La Corte Suprema USA e la legge sull`aborto dello Stato del Texas

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La Corte Suprema USA e la legge sull`aborto dello Stato del Texas
La Corte Suprema USA e la legge
sull'aborto dello Stato del Texas
“Supreme Court HDR”, foto di MitchellShapiroPhotography, licenza CC BY-NC-ND
2.0, www.flickr.com
Il 27 Giugno 2016 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha emesso la
sentenza “WHOLE WOMAN’S HEALTH et Al. v. HELLERSTEDT, COMMISSIONER, TEXAS
DEPARTMENT OF STATE HEALTH SERVICES, et Al.” che annulla parzialmente la
legislazione dello Stato del Texas nella parte in cui poneva ostacoli
incostituzionali alla possibilità di abortire.
La sentenza in esame rovescia la decisione della Corte d’Appello la quale a
sua volta aveva rovesciato la decisione della District Court, basandosi su
una diversa e scorretta interpretazione delle norme ricavate dalle precedenti
authorities. Vedremo infatti come una diversa interpretazione di questioni
che riguardano il ne bis in idem e la valutazione delle prove allegate dalle
parti possa portare a pronunce errate perché in contrasto con diritti
costituzionali.
La causa è stata portata di fronte alla Corte dall’associazione Whole Woman’s
Health, un ente privato che gestisce cliniche che offrono servizi certificati
nell’ambito della ginecologia, dove quindi si praticano anche aborti legali.
Le disposizioni legislative ritenute incostituzionali sono contenute
nell’House Bill 2 (H. B. 2) approvato dallo Stato del Texas nel 2013.
Prevedono in particolare che:
i medici che praticano aborti in una clinica debbano obbligatoriamente
avere un accordo attivo con un ospedale distante non più di 30 miglia
che permetta di far accettare i propri pazienti in quell’ospedale per
avere determinate cure (“admitting-privilege requirement).
” The “admitting-privileges requirement” provides that a “physician
performing or inducing an abortion . . . must, on the date [of service], have
active admitting privileges at a hospital . . . located not further than 30
miles from the” abortion facility.
che le strutture in cui si praticano aborti raggiungano gli standard
minimi previsti dalla legge del Texas.
“The “surgical-center requirement” requires an “abortion facility” to meet
the “minimum standards . . . for ambulatory surgical centers” under Texas
law.“
La disposizione restrittiva più problematica è sicuramente la prima, che
abroga la legislazione precedente che prevedeva la liceità dell’aborto in una
clinica non solo nel caso in cui ci fosse un accordo attivo, ma anche nel
caso in cui la clinica avesse un piano scritto di trasferimento di pazienti
presso un vicino ospedale più attrezzato per eventuali emergenze.
Quindi, per volere del legislatore texano, l’aborto sarebbe stato illecito a
meno che il medico non avesse avuto un accordo in corso con un altro
ospedale; però tale accordo non è garantito, dipende dalle possibilità
dell’ospedale stesso.
Di fronte a questa norma che limita le possibilità di abortire in una
clinica, la Corte Suprema riprende il ragionamento già fatto proprio dalla
District Court, basato sul l’interpretazione costituzionalmente orientata di
due precedenti, Roe v. Wade e Planned Parenthood of Southeastern Pa. v.
Casey.
In Roe v. Wade è statuito l’interesse legittimo di uno Stato a sapere che
l’aborto sia svolto sul suo territorio nella massima sicurezza per il
paziente:
” A “State has a legitimate interest in seeing to it that abortion [. . .] is
performed under circumstances that insure maximum safety for the patient.”
Ma ciò non basta, perché in Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey
troviamo il principio dell’“undue burden”, cioè il principio per cui una
legge che persegue un interesse legittimo dello stato non può avere l’effetto
di porre un ostacolo sostanziale sulla strada della scelta di una donna di
abortire, altrimenti quella legge emanata per perseguire l’interesse
legittimo diventa un mezzo illegittimo. Conseguentemente sono illegittime
leggi sulla salute non necessarie che pongano un fardello inutile sulle
spalle di una donna che vuole abortire:
” But “a statute which, while furthering [a] valid state interest, has the
effect of placing a substantial obstacle in the path of a woman’s choice
cannot be con-sidered a permissible means of serving its legitimate ends,”
and “[u]nnecessary health regulations that have the pur-pose or effect of
presenting a substantial obstacle to a woman seeking an abortion impose an
undue burden on the right.”
Quindi già la Corte di prima istanza aveva rilevato che l’House Bill 2
conteneva “fardelli inutili”, ed era quindi in contrasto con questi due
precedenti vincolanti interpretati alla luce della costituzione. La District
Court aveva anche dichiarato il Bill incostituzionale per violazione del XIV
emendamento, che contiene il principio del giusto processo (che prevede che i
casi simili siano trattati in modo uguale, cioè che sia rispettato il
principio del precedente vincolante).
La Corte d’Appello, invece, aveva interpretato male i precedenti,
privilegiando, all’esito di un’analisi ritenuta poi superficiale dalla Corte
Suprema, la posizione dello Stato del Texas fondata sulla possibilità di
ridurre i tempi e i costi del sistema sanitario.
Più precisamente la corte d’appello non ha considerato rilevanti le memorie
degli attori del primo processo le quali dimostravano, ad esempio, che il
numero delle cliniche ginecologiche pubbliche aveva subito un dimezzamento a
causa dell’approvazione dell’House Bill del 2013, che le cliniche sarebbero
rimaste aperte solo nei maggiori centri urbani a scapito delle donne più
povere che abitano i centri di campagna, che il sistema precedente era sicuro
poiché i casi di complicazioni chirurgiche e i casi di morte erano in
percentuale quasi pari allo zero.
Abbiamo visto quindi come la Corte d’Appello abbia erroneamente interpretato
le authorities ritenendo legittime le statuizioni dell’House Bill 2 sulla
sola base dell’interesse legittimo dello Stato, non considerando il
precedente Casey di cui sopra, cioè non considerando gli “undue burdens”
posti dall’House Bill.
La Corte d’Appello si è spinta verso ulteriori considerazioni errate
sostenendo l’inammissibilità, per intervenuta sentenza, del claim di
incostituzionalità poiché gli attori avrebbero dovuto proporlo dall’inizio
del processo e, non avendolo fatto, la District Court non avrebbe dovuto
successivamente riconoscere l’incostituzionalità.
La Corte Suprema corregge l’errore portando un esempio pratico:
” […] Si immagini un gruppo di prigionieri che lamentino di essere stati
forzati a bere acqua contaminata. Questi prigionieri fanno causa alla
struttura in cui sono detenuti. Se all’inizio la loro causa è rigettata
perché un tribunale non crede che il danno sia incostituzionale, non avrebbe
senso vietare (dopo la intervenuta sentenza di rigetto) agli stessi
prigionieri di fare causa successivamente se tempo e esperienza mostrassero
le morti per avvelenamento dei prigionieri stessi […] “
” […] Imagine a group of prisoners who claim that they are being forced to
drink contaminated water. These prisoners file suit against the facility
where they are incarcerated. If at first their suit is dismissed because a
court does not believe that the harm would be severe enough to be
unconstitutional, it would make no sense to prevent the same prisoners from
bringing a later suit if time and experience eventually showed that prisoners
were dying from contaminated water. Such circumstances would give rise to a
new claim that the prisoners’ treatment violates the Constitution. Factual
developments may show that constitutional harm, which seemed too remote or
speculative to afford relief at the time of an earlier suit, was in fact
indisputable. In our view, such changed circumstances will give rise to a new
constitutional claim. […] “
Quindi non avrebbe nemmeno senso vietare a un tribunale di dichiarare
successivamente l’incostituzionalità di un danno.
Questa sentenza ha avuto molto peso mediatico negli USA sia per il tema etico
su cui si fonda, sia per il fatto che è giunta in un momento particolare per
l’equilibrio costituzionale dello Stato: infatti la Corte Suprema si trova
composta solo da 8 membri rispetto ai 9 previsti, a causa della vacanza
lasciata da Justice Antonin Scalia, dunque c’era la possibilità di uno
“stallo” determinato dalla parità di opinions. Fortunatamente questa
eventualità non si è verificata, ma il tema resta politicamente rilevante
perché i candidati in campagna elettorale si erano schierati sui due fronti
opposti fin dall’inizio della vicenda giudiziaria dando il loro endorsement
alle varie associazioni coinvolte nel processo.
SITOGRAFIA
www.supremecourt.gov
www.wholewomanshealth.com
www.repubblica.it
FEDERICA NOTTE
Tutela della salute: ASL e
responsabilità ex art. 1228 cod. civ.
“2008.11.25 – The physician”, foto di Adrian Clark, licenza CC BY-ND 2.0,
Flickr.com
Le materie della responsabilità medica e della tutela della salute sono tra
le più sensibili all’interno dell’ordinamento italiano e sono state più volte
oggetto di pronunce giurisprudenziali. La Costituzione, infatti, prende
direttamente in considerazione il diritto alla salute all’art.32 che cita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana.”
Offrendo una tutela diretta e non necessariamente mediata da un intervento
legislativo, l’interpretazione della sovracitata norma da parte della
giurisprudenza ha da sempre avuto un ruolo essenziale nel rendere concreto ed
effettivo il diritto alla salute così come contemplato dalla carta
costituzionale. Naturalmente il compito interpretativo delle costi nazionali,
in special modo quello della Corte di Cassazione, non è rimasto circoscritto
al solo articolo 32 ma ha riguardato in maniera significativa anche l’operato
del legislatore nella materia medesima, dando origine a una disciplina in
continua evoluzione.
In particolare per ciò che riguarda la responsabilità medica, la terza
sezione civile della corte di Cassazione ha recentemente dato luce a una
pronuncia non poco innovativa, la sentenza n.6243 del 27 marzo 2015,
riconoscendo una responsabilità ex art.1218 cod. civ. non solo del medico di
base ma anche della stessa ASL(Aziende Sanitarie Locali) per l’errore
compiuto dal medico con essa convenzionato.
Questo riconoscimento costituisce un mutamento dell’orientamento
giurisprudenziale delle corti nazionali, le quali hanno sempre escluso una
forma di responsabilità contrattuale, orientamento che veniva confermato,
nella medesima causa che ha condotto alla sentenza in esame, da parte della
Corte d’Appello di Torino la quale, pur ribadendo la responsabilità
riconosciuta in primo grado in capo al medico di base per il ritardo e
l’inadeguatezza del suo intervento nei confronti della vittima, escludeva la
responsabilità in solido individuata in capo alla Asl dal medesimo giudice di
primo grado. Questo esito derivava da un’interpretazione congiunta di alcune
fattispecie di responsabilità presenti nel codice civile con la legge
n.833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In particolare,
i giudici della corte d’Appello escludevano una responsabilità per fatto
degli ausiliari, ex art.1228 cod civ, e quindi una forma di responsabilità
contrattuale, poiché il privato non conclude un contratto con la ASL bensì
costituisce un mero rapporto con il medico convenzionato mediante un
contratto di prestazione d’opera, rispetto al quale la ASL rimane estranea.
Questa linea di ragionamento è analoga a quella applicata in materia
ospedaliera dove non si considera fondato un rapporto obbligatorio di origine
contrattuale tra paziente e struttura ospedaliera, tutt’al più la
responsabilità di quest’ultima emergerà dal “contatto sociale” che essa
intraprende con i pazienti. Tuttavia, questa stessa figura del “contatto
sociale” non sussiste tra ASL e privato cittadino che poiché non solo la ASL
non viene a contatto diretto con il paziente ma essa non è neanche a
conoscenza dell’eventuale contatto con strutture ospedaliere in virtù della
prestazione eseguita dal medico con essa convenzionato.
La corte d’Appello escludeva altresì la sussistenza di responsabilità della
ASL ex art.2049 cod.civ. checonfigura una forma di responsabilità
extracontrattuale dei padroni e dei committenti rispetto ai danni arrecati
dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle
incombenze a cui questi ultimi sono adibiti. Qui la Corte non ravvedeva né un
rapporto di preposizione né un potere di vigilanza, controllo o direzione
della ASL sull’operato del medico tale da poter rientrare nella fattispecie
del 2049.
Escluse tutte queste possibilità, la corte d’Appello, con sentenza
definitiva, accoglieva l’appello proposto dalla ASL e confermava invece la
responsabilità a carico del medico di base per i danni patiti dalla vittima.
Come spesso accade nel nostro ordinamento, però, la corte di Cassazione,
nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, fa un po’ il brutto e il
cattivo tempo e una parte, confidente in un radicato orientamento da tempo
prevalente nella giurisprudenza della corte suprema, potrebbe ritrovarsi
davanti a una sentenza inaspettatamente sfavorevole. Potremmo dire che questo
è il caso in questione: la Cassazione, infatti, decidendo sul merito, ha
ravvisato una responsabilità civile della ASL a titolo di responsabilità
contrattuale, ex art.1218 cod. civ.
Tramite un attento esame della legge istitutiva del SSN, i magistrati della
Cassazione hanno individuato diversi segnali taciti che indicano la presenza
di un rapporto contrattuale tra utente e il SSN medesimo.
Il primo di questi indici risulta dal combinato disposto degli artt.19, 25 e
14 della legge istitutiva del SSN: se l’assistenza medico generica, infatti,
viene inserita nel novero delle prestazioni curative che sono di specifico
compito in capo alle Unità sanitarie locali (USL, oggi diventate ASL),
davvero non è configurabile un contatto tra l’utente e queste ultime?
Un secondo indice risulta dal fatto che neanche la stessa scelta del medico
di fiducia non avviene liberamente da parte dell’utente ma è limitata alla
lista dei medici convenzionati con la ASL competente rispetto al comune di
residenza del cittadino. Così il rapporto di fiducia che viene instaurato tra
medico e paziente deve essere comunicato e motivato, in alcuni casi, alla ASL
con cui è convenzionato il medico.
In sostanza, essendo la prestazione curativa in questione una prerogativa
delle ASL da eseguirsi mediante un rapporto di convenzionamento con il
medico, scelto dall’utente sulla base della convenzione medesima, è
configurabile un rapporto di tipo contrattuale tra utente e ASL, seppur
indiretto. Questo rapporto di convenzionamento, intorno al quale vira tutta
la motivazione della corte, “si distingue nettamente da quello della ‘libera
professione’” anche in virtù della forma di pagamento: il cittadino, infatti,
non ha alcun onere di pagamento per la prestazione curativa esercitata dal
medico di base. Il pagamento avviene da parte della ASL che è a sua volta
finanziata dal “fondo sanitario nazionale”, al quale contribuiscono i
cittadini medesimi mediante il versamento di imposte tributarie. Il diritto
dell’utente alla prestazione curativa è dunque, secondo il parere della
corte, un vero e proprio
diritto soggettivo che la ASL ha il dovere,
derivante direttamente dalla legge, di erogare “avvalendosi di ‘personale’
medico alle proprie dipendenze ovvero in rapporto di convenzionamento”.
L’obbligazione in capo alla ASL, non essendo configurabile come tipicamente
contrattuale, rientra comunque tra le fonti di obbligazioni ex art.1173
cod.civ. il quale recita “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto
illecito, o da ogni altro atto, o fatto idoneo a produrle in conformità
dell’ordinamento giuridico.”L’utente, insomma, è creditore nei confronti
della ASL la quale ha l’obbligo giuridico di erogare la prestazione curativa
mediante il rapporto di convenzionamento con il medico e la quale riceve
finanziamenti pubblici prestati tramite il contributo tributario dei
cittadini. Per queste caratteristiche il rapporto di convenzionamento
configura come un rapporto di lavoro para-subordinato e in quanto tale rende
possibile applicare l’art.1228 cod. civ. che individua, come detto in
precedenza, una forma di responsabilità contrattuale per il fatto degli
ausiliari.
L’importanza di questa sentenza può, a primo impatto, rimanere celata dietro
i tecnicismi del ragionamento giuridico della Corte. Eppure non si può
sottovalutare la portata di questo mutamento giurisprudenziale rispetto al
comune cittadino, che forse di responsabilità civile sa poco eppure si trova
a stretto contatto con il medico di base nella sua vita quotidiana. Se questo
orientamento verrà adottato e si radicherà nella giurisprudenza delle corti,
infatti, i cittadini avranno la facoltà di agire contro le ASL con un rimedio
più agevole rispetto alle azioni di risarcimento del danno.
La responsabilità ex art.1218, vale a dire la responsabilità contrattuale di
cui risponde la ASL, infatti, ha diverse particolarità che avvantaggiano la
posizione dell’attore (e, quindi, di norma, l’affermato creditore della
prestazione): il primo vantaggio si ha per ciò che concerne l’onere della
prova che, nell’azione ex art.1218, è in capo al convenuto, sussistendo una
presunzione di colpa del debitore.
Il secondo grande vantaggio di poter agire a titolo di responsabilità
contrattuale risiede nel termine di prescrizione del diritto vantato che, in
questo caso, è quello lungo di 10 anni, al contrario del termine breve di 5
anni riconosciuto per la responsabilità extracontrattuale.
Dunque, la Cassazione non solo ha individuato una forma di responsabilità in
capo alle ASL ma ha anche garantito l’ampia tutela derivante da obbligazione
de facto contrattuale, mostrando come ciò che è scritto sui libri non sia che
una semplice mappa per orientarsi all’interno del complesso mondo del
diritto, sempre meno distante di quello che può apparire da chi lo vede
dall’altra parte della barriera fatta di codici e toghe.
REBECCA RAVALLI
Fonti:
–
Cass. Civ. Sez. III, Sent., 2-03-2015, n. 6243
–
2011
Istituzioni di diritto privato, Pietro Trimarchi, Giuffrè Editore,
–
Quaderni del Massimario, Responsabilità Sanitaria e Tutela della
Salute, Corte Suprema di Cassazione, 2011
Genitori vegani: un diritto o una
colpa?
Negli ultimi anni in molti hanno deciso di votarsi, un po’ per moda e un po’
per reale convinzione, a filosofie quali vegetarismo e veganismo. La seconda,
in particolare, può essere considerata una presa di posizione etica oltre che
un regime dietetico strettamente correlato a questa. Ma, dato che se ne sente
spesso parlare, in cosa consiste esattamente il veganismo? Quali sono i
principi sostenuti dai vegani?
Il veganismo è definito come “una filosofia basata sul rifiuto di ogni forma
di sfruttamento degli animali” e da ciò la scelta, degli aderenti al regime
dietetico, di non nutrirsi più né di carne, appartenente a qualunque tipo di
animale né di prodotti di origine animale, quindi uova, formaggi, ecc…
In qualità di filosofia di vita, il veganismo è tutelato dall’art 18 della
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, per cui
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di
religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e
la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in
privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle
pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”.
Da ciò si può quindi desumere che essere vegani sia un diritto e in quanto
tale il soggetto che aderisce a tale stile di vita, perché di questo si
parla, possa liberamente decidere di educare il proprio figlio seguendo tali
principi. Ma possono sussistere dei casi in cui tale diritto alla libertà di
pensiero si scontri con altri diritti, propri del bambino ad esempio? E se
si, quali?
Evidentemente, come da sempre si studia presso le facoltà di giurisprudenza,
il diritto di un soggetto inizia dove finisce il diritto di un altro. Appunto
di questo vuole trattare l’articolo che segue e vuole farlo in relazione ad
un caso che ha portato all’allontanamento di un figlio dai genitori, che in
tale filosofia credono strenuamente.
Pochissimi mesi fa a Lauris, nel sud della Francia, i magistrati francesi
hanno tolto a due genitori, vegani per l’appunto, il figlio di 5 mesi con
l’accusa di maltrattamento. Essi erano soliti nutrire il figlio come
prescritto dalla loro alimentazione e quindi con latte di soia. Ciò ha
comportato che il neonato a cinque mesi pesasse meno di 5 kilogrammi.
A seguito di tale provvedimento il neonato è stato condotto presso un centro
di accoglienza di Avignon ove ha subito preso peso a seguito
dell’alimentazione a base di latte animale. Tale provvedimento, valutato a
seguito della denuncia perpetrata dal pediatra del bambino, trova la sua
ratio nelle accuse di maltrattamenti mosse ai genitori, in quanto i
magistrati hanno ritenuto che l’imposizione di tale regime alimentare, che
aveva comportato una debilitazione fisica, fosse da considerarsi una forma di
violenza sul bambino.
In attesa che la Corte d’Appello di Nimes, adita dai due genitori privati del
frutto del loro amore, si pronunci si procederà ad analizzare quali diritti
sono riconosciuti a tale infante a livello internazionale.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che già sopra è stata
citata, all’art 25 prevede una prima parte che così è stata concepita :
“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la
salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo
all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai
servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di
disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di
perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua
volontà”.
L’articolo, all’interno della prima parte mira a tutelare la salute “con
particolare riguardo all’alimentazione” e ciò può essere direttamente
collegato al caso di specie, in quanto i genitori, al fine di perseguire lo
stile di vita da loro scelto, stavano seriamente compromettendo la salute del
figlio. Ma tralasciando questa prima parte, che già di per sé inerisce al
caso, si prosegua con la lettura della seconda parte del suddetto articolo:
“La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti
i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa
protezione sociale”.
Tale locuzione intende fornire all’infanzia una tutela speciale, quindi se si
avevano dubbi sul fatto che la prima parte potesse essere applicata, la
seconda vuole andare a rafforzare il proposito di tutela in quella espresso.
A questo punto potremmo già chiudere la dissertazione appena aperta ma si
vuole portare a conoscenza del lettore il fatto che nel 1989 sia stata
elaborata un’ulteriore Convenzione che è quella sull’Infanzia. La suddetta
dichiarazione è interamente dedicata al periodo dell’infanzia e quindi
diretta a tutelare determinati diritti spettanti agli infanti in quanto tali.
In particolare sono di nostro interesse gli artt 3- 14- 18- 19- 20- 24 che
procederemo di seguito ad esplicare.
L’art 3 impegna gli Stati firmatari di tale Convenzione, tra cui la Francia,
ad assicurare ai fanciulli protezione e cure necessarie al loro benessere,
sicurezza e salute. Tale ruolo è affidato in primis ai genitori, piuttosto
che i tutori o chiunque ne detenga la responsabilità legale ma, allo stesso
tempo, alle istituzioni, ai servizi e agli istituti dello Stato. Si può
quindi sostenere che nel caso di specie lo Stato abbia adempiuto al dovere
impostogli da tale Convenzione nel momento in cui, per salvaguardare il
benessere e la salute del bambino, abbia sottratto quest’ultimo dalla tutela
dei di lui genitori.
All’art 14 invece si dice che gli Stati debbano rispettare la libertà di
pensiero del fanciullo oltre che il diritto e il dovere dei genitori, o chi
per loro, di guidare il fanciullo nell’esercizio del summenzionato diritto.
Tale articolo non dovrebbe essere applicato al caso in questione in quanto
presuppone un’età del bambino in cui esso possa osservare il mondo che lo
circonda e ragionare su questo e, solo a seguito di questo approccio,
decidere per sé ed esercitare la propria libertà di pensiero. È lampante come
l’età di 5 mesi non sia sufficiente ad attribuire al bambino la capacità di
valutare per sé uno stile di vita quale può essere il veganismo e in questa
ottica possiamo sostenere che questa posizione alimentare non provenga dal
bambino ma dalle radicate convinzioni dei genitori.
Segue poi l’art 18 in cui gli Stati si impegnano a riconoscere il principio
secondo cui i genitori hanno la responsabilità di allevare, educare e
provvedere allo sviluppo del fanciullo. Nel caso di sopra esplicato emerge
come tale responsabilità non sia stata adempiuta con la dovuta diligenza da
parte dei due genitori francesi, in quanto questi con l’approccio adottato
avrebbero potuto procurare gravi danni allo sviluppo dell’infante.
Anche all’art 19 è rimarcato il dovere dello Stato di adottare ogni tipo di
misura legislativa amministrativa, sociale, ecc… al fine di tutelare il
fanciullo contro ogni forma di violenza e di maltrattamenti (due delle forme
di violenza sul fanciullo trattate in tale articolo) per tutto il tempo in
cui è affidato ai genitori. Quindi si può dire che la Francia si sia vista
obbligata a ricorrere all’intervento giudiziario a seguito dei maltrattamenti
perpetrati a danno del bambino.
Sulla stessa onda
temporaneamente o
solo nella misura
caso di specie in
peso ponendo fine
è l’art 20 in cui si afferma che il bambino può essere
definitivamente essere privato del suo ambiente familiare
in cui ciò sia fatto nel suo interesse. Così è stato nel
cui, a seguito dell’allontanamento, il bambino ha messo su
alla sua situazione di sottopeso dovuto a mal nutrimento.
Infine l’art 24 identifica il dovere degli Stati di riconoscere il diritto
del minore di godere del miglior stato di salute possibile e a tal proposito
ha agito la magistratura adita al caso che, data l’evidente situazione di
malnutrizione, è voluta intervenire in favore della salute del bambino e in
sfavore del diritto di questo di crescere, anche se probabilmente solo
temporaneamente, con i genitori.
In conclusione si è voluta fornire una sommaria dissertazione sulla tutela
del bambino, in relazione al caso di specie, a livello internazionale
nonostante non esista ancora, anche se in progetto, una convenzione che
tratti esclusivamente i diritti del neonato. Si è preferito non analizzare il
diritto francese e in particolare, in ambito penale, la fattispecie di
maltrattamenti, ma semplicemente si è voluta sviscerare la normativa
internazionale, e quindi di livello sovranazionale, a cui il diritto francese
si deve conformare.
FEDERICA GRECO
Bibliografia:
Articolo la Repubblica 25 ottobre 2013
Sitografia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Veganismo
http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Pages/Language.aspxLangID=itn
http://www.unicef.it/doc/601/convenzione-diritti-infanzia-artt-1-10.htm
Licenze foto:
Foto 1: “Cow”, foto di maraker, licenza CC BY SA, www.flickr.com
Foto 2: “Justice sends mixed messages”, foto di Dan4th, licenza CC BY,
www.flickr.com