la carne sintetica sfid

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la carne sintetica sfid
FRANKENBURGER
la carne sintetica sfid
Paolo
Benanti
P
iù di duecento giornalisti il 5 agosto 2013 hanno affollato i Riverside
Studios di Londra non per il lancio
di un nuovo telefonino o di un altro
apparecchio elettronico bensì di un
panino: un hamburger, per la precisione, che però era non meno stupefacente
di un computer da un punto di vista tecnologico.
Il panino in questione era una creazione del
professor Mark Post, un docente di biotecnologia dell’università di Maastricht, che ha
realizzato il piatto utilizzando carne sintetica (o carne artificiale o carne in vitro). La
carne, cucinata dal cuoco Richard McGeown del Couch’s Great House Restaurant
di Polperro, in Cornovaglia, venne assaggiata dal critico culinario Hanni Ruetzler,
studioso di alimentazione del Future Food
Studio, e da Josh Schonwald (1).
che cos’è la carne sintetica
ROCCA 1 DICEMBRE 2016
Cerchiamo a capire la natura di questo prodotto innaturale. La squadra di biotecnologi olandesi aveva realizzato un prodotto di
carne animale che non era mai stato parte
di un animale vivo. In realtà questa affermazione, volutamente provocatoria, era
vera se si esclude il siero fetale di un vitello
utilizzato come base biologica. Il siero fetale bovino, indicato con la sigla FBS o FCS
dall’inglese Fetal Calf Serum, è un liquido
costituito dalla frazione del plasma sanguigno che rimane dopo la coagulazione del
sangue, cioè utilizzando i termini tecnici
propri, dalla conversione di fibrinogeno in
fibrina. Il siero fetale bovino è di fatto un
prodotto secondario dell’industria della
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carne, ottenuto dal sangue che viene raccolto dal feto di bovine gravide durante il
processo di macellazione tramite un sistema chiuso di collettori che ne garantiscono la sterilità. L’équipe olandese è ricorsa
al FBS perché questo è considerato uno
strumento standard per il mantenimento
di linee cellulari in vitro: il FBS contiene
proteine plasmatiche, fattori di crescita,
fattori di adesione, sali minerali, chelanti,
vitamine, elettroliti e altre sostanze che favoriscono la sopravvivenza e la proliferazione di cellule mantenute in coltura. Il tessuto per la dimostrazione era il risultato di
un processo di coltura in vitro condotto a
maggio 2013, utilizzando almeno 20.000
strisce sottili di tessuto muscolare prodotto in laboratorio e fatte moltiplicare in un
bioreattore. Il team olandese spiegò che una
volta innescato il processo, teoricamente è
possibile continuare a produrre carne all’infinito senza aggiungere nuove cellule da
un organismo vivente. Si è stimato che, in
condizioni ideali, due mesi di produzione
di carne in vitro potrebbero generare 50.000
tonnellate di carne da dieci cellule muscolari di maiale.
Nel corso della presentazione alla stampa i
due assaggiatori raccontarono che, a parte
l’essere un po’ meno saporito di un tradizionale hamburger – cosa peraltro incidentale e superabile –, il prodotto artificiale era
in tutto e per tutto uguale agli hamburger
tradizionali. La stampa rispose dando enorme rilievo al fatto e coniò una serie di epiteti per questo nuovo hamburger: in provetta, di laboratorio, coltivato, in vitro, prova
di principio, senza crudeltà e persino il fantasioso Frankenburger (2).
La produzione dell’hamburger di Post era
costata 331.400 dollari, cifra raggiunta grazie a una donazione anonima di circa
250.000 euro. In seguito si è risaliti al donatore, Sergey Brin, uno dei due fondatori
del colosso informatico Google.
il dibattito
La realizzazione di questo alimento in laboratorio ha rafforzato il dibattito che diversi accademici stanno portando avanti
sulla natura della tecnologia e sul suo significato per l’esistenza umana (3). Una
prima domanda a cui sembra necessario
rispondere è se la carne in questione sia da
considerarsi viva o morta: il tessuto di cui
è composto l’hamburger cresce e si moltiplica ma non sembra avere le caratteristiche fondamentali per definirlo come vivo
(4). Infatti sebbene le cellule crescano e si
moltiplichino secondo dei sub -processi che
appartengono anche ai viventi, tuttavia le
strisce di tessuto non godono di quelle caratteristiche come l’irritabilità e l’assimilazione che ci aiutano a distinguere le dinamiche di un vivente da quelle di un essere
inanimato. La carne dell’IVM nel bioreattore accresce ma non si riproduce o gode
di quella natura finalistica che caratterizza
i viventi.
Inoltre questa carne non è naturale, eppure non possiamo nemmeno classificarla
come artificiale: la carne sintetica, che attualmente viene indicata in ambiente scientifico con la denominazione In Vitro Meat
o IVM, mostra, come una serie di altri fronti
della tecnologia, che il binomio naturaleartificiale non è più adeguato a descrivere
la realtà. Emerge e si profila la categoria «Sfuggiremo all’asdel sintetico: qualcosa che non è distinguisurdità di far
bile secondo nessun punto di vista dal nacrescere un pollo
turale ma che esiste perché prodotto seconintero,
do processi che normalmente definiscono solo per mangiarne
l’artificiale (5). Cosa sia il sintetico e come
il petto o l’ala,
debbano queste categorie aiutarci a ridefifacendo crescere
nire la nostra comprensione del reale è una queste parti separaquestione sempre più urgente (6).
tamente in un
Tuttavia il costo e la complessità di questo ambiente adatto»
test pubblico di fatto potrebbero farci penW. CHURCHILL,
sare che la IVM non sia altro che una prova «Fifty Years Hendi concetto destinata a restare oggetto di ce» in The Strand
teoriche e ipotetiche discussioni accademi- Magazine 12 (1931)
che. Eppure il mondo delle biotecnologie è
in fermento; se lo stesso hamburger dovesse essere prodotto oggi, a tre anni di distanza, costerebbe solamente 10$; e il prezzo è
destinato a crollare esponenzialmente nei
prossimi mesi (7). Ci si aspetta che le società commerciali che si stanno occupando della produzione della IVM (prima tra
tutte Memphis Meats, che è famosa per il
particolare gusto e sapore dei suoi prodotti) lanceranno i primi prodotti commerciali, cioè destinati al mercato del consumo
globale, al massimo tra cinque anni (8).
Questa prepotente incursione della IVM sta
iniziando ad essere percepita nella sua reale dimensione etica e politica, e sta generando una pletora di commenti e proposte
di regolamentazioni, oltre a ingenerare paure in tanti cittadini.
7 filoni etici
Negli ultimi mesi il dibattito sulla IVM è
passato dal mondo accademico a quello
del dibattito pubblico e politico (9). Nel37
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da la società globale
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l’approcciare le diverse argomentazioni
si riconoscono sette filoni etici principali
che non esauriscono tutti i temi in materia ma che de facto rappresentano l’ordito che ingabbia le trame di ogni discorso sul tema. Proveremo a presentare questi filoni etici secondo un ordine che riproduce la diffusione dalle diverse posizioni.
La prima e più diffusa tesi si centra sul tema
ambientale: tutti sono concordi nell’affermare che la produzione delle IVM ha l’indubbio vantaggio di essere sostenibile, cioè
un modo per produrre cibo che riesce a
garantire la stabilità dell’ecosistema senza
sacrificare la biodiversità come fanno gli
allevamenti intensivi. Secondo questa argomentazione siccome le IVM soddisfano
condizioni di sostenibilità ambientale, economica e sociale produrranno di fatto benessere e progresso.
Immediatamente connessa a questa logica
argomentativa si è diffusa la tesi che il far
crescere la carne secondo la metodologia
IVM di fatto sottrarrà gli animali dalle pesanti condizioni che oggi caratterizzano
soprattutto i grandi allevamenti intensivi
industriali.
Una terza argomentazione riguarda l’equità del cibo. All’interno di questo filone si
trovano posizioni tanto a favore quanto
contrarie allo sviluppo e commercializzazione delle IVM. Chi è a favore sottolinea
come la cultura della carne sia un modo
per garantire una maggiore sicurezza nella
produzione con conseguenze di sostenibilità e di equità e giustizia intergenerazionale. Analogamente, chi vede nelle IVM un
possibile problema argomenta che la tecnologizzazione di questi processi produce
possibili rischi per i consumatori (legati a
possibili e imprevedibili effetti sulla salute). Inoltre, si afferma, inevitabilmente
l’IVM produce una ingiustizia nella produzione del cibo perché concentra in mano a
pochi le capacità produttive.
Una quarta categoria di discussione sulle
carni sintetiche prende di mira la problematica e delicata categoria di naturalità di
questo prodotto. Da una parte si vede nell’IVM addirittura un miglioramento della
produzione della carne rispetto a quella
naturale o genuina (la denominazione cambia a seconda degli autori, con evidenti sfumature valoriali). Di contro alcuni sostengono che il problema è proprio l’innaturalità del processo: la IVM sintetizza il prodotto attorno ad aspettative e desideri del
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produttore, e non accoglie un qualcosa di
dato come la carne tradizionale. Questo
produrrà carni sintetiche che i detrattori
definiscono false arrivandole a chiamarle
zombie o Frankenfood. Gli oppositori più
estremi sostengono che di fatto l’ingegnerizzazione del prodotto sintetico, se fatta
senza criterio, potrebbe portare anche a un
cannibalismo di fatto creando IVM che per
essere maggiormente assimilabili al corpo
umano dovrebbero derivare da carni classificabili come umane. In questa categoria
rientrano anche gli autori che sostengono
come le IVM potrebbero permettere l’assunzione di proteine animali a tutti quei vegetariani che si definiscono vegetariani etici
e che sostengono, come i vegani, di non
mangiare le carni per contestare la loro
cruenta macellazione.
Il dibattito si completa con altre tre categorie etiche minori che raccolgono ulteriori fattori di contrasto alla produzione e commercializzazione delle IVM. Si argomenta
contro le IVM attraverso un generico tecno-scetticismo (presupponendo di fatto che
tutto ciò che è tecnologico è da guardare
con sospetto); oppure abbracciando la linea della liberazione degli animali (sostenendo che le IVM non siano altro che una
nuova pagina nella continua e ininterrotta
storia di strumentalizzazione del mondo
animale); o infine secondo un paradigma
di armonia socio-ecologico che in nome di
una visione olistica e interdipendente della
natura vede per essa, in questo processo
tecnologico, una possibile causa di profondo squilibrio e pericolo.
Accanto a queste riflessioni propriamente
etiche si registra una grande narrativa mediatica che ricorre alle figure dell’immaginario popolare trasmesse alla cultura pop
soprattutto dal filone distopico della fantascienza (10).
Ci sembra importante sottolineare come la
percezione pubblica dell’IVM sia al momento ambigua. Alla domanda se reputano la
IVM come una cosa importante per l’umanità, i cittadini intervistati rispondono in
grande maggioranza sì. All’idea di trovare
questa carne come un prodotto qualunque
tra i diversi alimenti in vendita nei supermercati la risposta è di generale dissenso,
mentre gli intervistati si dichiarano totalmente d’accordo con l’idea di sfamare le
popolazioni povere del mondo con le IVM.
In altri termini si potrebbe sintetizzare l’opinione pubblica degli occidentali così: sì alle
IVM purché se le mangi qualcun altro (11)!
Alla fine di questa breve analisi è d’obbligo
richiamare l’attenzione su alcune questioni di fondo. Il discernimento che le IVM
richiedono rischia di frammentarsi, seguendo il dibattito attuale, in questioni monodimensionali che non sono in grado di raccogliere e analizzare la multidimensionalità di questo problema. La questione della
carne sintetica è un locus ideale per applicare quella forma di analisi proposta dall’enciclica Laudato si’: l’ecologia integrale.
Alla luce di questo sguardo globale del problema emergono due punti cardine che
dovranno essere adeguatamente valutati
prima dell’utilizzo delle IVM.
In primo luogo dovrà essere tutelata la persona: si dovrà essere certi che la produzione, il consumo e la commercializzazione delle carni sintetiche non nuoccia alla
salute e al benessere dei consumatori. In
secondo luogo la sostituzione di tecniche
a bassa tecnologia come l’allevamento animale con sofisticate biotecnologie industriali di fatto produce una frattura in quella continuità di relazione al mondo animale per scopi alimentari che caratterizza l’homo sapiens da almeno 30.000 anni.
Il know how necessario per questa produzione di fatto produrrà una nuova generazione di poveri: gli attuali allevatori. Le
analisi sulle IVM dovranno tenere conto
anche di questa possibile fonte di ineguaglianza che sembra prospettarsi con una
loro eventuale massiccia introduzione sul
mercato. In questo caso sembra che le analisi che la Laudato si’ fornisce sugli organismi geneticamente modificati (Ogm) si
adattino perfettamente al caso delle IVM:
l’enciclica fonda il suo giudizio sugli Ogm
non più solo sul principio di precauzione
nei confronti della persona umana ma anche sull’effetto che questi hanno sui poveri creando di fatto un monopolio tecnologico (nn. 130-136).
Prima che sia troppo tardi, e prima che la
carne sintetica diventi un problema da arginare o di cui cercare di mitigare gli effetti negativi sui singoli e sulla società, è
tempo di riconoscere la necessità di
un’analisi delle IVM. Solo in questo modo
sarà possibile offrire una adeguata governance di queste biotecnologie, orientandone lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione verso il bene comune.
Paolo Benanti
Note
(1) Cf. Wyatt Galusky, «Technology as Responsibility: Failure, Food Animals, and Lab-grown
Meat», Journal of Agricultural & Environmental Ethics 27, n. 6 (dicembre 2014): 931-48.
(2) Cf. Ludivine1 Petetin, «Frankenburgers,
Risks and Approval», European Journal of Risk
Regulation 5, n. 2 (marzo 2014): 168-86.
(3) Cf. Paolo Benanti, La condizione tecno-umana. Domande di senso nell’era della tecnologia,
(EDB, Bologna 2016).
(4) Cf. Paolo Benanti, Ti esti? Prima lezione di
bioetica (Cittadella, Assisi 2016).
(5) Si pensi ai diamanti sintetici: all’analisi di
nessun gemmologo sono distinguibili da un diamante estratto da una miniera (se si esclude il
numero di serie inciso al loro interno e dall’assenza strutturale di impurità) ma sono composi chimici prodotti dall’uomo.
(6) Cf. Benanti, La condizione tecno-umana.
Domande di senso nell’era della tecnologia.
(7) Cf. Muthuraman Pandurangan e Doo Kim,
«A novel approach for in vitro meat production»,
Applied Microbiology & Biotechnology 99, n.
13 (luglio 2015): 5391-95.
(8) Cf. Trae Norton, «From the Lab to the Supermarket: In Vitro Meat as a Viable Alternative to Traditional Meat Production», Journal of
Food Law & Policy 11, n. 1 (Spring 2015): 15780.
(9) Per la sintesi che qui proponiamo rimandiamo a: Tasmin Dilworth e Andrew1 McGregor, «Moral Steaks? Ethical Discourses of In
Vitro Meat in Academia and Australia», Journal of Agricultural & Environmental Ethics 28,
n. 1 (febbraio 2015): 85-10 7; G. Owen Schaefer e Julian Savulescu, «The Ethics of Producing In Vitro Meat», Journal of Applied Philosophy 31,
n. 2 (maggio 2014): 188-202 e Linnea1 Laestadius, «Public Perceptions of the Ethics of Invitro Meat: Determining an Appropriate Course of Action», Journal of Agricultural & Environmental Ethics 28, n. 5 (ottobre 2015): 991100 9.
(10) Il tema sarebbe interessante e ricco di spunti ma vista la natura di questo contributo non
possiamo addentrarci oltre. Per chi fosse interessato rimandiamo ai seguenti contributi: Dilworth e McGregor, «Moral Steaks?», Laestadius, «Public Perceptions of the Ethics of Invitro Meat»,
Zachary Schneider, «In Vitro Meat: Space Travel, Cannibalism, and Federal Regulation»,
Houston Law Review 50, n. 3 (Winter 2013):
991-1025.
(11) Cf. Laestadius, «Public Perceptions of the
Ethics of In-vitro Meat» e Wim Verbeke et al.,
«Would You Eat Cultured Meat?»: Consumers’
Reactions and Attitude Formation in Belgium,
Portugal and the United Kingdom», Meat Science 102 (aprile 2015): 49-58.
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