IL MIO PRIMO VIAGGIO IN TRENO

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IL MIO PRIMO VIAGGIO IN TRENO
E VENNE LA GUERRA
Nel settembre del 1943 avevo otto anni e vivevo a Castelforte (Latina), paese
collinare dei monti Aurunci, nel Basso Lazio. La guerra era arrivata in territorio
nazionale e velocemente risaliva la Penisola. I Castelfortesi erano preoccupati per il
precipitare degli eventi. Invece io, distratto dai giochi, ero inconsapevole della tempesta
che si stava abbattendo su di noi. Infatti un giorno, all’improvviso, in paese giunsero
numerosi soldati tedeschi e vi si insediarono. L’evento determinò il mio brusco
passaggio dal mondo della spensierata fanciullezza alla tragica realtà della guerra. Per
molto tempo dovetti convivere con la morte, la distruzione, la miseria, la fame, le
malattie e le traversie di ogni genere, rimanendone indelebilmente segnato nell’animo.
I Tedeschi, armati di tutto punto, perlustrarono il territorio per far capire che su di
esso vigeva la loro legge di guerra. Da alleati si erano trasformati in nemici risentiti.
Obbligarono gli uomini a lavorare nell’allestimento delle strutture difensive;
requisirono derrate, animali da soma e da macello e tutto ciò di cui avevano bisogno. Il
23 settembre, infine, dopo aver bloccato tutte le vie d’uscita del paese, intimarono agli
uomini abili al lavoro di radunarsi in località San Lorenzo, minacciando gravi sanzioni
nei confronti dei disubbidienti e delle loro famiglie. Alcuni si presentarono, altri furono
presi. Centinaia di cittadini, tra i quali mio padre, furono internati nei lager della
Germania. I pochi sfuggiti alla cattura si rifugiarono nelle colline retrostanti, vivendo
alla macchia come latitanti. Mia madre, come tutte le donne, da sola dovette provvedere
alle necessità della famiglia e fronteggiare quella difficile situazione.
Il 16 ottobre il Comando tedesco ordinò lo sgombro totale della popolazione entro le
successive ventiquattro ore. Gli abitanti non eseguirono l’ordine, convinti che gli
Alleati avrebbero agevolmente travolto lo sbarramento difensivo approntato a
Castelforte. La decisione di restare fu una follia! Difatti, la zona divenne importante
caposaldo della linea Gustav e territorio di prima linea per otto lunghi mesi. I cittadini
nascosero i loro beni e si trasferirono in collina. La notte si dormiva in capanne di
strame e frasche, praticamente all’aperto. Il tempo era inclemente, con freddo e
continue piogge. Si mangiava solo pane raffermo, legumi, grano, granturco, noci, fichi
secchi, carrube, lupini ed olive. Durante il giorno era pericoloso accendere il fuoco,
dato che il fumo poteva richiamare l’attenzione dei Tedeschi o indurre gli Alleati a
bombardare la zona. Solo quando era buio pesto si cucinava qualcosa, schermando la
fiamma. Con il tempo la situazione divenne insostenibile. Infatti, la fame, le malattie, le
pessime condizioni igieniche, le molestie dei parassiti, la carenza di acqua potabile,
l’assenza di farmaci e di cure mediche indussero gli abitanti a rientrare in paese.
I Tedeschi valutarono la situazione e decisero di allontanare la popolazione con
rastrellamenti in massa, che furono effettuati in modo violento e sbrigativo. Noi fummo
rastrellati la sera del 26 dicembre 1943. I soldati fecero irruzione in casa con le armi
puntate, gridando minacciosi e spingendoci fuori, senza consentirci di prendere
indumenti o cose utili per il trasferimento. Aggregati agli altri, ci fecero imboccare la
strada per Coreno Ausonio. Dopo alcune ore arrivammo a destinazione e ci sistemarono
nella chiesa parrocchiale Santa Margherita, dove si trovavano centinaia di rastrellati. Il
luogo sacro era profanato dal frastuono assordante, dal pianto dei bambini, dalla
sporcizia, dall’aria irrespirabile per il lezzo delle orine e degli escrementi sparsi sul
pavimento. Chi aveva impellenti necessità effettuava i bisogni fisiologici dove poteva,
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poiché per nessun motivo era consentito uscire. Di primo mattino con dei camion
militari ci condussero all’Abbazia di Priverno Fossanova, a circa novanta chilometri di
distanza. Il pomeriggio ci trasferirono alla vicina stazione ferroviaria e ci fecero salire
su dei carri merci fetidi, con uno strato di paglia sul pianale e infestati di parassiti. Gli
adulti si sedevano per terra, appoggiati alle pareti, o si sdraiavano. I bambini stavano
con la testa china sulle ginocchia delle mamme e nonne o rannicchiati tra le loro
braccia. Il treno era trainato da una locomotiva alimentata a carbone, il cui fumo
toglieva il respiro durante l’attraversamento delle numerose gallerie della tratta
appenninica. Inoltre, il freddo, la fame, l’indolenzimento dovuto alla scomoda
posizione, lo sferragliare del treno e il rumore ritmato provocato dalle ruote sulle
giunture dei binari accentuavano il disagio del viaggio. Se si teneva il portellone
socchiuso per fare entrare un po’ di luce e cambiare l’aria, aumentava il freddo; se si
teneva chiuso, si stava al buio con la sensazione di soffocamento. Noi piccoli eravamo
anche tormentati dai geloni alle orecchie e alle dita di mani e piedi. Per riscaldarci si
accendeva un focherello dentro una vecchia bacinella, ma si doveva spegnere dopo un
po’ per l’eccessivo fumo. Ogni tanto distribuivano gallette o pane, che non attenuavano
i morsi della fame. Durante le lunghe soste del treno le donne si sparpagliavano nella
zona per elemosinare cibo, abiti dismessi, coperte o raccogliere legna. L’estenuante
viaggio terminò la sera del 31 dicembre con l’arrivo a Mantova, dove ci alloggiarono in
una scuola e ci rifocillarono con un pasto freddo. La mattina del 2 gennaio del 1944 un
gruppo di famiglie, tra cui la mia, fu condotto a San Matteo delle Chiaviche, frazione di
Viadana (Mantova). Gli abitanti erano stati avvertiti del nostro arrivo. Infatti,
prepararono per noi un abbondante pasto caldo, che ci ritemprò dopo mesi di digiuno.
Al termine, ciascuna famiglia del luogo ne accolse una di sfollati, fino alla sistemazione
definitiva nella località. Quasi tutti i bambini furono ospitati presso le famiglie per
l’intera durata dello sfollamento. La solidarietà, la generosità e l’accoglienza che
ricevemmo ci consentirono di vivere dignitosamente e cicatrizzare le ferite della guerra.
Tra sfollati e residenti si instaurarono rapporti di sincera e affettuosa amicizia che
durarono fino alla scomparsa dei protagonisti. Quel doloroso e tragico periodo mi fece
capire l’importanza del calore e della solidarietà della gente quando si ha bisogno. Il
ricordo della comunità di San Matteo è tuttora scolpito nella mia memoria.
Nell’estate del 1945 tornammo a Castelforte e trovammo un paese raso al suolo, ove
non era possibile vivere. Per la mia famiglia ci fu un altro periodo di sfollamento a
Roma. Qui nel mese di dicembre rientrò mio padre dall’internamento in Germania; ma
dopo circa un mese si spense per la grave malattia contratta durante la prigionia. Con la
sua scomparsa la situazione familiare divenne disperata, poiché con la guerra avevamo
perso tutto, tranne la vita. Risalire la china fu un miracolo. Ancora oggi, quando ripenso
a quel periodo, affiora il ricordo delle parole che diceva mia madre nei momenti
difficili: “Non dobbiamo abbatterci. Non siamo soli. Dio vede e provvede.” Sì, aveva
ragione!
Ezio D’Aprano
Riportato in: Comune di Noceto, Premio Letterario Nazionale, “La storia si scrive a Noceto … parola
di nonno”, 6ª Edizione, Anno 2011.
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