La “dignità” nei molteplici usi presenti nell`organizzazione giuridica

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La “dignità” nei molteplici usi presenti nell`organizzazione giuridica
La “dignità” nei molteplici usi presenti nell’organizzazione giuridica italiana
di Paolo Becchi
1. Usi della dignità nella Costituzione e nella legislazione ordinaria
La prima cosa che non può non sorprendere quando ci si appresta ad analizzare l’ordinamento
costituzionale italiano è l’uso del termine dignità. La Costituzione repubblicana entrata in vigore il
1° gennaio del 1948 – e dunque anteriore alle stessa Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo
– contiene tre riferimenti espliciti alla dignità: l’art. 3, 1˚comma, si riferisce alla “pari dignità
sociale”, di tutti i cittadini, l’art. 36, 1˚comma, ove si sostiene che il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione tale da “assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; l’art. 41,
2˚comma, ove si afferma che l’attività economica privata non può svolgersi “in modo da recar
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Abituati a considerare la dignità in modo astratto, come una qualità inerente l’essere umano,
intrinseca alla condizione umana, dobbiamo subito registrare che nulla di tutto ciò si ritrova negli
articoli citati. La Repubblica italiana non è fondata sul riconoscimento di un principio assoluto e
incondizionato come la dignità umana, ma “sul lavoro” come recita l’art. 1 e di conseguenza il
soggetto con cui viene posta esplicitamente in relazione la dignità non è mai l’uomo in quanto tale,
ma il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore. Persino laddove si trova la locuzione “dignità umana”
(art. 41) essa riguarda in particolare le mansioni lavorative che non devono rivelarsi degradanti o
umilianti per coloro che sono chiamati ad eseguirle. Vale la pena sottolineare però l’espressione
“pari dignità sociale” che, se male non mi appongo, non si ritrova in nessun’altra Costituzione.
1
Come è stato osservato in uno dei pochi contributi dedicati specificamente a questa formulazione
“si tratta evidentemente di un parametro non assoluto, ma relazionale”1, non è cioè un principio
incondizionato, pre-positivo, paragonabile, per fare un esempio significativo a quello che emerge
dall’articolo 1 del pressoché coevo Grundgesetz2, bensì una qualificazione di diritto positivo, che in
modo esplicito viene attribuita alla totalità dei cittadini.
C’è uno stretto collegamento tra i tre articoli della Costituzione in cui compare il riferimento alla
dignità. Il filo che li collega è la nozione di lavoro, a cui a ben vedere si riferisce anche l'articolo 3,
se interpretata in una accezione ampia, vale a dire non limitata come nei due precedenti articoli
all’attività di lavoro subordinato. È il lavoro che consente di realizzare la “pari dignità sociale”.
Aboliti tutti i titoli nobiliari contribuire con il proprio lavoro (qui inteso nella sua accezione più
ampia di esplicazione di una attività produttiva) al progresso della società è l’unico titolo di dignità
ammesso dalla costituzione italiana, e diventa il suo valore fondante.
Ciascun cittadino è portatore di un valore pari a quello di ciascun altro cittadino e questo già
implica la deduzione contenuta nel secondo comma dell’art. 3, vale a dire la piena partecipazione di
tutti i cittadini – soprattutto di coloro che a causa delle loro condizioni ne sono di fatto impediti –
alla vita della collettività: “dignità” non è un dato naturale da difendere, ma qualcosa da
1
Cfr. G. Ferrara, La pari dignità sociale. (Appunti per una ricostruzione), in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli,
vol.II, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 1089-1105; la stessa linea interpretativa, ma attualizzata al nuovo contesto sociale
della crisi del Welfare si ritrova nell’articolo di M.R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello
costituzionale per il diritto europeo di contratti, in “Rivista critica del diritto privato”, XXV, 1, 2007, pp. 67-103. Cfr.
anche P. Grossi, La dignità nella Costituzione italiana, in La tutela della dignità dell’uomo, a cura di E. Ceccherini,
Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, pp. 113-136 (il saggio è apparso anche, con lo stesso titolo, in “Diritto e società”,
2008/1, n. 1, pp. 31-63). Tra gli scritti più recenti si veda F. Politi, Diritti sociali e dignità umana nella Costituzione
Repubblicana, Torino, Giappichelli, 2011.
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Il comma 1 dell’art. 1 del Grundgesetz recita: «La dignità umana è intangibile. Rispettarla e difenderla è dovere di
ogni potere dello Stato». Per un confronto tra la Costituzione italiana e quella tedesca con specifico riguardo al tema
della dignità non posso qui che rinviare al mio contributo: Die italienische verfassungsrechtliche Variante im Vergleich
zur deutschen, in: Menschenwürde. Begründung, Konturen, Geschichte, a cura di G. Brudermüller e K. Seelmann,
Würzburg, Kӧnigshausen und Neumann, 2008, pp. 107-116 e ora, in una versione integralmente rielaborata, a P. Becchi,
La dignità umana nel Grundgesetz e nella Costituzione italiana, in «Ragion pratica», Nr. 38, 2012, in corso di stampa.
La parte monografica del fascicolo, che ho curato insieme a F. Belvisi e V. Pacillo, è dedicata alla dignità umana.
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promuovere e costruire rimuovendo tutti quegli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese” (art. 3, 2˚comma). Vi è tuttavia anche un altro aspetto da
considerare. Se l’art. 3 ha questa funzione propositiva, negli altri due contesti essa compare come
limite: sia come limite all’attività imprenditoriale, che come abbiamo visto non può svolgersi in
modo da danneggiare la dignità umana (art. 41), sia come limite all’attività lavorativa. L’art. 36,
infatti, mentre garantisce al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e il diritto al riposo
settimanale e alle ferie annuali retribuite, sottolinea che a questo diritto “non può rinunciarvi” (art.
36, 3° comma).
Mentre la dignità è tradizionalmente associata all’aggettivo “umana”, la Costituzione italiana però,
introducendo i due aggettivi “pari” e “sociale”, preconizza uno scenario diverso, quello appunto
descritto dall’art. 3, al 2˚comma. La dignità è connessa tanto al ruolo che ciascun consociato è
chiamato attivamente a svolgere all’interno della società, quanto al fatto che lo Stato deve
assicurargli la possibilità di svolgere e di svolgerne dignitosamente uno. Come il lavoro oltre ad
essere un diritto è altresì un dovere, così la dignità oltre ad essere un onore, del tutto sui generis
poiché connesso ai meriti acquisiti con le proprie prestazioni sociali e un onere, dal momento che
ciascun consociato è chiamato a contribuire con la sua attività al progresso economico e sociale del
proprio paese.
Ben inteso, anche la Costituzione italiana riconosce i “diritti inviolabili dell’uomo” in quanto tale
(art. 2) e dunque non solo nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la propria personalità, ma anche
come “singolo”, e tuttavia è significativo che neppure l’art. 32, 2˚comma, un articolo, come
vedremo al centro di molte attuali discussioni, in cui si afferma che “nessuno può essere obbligato
ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (e che persino quest’ultima “non può
3
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”), ritorni esplicitamente il
riferimento alla dignità umana.
Implicito resta il rinvio alla dignità anche in un altro punto esemplare: quello che riguarda il
trattamento del detenuto. L’art. 27, 3˚comma, afferma, in negativo, che “le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e subito dopo continua, in positivo, che esse
“devono tendere alla rieducazione (sociale) del condannato”3. Così pur riconoscendo attraverso
l’umanitarismo penale il principio che nessun condannato deve essere trattato in modo degradante e
umiliante è, ancora una volta, sulla dimensione sociale che si insiste, sottolineando che lo scopo
della pena deve mirare al recupero sociale del detenuto.
L’analisi della Costituzione potrebbe continuare entrando nel dettaglio delle singole disposizioni
analizzate, ma non è questa l’occasione per farlo, qui preme piuttosto sottolineare che l’uso esplicito
del vocabolo “dignità” è in essa circoscritto alla dimensione sociale – la dignità paritaria che
implica l’eguaglianza sostanziale dei cittadini –, mentre l’altro uso, quello che la considera un
principio supremo, pre-positivo, è solo implicito. La formulazione del tutto peculiare usata dal
Costituente – “pari dignità sociale” – non ha avuto particolare fortuna in dottrina4, salvo le rare
eccezioni che abbiamo segnalato. Basta sfogliare i manuali di diritto costituzionale più accreditati 5 e
le enciclopedie giuridiche più diffuse per rendersene subito conto. Solo l’Enciclopedia giuridica
Treccani ha inserito una voce concernente la dignità, ma significativamente essa riguarda
3
Si veda, al riguardo, in particolare M. Ruotolo, Il principio di umanizzazione della pena e i diritti dei detenuti nella
Costituzione italiana, in “Diritto e società”, 2005/1, n. 3, pp. 51-74 e, del medesimo autore, la monografia Diritti dei
detenuti e Costituzione, Torino, Giappichelli, 2002.
4
Prima del contributo di Ferrara, citato alla nota 1, la formulazione era stata ampiamente sottovalutata dai
costiruzionalisi e compare solo del tutto incidentalmente nelle due monografie che affrontano in modo specifico il tema
della dignità sotto il profilo costituzionale. Cfr. F. Bartolomei, La dignità umana come concetto e valore costituzionale,
Torino Giappichelli 1987, pp. 20-21 e A. Pirozzoli, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, Roma,
Aracne, 2007, pp. 125-126. Una trattazione più ampia nel recente volume di M. Di Ciommo, Dignità umana e Stato
costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella costituzione italiana e nelle giurisprudenze
europee, Firenze, Passigli, 2010, p. 147-156.
5
I più importanti sono riportati nell’esile sottoparagrafo dedicato alla “pari dignità sociale” nel recente Commentario
alla Costituzione, Art. 1-54, Torino, UTET, 2006, pp. 671-72 (A. Celotto).
4
esclusivamente la dignità del lavoratore6. L’interesse tuttavia sta senza dubbio crescendo, come
mostra l’introduzione della voce “dignità” nel Trattato di Biodiritto7 e nel recentissimo quarto
volume dell’Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica8. Come è evidente è la connessione tra
bioetica e dignità ad essere ora al centro di molte discussioni sia con riferimento all’inizio della vita
(tecniche di riproduzione assistita) sia alla fine (rifiuto di cure, eutanasia). Ma di tutto ciò ci
occuperemo in seguito.
Prima di analizzare alcune interessanti pronunce giurisprudenziali è opportuno fare una carrellata
della legislazione ordinaria. Anche se la nozione di dignità non compare nè nel codice civile, nè in
quello penale, molteplici sono i riferimenti alla dignità nelle leggi ordinarie. Tenuto conto
dell’importanza che assume la figura del lavoratore nella Costituzione è proprio da qui che prende
le mosse il legislatore, approvando con la legge n. 300 del 20 maggio 1970 lo Statuto dei lavoratori,
in cui è centrale il richiamo alla dignità. Tutelando la categoria dei lavoratori da modalità di
controllo messe in atto dai datori di lavoro sull’attività lavorativa e sul lavoratore medesimo la
legge portava a concreta realizzazione il dettato costituzionale9. In anni più recenti quella tutela si è
di molto estesa, comprendendo anche un’ampia gamma di comportamenti riconducibili al
cosiddetto mobbing (si veda il d. leg. 11 aprile 2006, cd. Codice delle pari opportunità) e ad un
6
Cfr. A. Cataudella, Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), in Enciclopedia Giuridica Treccani, XI, Roma,
1989 (1a ed.), pp. 1-11 (dell’estratto).
7
Cfr. G. Resta, La dignità, in Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, vol. I: Ambito e fonti del biodiritto,
Milano, Giuffrè, 2010, pp. 259-296 (si tratta del miglior lavoro di sintesi attualmente esistente per quel che attiene il
biodiritto).
8
Dignità, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, diretta da E. Sgreccia e A. Tarantino, vol.IV (in corso di
pubblicazione) Napoli-Roma, ESI.
9
Oggi, una controriforma del mercato del lavoro imposta all’Italia dall’Unione Europea sta smantellando le conquiste
dei lavoratori ottenute con le lotte operaie alla fine degli anni Sessanta. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevedeva
infatti una norma di tutela come è quella del reintegro per chi fosse stato licenziato senza una giusta causa o in modo
discriminatorio. Senza il “principio lavorista” (art. 1), si perdono i fini e le forze che reggono l’affermazione
dell’uguaglianza e la “pari dignità sociale” dei cittadini (art. 3): gli stessi diritti inviolabili (art. 2) perdono il loro
fondamento ultimo.
5
fenomeno che spesso a questo è connesso, quello delle molestie e in specie di quelle sessuali,
considerate alla stregua di discriminazione10.
Partendo dal soggetto-lavoratore nel corso degli anni la tutela della dignità si è andata ad estendere
a diversi altri soggetti, tutelati proprio per via della loro specifica condizione: il detenuto, la donna,
il malato, la persona disabile, lo straniero, il consumatore, il defunto, e così via con differenziazioni
ulteriori e sempre più specifiche (ad es.: il tossicodipendente, il malato terminale ecc.). Non pare
invece aver assunto un ruolo di rilievo il richiamo alla dignità con riferimento all’embrione. Nella
pur controversa legge n. 40 del 2004 sulla fecondazione assistita non ricorre mai il riferimento alla
dignità dell’embrione, quantunque il primo articolo assicuri “i diritti di tutti i soggetti coinvolti,
compreso il concepito”. Di seguito una rassegna delle leggi più importanti.
Con riferimento alla condizione di detenuto già la legge n. 354 del 26 luglio 1975, sull’ ordinamento
penitenziario, portando a concreta realizzazione quanto previsto dalla Costituzione, afferma che “il
trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità
della persona”. Con riferimento alla donna si pensi anzitutto alla legge n. 194 del 22 maggio 1978
sull’interruzione volontaria della gravidanza, in cui si sottolinea che gli accertamenti necessari in
vista di tale richiesta dovranno avvenire “nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna”
(art. 5). Con riferimento alla condizione di malato già l’importante legge n. 833 del 23 dicembre
1978, con la quale si istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, richiamando l’art. 32 della
Costituzione, fa esplicito riferimento al fatto che anche i trattamenti sanitari obbligatori disposti
dall’autorità giudiziaria devono avvenire “nel rispetto della dignità della persona umana” (art. 33).
In particolare al tossicodipendente si riferisce il testo unico della legge in materia (d.p.r. 9 ottobre
1990, n. 309; le recenti modifiche, l. n. 49 del 2006, non riguardano il tema qui trattato), il quale
10
Cfr., in generale, M. V. Ballestrero, G. De Simone, Diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 2003 e, specificamente, M.
Barbera, Molestie sessuali: la tutela della dignità, in “Diritto e pratica del lavoro”, 1992, pp. 1401-1406.
6
prevede che il programma terapeutico socio-riabilitativo sia “formulato nel rispetto della dignità
della persona“ (art. 122, 2˚comma). Della dignità del malato terminale si occupa la recentissima,
controversa, legge su “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di
dichiarazioni anticipate di trattamento”, ma si tratta di un riferimento meramente formale (la legge
all’art. 1, lettera b, “riconosce e garantisce la dignità di ogni persona in via preliminare rispetto
all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza”), contraddetto da
concrete disposizioni che di fatto per più versi la violano (non è richiesto il consenso del paziente
quando ci si trovi in una situazione d’urgenza, anche se l’interessato è ancora capace di intendere e
di volere e quindi gli si impone un trattamento non voluto [art. 2, c. 9], si esclude dalla
dichiarazione eventuale anticipata di trattamento la possibilità di esprimersi sull’alimentazione e
l’idratazione artificiali [art. 3, c. 4]). Qualcosa di analogo si può dire con riferimento a tutt’altra
condizione, quella di straniero: la legge n. 40 del 6 maggio 1998 all’art. 12 afferma che qualora non
sia possibile eseguire immediatamente l’espulsione del clandestino “lo straniero è trattenuto nel
centro (di permanenza temporanea) con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno
rispetto della sua dignità”. (La legge più recente del 24 luglio 2008, n. 125 non modifica questo
punto se non per il fatto che ora i centri sono chiamati “di identificazione e di espulsione). In un
successivo d.p.r. del 30 marzo 2001 si sottolinea la necessità di monitorare “il livello di diffusione
nel nostro paese di atti discriminatori (…) profondamente lesivi della dignità degli stranieri”. Con
riferimento alle persone disabili particolare importanza riveste la legge quadro per l’assistenza,
l’integrazione sociale, i diritti delle persone disabili (legge n. 104 del 5 febbraio 1992) la quale
“garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona
handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella
società” (art. 1). Una più recente legge (la n. 7 del 9 gennaio 2006) tutela inoltre specificamente le
persone disabili da discriminazioni, specificando che tra di esse vanno fatte rientrare anche le
“molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla
7
disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di
intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti” (art. 2, 4˚comma). Con riferimento alla
condizione di consumatore, anche se la disciplina specifica (legge n. 281 del 30 maggio 1998) non
conteneva un esplicito richiamo alla tutela della dignità, esso era tuttavia presente nella legge n. 39
del 1˚marzo 2002 in cui, integrando precedenti disposizioni, si vietava “la televendita, che vilipenda
la dignità umana” (art. 52). Sorprende l’uso del vocabolo “vilipenda”: tale fattispecie di reato infatti
si riferisce nell’ordinamento italiano all’offesa fatta verso istituzioni, cose e simboli tutelati per
legge; il vilipendio di persone riguarda soltanto chi professa la propria fede religiosa o l’amministra,
e nell’ambito dei delitti contro la pietà dei defunti. È evidente che il legislatore, qui, ha fatto un uso
diverso del vocabolo. Riguardo al consumatore si deve però ora tenere presente il d. lgs. 6 settembre
2005, n. 206 (con il quale è stato emanato il Codice del Consumo). In particolare nell’art. 27 bis
compare la salvaguardia della dignità umana nei codici di condotta specifici che possono essere
adottati da organizzazioni imprenditoriali e nell’art. 30, 1˚comma, in cui è vietata “la televendita
che offenda la dignità umana”. Con riferimento al defunto il riferimento alla dignità compare in
alcune leggi regionali in materia di servizi funebri e cimiteriali, laddove si afferma la necessità di
tutelare la “dignità del defunto” (ad es. art. 1 della legge regionale umbra del 21 luglio 2004, n.12).
Tra le condizioni, sempre più specifiche, che prevedono una tutela della dignità va annoverata
quella di membro di una associazione che abbia come sua finalità la promozione sociale. Nell’art. 2
della legge n. 383 del 7 dicembre 2000 si parla infatti di “dignità degli associati”. E, per sottolineare
questo aspetto della dignità connessa al ruolo che la persona riveste sulle formazioni sociali, si
possono ricordare i codici deontologici di molte professioni in cui il vocabolo “dignità” viene
utilizzato per indicare la propria categoria: la dignità riferita allo status di lavoratore si estende così
alle libere professioni, come quella del giornalista, dell’avvocato, del consulente del lavoro, del
medico e del farmacista.
8
Sinora la nostra attenzione si è principalmente focalizzata, anche se non in modo esclusivo, su
quella dimensione sociale della dignità che riguarda concrete categorie di persone, le quali nelle
diverse formazioni sociali in cui temporaneamente o stabilmente sviluppano la loro personalità
possono, attraverso discriminazioni di ogni genere, trovare un impedimento alla loro realizzazione.
Oggi tuttavia i pericoli per la dignità umana possono venire anche dalla società stessa, nel momento
in cui essa tende a privare i singoli individui del nucleo più profondo di intimità, che dovrebbe
invece essere sottratto agli occhi indiscreti del pubblico. Ogni uomo non solo ha diritto ad essere
rispettato, in positivo, per quello che è nella società, ma anche in negativo, per quello che di sé non
vuole far conoscere agli altri, e su cui desidera che sia mantenuto l’assoluto riserbo. La dignità in
questo caso non riguarda il lavoratore, la donna, la persona disabile e così via, ma ciascun individuo
che ha diritto a non essere disturbato nella sua sfera privata. La nozione di riservatezza, di privacy, è
così l’altra faccia della dignità sociale. Tanto quest’ultima incide sull’esistenza sociale, quanto la
prima sull’esistenza individuale. L’apposito codice in materia di protezione dei dati personali (d.
lgs. n. 196/2003) nasce proprio da questa esigenza. Ed è significativo che tale codice non si limiti ad
enunciare fattispecie astratte e generali sotto le quali il giudice dovrà sussumere i casi concreti; ma
preveda l’istituzione di un Garante che dovrà valutare se singole situazioni possano costituire
violazione della privacy.
Due provvedimenti al riguardo sono di particolare interesse: nel primo (9 novembre 2005, il relatore
è Pizzetti), riguardante il trattamento dei dati personali in ambito sanitario viene ribadito che esso
deve avvenire “nel pieno rispetto della dignità dell’interessato” e che la “tutela della dignità
personale deve essere garantita nei confronti di tutti i soggetti cui viene erogata una prestazione
sanitaria, con particolare riguardo a fasce deboli quali i disabili, fisici e psichici, i minori, gli anziani
e i soggetti che versano in condizioni di disagio o di bisogno”. (Garante per la protezione dei dati
9
personali, Strutture sanitarie: rispetto della dignità umana). Anche se la “dignità personale”
riguarda tutti, una particolare attenzione viene riservata alle fasce deboli.
Il secondo provvedimento riguarda un argomento dal punto legislativo ancora aperto: vale a dire
quello delle intercettazioni telefoniche. A seguito della reiterata pubblicazione da parte di varie
testate giornalistiche di numerose trascrizioni di intercettazioni telefoniche il Garante (relatori:
Chiaravalloti e Paissan) ha emanato il 21 giugno 2006 un provvedimento (Garante per la protezione
dei dati personali, Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della persona) in cui si
ribadisce che il diritto dei cittadini all’informazione, con la connessa libertà di stampa deve
comunque avvenire senza ledere “il pieno rispetto della dignità della persona”.
In conclusione: la legislazione ordinaria lascia emergere una tutela della dignità molto differenziata,
che dalla dimensione eminentemente sociale e lo stretto legame con l’idea di eguaglianza
sostanziale, come esplicitamente previsto dalla Costituzione, è passata via via a coprire nuovi
scenari. Tutto ciò si riflette, come tra poco vedremo, tanto nella giurisprudenza costituzionale
quanto in quella ordinaria.
Ma prima va pur ricordato un elemento importante. La dignità umana come tale è pur entrata a far
parte del nostro ordinamento giuridico con la ratifica del Trattato di Lisbona, avvenuta con legge n.
130 del 2.8.2008, il quale all’art. 1bis colloca la dignità al primo posto tra i valori fondanti gli Stati
membri dell’Unione (seguono in successione la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di
diritto e i diritti umani), mentre i primi cinque articoli della sua Carta dei diritti fondamentali sono
raccolti sotto il Capo I, dedicato alla dignità, e qui la dignità, nell’ordine di successione, precede il
diritto alla vita, il diritto all’integrità della persona, il divieto della tortura e dei trattamenti inumani
e degradanti, la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato.
10
2. Usi della dignità nella giurisprudenza costituzionale e in quella ordinaria
È qui impossibile un’analisi dettagliata del profilo giurisprudenziale11. Ci limiteremo, pertanto, a
registrare le tendenze di fondo. Cominciamo anzitutto dalle pronunce della Corte Costituzionale. La
Corte ha fatto un uso tutto sommato piuttosto prudente del principio di dignità – a partire dalla
sentenza n. 3 del 1957 in cui si tenta persino di definire la “pari dignità sociale” osservando che
l’espressione “sta a significare, che devesi riconoscere ad ogni cittadino uguale dignità pur nella
varietà delle occupazioni o professioni anche se collegate a differenti condizioni sociali”circoscrivendolo a quanto specificamente previsto dall’art. 3 della Costituzione per ribadire
l’illegittimità di qualsiasi forma di discriminazione, oppure utilizzandolo come, elemento
rafforzativo, di sostegno, quando entrano in gioco i diritti inviolabili dell’uomo tutelati all’art. 2. In
alcune sentenze, più recenti, essa non si sottrae neppure all’attività di bilanciamento (si veda
esemplarmente la n. 196 del 2004).
Restano invece piuttosto isolate le pronunce in cui la Corte riconosce alla dignità un rilievo
autonomo. Ciò avviene, se non sbaglio, solo in due casi: quando attraverso di essa si vuol
configurare un nuovo diritto costituzionalmente protetto, come esemplarmente la sentenza n. 37 del
1985, nella quale si fa discendere dalla dignità “un diritto costituzionale agli alimenti”, o quando la
dignità – sottratta ad ogni bilanciamento – viene intesa come un limite, rispetto al quale altri diritti
11
Per un esame più approfondito cfr. anzitutto A. Ruggeri – A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza
costituzionale, in “Politica del diritto”, 3, 1991, pp. 343-337 e, più recentemente F. Gambini, Il principio di dignità, in I
diritti della persona. Tutela civile, penale, amministrativa, a cura di P. Cendon, vol.I, Torino, UTET, 2005, pp. 236-241
e soprattutto A. Pirozzoli, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, Roma, Aracne, 2007, pp. 103-137 (alle
pagine indicate si trova la più ampia rassegna, oggi esistente, della giurisprudenza costituzionale).
Mi sia consentito rinviare anche a P. Becchi, La dignità, in Il risarcimento del danno non patrimoniale, II, Parte
speciale, Tomo primo, Torino, UTET, 2009, pp. 25-49. Cfr. ora anche M. Di Ciommo, Dignità umana e Stato
Costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella costituzione italiana e nelle giurisprudenze
europee, Firenze, Passigli, 2010, pp. 158-175.
11
costituzionalmente tutelati devono soccombere. È questo il caso più interessante ed una sentenza al
riguardo merita una considerazione più ravvicinata.
Nella sentenza n. 293 dell’11 luglio 2000, riguardante il fondamento giustificativo della punibilità
di coloro che diffondono a mezzo stampa con particolari impressionanti raccapriccianti immagini di
avvenimenti realmente verificati, la Corte Costituzionale ha riconosciuto nella dignità un limite
invalicabile, oltre il quale neppure la libertà di manifestazione del pensiero può spingersi, dal
momento che “quello della dignità della persona è, infatti, valore costituzionale che permea di sè il
diritto positivo”. Per la Consulta, insomma, c’è un “contenuto minimo” del rispetto della persona
umana che oltrepassa la pur legittima pluralità delle concezioni etiche presenti nella nostra società e
questo contenuto lo si ritrova nel principio della dignità che diventa, in tal modo, una sorta di norma
di chiusura dell’intero ordinamento.
Di “nucleo irriducibile” o “irrinunciabile”, “limite invalicabile”, rappresentato dalla dignità si parla
anche in alcune sentenze attinenti i trattamenti sanitari (ad es.: sentenza n. 509 del 13 novembre
2000, richiamata anche nella sentenza n.11 del 2005; sentenza n. 282 del 19 giugno 2002 o, più
recentemente la sentenza n. 10 del 2010). Tra queste da ricordare ancora, più recentemente la n.151
dell’8 maggio 2009 che ha dichiarato, limitatamente ad alcune parole, l’illegittimità della legge
sulla procreazione medicalmente assistita, richiamando gli art. 3 e 32 della Costituzione (peraltro
senza utilizzare espressamente la parola “dignità”).
Ci siamo soffermati su alcune pronunce della Corte Costituzionale in cui la dignità viene tutelata in
quanto tale, ma si tratta – occorre ribadirlo – di casi piuttosto isolati. Molto più spesso essa non si
riferisce all’uomo in quanto tale, ma ad una qualità concreta inerente la condizione esistenziale o
professionale della persona. Viene così protetta, per fare qualche esempio, la dignità del militare in
12
generale (sentenza 189/1976) e del militare subordinato in particolare (sentenza 45/1992), della
casalinga in quanto lavoratrice (sentenza 85/1985), della persona sottoposta a perizia medico-legale
(sentenza 54/1986), del minore dato in adozione (sentenza 303/1996) del detenuto in generale
(sentenza 526/2000) e del detenuto in particolare (sentenza 158/2001) del bambino handicappato
(sentenza 465/2002), del giudice (sentenza 204/2004), dei siciliani (sentenza 283/2002) degli
omosessuali (ordinanza 129/2005) degli ebrei (sentenza 268/1998) e soprattutto (e di gran lunga
prevalente) del lavoratore. Proprio questa attenzione riservata dalla Corte non all’uomo in astratto,
ma ad individui concreti ed in particolare a quei “soggetti deboli” che possono facilmente diventar
oggetto di discriminazione è un’ulteriore conferma del timbro particolare che ha la dignità
nell’ordinamento costituzionale italiano.
Questa specificità è confermata dell’analisi della giurisprudenza ordinaria. Dopo quanto sin qui si è
detto non dovrebbe sorprendere che proprio la dignità del lavoratore rappresenti l’esempio che
ricorre con maggiore frequenza nelle motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali12. Merita qui di
essere riportato il passo di una importante pronuncia della Corte di Cassazione (la n. 5977 del 29
novembre 1985): “La dignità del lavoratore è l’estrinsecazione della persona umana nella
caratteristica che le è propria di ordinare le sue azioni al più alto grado di compimento, in vista di
uno scopo comune, quale sviluppo del consorzio di vita economica, sociale e spirituale in cui vive,
affinamento della propria coscienza e capacità di esteriorizzare anche solo con il comportamento, il
principio di elevazione morale, insito in ogni uomo. La prestazione di lavoro è impossibile in una
condizione di disprezzo di essa, di disprezzo della persona che la rende, di disprezzo degli uomini
che vi attendono, e, quindi, in una condizione di costrizione ad eseguirla senza dignità…”
12
Per un’analisi più approfondita non si può qui che rinviare a A. Cataudella, Dignità e riservatezza del lavoratore in
Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1989, pp. 1-11 dell’estratto; e G. Alpa, Dignità. Usi giurisprudenziali e confini
concettuali, in “Nuova Giurisprudenza Civile Commentata”, II, 1997, pp. 415-426.
13
Il modo in cui qui la Suprema Corte pone in risalto l’importanza del lavoro e della dignità di chi
lavora è in precisa sintonia con il dettato costituzionale e conferma la centralità che il lavoro (ed il
lavoratore) ha nell’organizzazione sociale ed economica del nostro Paese.
Più recentemente il rispetto della dignità del lavoro ha assunto specifiche connotazioni come quelle
definite dal fenomeno del mobbing o delle molestie, in particolare sessuali. E anche nella
giurisprudenza ordinaria si manifesta quella stessa tendenza, che abbiamo già documentato in quella
costituzionale, vale a dire la tutela della dignità di specifiche categorie di persone: i minori, i
portatori di handicap, i tossicodipendenti, i detenuti, gli extra-comunitari, i militari con ruoli
subordinati e le persone decedute.
Un’analisi dettagliata ci porterebbe troppo lontano. Ma almeno un caso merita di essere richiamato,
perché bene mostra l’evoluzione compiuta anche dalla Suprema Corte. La sentenza riguarda la
condanna (confermata in appello) di un comandante di fregata per il reato di ingiuria ad inferiore. Il
ricorso si basava sul fatto che nel procedimento era stato omesso di valutare la dichiarazione della
persona offesa, la quale aveva escluso ogni intento offensivo in una espressione volgare che il suo
superiore gli aveva rivolto, considerandola alla stregua di un atteggiamento scherzoso. La Corte
Suprema ha tuttavia rigettato il ricorso osservando che è irrilevante “che il soggetto passivo abbia
percepito l’espressione offensiva senza ritenersi offeso, in quanto l’oggetto della tutela penalistica
va individuato in termini assai più ampi, e precisamente nel valore della dignità umana in quanto
tale (Cass. pen. 1˚aprile 2004, n.15503). È evidente che qui la dignità assurge a valore oggettivo, del
tutto indipendentemente dalle valutazioni soggettive delle parti coinvolte. Dalla tutela della dignità
sociale del lavoratore siamo passati alla tutela di un’idea di dignità come valore indisponibile ed
irrinunciabile anche da parte del suo titolare.
14
È tuttavia (a partire dal 1990 con una sentenza della Corte Ass. di Firenze del 18 ottobre che ha fatto
storia) soprattutto con riferimento ai trattamenti sanitari che in molte pronunce troviamo un rinvio al
principio della dignità. Fuoriesce dai limiti di questo contribuito un’analisi dettagliata al riguardo,
qualcosa va però in conclusione detto, riguardo a due casi tormentati che hanno suscitato in Italia un
ampio dibattito. Mi riferisco come è evidente alle tristi vicende di Piergiorgio Welby e di Eluana
Englaro13.
Nel caso di Welby, affetto da distrofia muscolare progressiva, l’accento sulla dignità viene posto dai
suoi legali nella loro richiesta di sospensione della respirazione artificiale, poiché questa avrebbe
consentito la prosecuzione sì della vita, ma in condizioni ritenute dal loro assistito degradanti e
lesive della sua dignità. Il rispetto di quest’ultima viene qui strettamente connesso al diritto di
autodeterminazione, nella fattispecie al diritto di rifiutare un trattamento non più voluto. Un diritto
ampiamente tutelato – come abbiamo visto – dalla Costituzione italiana e tuttavia farlo
effettivamente valere è stato molto più difficile di quanto si potesse in linea di principio
immaginare. Al dottore che ha materialmente staccato il respiratore, dopo aver accertato anche
nell’imminenza del distacco la volontà dell’interessato, è stato infatti imputato il reato di omicidio
del consenziente, quantunque alla fine il giudice dell’udienza preliminare abbia prosciolto il
medico, in ragione dell’esimente dell’adempimento di un dovere. Nella sua motivazione, tra l’altro,
il giudice descrive Welby come un paziente “ormai profondamente consapevole di aver esaurito
ogni aspettativa di vita, di una vita che ancora possa essere chiamata tale e che abbia conservato la
dignità coessenziale alla qualità di uomo” (Tribunale Roma, sentenza 23 luglio/17 ottobre 2007, n.
2049). Anche se questo richiamo alla dignità è del tutto marginale e non ha influito sulla decisione
13
Per una ricostruzione complessiva delle due vicende processuali non posso qui che rinviare al mio articolo Am Ende
des Lebens. Rechtliche Fragen im Zusammenhang mit dem Tod in der heutigen Medizin, in Auf der Scholle und in
lichten Hӧhen. Festschrift für Paul Richli zum 65. Geburtstag, a cura di M. Caroni, S. Heselhaus, K. Mathis, R. Norer,
Zürich-St. Gallen-Baden-Baden, 2011, pp. 23-54. Una ricostruzione più analitica la si può trovare nei miei seguenti
contributi: La vicenda Welby: un caso ai limiti della denegata giustizia, in “Ragion pratica”, 28, 2007, pp. 299-312;
Piergiorgio Welby e il diritto di lasciar(si) morire, in “Ragion pratica”, 30, 2008, pp. 245-265; L’imperialismo
giudiziario. Note controcorrente sul caso Englaro, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto” LXXXVI, 3, 2009,
pp. 379-403.
15
presa dal giudice è significativo che egli riconosca, sia pure implicitamente, incompatibile con il
senso di diglità della paziente la prosecuzione della vita in quelle condizioni.
Proprio su questo punto è interessante l’altra vicenda, quella di Eluana Englaro, che fa bene
emergere questa versione della dignità, riconducibile all’autodeterminazione del paziente, che alla
fine si è imposta. Del lungo iter processuale ricordiamo qui solo la fase iniziale e quella finale. Il
primo decreto del Tribunale di Lecco (1° maggio 1999) dichiara inammissibile la richiesta di
autorizzazione alla sospensione dell’idratazione e nutrizione artificiali poiché “la dignità attinge dal
valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni anche disperate in cui si esplica la sua
esistenza”. La dignità è qui un valore oggettivo, confuso ad onor del vero, con il diritto alla vita.
D’altro canto la Corte di Cassazione, con sentenza del 16 ottobre 2007, n. 21748, fa propria la
visione soggettiva della dignità, ritenendo indegno protrarre per anni la mera sopravvivenza del
corpo di una persona, che se cosciente, non avrebbe sicuramente accettato. Va peraltro riconosciuto
che l’ultima sentenza tenta in realtà una sintesi tra la versione oggettiva e quella soggettiva della
dignità nel momento in cui vuol tener ferma l’idea della tutela della dignità umana nella sua
generalità e astrattezza, salvo d’altro canto concretamente riconoscere il diritto “di vivere le fasi
finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato”. Insomma,
proprio il tema del finis vitae lascia intravedere un aspetto sul quale la riflessione è ancora soltanto
agli inizi, e cioè che la dignità è un principio superiore della vita stessa.
3. Conclusioni
Dopo quanto abbiamo detto resta aperto un interrogativo di fondo: c’è qualcosa che accomuna gli
usi legislativi e giurisprudenziali, così disparati, che abbiamo incontrato, o la dignità si rivela
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un’idea tanto suggestiva ed evocativa, quanto vaga e indeterminata? Cosa lega, per fare qualche
esempio, la tutela della dignità dei detenuti alla tutela della dignità dei lavoratori? O la dignità di
questi ultimi a quella dei malati terminali? È evidente che in tutte le situazioni indicate la “dignità”
assume un significato diverso. Un detenuto ha diritto ad una cella pulita, a non essere maltrattato o
torturato, ad un minimo di riservatezza; un lavoratore, anzitutto, ad un’attività lavorativa e ad un
ambiente di lavoro non degradanti. Anche qualora si volesse definire il lavoro salariato come una
forma di sfruttamento, neppure il marxista più ortodosso lo paragonerebbe ad una forma di tortura.
E le difficoltà non fanno che aumentare non appena si passa da situazioni comunque connesse ad
una dimensione sociale a situazioni in cui la dimensione è individuale: che cosa ha a che fare la
dignità del lavoratore, il diritto al pieno sviluppo della sua personalità e alla partecipazione effettiva
alla vita della collettività, con la dignità del malato terminale che proprio in nome della dignità
rifiuta di procrastinare la morte nel tempo?
Persino la stessa espressione “vita dignitosa” acquista due significati diversi a seconda che si
riferisca al diritto che ha il lavoratore ad una retribuzione che consenta a lui e alla sua famiglia di
condurre una vita dignitosa, o al diritto che ha il malato terminale di non prolungare ulteriormente
una vita da lui ritenuta, appunto, non più dignitosa. Peraltro, proprio con riferimento a quest’ultimo
caso l’argomento della dignità viene utilizzato tanto da coloro che in nome della sacralità della vita
sono contrari all’eutanasia, quanto da coloro che richiamandosi all’autodeterminazione del paziente
sono invece favorevoli.
Si sarebbe, a prima vista, tentati di concludere che la nozione di dignità sia di per sé poco utile a
risolvere i problemi che concretamente si presentano: se ad essa si fa ricorso è paradossalmente
perché la sua sostanziale indeterminatezza fa sì che essa sia utilizzabile per scopi molto diversi: la
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sua duttilità la rende applicabile ad una pluralità indefinita di situazioni. Da qui, in fondo, la sua
scarsa utilità pratica.
Questa conclusione è però, a ben vedere, tutt’altro che convincente. Che della dignità si parli al
plurale non deve sorprendere. Il linguaggio ha una struttura aperta e non si vede perché questo non
dovrebbe valere anche per la parola “dignità”, come tutte le altre parole anche questa è ambigua e
soprattutto vaga. Questo è proprio quanto emerge dalla registrazione dei diversi usi, nei diversi
contesti, che abbiamo fatto. Si potrà certo discutere se usi “marginali” della dignità siano coerenti o
meno, con il significato di solito attributo a quella parola, ma il vero problema è un altro: qual è il
nucleo centrale di certezza, ammesso che ve ne sia uno che consente di definire questo vocabolo?
Non si può rispondere astrattamente a questa domanda; alla luce degli usi che abbiamo sin qui
registrato si può però dire che nei primi decenni successivi alla promulgazione della Costituzione
l’accento batte sulla “dignità sociale” e sullo stretto legame che questa ha con l’eguaglianza
sostanziale (art. 3), nell’ultimo decennio pur senza venir meno questo motivo ad esso se ne è
aggiunto un altro, imperniato sull’art. 32, il quale insiste sul fatto che “in nessun caso” nell’ambito
dei trattamenti sanitari può essere violato “il rispetto della persona umana”, indicando così un limite
che neppure la legge può varcare. Per quanto paradossale possa sembrare il carattere assoluto,
incondizionato, della dignità compare nella Carta costituzionale solo nel punto in cui espressamente
la parola non c’è, anche se buona parte della dottrina e della giurisprudenza oggi interpreta
quell’articolo alla luce del principio dignità.
Così, incisivamente, si esprime Stefano Rodotà, dopo aver citato l’art. 32 della Costituzione: “È,
questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un
limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale,
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che ammette limitazioni nella base della legge e con provvedimento motivato dal giudice. Nell’art.
32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona
umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile”14. Peraltro anche qui il principio compare in
stretta connessione con un diritto fondamentale, quello della salute. Insomma, ciò che in generale
sembra caratterizzare il dibattito giuridico italiano sulla dignità è che questo principio non compare
quasi mai come valore assoluto, incondizionato, quale fondamento dei diritti umani, ma semmai
concorre con essi.
Con riferimento al dibattito italiano bene si attaglia quanto Eugenio Ripepe (uno dei pochi filosofi
del diritto – assieme a chi scrive – ad essersi occupato dell’argomento) ha invece preteso di
generalizzare, vale a dire che la dignità lungi dal fondare alcunché è soltanto la “risultante di un
insieme di valori”15 sempre variabile e legata all’evoluzione della sensibilità prevalente. Similmente
il noto civilista Paolo Zatti ha di recente sostenuto la tesi che per spiegare la dignità può essere utile
far ricorso al termine (di derivazione junghiana) di “costellazione”. La dignità si costella,
interagisce con la vita e l’integrità e quindi con la libertà, senza che per questo vada perduta quella
dimensione sociale che sin dall’inizio in Italia la contraddistingue. Ma gli pare rischioso “rinunciare
al fondamento della dignità”16. Quel fondamento però non può che alludere ad un nucleo duro,
sicuramente meno duttile ma anche più stabile ad una, per così dire, clausola generale, che senza
negare tutte quelle settoriali che il multiforme uso della dignità ha messo in evidenza, le supera; e
quel nucleo non può essere trovato nell’aggettivo “sociale”, ma nell’aggettivo “umano”, che non è
un mero di più, ma qualcosa a tal punto costitutivo della dignità che nella lingua tedesca forma con
essa un’unica parola: Menschenwürde.
14
Così si esprime Stefano Rodotà nell’editoriale con cui si apre la parte monografica intitolata Sulla giuridificazione
della dignità umana, della “Rivista critica del diritto privato”, XXV, n.1, 2007, 3-5 (4).
15
Cfr. E. Ripepe, La dignità umana: il punto di vista della filosofia del diritto, in La tutela della dignità dell’uomo, a
cura di E. Ceccherini, Napoli, E.S.I., 2008, pp. 11-38.
16
Cfr. P. Zatti, Note sulla “semantica della dignità, in Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire
dalla Convenzione di Oviedo, a cura di E. Furlan, Milano, F. Angeli, 2009, pp. 95-109 (107), anche P. Zatti, Maschere
del diritto volti della vita, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 24-49 (46).
19
Il nucleo intangibile della dignità è dunque l’uomo stesso. Ad essere indisponibile, inscalfibile, è
l’idea atemporale, ontologica, della natura umana, ma ciò ha a che fare soprattutto con gli attuali
angosciosi problemi connessi alla manipolazione genetica. E su questo il dibattito è aperto.
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