CARO LUISITO, AMICO MIO… Koinonia
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CARO LUISITO, AMICO MIO… Koinonia
Da Popolis n.3 anno 10, marzo 2012 CARO LUISITO, AMICO MIO… In ricordo del prete operaio di Vescovato di Luigi Pettinati direttore generale Cassa padana Bcc Di ritorno dal funerale di Luisito mi sentivo bene e uno stupendo tramonto di una giornata tersa faceva da sfondo. Della cerimonia mi aveva colpito in particolare l'asinello che l'aveva accompagnato con tenerezza al cimitero di Vescovato. L'ultima volta che lo vidi, Luisito mi propose l'idea di incidere un disco con brani de La Messa dell'uomo disarmato, il suo grande romanzo sulla Resistenza. «Proponilo alle scuole - mi disse - perché saranno i figli della Resistenza a resistere all'oblio del sangue gratuitamente sparso». Ha fatto a tempo ad ascoltare il disco: penso gli sia servito a rivivere per l'ultima volta quel mondo che tanto ha amato. Da anni seguiva con benevolenza quello che facevamo in Italia e all'estero per i più deboli e ci incoraggiava: «Quello che fate mi fa sperare che finché ci sarà gente così un mondo nuovo è sempre possibile». Caro Luisito amico mio, figlio prediletto della nostra terra, non scenderà l'oblio sulla tua "parola". Il vento la trasporterà tra i campi di grano e nei cuori delle donne e degli uomini che verranno. Koinonia n. 2 - Anno XXXVI - del febbraio 2012 Evangelizzazione o riconquista? Davanti al dilemma di sempre di p. Alberto Simoni Caro don Luisito, per prima cosa devo chiederti perdono! Più volte l'amico Andrea Fedeli mi ha parlato di te e mi ha fatto avere tuoi scritti, ed io sinceramente me ne sono rallegrato con lui. Quello che mi dispiace, però, è che non ti ho dedicato molta attenzione, come avresti meritato, e soprattutto di non aver cercato un contatto diretto con te. Se ti devo confessare cosa mi ha trattenuto, oltre gli investimenti diversi e i limiti di una attenzione, il timore di trovarmi ancora una volta davanti a "miti" e ricette di operazioni pastorali comunque parallele a quelle standard, per quanto riguarda l'urgenza di una evangelizzazione. Mi è bastato leggere la tua lettera-postilla per ricredermi e per ritrovarmi in totale sintonia con te, anzi molto confortato quando domandi - e mi sembra di capirti fino in fondo!- : "È possibile continuare a cercare la strada della credibilità come Chiesa, per poter proporre onestamente il messaggio, pur sapendo che la tua credibilità, se la tenti, non vale nulla in quanto è necessaria una credibilità di Chiesa?". Basta così, ma ti assicuro che, sempre con l'aiuto di Andrea e possibilmente anche di altri amici, io ti terrò più presente e ti chiederò il tuo aiuto, mettendomi alla luce che scaturisce dalla tua vita. Così ad esempio non posso non pensare a te e a quello che ci dici - sia pure in poche parole - quando mi ritrovo a leggere la Nota della Congregazione per la dottrina della fede con le "Indicazioni pastorali per l'Anno della fede" pubblicata il 6 gennaio all'indomani del tuo passaggio da questo mondo al Padre. L'impressione è che si voglia rivitalizzare un regime di cristianità col ricorso a forme, pratiche, abitudini di fede che assicurino continuità e identità ad un modo di essere chiesa del passato, quasi un involucro protettivo di una eredità residua da custodire. Questo spiega il ripetuto tentativo di tradurre o ridurre il Vaticano II da impresa ecclesiale di evangelizzazione a Catechismo della chiesa cattolica e di trasformare la fede in ortodossia. La verità del vangelo che libera diventa dottrina che vincola! Ti dico questo, perché ho capito che tu puoi tenerci per mano per uscire dai nostri smarrimenti e scoraggiamenti e trovare quella semplicità e autenticità del vangelo che hai sempre cercato e testimoniato. Ed ora, servo umile e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore e ricordati di noi. Alberto. In ricordo di don Luisito Bianchi di Andrea Fedeli Caro don Luisito, ci hai lasciato ciò che di più ostico possa essere proposto a ogni credente in Cristo, il Vangelo nella sua assoluta nudità. Ci hai insegnato cosa significa vivere e annunciare veramente il messaggio di Gesù: ciò che ci è stato donato gratuitamente non può essere annunciato dietro qualsiasi forma di compenso. Quanto hai insistito, nella tua vita e nei tuoi libri, sulla Grazia, sul dono gratuito! Quante volte ti sei indignato dei tanti tradimenti degli uomini di Dio! Eppure quei tradimenti, quelle miserie mai hanno scosso il tuo amore e la tua fedeltà alla Chiesa, la tua obbedienza filiale al tuo vescovo. Hai percorso le vie della moderna Palestina in fabbrica, in ospedale, alla pompa di benzina. Hai visto nei volti dei tuoi compagni i nuovi apostoli, poco istruiti, ostili al potere, lontani dalle istituzioni ecclesiastiche, ma capaci di amare e di ricevere amore. Hai descritto le loro fatiche quotidiane e i loro continui sacrifici per la famiglia. Tante espressioni di quell'amore di cui siamo tutti figli. Ci hai parlato dei pasti che le loro spose preparavano per le pause nei turni. Ti sei commosso pensando alle mani solerti e dolci di madre e di sposa intente nel pulire le tute dei loro uomini dal veleno degli acidi. Per ognuno di loro ci hai dato un viso, un nome, una passione vissuta, un affetto teneramente coltivato, perché Dio conosce persone in carne e ossa e non modelli ideali di vita. Sulle tine degli acidi, negli spogliatoi, nelle pause turno, hai celebrato il sacramento dell'amicizia. Il pasto condiviso, la sigaretta spezzata, le poche parole scambiate con il compagno di linea divengono i passaggi di una liturgia della vita fatta di affetti e di dolori, di speranze e di umiliazioni. Ti interessava l'uomo, creato da Dio di poco inferiore agli angeli, e lo hai cercato con il tuo impeto, il tuo radicalismo, si direbbe oggi. Sei stato una voce che grida nel deserto, ma non hai mai ceduto alla moda della contestazione. Hai servito giorno dopo giorno la Parola, senza cercare mai protagonismi ecclesiali. Ora che sei in Paradiso, con un Capoturno che non ti conta i minuti di riposo, siedi di nuovo a chiacchierare con i tuoi amici di fabbrica dilaniati dall'acido, sacrificati sull'altare del dio profitto, riscattati dall'amore donato e ricevuto. Ciao, don Luìsito. Mi mancherai. Andrea. Tempi di fraternità 2 febbraio 2012 In ricordo di don Luisito Bianchi di Mario Arnoldi Luisito Bianchi è mancato il 5 gennaio scorso, la vigilia dell'Epifania. Era nato a Vescovato, Cremona, nel 1927 e ordinato sacerdote nel 1950. Laureato in scienze politiche a Milano, dapprima era stato insegnante al Seminario vescovile, poi missionario in Belgio, quindi Assistente delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) a Roma, incarico che gli ha permesso di prendere i primi contatti con gli operai e di costatare che l'istituzione Chiesa non realizza una presenza adeguata nel mondo. Finalmente, dopo tante riflessioni e contatti, sceglie la vita di prete operaio ed è assunto nella fabbrica Montecatini di Spinetta Marengo presso Alessandria, dove rimane per tre anni dal '68 al '71. Ogni giorno, quando i turni di lavoro lo permettono, Luisito frequenta la messa vespertina presso la parrocchia del quartiere più povero della città, insieme all'altro prete operaio, Giovanni Carpené, che pure proveniva dal Belgio e col quale condivide l'abitazione. Là ho conosciuto Luisito e Giovanni e con loro si è stabilita un'amicizia feconda. Io ero più giovane e ascoltavo le loro parole e la loro esperienza come un insegnamento particolarmente ricco. La mia amicizia con i due preti operai ha poi preso vie parallele e autonome. Luisito, dopo i tre anni in fabbrica, si riavvicina alla sua Vescovato, continuando per qualche tempo a lavorare come aiuto benzinaio e come infermiere; poi si ferma all'abbazia di Viboldone, a sud-est di Milano, dove vive la seconda fase della sua vita come cappellano, nella riflessione, nella scrittura narrativa poetica e nella frequentazione di amici delle varie tappe della sua esistenza. che tanto hanno ricevuto da lui, e che, insieme con le Suore Benedettine, costituiscono la sua famiglia umana e spirituale. All'abbazia Luisito compie quasi una revisione e interpretazione delle tante esperienze compiute. Sono stato a volte a trovarlo e sempre mi ha accolto con amicizia sincera. Mi ascoltava e le sue parole erano di comprensione, di conforto e illuminanti. Luisito Bianchi vive la sua vita non come un susseguirsi di avvenimenti giustapposti, sia pure significativi, ma come la manifestazione quotidiana di un flusso continuo che chiama "gratuità", una variazione significativa della grazia, della misericordia e del dono di Dio verso l'uomo e la donna, l'umanità, la Chiesa. E in questo flusso di gratuità di Dio siamo tutti chiamati a inserirci, donandoci a nostra volta verso tutto quanto ci circonda. "Avete ricevuto gratuitamente, gratuitamente date" (Matteo 10,8). "La gratuità (nella vita) e nel ministero — dice in un suo scritto — è un tema da infinite variazioni, almeno una per ogni giorno, perché ogni giorno si presenta con un nuovo cesto di doni sconosciuti da svuotare, un canone all'infinito". Testimoniano questa ricerca, o meglio questa sua impostazione di vita, i suoi libri sul lavoro Sfilacciature di fabbrica, 1970, riedizione 2002 e Come un atomo sulla bilancia, Morcelliana, Brescia, 1972, riediz. Sironi, Milano 2005, storia di tre anni di fabbrica. Luisito pensa che il lavoro di fabbrica per un prete sia un mezzo di sostentamento per non cadere nel commercio dei sacramenti e degli strumenti di fede. Il romanzo che lo ha reso celebre raggiungendo il grande pubblico è La Messa dell 'uomo disarmato, 1989, riediz. Sironi, Milano 2003, in cui narra e intende la resistenza partigiana come la Parola e la gratuità che si sono fatte storia. E ancora i testi in cui affronta direttamente il nucleo del tema come Dialogo sulla gratuità, Morcelliana, Brescia, 1975, riediz. Gribaudi, Milano, 2004. Tanti altri scritti, ed anche piccole perle di musica, che egli a volte componeva per diletto, narrano il diffondersi delle infinite variazioni della gratuità. All'abbazia di Viboldone sabato scorso, giorno successivo all'Epifania, ho partecipato alla liturgia di addio a Luisito. Sono stato coinvolto dalla grande partecipazione, composta e commossa, di amici ed estimatori, di tanti preti concelebranti e del vescovo di Cremona che presiedeva. Due momenti mi hanno colpito particolarmente. All'inizio della liturgia il prete operaio Giovanni Carpené ha depositato sulla bara la tuta blu di lavoro di Luisito, come lui stesso aveva chiesto fosse fatto. Il gesto ha suscitato grande emozione. E poi l'omelia del celebrante ha ricordato la gratuità motivo conduttore della sua vita. Non è vero, ha affermato, riprendendo un detto di Luisito, che l'Epifania, cioè la manifestazione della gratuità divina, tutte le feste porta via, la vita infatti è costellata di epifanie, sino all'ultima, quando si incontra Dio, la fonte di ogni gratuità. II Segno, febbraio 2012 Per il gemito dei poveri di Giuseppe GRAMPA «...diventavo prete perche c'erano dei poveri che potevano dare senso alla mia scelta, perché nonostante tutto, la Chiesa era dei poveri… » Sulla bara dei preti è consuetudine aprire il. libro dei Vangeli e mettere la stola, insegna del ministero sacerdotale. Sulla bara di don Luisito Bianchi, deposta sul pavimento dell'Abbazia di Viboldone, alle porte di Milano, sabato 7 gennaio, con la stola e i1 libro dei Vangeli c'era anche una tuta azzurra,quella che lui, prete operaio, aveva indossato durante la sua esperienza di lavoro. Nato nel 1927 a Vescovato, nella Bassa cremonese, Luisito entra ragazzo nel locale Seminario. Suo padre lo fascia andare a una condizione: essere un prete come don Primo Mazzolari, che proprio in quelle terre aveva lasciato un esempio indimenticabile di parroco con i poveri a per i poveri. Sull'immagine-ricordo della sua ordinazione sacerdotale Luisito scrive le parole del Salmo 11: «Per la sofferenza degli umili e il gemito dei poveri». E il 1950. Dopo anni di studi e di attività presso le Acli, don Luisito chiede al suo vescovo di poter essere prete-operaio. Questa singolare esperienza era nata sul finire degli anni Quaranta, in Francia. Un libro di quegli anni, France pays de mission?, denunciava la crescente distanza tra la Chiesa a la società di quel tempo, in particolare il mondo del lavoro. Proprio per tentare di superare questa distanza, alcuni preti entrarono come operai nelle fabbriche, per condividere una dura condizione e con la loro presenza dire I'Evangelo. Anche in Italia inizia l'esperienza dei preti-operai. Don Luisito sceglie di essere prete operaio prima alla Montecatini di Spinetta Marengo (Alessandria), poi come benzinaio e infine come inserviente in ospedale. Questo per una ragione che è davvero l’anima della sua esistenza sacerdotale: una scelta di gratuità nell'esercizio del ministero. Vuol esser fedele alla parola evangelica - «Gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date» e all’esempio dell'apostolo Paolo che, pur avendo la facoltà di vivere del suo ministero apostolico, aveva invece scelto di mantenersi con il lavoro delle sue mani. Il lavoro permette al prete di provvedere al suo sostentamento senza dover ricorrere ai proventi del ministero sacerdotale, che deve invece essere rigorosamente gratuito. Per don Luisito la gratuità del ministero è l’espressione della gratuità dell'amore di Dio per tutti gli uomini, donato appunto non a chi lo merita o se lo conquista a colpi di buone azioni. No, per primo Dio ci ama e gratuitamente, come hanno cantato gli angeli nella notte di Betlemme, annunciando la pace non già agli uomini di buona volontà, portatori di meriti, ma agli uomini che Dio ama, cioè a tutti, perché vuole che tutti siano salvi. Davvero la gratuità è il cuore dell'Evangelo. E un modo per annunciare questa logica di gratuità è, secondo don Luisito, la gratuità del ministero, spezzando qualsiasi legame tra denaro ed esercizio del ministero stesso. Ma non rispetterei la memoria di don Luisito se non ricordassi anche la sua decisa contrarietà all’attuale sistema di sostentamento del clero attingendo ai beni della Chiesa. Scrive don Luisito: «I soli destinatari dei beni della Chiesa sono i poveri, siano essi laici o chierici; chi può lavorare si mantenga da sé e non dipenda dal suo ministero se non in casi eccezionali, come il caso del vescovo che, per la sua impossibilità a mantenersi mancandogli il tempo da consacrare al lavoro manuale, diventa anch'esso un povero, il primo povero , della sua Chiesa» (Gratuità, pag. 136). Dopo le esperienze di lavoro, don Luisito ha trascorso lunghi anni, fino alla morte, presso I'Abbazia di Viboldone. Sono anche gli anni di una ricca e significativa creatività letteraria, soprattutto il grande romanzo sulla resistenza (La messa dell’uomo disarmato), di composizioni poetiche e di creazioni musicali per la liturgia. Qui tante volte l’ho incontrato e ho goduto della sua amicizia: quest'uomo, sobrio nelle parole e nelle espressioni dei sentimenti, custodiva e coltivava con delicatezza l’amicizia. Ricordo un Primo maggio, festa di San Giuseppe lavoratore: io celebravo e Luisito, già malato, concelebrava. Al termine mi ringraziò perché avevo ricordato che, proprio grazie al falegname Giuseppe, le mani di Gesù avevano i calli, contrassegno di ogni lavoratore. Asino e tuta di Lorenzo Prezzi in “settimana” - attualità pastorale – n. 3 del 22 gennaio 2012 Per un prete i "segni" in morte non sono secondari, come i segni-sacramenti che ha celebrato in vita. Luisito Bianchi (23 maggio 1927 - 5 gennaio 2012) è stato accompagnato al cimitero del suo paese (San Leonardo in Vescovato — Cremona) da un asinello e ha chiesto di essere sepolto in tuta. Ma nella precedente celebrazione nell'abbazia di Viboldone (Milano), dove ha vissuto gli ultimi anni, il suo vescovo, Dante Lafranconi, al momento dello scambio della pace è passato davanti alla bara, si è inginocchiato e l'ha baciata. Niente di più efficace per dire la cura della Chiesa per questo suo prete, ma anche la distanza, le incomprensioni e la necessità del perdono. Non è stato un prete facile, don Luisito. Ordinato nel 1950, laureato alla Cattolica, assistente delle Acli, prima in diocesi poi a Roma, prete operaio alla Montecatini di Spinetta Marengo (Alessandria) per tre anni, poi benzinaio, inserviente ospedaliero, infermiere, traduttore ecc. Infine, sacerdote a disposizione delle monache benedettine di Viboldone. Una vita non tranquilla, segnata da una permanente tensione interiore e spirituale. prete, non funzionario Nella sua sensibilità sacerdotale e nei suoi riferimenti esemplari si ritrova molto della spiritualità di don Primo Mazzolari, prete della sua stessa diocesi. «Operai inconfondibili — aveva scritto dei sacerdoti don Primo —anche se inutili: non mercenari, ma perduti in un lavoro che è il nostro, in un campo che ci appartiene, per anime che sono nostre». «Il gusto di fare il prete è questo felice consumarsi di una lampada nell'attesa di chi è già presente e che ci scava infinitamente il cuore per restituirci coloro che credevamo perduti» (Ai preti, La Locusta, Vicenza 1977). Don Luisito nei diari della sua esperienza operaia scrive: «Mi sento questa Chiesa, prostituta e amata. Porto con me le sue contraddizioni. Ma fino a quando riuscirò a identificarmi con questa Chiesa, senza sentire il richiamo forte a desolidarizzarmi dalla sua meschinità, che è la mia, per andare direttamente al Cristo?» (I miei amici, Sironi, Milano 2008, p. 159). L'annuncio gratuito del Vangelo, l'assoluto disinteresse del messaggero, l'estraneità della Parola da ogni compromesso meschino sono stati i pensieri più coltivati nel suo ministero. In un solo termine: la gratuità. Fino a chiedersi se sarebbe diventato prete nel 1950 se ci fosse stato allora il sostentamento del clero ad assicurare una retribuzione mensile sicura: «Non so — risponde — . Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no, se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m'avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà» (Regno-att. 20,2006,674). operario, non militante La tuta operaia come ultimo vestito e le numerose pagine delle sue opere legate alla sua esperienza di fabbrica (Come atomo sulla bilancia, Morcelliana, Brescia 1972; Sfilacciature di fabbrica, 1972; I miei amici, Sironi, Milano 2008) dicono la profonda risonanza personale della sua scelta di vivere del proprio lavoro. Ma, pur essendo e rimanendo prete operaio, non è mai stato del tutto organico o rappresentativo del filone prevalente dei preti operai italiani. Non solo perché poco propenso all'ideologia e refrattario ad appartenenze vincolanti, ma per un senso specifico della "diversità" del prete. «È inutile voler giocare un ruolo che non posso giocare: io non mi sono mai sentito né mi sento un operaio che voglia fare movimento operaio. Accetto la condizione sociologica dell'operaio fin che me lo permette il fatto d'essere prete, formato in questo modo, in questa Chiesa» (I miei amici, p. 151). Niente di più lontano dalla sua sensibilità il fatto di perseguire una «Chiesa in classe operaia». E, tuttavia, del tutto interno a quel mondo, apprezzato collaboratore di Pretioperai e di Viator, difensore dei loro principi ecclesiali. Anzi, uno dei frutti migliori. Se la tradizione pastorale italiana deve non poco ai preti operai del Piemonte e del Triveneto, come pure il clero è spiritualmente debitore della ricerca interiore dei preti operai, anche la pubblicistica e la narrativa sul ministero ha in lui, come in Sirio Politi e altri, un riferimento importante. letterato, non arcade La poesia e la narrativa si sono rivelate alla lunga il campo più rilevante e ampio del suo ministero. Non appartenente all'accademia o all'arcadia, né a scuole particolari, la sua poetica nasce dentro la sua fede e il suo ministero. Forse si può sentire l'eco della passione di un Davide Turoldo. Ma il testo che gli ha riservato maggiore attenzione e risonanza, forse il romanzo "cattolico" più bello degli ultimi cinquant'anni assieme a Il cavallo rosso di E. Corti, è La messa dell'uomo disarmato (Sironi, Milano 2003), un racconto fluviale e drammatico sulla resistenza cattolica nelle aree della bassa milanese. Le parole messe in bocca ad un vecchio parroco in memoria di un amico partigiano non credente suonano come un viatico per sé: «Certo, dobbiamo onorare i morti continuando a vivere senza rimpianti, anche se è duro pensare che loro hanno pagato per me, per tutti... Certo, bisogna continuare a vivere come se loro non fossero morti, dire ogni giorno nella messa: communicantes et memoriam venerantes in primis, non scandalizzarti Franco di questo vecchio prete, in primis — ripeté con più forza — gloriosum fratrum nostrorum, e faccio seguire quei nomi perché mi rimangano impressi per tutta la giornata e mi aiutino a portare il pondus diei et aestus. ... Non ci resta che questo comunicare con loro, e venerarne la memoria, in un anello che si congiungerà con un altro anello dopo di noi, quando saremmo annoverati fra coloro di cui si deve fare memoria, un anello fra i molti ma sempre completo nella sua individualità. In fondo, la vita è questo comunicare con coloro che ci hanno preceduto, e farne memoria» (p. 747). Ma è nella traduzione della trilogia di san Giovanni della croce (Salita sul monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale, EDB, Bologna) che si coglie la sua monastica inclinazione alla mistica e alla profezia: «Là tu mi mostrerai ciò che l'anima mia pretendeva, e tosto mi darai ancora là, vita mia quanto già mi donasti il dì passato» (Cantico spirituale, p. 35).