La Corte Suprema USA e la legge sull`aborto dello Stato del Texas
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La Corte Suprema USA e la legge sull`aborto dello Stato del Texas
La Corte Suprema USA e la legge sull'aborto dello Stato del Texas “Supreme Court HDR”, foto di MitchellShapiroPhotography, licenza CC BY-NC-ND 2.0, www.flickr.com Il 27 Giugno 2016 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha emesso la sentenza “WHOLE WOMAN’S HEALTH et Al. v. HELLERSTEDT, COMMISSIONER, TEXAS DEPARTMENT OF STATE HEALTH SERVICES, et Al.” che annulla parzialmente la legislazione dello Stato del Texas nella parte in cui poneva ostacoli incostituzionali alla possibilità di abortire. La sentenza in esame rovescia la decisione della Corte d’Appello la quale a sua volta aveva rovesciato la decisione della District Court, basandosi su una diversa e scorretta interpretazione delle norme ricavate dalle precedenti authorities. Vedremo infatti come una diversa interpretazione di questioni che riguardano il ne bis in idem e la valutazione delle prove allegate dalle parti possa portare a pronunce errate perché in contrasto con diritti costituzionali. La causa è stata portata di fronte alla Corte dall’associazione Whole Woman’s Health, un ente privato che gestisce cliniche che offrono servizi certificati nell’ambito della ginecologia, dove quindi si praticano anche aborti legali. Le disposizioni legislative ritenute incostituzionali sono contenute nell’House Bill 2 (H. B. 2) approvato dallo Stato del Texas nel 2013. Prevedono in particolare che: i medici che praticano aborti in una clinica debbano obbligatoriamente avere un accordo attivo con un ospedale distante non più di 30 miglia che permetta di far accettare i propri pazienti in quell’ospedale per avere determinate cure (“admitting-privilege requirement). ” The “admitting-privileges requirement” provides that a “physician performing or inducing an abortion . . . must, on the date [of service], have active admitting privileges at a hospital . . . located not further than 30 miles from the” abortion facility. che le strutture in cui si praticano aborti raggiungano gli standard minimi previsti dalla legge del Texas. “The “surgical-center requirement” requires an “abortion facility” to meet the “minimum standards . . . for ambulatory surgical centers” under Texas law.“ La disposizione restrittiva più problematica è sicuramente la prima, che abroga la legislazione precedente che prevedeva la liceità dell’aborto in una clinica non solo nel caso in cui ci fosse un accordo attivo, ma anche nel caso in cui la clinica avesse un piano scritto di trasferimento di pazienti presso un vicino ospedale più attrezzato per eventuali emergenze. Quindi, per volere del legislatore texano, l’aborto sarebbe stato illecito a meno che il medico non avesse avuto un accordo in corso con un altro ospedale; però tale accordo non è garantito, dipende dalle possibilità dell’ospedale stesso. Di fronte a questa norma che limita le possibilità di abortire in una clinica, la Corte Suprema riprende il ragionamento già fatto proprio dalla District Court, basato sul l’interpretazione costituzionalmente orientata di due precedenti, Roe v. Wade e Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey. In Roe v. Wade è statuito l’interesse legittimo di uno Stato a sapere che l’aborto sia svolto sul suo territorio nella massima sicurezza per il paziente: ” A “State has a legitimate interest in seeing to it that abortion [. . .] is performed under circumstances that insure maximum safety for the patient.” Ma ciò non basta, perché in Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey troviamo il principio dell’“undue burden”, cioè il principio per cui una legge che persegue un interesse legittimo dello stato non può avere l’effetto di porre un ostacolo sostanziale sulla strada della scelta di una donna di abortire, altrimenti quella legge emanata per perseguire l’interesse legittimo diventa un mezzo illegittimo. Conseguentemente sono illegittime leggi sulla salute non necessarie che pongano un fardello inutile sulle spalle di una donna che vuole abortire: ” But “a statute which, while furthering [a] valid state interest, has the effect of placing a substantial obstacle in the path of a woman’s choice cannot be con-sidered a permissible means of serving its legitimate ends,” and “[u]nnecessary health regulations that have the pur-pose or effect of presenting a substantial obstacle to a woman seeking an abortion impose an undue burden on the right.” Quindi già la Corte di prima istanza aveva rilevato che l’House Bill 2 conteneva “fardelli inutili”, ed era quindi in contrasto con questi due precedenti vincolanti interpretati alla luce della costituzione. La District Court aveva anche dichiarato il Bill incostituzionale per violazione del XIV emendamento, che contiene il principio del giusto processo (che prevede che i casi simili siano trattati in modo uguale, cioè che sia rispettato il principio del precedente vincolante). La Corte d’Appello, invece, aveva interpretato male i precedenti, privilegiando, all’esito di un’analisi ritenuta poi superficiale dalla Corte Suprema, la posizione dello Stato del Texas fondata sulla possibilità di ridurre i tempi e i costi del sistema sanitario. Più precisamente la corte d’appello non ha considerato rilevanti le memorie degli attori del primo processo le quali dimostravano, ad esempio, che il numero delle cliniche ginecologiche pubbliche aveva subito un dimezzamento a causa dell’approvazione dell’House Bill del 2013, che le cliniche sarebbero rimaste aperte solo nei maggiori centri urbani a scapito delle donne più povere che abitano i centri di campagna, che il sistema precedente era sicuro poiché i casi di complicazioni chirurgiche e i casi di morte erano in percentuale quasi pari allo zero. Abbiamo visto quindi come la Corte d’Appello abbia erroneamente interpretato le authorities ritenendo legittime le statuizioni dell’House Bill 2 sulla sola base dell’interesse legittimo dello Stato, non considerando il precedente Casey di cui sopra, cioè non considerando gli “undue burdens” posti dall’House Bill. La Corte d’Appello si è spinta verso ulteriori considerazioni errate sostenendo l’inammissibilità, per intervenuta sentenza, del claim di incostituzionalità poiché gli attori avrebbero dovuto proporlo dall’inizio del processo e, non avendolo fatto, la District Court non avrebbe dovuto successivamente riconoscere l’incostituzionalità. La Corte Suprema corregge l’errore portando un esempio pratico: ” […] Si immagini un gruppo di prigionieri che lamentino di essere stati forzati a bere acqua contaminata. Questi prigionieri fanno causa alla struttura in cui sono detenuti. Se all’inizio la loro causa è rigettata perché un tribunale non crede che il danno sia incostituzionale, non avrebbe senso vietare (dopo la intervenuta sentenza di rigetto) agli stessi prigionieri di fare causa successivamente se tempo e esperienza mostrassero le morti per avvelenamento dei prigionieri stessi […] “ ” […] Imagine a group of prisoners who claim that they are being forced to drink contaminated water. These prisoners file suit against the facility where they are incarcerated. If at first their suit is dismissed because a court does not believe that the harm would be severe enough to be unconstitutional, it would make no sense to prevent the same prisoners from bringing a later suit if time and experience eventually showed that prisoners were dying from contaminated water. Such circumstances would give rise to a new claim that the prisoners’ treatment violates the Constitution. Factual developments may show that constitutional harm, which seemed too remote or speculative to afford relief at the time of an earlier suit, was in fact indisputable. In our view, such changed circumstances will give rise to a new constitutional claim. […] “ Quindi non avrebbe nemmeno senso vietare a un tribunale di dichiarare successivamente l’incostituzionalità di un danno. Questa sentenza ha avuto molto peso mediatico negli USA sia per il tema etico su cui si fonda, sia per il fatto che è giunta in un momento particolare per l’equilibrio costituzionale dello Stato: infatti la Corte Suprema si trova composta solo da 8 membri rispetto ai 9 previsti, a causa della vacanza lasciata da Justice Antonin Scalia, dunque c’era la possibilità di uno “stallo” determinato dalla parità di opinions. Fortunatamente questa eventualità non si è verificata, ma il tema resta politicamente rilevante perché i candidati in campagna elettorale si erano schierati sui due fronti opposti fin dall’inizio della vicenda giudiziaria dando il loro endorsement alle varie associazioni coinvolte nel processo. SITOGRAFIA www.supremecourt.gov www.wholewomanshealth.com www.repubblica.it FEDERICA NOTTE Tutela della salute: ASL e responsabilità ex art. 1228 cod. civ. “2008.11.25 – The physician”, foto di Adrian Clark, licenza CC BY-ND 2.0, Flickr.com Le materie della responsabilità medica e della tutela della salute sono tra le più sensibili all’interno dell’ordinamento italiano e sono state più volte oggetto di pronunce giurisprudenziali. La Costituzione, infatti, prende direttamente in considerazione il diritto alla salute all’art.32 che cita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” Offrendo una tutela diretta e non necessariamente mediata da un intervento legislativo, l’interpretazione della sovracitata norma da parte della giurisprudenza ha da sempre avuto un ruolo essenziale nel rendere concreto ed effettivo il diritto alla salute così come contemplato dalla carta costituzionale. Naturalmente il compito interpretativo delle costi nazionali, in special modo quello della Corte di Cassazione, non è rimasto circoscritto al solo articolo 32 ma ha riguardato in maniera significativa anche l’operato del legislatore nella materia medesima, dando origine a una disciplina in continua evoluzione. In particolare per ciò che riguarda la responsabilità medica, la terza sezione civile della corte di Cassazione ha recentemente dato luce a una pronuncia non poco innovativa, la sentenza n.6243 del 27 marzo 2015, riconoscendo una responsabilità ex art.1218 cod. civ. non solo del medico di base ma anche della stessa ASL(Aziende Sanitarie Locali) per l’errore compiuto dal medico con essa convenzionato. Questo riconoscimento costituisce un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale delle corti nazionali, le quali hanno sempre escluso una forma di responsabilità contrattuale, orientamento che veniva confermato, nella medesima causa che ha condotto alla sentenza in esame, da parte della Corte d’Appello di Torino la quale, pur ribadendo la responsabilità riconosciuta in primo grado in capo al medico di base per il ritardo e l’inadeguatezza del suo intervento nei confronti della vittima, escludeva la responsabilità in solido individuata in capo alla Asl dal medesimo giudice di primo grado. Questo esito derivava da un’interpretazione congiunta di alcune fattispecie di responsabilità presenti nel codice civile con la legge n.833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In particolare, i giudici della corte d’Appello escludevano una responsabilità per fatto degli ausiliari, ex art.1228 cod civ, e quindi una forma di responsabilità contrattuale, poiché il privato non conclude un contratto con la ASL bensì costituisce un mero rapporto con il medico convenzionato mediante un contratto di prestazione d’opera, rispetto al quale la ASL rimane estranea. Questa linea di ragionamento è analoga a quella applicata in materia ospedaliera dove non si considera fondato un rapporto obbligatorio di origine contrattuale tra paziente e struttura ospedaliera, tutt’al più la responsabilità di quest’ultima emergerà dal “contatto sociale” che essa intraprende con i pazienti. Tuttavia, questa stessa figura del “contatto sociale” non sussiste tra ASL e privato cittadino che poiché non solo la ASL non viene a contatto diretto con il paziente ma essa non è neanche a conoscenza dell’eventuale contatto con strutture ospedaliere in virtù della prestazione eseguita dal medico con essa convenzionato. La corte d’Appello escludeva altresì la sussistenza di responsabilità della ASL ex art.2049 cod.civ. checonfigura una forma di responsabilità extracontrattuale dei padroni e dei committenti rispetto ai danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui questi ultimi sono adibiti. Qui la Corte non ravvedeva né un rapporto di preposizione né un potere di vigilanza, controllo o direzione della ASL sull’operato del medico tale da poter rientrare nella fattispecie del 2049. Escluse tutte queste possibilità, la corte d’Appello, con sentenza definitiva, accoglieva l’appello proposto dalla ASL e confermava invece la responsabilità a carico del medico di base per i danni patiti dalla vittima. Come spesso accade nel nostro ordinamento, però, la corte di Cassazione, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, fa un po’ il brutto e il cattivo tempo e una parte, confidente in un radicato orientamento da tempo prevalente nella giurisprudenza della corte suprema, potrebbe ritrovarsi davanti a una sentenza inaspettatamente sfavorevole. Potremmo dire che questo è il caso in questione: la Cassazione, infatti, decidendo sul merito, ha ravvisato una responsabilità civile della ASL a titolo di responsabilità contrattuale, ex art.1218 cod. civ. Tramite un attento esame della legge istitutiva del SSN, i magistrati della Cassazione hanno individuato diversi segnali taciti che indicano la presenza di un rapporto contrattuale tra utente e il SSN medesimo. Il primo di questi indici risulta dal combinato disposto degli artt.19, 25 e 14 della legge istitutiva del SSN: se l’assistenza medico generica, infatti, viene inserita nel novero delle prestazioni curative che sono di specifico compito in capo alle Unità sanitarie locali (USL, oggi diventate ASL), davvero non è configurabile un contatto tra l’utente e queste ultime? Un secondo indice risulta dal fatto che neanche la stessa scelta del medico di fiducia non avviene liberamente da parte dell’utente ma è limitata alla lista dei medici convenzionati con la ASL competente rispetto al comune di residenza del cittadino. Così il rapporto di fiducia che viene instaurato tra medico e paziente deve essere comunicato e motivato, in alcuni casi, alla ASL con cui è convenzionato il medico. In sostanza, essendo la prestazione curativa in questione una prerogativa delle ASL da eseguirsi mediante un rapporto di convenzionamento con il medico, scelto dall’utente sulla base della convenzione medesima, è configurabile un rapporto di tipo contrattuale tra utente e ASL, seppur indiretto. Questo rapporto di convenzionamento, intorno al quale vira tutta la motivazione della corte, “si distingue nettamente da quello della ‘libera professione’” anche in virtù della forma di pagamento: il cittadino, infatti, non ha alcun onere di pagamento per la prestazione curativa esercitata dal medico di base. Il pagamento avviene da parte della ASL che è a sua volta finanziata dal “fondo sanitario nazionale”, al quale contribuiscono i cittadini medesimi mediante il versamento di imposte tributarie. Il diritto dell’utente alla prestazione curativa è dunque, secondo il parere della corte, un vero e proprio diritto soggettivo che la ASL ha il dovere, derivante direttamente dalla legge, di erogare “avvalendosi di ‘personale’ medico alle proprie dipendenze ovvero in rapporto di convenzionamento”. L’obbligazione in capo alla ASL, non essendo configurabile come tipicamente contrattuale, rientra comunque tra le fonti di obbligazioni ex art.1173 cod.civ. il quale recita “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto, o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.”L’utente, insomma, è creditore nei confronti della ASL la quale ha l’obbligo giuridico di erogare la prestazione curativa mediante il rapporto di convenzionamento con il medico e la quale riceve finanziamenti pubblici prestati tramite il contributo tributario dei cittadini. Per queste caratteristiche il rapporto di convenzionamento configura come un rapporto di lavoro para-subordinato e in quanto tale rende possibile applicare l’art.1228 cod. civ. che individua, come detto in precedenza, una forma di responsabilità contrattuale per il fatto degli ausiliari. L’importanza di questa sentenza può, a primo impatto, rimanere celata dietro i tecnicismi del ragionamento giuridico della Corte. Eppure non si può sottovalutare la portata di questo mutamento giurisprudenziale rispetto al comune cittadino, che forse di responsabilità civile sa poco eppure si trova a stretto contatto con il medico di base nella sua vita quotidiana. Se questo orientamento verrà adottato e si radicherà nella giurisprudenza delle corti, infatti, i cittadini avranno la facoltà di agire contro le ASL con un rimedio più agevole rispetto alle azioni di risarcimento del danno. La responsabilità ex art.1218, vale a dire la responsabilità contrattuale di cui risponde la ASL, infatti, ha diverse particolarità che avvantaggiano la posizione dell’attore (e, quindi, di norma, l’affermato creditore della prestazione): il primo vantaggio si ha per ciò che concerne l’onere della prova che, nell’azione ex art.1218, è in capo al convenuto, sussistendo una presunzione di colpa del debitore. Il secondo grande vantaggio di poter agire a titolo di responsabilità contrattuale risiede nel termine di prescrizione del diritto vantato che, in questo caso, è quello lungo di 10 anni, al contrario del termine breve di 5 anni riconosciuto per la responsabilità extracontrattuale. Dunque, la Cassazione non solo ha individuato una forma di responsabilità in capo alle ASL ma ha anche garantito l’ampia tutela derivante da obbligazione de facto contrattuale, mostrando come ciò che è scritto sui libri non sia che una semplice mappa per orientarsi all’interno del complesso mondo del diritto, sempre meno distante di quello che può apparire da chi lo vede dall’altra parte della barriera fatta di codici e toghe. REBECCA RAVALLI Fonti: – Cass. Civ. Sez. III, Sent., 2-03-2015, n. 6243 – 2011 Istituzioni di diritto privato, Pietro Trimarchi, Giuffrè Editore, – Quaderni del Massimario, Responsabilità Sanitaria e Tutela della Salute, Corte Suprema di Cassazione, 2011 Genitori vegani: un diritto o una colpa? Negli ultimi anni in molti hanno deciso di votarsi, un po’ per moda e un po’ per reale convinzione, a filosofie quali vegetarismo e veganismo. La seconda, in particolare, può essere considerata una presa di posizione etica oltre che un regime dietetico strettamente correlato a questa. Ma, dato che se ne sente spesso parlare, in cosa consiste esattamente il veganismo? Quali sono i principi sostenuti dai vegani? Il veganismo è definito come “una filosofia basata sul rifiuto di ogni forma di sfruttamento degli animali” e da ciò la scelta, degli aderenti al regime dietetico, di non nutrirsi più né di carne, appartenente a qualunque tipo di animale né di prodotti di origine animale, quindi uova, formaggi, ecc… In qualità di filosofia di vita, il veganismo è tutelato dall’art 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, per cui “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Da ciò si può quindi desumere che essere vegani sia un diritto e in quanto tale il soggetto che aderisce a tale stile di vita, perché di questo si parla, possa liberamente decidere di educare il proprio figlio seguendo tali principi. Ma possono sussistere dei casi in cui tale diritto alla libertà di pensiero si scontri con altri diritti, propri del bambino ad esempio? E se si, quali? Evidentemente, come da sempre si studia presso le facoltà di giurisprudenza, il diritto di un soggetto inizia dove finisce il diritto di un altro. Appunto di questo vuole trattare l’articolo che segue e vuole farlo in relazione ad un caso che ha portato all’allontanamento di un figlio dai genitori, che in tale filosofia credono strenuamente. Pochissimi mesi fa a Lauris, nel sud della Francia, i magistrati francesi hanno tolto a due genitori, vegani per l’appunto, il figlio di 5 mesi con l’accusa di maltrattamento. Essi erano soliti nutrire il figlio come prescritto dalla loro alimentazione e quindi con latte di soia. Ciò ha comportato che il neonato a cinque mesi pesasse meno di 5 kilogrammi. A seguito di tale provvedimento il neonato è stato condotto presso un centro di accoglienza di Avignon ove ha subito preso peso a seguito dell’alimentazione a base di latte animale. Tale provvedimento, valutato a seguito della denuncia perpetrata dal pediatra del bambino, trova la sua ratio nelle accuse di maltrattamenti mosse ai genitori, in quanto i magistrati hanno ritenuto che l’imposizione di tale regime alimentare, che aveva comportato una debilitazione fisica, fosse da considerarsi una forma di violenza sul bambino. In attesa che la Corte d’Appello di Nimes, adita dai due genitori privati del frutto del loro amore, si pronunci si procederà ad analizzare quali diritti sono riconosciuti a tale infante a livello internazionale. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che già sopra è stata citata, all’art 25 prevede una prima parte che così è stata concepita : “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”. L’articolo, all’interno della prima parte mira a tutelare la salute “con particolare riguardo all’alimentazione” e ciò può essere direttamente collegato al caso di specie, in quanto i genitori, al fine di perseguire lo stile di vita da loro scelto, stavano seriamente compromettendo la salute del figlio. Ma tralasciando questa prima parte, che già di per sé inerisce al caso, si prosegua con la lettura della seconda parte del suddetto articolo: “La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale”. Tale locuzione intende fornire all’infanzia una tutela speciale, quindi se si avevano dubbi sul fatto che la prima parte potesse essere applicata, la seconda vuole andare a rafforzare il proposito di tutela in quella espresso. A questo punto potremmo già chiudere la dissertazione appena aperta ma si vuole portare a conoscenza del lettore il fatto che nel 1989 sia stata elaborata un’ulteriore Convenzione che è quella sull’Infanzia. La suddetta dichiarazione è interamente dedicata al periodo dell’infanzia e quindi diretta a tutelare determinati diritti spettanti agli infanti in quanto tali. In particolare sono di nostro interesse gli artt 3- 14- 18- 19- 20- 24 che procederemo di seguito ad esplicare. L’art 3 impegna gli Stati firmatari di tale Convenzione, tra cui la Francia, ad assicurare ai fanciulli protezione e cure necessarie al loro benessere, sicurezza e salute. Tale ruolo è affidato in primis ai genitori, piuttosto che i tutori o chiunque ne detenga la responsabilità legale ma, allo stesso tempo, alle istituzioni, ai servizi e agli istituti dello Stato. Si può quindi sostenere che nel caso di specie lo Stato abbia adempiuto al dovere impostogli da tale Convenzione nel momento in cui, per salvaguardare il benessere e la salute del bambino, abbia sottratto quest’ultimo dalla tutela dei di lui genitori. All’art 14 invece si dice che gli Stati debbano rispettare la libertà di pensiero del fanciullo oltre che il diritto e il dovere dei genitori, o chi per loro, di guidare il fanciullo nell’esercizio del summenzionato diritto. Tale articolo non dovrebbe essere applicato al caso in questione in quanto presuppone un’età del bambino in cui esso possa osservare il mondo che lo circonda e ragionare su questo e, solo a seguito di questo approccio, decidere per sé ed esercitare la propria libertà di pensiero. È lampante come l’età di 5 mesi non sia sufficiente ad attribuire al bambino la capacità di valutare per sé uno stile di vita quale può essere il veganismo e in questa ottica possiamo sostenere che questa posizione alimentare non provenga dal bambino ma dalle radicate convinzioni dei genitori. Segue poi l’art 18 in cui gli Stati si impegnano a riconoscere il principio secondo cui i genitori hanno la responsabilità di allevare, educare e provvedere allo sviluppo del fanciullo. Nel caso di sopra esplicato emerge come tale responsabilità non sia stata adempiuta con la dovuta diligenza da parte dei due genitori francesi, in quanto questi con l’approccio adottato avrebbero potuto procurare gravi danni allo sviluppo dell’infante. Anche all’art 19 è rimarcato il dovere dello Stato di adottare ogni tipo di misura legislativa amministrativa, sociale, ecc… al fine di tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza e di maltrattamenti (due delle forme di violenza sul fanciullo trattate in tale articolo) per tutto il tempo in cui è affidato ai genitori. Quindi si può dire che la Francia si sia vista obbligata a ricorrere all’intervento giudiziario a seguito dei maltrattamenti perpetrati a danno del bambino. Sulla stessa onda temporaneamente o solo nella misura caso di specie in peso ponendo fine è l’art 20 in cui si afferma che il bambino può essere definitivamente essere privato del suo ambiente familiare in cui ciò sia fatto nel suo interesse. Così è stato nel cui, a seguito dell’allontanamento, il bambino ha messo su alla sua situazione di sottopeso dovuto a mal nutrimento. Infine l’art 24 identifica il dovere degli Stati di riconoscere il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e a tal proposito ha agito la magistratura adita al caso che, data l’evidente situazione di malnutrizione, è voluta intervenire in favore della salute del bambino e in sfavore del diritto di questo di crescere, anche se probabilmente solo temporaneamente, con i genitori. In conclusione si è voluta fornire una sommaria dissertazione sulla tutela del bambino, in relazione al caso di specie, a livello internazionale nonostante non esista ancora, anche se in progetto, una convenzione che tratti esclusivamente i diritti del neonato. Si è preferito non analizzare il diritto francese e in particolare, in ambito penale, la fattispecie di maltrattamenti, ma semplicemente si è voluta sviscerare la normativa internazionale, e quindi di livello sovranazionale, a cui il diritto francese si deve conformare. FEDERICA GRECO Bibliografia: Articolo la Repubblica 25 ottobre 2013 Sitografia: http://it.wikipedia.org/wiki/Veganismo http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Pages/Language.aspxLangID=itn http://www.unicef.it/doc/601/convenzione-diritti-infanzia-artt-1-10.htm Licenze foto: Foto 1: “Cow”, foto di maraker, licenza CC BY SA, www.flickr.com Foto 2: “Justice sends mixed messages”, foto di Dan4th, licenza CC BY, www.flickr.com