
studia argomenti diversi. Questo timore si annulla, come hanno
fatto gli altri 19 Paesi europei che sperimentano in campo
aperto, applicando i protocolli rigorosi che riducono a zero
il rischio di contaminazione. Questi protocolli contemplano
soluzioni tecniche che gli specialisti conoscono bene e sono
applicati nei Paesi che confinano con noi e fanno ricerca in
campo aperto. E si tratta anche di questioni tecniche, con
problematiche e soluzioni gestite in maniera assolutamente
diversa rispetto alla coltivazione commerciale, anche a
livello di legislazione europea. Il raccolto di un campo
sperimentale – teniamolo bene a mente – che sia OGM o
sperimentale di altro tipo, non può mai entrare nella filiera
commerciale o alimentare, ma resta a disposizione solamente
per le analisi scientifiche dei laboratori di ricerca che
compiono quella sperimentazione.
Le due filiere sono strutturalmente separate per regola ed è
scontato che tale separazione vada ribadita e sottolineata
nelle normali procedure di autorizzazione. Sapete, colleghi,
non sarebbe la prima volta che sperimenteremmo piante OGM in
campo aperto in Italia. Tra il 1992 e il 2004 abbiamo
coltivato in campo aperto quasi 300 tipologie di piante OGM
diverse, senza leggi speciali e senza inventarsi nulla di
particolare, ma semplicemente osservando le norme e i
protocolli definiti pianta per pianta. Abbiamo messo in campo
decine di piante OGM di pomodoro, melanzana, cicoria, vite,
fragola, grano, mais o insalata, senza che ci fosse il minimo
problema. Nella seconda metà degli anni Novanta in Italia si
coltivarono anche decine di migliaia di campi di mais OGM,
senza che ne sia rimasta traccia a livello sanitario e
ambientale.
Chiudo, gentili colleghi, sottolineando che forse oggi abbiamo
l’opportunità di richiamare l’attenzione del Governo verso una
questione che – a mio avviso – deve essere, per coerenza,
risolta. Vi ripeto che non c’è ricerca sugli OGM, se non è in
pieno campo.
La scienza ha una qualità formidabile, che io non mi trattengo
mai dal raccontare ai giovani. Non conosce le espressioni «è
troppo tardi», «abbiamo perso il treno» o «cosa potremo mai
fare noi con poche risorse di fronte ai giganti dei mondo».
Nella scienza vincono solo l’intelligenza, le idee, l’ingegno
e non la forza. E basterebbe davvero poco: basterebbe, cioè,
raccogliere la raccomandazione dell’Unione europea a sostenere
la ricerca pubblica in campo pieno su OGM e non OGM, per
ridare speranza ad un settore dell’economia italiana che è
strategico rispetto al futuro. Se questo accadesse sarebbe
anche un segnale della volontà del nostro Paese di riaccendere
la fiammella della conoscenza su questo argomento.
La disunione europea
Il TTIP (partenariato transatlantico per commercio e
investimenti) é in corso di negoziato tra Usa e U.E. dal 2013.
L’obiettivo è quello di facilitare i rapporti commerciali tra
i due mercati, eliminando o riducendo gli ostacoli oggi
frapposti da regolamenti diversi.
Secondo notizie di stampa, mercoledì scorso la U.E. avrebbe
proposto che ciascuno dei Paesi membri europei possa
autonomamente decidere se autorizzare non solo la coltivazione
dei pochi OGM già ammessi da Bruxelles, ma anche
l’importazione di prodotti OGM, invece già largamente attuata
dai Paesi membri per coprire il fabbisogno di buona parte dei
mangimi per i nostri allevamenti.
La proposta sarebbe partita dal Presidente della Commissione
Europea (Jeanne Claude Junker), ma dovrebbe essere ratificata
dal Parlamento e dal Consiglio Europeo. Essa comunque
contraddice la stessa esistenza di un Mercato Comune Europeo e
quindi inficia dalle basi il TTIP e i negoziatori che
rappresentano la U.E. Sarebbe, infatti, come dire che i 27
singoli Stati della U.E. possano contrattare autonomamente con
gli Usa (e allora per analogia, forse anche con i loro singoli
Stati?). Confuse complicazioni che ci riportano indietro nel
tempo anziché avanzare verso il futuro.
Gli Usa ritengono che questi atteggiamenti non abbiano alcuna
ragione di essere, ma possano essere dettati solo da interessi
locali, politici e commerciali. Essi rafforzano i dubbi sul
Patto Transatlantico e sulla volontà degli Europei di
raggiungere accordi seri. Gli ambasciatori a Bruxelles di
Stati Uniti, Argentina, Brasile e Canada (Paesi esportatori di
OGM in Europa), avrebbero già scritto alla Commissione U.E.,
mettendo anche in dubbio che la proposta formulata rispetti le
regole del WTO (Organizzazione Mondiale per il Commercio).
Purtroppo, gli errori sono come le ciliegie: uno tira l’altro.
Aver evitato di adottare un doveroso indirizzo unico per tutta
la U.E., in merito alla coltivazione degli OGM, ritengo sia
stato un errore e una manifestazione di debolezza. Era più
facile “lavarsene le mani”,
lasciando libera scelta ai
singoli Stati membri. Si è quindi semplicemente pensato di
poter ora fare altrettanto per le importazioni dei relativi
prodotti, trascurando le conseguenze. Anche ammettendo,
infatti, l’ipotesi che la controparte Usa potesse accogliere
una tale proposta complicata, non si sono valutati i possibili
effetti negativi in Europa. Alcuni Paesi che continuano a
vietarne la coltivazione (ma non le massicce importazioni dei
rispettivi prodotti), avendo la possibilità di redimersi da
tale incoerenza non esiterebbero a vietare anche le
importazioni, sempre senza alcun’altra motivazione scientifica
e sempre a danno degli agricoltori che si troverebbero in
serie difficoltà anche per mantenere i propri allevamenti.
L’Europa ha bisogno di trovare compattezza se vuole avere peso
nella geopolitica attuale. Ha comunque bisogno di essere
guidata da vertici autorevoli che sappiano assumere la
responsabilità di decisioni lungimiranti, anche se non ancora
del tutto comprese e condivise. Le manifestazioni di
disunione,
soprattutto
quando
riguardano
rapporti
internazionali, non giovano a nessuno, ma offrono, anche al
proprio interno, l’immagine di una Europa troppo poco solidale
e costruttiva.
The European Disunion
The negotiations for the TTIP (Transatlantic Trade and
Investment Partnership) have been going on between the United
States and the E. U. since 2013. The objective is to
facilitate business relations between the two markets,
eliminating or reducing the barriers interposed today by the
different regulations.
According to press reports, last Wednesday the E.U. proposed
that each of the European member countries independently
decide whether to allow not only the cultivation of the only
GMO (a maize) already accepted by Brussels, but also the
importation of GMO products, a course of action already widely
implemented. For example, 90% of the soya beans and other
animal feeds we import today are produced using GMOs in
various American countries.
The proposal seems to have come from the President of the
European Commission (Jeanne Claude Junker), but must be
ratified by the European Parliament and Council. It
contradicts the existence of a Common European Market and
therefore invalidates TTIP and the negotiators representing
the E.U.
The United States think such an attitude has no scientific
reason to exist but only political and commercial ideologies
or interests. It reinforces doubts regarding the Transatlantic
Pact and the European willingness to reach a serious
agreement.
Unfortunately one thing leads to another, even mistakes. I
maintain that it was a mistake and a display of weakness to
have refrained from adopting a proper single policy for the
entire E.U. as regards the GMO cultivation. Finding it more
convenient to leave the choice to individual member states,
they plainly thought the same approach could be taken for the
importation of related products, irresponsibly disregarding
the consequences.
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