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Questo capitolo del libro
Yoga demenziale
di Jacopo Fo
è pubblicato per
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I edizione: ottobre 2009
© 2009 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Editing e revisione di Marianna De Pascale e Gabriella Canova
Le immagini interne sono di Jacopo Fo
www.fazieditore.it
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Jacopo Fo
Yoga demenziale
Il manuale definitivo della
Rivoluzione Pigra
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Tutto è iniziato con un evento accaduto
trentadue anni fa. Ed è a causa di quell’episodio che ora sono qui a scrivere questo libro: quando avevo circa diciott’anni, un
mio amico fece la sua apparizione a una festa di compleanno dopo essere sparito per
sei mesi. Ci raccontò di aver vissuto per tutto quel tempo in una baita in montagna, di
aver mangiato solo soia e riso integrale e di
aver passato le giornate a respirare con le
mani e con i piedi. Era il 1973: non sapevamo neanche cosa fosse la soia e la new age
non l’avevano ancora inventata. Eravamo
un nucleo di giovani militanti comunisti dediti alla rivoluzione e concludemmo che era
pazzo. Allora lui decise di darci una dimostrazione di cosa si ottiene respirando con i
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piedi: si sedette per terra a gambe incrociate e ci sfidò a spostarlo spingendolo in due.
Era magrolino, e la sfida mi sembrò assurda. Ma non riuscimmo spostarlo. Era come
piantato per terra.
Ero sconvolto. Come ci riusciva? Era una
cosa che dovevo assolutamente imparare
ma non intendevo mettermi a respirare con
i piedi. L’idea di finire in mano a un santone
buddhista pazzo e giapponese mi terrorizzava.
In effetti, impiegai anni a scoprire come
facesse il mio amico. Per riuscirci ho dovuto
prendere un sacco di botte e sperimentare
molte situazioni decisamente sgradevoli.
Praticamente una caccia al tesoro. Il primo
elemento del puzzle lo trovai in un libro: Lo
zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel. Un
volume che ha dato origine a un’intera genia
di testi. In realtà, è un libro assurdo: è la storia di un tedesco che si reca in Giappone negli anni Trenta come ambasciatore. Essendo
un fottuto nazista, si appassiona alle tecniche dei samurai e inizia a studiare con impe6
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gno il tiro con l’arco giapponese. Ma dopo
quattro anni di lezioni estenuanti – tre ore al
giorno, tre volte alla settimana – non riesce a
soddisfare il maestro. Gli sembra di eseguire
perfettamente i movimenti ma, ogni volta
che sta tendendo l’arco, il maestro gli si avvicina, lo tocca e gli dice: «No!».
A un certo punto il tedesco si incazza, e
va di notte dal maestro a urlargli che è un
razzista e ce l’ha con lui perché è alto, biondo e con gli occhi azzurri. Allora il maestro
lo porta nella palestra dove si tira, prende
arco e frecce, spegne la luce, lancia una
freccia con l’arco e, quando riaccende la
lampada, la freccia è piantata nel centro del
bersaglio. Il maestro poi dà il suo arco al tedesco (il che era considerato un onore pazzesco) e gli dice: «Tira!».
Lui tende l’arco, il maestro lo tocca con
un dito e finalmente esclama: «Sì!». Il libro
finisce così. Nessuna spiegazione. Ma checcavolo era successo? Perché il maestro prima lo tocca e gli dice «No!» e poi improvvisamente «Sì!»? Insomma, era un libro in
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cui non si capiva un cazzo, ma tutti ne andavano pazzi e ripetevano: «Oh! Che libro di
profonda saggezza!». E, come per la Corazzata Potëmkin, nessuno aveva il coraggio di
dire che era una boiata pazzesca.
Poi un bel giorno mi ricordai di un gioco
che facevo alle elementari. Forse lo conosci
anche tu: si appoggia il dorso della mano a
un muro e si spinge per sessanta secondi,
poi si smette di spingere, ci si allontana dalla parete e si lascia il braccio rilassato e a
questo punto succede una cosa assurda: il
braccio si alza da solo! Si prova una sensazione strana: il tuo braccio si sta muovendo
e tu non gli stai ordinando di farlo. È una
sensazione buffa che fa ridere i bambini.
Questo esperimento ti permette di verificare un particolare meccanismo della tua
mente. Abbiamo due funzioni mentali: razionale e non razionale. Sono come due diversi
programmi che girano sullo stesso computer.
Quando inizi a spingere, l’ordine di azione parte dalla mente razionale e la muscolatura razionale comincia a muoversi. Ma
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dopo un po’ questi muscoli, che non sono
adatti a sforzi prolungati, si stancano. Inizia
così a lavorare la mente non razionale che
aziona la muscolatura non razionale. Dopo
sessanta secondi, quando pensi «Ora basta!», l’ordine raggiunge la muscolatura razionale ma non quella non razionale, che
continua a spingere. La cosa strana è che la
sensazione dello sforzo non viene percepita:
la muscolatura non razionale non invia al cervello un senso di fatica. Si tratta di un meccanismo naturale noto agli scienziati ma sconosciuto alle persone comuni. Succede a tutti.
Secondo la mia esperienza, però, questo
esperimento fallisce nel 3-4 per cento dei
casi. Si tratta di persone con una grande capacità di concentrazione: se durante i sessanta secondi in cui spingono non si distraggono neanche per un istante, non avviene il passaggio delle consegne tra mente
razionale e irrazionale. Ma ciò non vuol dire
che queste persone funzionino in modo diverso: se vanno in bicicletta e pedalano per
dieci minuti, azionano comunque la mente
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non razionale. Nessuno riesce a mantenere
la concentrazione per più di qualche minuto e, non appena si verifica un istante di distrazione, attacca a lavorare la mente non
razionale; i primi giri di pedale li controlli
razionalmente, ma poi i piedi cominciano
ad andare da soli e tu puoi pensare ad altro:
fare i conti, cantare…
Qualche tempo dopo ho scoperto un altro strano esperimento che mi era stato presentato come un miracolo del ki (o chi, l’energia vitale). Dopo una serie di appropriati esercizi di meditazione ed energizzazione,
visualizzando un raggio di energia cosmica,
sono riuscito a produrre un’incredibile rigidità del mio braccio, teso davanti a me. Chi
avesse tentato di piegarlo, non ci sarebbe
riuscito. Ci ho lavorato un po’ su e mi sono
accorto che tutta la messa in scena mistica
non era necessaria: in venti anni di corsi, ho
insegnato questo trucco a migliaia di persone. Bastano trenta secondi per riuscirci e
non ho mai trovato nessuno che non ne sia
stato capace.
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Fingi di sentire un getto
d’acqua fredda nel braccio
Il braccio non si piega
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Prova a farlo anche tu con un amico, e se
siete in tre è anche meglio: stendi il braccio
davanti a te, dritto, con le dita distese ma
non contratte (questo è essenziale, le dita
devono essere stese). Ora devi fare una cosa
che hai fatto migliaia di volte da bambino:
giocare a fare finta che… Fai finta di sentire
che il tuo braccio non è un braccio ma un
tubo dell’acqua. Nel tuo braccio passa un
getto di acqua fredda molto forte. La persona che ti aiuta deve ripeterti: «Il tuo braccio
è un tubo che sta innaffiando davanti a te…
Senti l’acqua fredda che scorre».
E mentre dice queste parole, deve fare
dei gesti con la mano lungo il tuo braccio,
senza toccarlo, come a rappresentare questo flusso d’acqua. I gesti sono importanti,
sono immagini che la mente non razionale
comprende meglio delle parole. Per la riuscita dell’esperimento, questa cazzata pazzesca deve essere eseguita giocando a prendersi sul serio. Colui che interpreta il ruolo
del mago deve partecipare emotivamente
alla sceneggiata, immedesimarsi nella parte.
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È un gioco, ma come tutti i giochi va fatto
seriamente.
Ora, attenzione, è sufficiente che tu faccia
finta di sentire questa sensazione assurda
per un quinto di secondo. Non devi concentrarti: se ti concentri, attivi la mente razionale che non è capace di farti ottenere il risultato desiderato. Solo un istante è sufficiente.
Si tratta di inviare alla mente non razionale
una richiesta facendole vedere cosa vuoi.
Tutta questa fase preparatoria deve durare almeno venti secondi. Poi il mago prova
a piegare il braccio mettendo una mano sul
polso e l’altra all’altezza dell’incavo del gomito.
Inizia a spingere delicatamente e via via
aumenta la forza fino a raggiungere il massimo della potenza. E il braccio non si piega.
Se c’è una terza persona può provare a palpeggiare il braccio manipolandolo in profondità tra la spalla e il gomito: si accorgerà che
le fasce muscolari superficiali sono rilassate,
mentre quelle aderenti all’osso sono molto
contratte.
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Inoltre, verificherà che il tuo braccio non
trema leggermente come accade sempre
quando la muscolatura razionale è sotto
sforzo. Anzi, il braccio sembra aver acquisito una strana consistenza, sembra quasi inanimato.
Questo perché la muscolatura non razionale è strutturalmente diversa da quella razionale: è composta da fasce più lunghe che
reagiscono a impulsi meno frequenti. Anche se non uso difficili parole scientifiche, i
fisiatri sanno perfettamente di cosa sto parlando.
Non vorrei apparire polemico, ma credo
si tratti di un peccato che queste fondamentali conoscenze siano restate finora appannaggio di una ristretta cerchia di specialisti.
Alcune persone non riescono a ottenere
subito la rigidità del braccio perché hanno
difficoltà a visualizzare la sensazione del getto d’acqua. Con questi bisogna seguire un
altro percorso: si inizia come sopra col getto
d’acqua e, quando si prova a piegare il braccio, lo si fa con uno sforzo minimo, lenta14
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mente, fino a quando si incontra una resistenza anche solo di mezzo grammo. Allora
ci si ferma e si chiede alla persona di fotografare la sensazione che sente nel braccio.
Quindi si stende nuovamente e si ripetono i
gesti sciamanici di prima, chiedendogli di ricordare, di far finta di risentire nel braccio,
per un solo istante, la sensazione che ha fotografato mentalmente poco prima. Poi si
prova a piegarlo, si cerca la resistenza, che è
lievemente aumentata, e così via fino a ottenere la totale rigidità dell’arto. Anche questo
esperimento l’ho realizzato con migliaia di
persone e non ho ancora trovato nessuno
che non ci sia riuscito. Solo una volta, con
una ragazza, ho dovuto ripetere la procedura quattordici volte. Ma era molto carina.
Il tuo cervello è più veloce della tua ombra
Una sera vidi alla TV due professori che
spiegavano che i tempi di reazione del cervello sono più lenti di una banconota che
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cade tra le dita. Invitarono il pubblico a provare: una persona teneva in mano una banconota (allora si usavano le mille lire, che
sono lunghe come i venti euro di oggi) e l’altra persona metteva l’indice e il pollice,
aperti, alla base di essa. Quando la banconota veniva lasciata cadere, chi faceva l’esperimento doveva chiudere le dita senza muovere la mano e afferrarla al volo. Durante la
trasmissione, ci provarono un centinaio di
persone ma nessuno riuscì a prenderla.
Visto che stavo studiando l’incredibile
velocità dei movimenti nelle arti marziali,
volli provare utilizzando la tecnica della visualizzazione appena descritta: immaginai
per un istante di aver già preso la banconota, di sentire la percezione della carta sui
polpastrelli con il relativo senso di soddisfazione per averla acchiappata.
Poi non feci nulla, semplicemente aspettai di vedere se i miei riflessi istintivi riuscivano veramente a prendere la banconota da
soli, senza l’intervento della mia mente razionale, esattamente come succede negli
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esercizi del braccio che si alza da solo e del
braccio che non si piega.
E ci riuscii.
I due scienziati non si erano sbagliati,
solo avevano parlato dei tempi di reazione
della mente razionale, che è molto lenta.
Usando la visualizzazione si affida il compito di acchiappare la banconota alla parte
non razionale: entrano così in gioco i riflessi istintivi, che sono cinque volte più veloci.
E non dico cinque tanto per dire: quando
attivi completamente la parte non razionale,
riesci ad afferrarla entro il primo quinto
della sua lunghezza. Se usi la mente razionale, casca per tutta la sua lunghezza e tu non
hai ancora stretto le dita. Questo succede
perché la mente razionale deve identificare
i passaggi dell’azione. È come se li nominasse: «La banconota cade!», «Dita chiudetevi!». E questo percorso è troppo lungo. La
mente non razionale vede l’immagine delle
dita che hanno preso la banconota e la realizza automaticamente, senza perdere tempo a rielaborarla. Sono i riflessi della scim17
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mia che guarda la banana sull’albero, si immagina mentre la mette in bocca e si muove
per concretizzare questo desiderio senza
aver bisogno di pensare ai singoli passi. In
realtà, anche questo sai già farlo benissimo:
quando guidi ti capita di frenare senza neppure pensarci, lo fai automaticamente.
Corollario
Sono venticinque anni che insegno questo esperimento. E, anche in questo caso,
ho trovato migliaia di persone disposte a
impararlo. Pochi giorni fa su «Discovery
Channel», nella trasmissione Brainiac, ho
visto un professore che spiegava che non
era possibile prendere una penna biro che
viene lasciata cadere tra le tue dita. Ripetevano il test e nessuno ci riusciva.
Possibile che idee sbagliate, come questa
sui tempi di reazione del cervello, siano così
difficili da correggere?
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C’è arco e arco (e l’arcobaleno non è il marito
della balena)
A questo punto della mia ricerca sulla
muscolatura irrazionale, decisi che dovevo
capire come funzionava il tiro con l’arco
giapponese.
Presi le Pagine Gialle e telefonai a un grosso negozio di attrezzature per arti marziali e
chiesi quanto costasse un arco giapponese. Il
commesso mi chiese di attendere e dopo un
minuto arrivò all’apparecchio il proprietario
del negozio. Desolato, mi informò del fatto
che, per motivi incomprensibili, i giapponesi
non volevano vendergli gli archi. Telefonai a
un altro negozio e mi venne raccontata la
stessa storia. Pensai che fossero impazziti. Figurati, i giapponesi ti venderebbero anche la
mamma!
Quindi chiamai la sede nazionale dei tiratori d’arco giapponesi, a Milano, e chiesi
di comprarne uno. Pensavo che gestissero
loro il commercio in regime di monopolio.
La ragazza che mi rispose mi chiese: «Ma lei
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sa tirare con l’arco?». Ormai iniziavo a essere un po’ irritato: «Signorina, vorrei comprare un arco proprio per imparare a tirare.
Lei capisce che, se non lo compro, non posso imparare?».
«Forse è meglio che parli con il Maestro». Odio quando fanno così i gerarchici… Così telefonai al Maestro, il signor Rosemberg, e gli dissi: «Vorrei comprare un
arco giapponese ma sembra sia impossibile,
mi dicono che solo lei mi può permettere di
comprarne uno».
Il Maestro rispose solo: «Forse è meglio
che lei mi venga a trovare». Mi sembrava di
essere in un film sulla vita paranoica delle
spie. Ma sono un duro, e così mi ritrovai
nella campagna dell’hinterland milanese: un
gruppo di palazzine in un parco. All’ultimo
piano, suonai alla porta di casa Rosemberg.
Mi aprì un giapponese con barba lunga e
bianca, sandali infradito e vestito da samurai
del Quattrocento; gli mancavano però gli
occhi a mandorla e il colorito giallino, dal
momento che era lombardo e bianchiccio
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come me. Mi portò sul terrazzo (enorme,
sembrava un giardino giapponese) dove c’era un bersaglio: un paglione di un metro di
diametro. E, dietro, una rete per evitare di
ammazzare, con le frecce tirate male, la gente che passava sotto il palazzo. In fondo pensai che il signor Rosemberg non fosse cattivo
al cento per cento. Fu allora che il mio ospite prese l’arco e tirò una freccia. E (cazzo!) lì
capii che l’arco giapponese non è un arco: è
una catapulta! E non te lo vendono non perché siano cattivi, ma perché, se prendi un
arco giapponese e tiri una freccia come faresti con l’arco occidentale, ti recidi il pollice
della mano con cui lo impugni. Io non ci
credevo, e adesso mi ritrovo con una bella
cicatrice sul pollice. Per fortuna avevo solo
teso appena la corda. Ma ora mi spiego meglio: nel nostro modo di tirare, l’asta dell’arco sta ferma. I giapponesi, invece, mentre
scoccano la freccia, fanno girare l’asta dell’arco sul proprio asse.
La corda gira, proprio come in una catapulta, la freccia si stacca e la corda conclude
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la sua traiettoria battendo sul polso della
mano dell’arciere. Per farlo, l’arco deve ruotare su se stesso per tre quarti di giro (questo
accade in certe scuole, in altre si ferma prima del polso, ma il concetto è lo stesso). E
l’arciere, per agevolare questa rotazione dell’asta dell’arco, si cosparge la mano con una
polvere bianca per ridurre l’attrito (e comunque tutti i tiratori hanno le palme delle
mani bruciate: niente impronte digitali).
Inoltre, per tirare con l’arco serve un
guanto speciale in legno e cuoio, fatto su misura. Lo si infila nella mano che tende la corda. Serve perché, per ottenere un rilascio
della corda particolarmente secco, le dita
non si limitano ad agganciare la corda ma la
piegano facendole fare una Z.
Per il nostro scopo, però, è sufficiente sapere che l’arciere giapponese deve compiere contemporaneamente tre movimenti velocissimi per evitare di ferirsi: togliere la testa dalla traiettoria della corda per non perdere un orecchio, far roteare l’arco su se
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stesso e trasformarlo in una catapulta per
non tagliarsi via un dito.
Questa tecnica sfrutta la schiena e le
braccia per dare forza alla freccia in un movimento tanto veloce che il nostro occhio ha
difficoltà a coglierlo. Per questo, imparare
la tecnica giapponese di tiro è così difficile.
Per formare un arciere occidentale da mandare in battaglia, basta qualche settimana di
allenamento quotidiano. Per un samurai,
servono anni.
Questa tecnica ha diversi vantaggi: il primo è che, se dei contadini rubassero gli archi ai samurai, non riuscirebbero a usarli. Il
secondo è che un arciere giapponese, siccome sfrutta anche la schiena e le braccia per
tirare la corda, ha bisogno di un arco meno
duro per scagliare una freccia. Per tendere
un arco giapponese, servono venti libbre di
sforzo. Un arciere occidentale, per lanciare
una freccia alla stessa distanza, ha bisogno
di uno sforzo da cinquanta libbre. Il che
vuol dire che un arciere nipponico riesce a
scagliare anche seicento frecce, mentre uno
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Arco
Freccia
Corda
L’arco gira
su se stesso
L’arco giapponese visto dall’alto
europeo, dopo centocinquanta, stramazza a
terra per la fatica.
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C’è però un problema: l’arciere occidentale, mentre scaglia la freccia, sta immobile e
quindi può mirare. L’arciere a catapulta no.
Ma se tiri contro uno schieramento nemico
largo un chilometro e profondo duecento
metri, della mira non ti importa un granché.
Gli arcieri giapponesi riescono a volte a
mirare d’istinto e centrare il bersaglio. Ma è
difficile quanto farlo con una fionda. Ricordi la storia di Davide e Golia? Davide non
usava una tirasassi (si mira col ramo biforcuto e con l’elastico). La fionda era composta da due corde di cuoio unite da una pezzuola nella quale si appoggiava una pietra.
Poi, impugnando le corde dal lato opposto
al proiettile, si fa roteare l’arma lasciando
infine uno dei capi delle due corde per lanciare il sasso. Anche la fionda è un’arma a
catapulta, buona per spaventare un branco
di pecore o tirare nel mucchio contro un
esercito schierato. Ma colpire la fronte di
Golia o il centro di un bersaglio è un’altra
cosa. Fare centro con l’arco giapponese è altrettanto difficile.
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Ecco perché nel libro Lo zen e il tiro con
l’arco l’ambasciatore tedesco resta stupito
dalla precisione del lancio al buio fatto dal
maestro.
Insomma, per tirare con l’arco giapponese, bisogna produrre dei movimenti molto
veloci e mirare in modo istintivo. La tecnica
che si usa è quella di immaginare la freccia
già piantata nel bersaglio. Indovina quale
parte del cervello devi usare per riuscirci?
Prendere botte per imparare non è il massimo, ma a volte capita (però, prima di farti picchiare da un giapponese di Monza, ti consiglio
di vedere in giro se c’è una scappatoia: fidati,
lo so per esperienza!)
A questo punto scoprii che ero in grado
di eseguire una versione dell’esperimento
del mio amico che restava seduto per terra
ancorato al suolo.
L’avevo visto fare da un maestro di aiki26
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do che, stando in piedi, riusciva a resistere
alla spinta di dieci persone.
Mettendo insieme quel che avevo scoperto sulla visualizzazione e la muscolatura
istintiva, non razionale, provai a farlo anch’io, ovviamente con un solo avversario.
Assunsi la posizione di lotta, con i piedi
ben piantati a terra, ginocchia leggermente
flesse, il pube in avanti, la schiena arcuata,
spalle e collo rilassati, mi spinsi fino a essere sulla mia linea di caduta. Proprio un millimetro prima di perdere l’equilibrio e cadere per terra. Poi immaginai di avere le radici e di essere una quercia, cercai una forte
emozione dentro di me, iniziai a respirare
come per emettere un sospiro di sollievo, lasciando uscire l’aria spontaneamente, senza
spingerla fuori. Questa è la tecnica di respirazione che dà più forza alla muscolatura
non razionale. Molto più delle grida dei
film di kung fu. Poi sorrisi, perché il sorriso
è un’autosuggestione positiva.
Infine, chiesi al mio cervello razionale di
farsi da parte, di non interferire e stare sem27
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plicemente a guardare quello che accadeva.
Insomma, di fare solo da testimone.
Appoggiai le mani sui gomiti dell’amico
che mi avrebbe spinto. Le sue mani erano
sulle mie spalle. Iniziò a spingere e io mi accorsi che non riusciva a spostarmi. Non sapevo cosa stessi facendo, non percepivo
nessuno sforzo da parte mia, mentre invece
lo sentivo ansimare per la fatica. Ce l’avevo
fatta! E non mi ci volle molto per trovare il
modo di insegnarlo. Sono necessari solo
due giorni, a volte meno. E anche in questo
caso ci sono riuscito con migliaia di persone, senza mai incontrare qualcuno che non
ce l’abbia fatta: si tratta di una capacità innata! Quindi non c’è nulla di difficile. Però
è necessario provare una forte emozione ed
essere capaci di lasciare il nostro ego razionale a fare da spettatore.
Durante i corsi di Yoga demenziale, insegno l’esercizio della spinta partendo dalla
comprensione di quel che succede nella creatività: se una persona riesce a capire che nella scrittura è la mente non razionale che in28
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venta, avrà più fiducia nelle sue capacità
istintive. In seconda battuta, propongo esperimenti sulla pittura, sulle percezioni, sul
massaggio, sulla danza, sul gioco. Alla fine le
persone si fidano della mente non razionale,
la apprezzano e sono disposte a sperimentare veramente le sue potenzialità nel “gioco
della spinta”. Se hai capito tutto finora, puoi
certamente riuscirci senza frequentare un
mio corso. A me non l’ha insegnato nessuno.
Però fai attenzione allo stato d’animo col
quale ti disponi alla prova: devi avere un livello molto alto di energia e di emozioni e
devi trovare in te tutta la tua determinazione.
In effetti, quando ci sono riuscito la prima volta, ero avvantaggiato perché il mio
maestro di kendo, il grande Mario Bottoni,
aveva liberato la mia parte animale (e la mia
fiducia in essa) attraverso un sistema molto
antico e semplice: mi picchiava selvaggiamente con un bastone di bambù tagliato in
quattro perché fosse flessibile e non provocasse fratture. Avevo addosso una specie di
armatura molto scenografica, ma una mer29
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da dal punto di vista della protezione. Presi
botte per quattordici giorni, tre ore di lezione al giorno: un incubo. Avevo il corpo coperto di lividi su lividi. Di tutti i colori. Anche belli, da un certo punto di vista. Ma essere picchiati sui lividi del giorno prima era
veramente doloroso. Non riuscivo a fermare le lacrime. Il Maestro aveva un metodo
semplicissimo di insegnare, mi attaccava a
bastonate riducendomi nell’angolo della palestra e continuava a colpirmi urlando:
«Tira fuori il ki! Usa l’harà1!».
Il maestro urlava e colpiva ed era estremamente chiaro che avrebbe continuato in
eterno se non fossi riuscito a buttarmi contro di lui e a uscire d’impeto dall’assedio. Ed
era impossibile senza tirare fuori la forza
della disperazione perché il maestro si era
trasformato in un muro di cemento armato:
cozzavo contro di lui e finivo per terra! E lui
continuava a colpirmi. E quindi ringrazia
che ho trovato un modo di spiegare come si
fa che non prevede che io venga a casa tua a
picchiarti personalmente (nel kendo, dopo
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aver preso le botte, si ringrazia il Maestro. E
io ringrazio il mio).
Quando misi insieme tutte le conoscenze
che ti ho appena descritto, arrivai finalmente a svelare il segreto del mio amico che restava cementato al suolo e a capire perché il
maestro di tiro con l’arco toccava il tedesco
e poi esclamava: «No!».
Hai capito anche tu? Se hai già colto il
nesso, sei più intelligente di me, perché io ho
impiegato un bel po’ di mesi prima di arrivare a unire i puntini. Ma una volta capito, è
semplicissimo: il maestro tocca l’allievo per
sentire se trema. Se trema, sta usando la muscolatura razionale e quindi non potrà mai tirare l’arco giapponese in modo decente.
E l’esercizio di non farsi spostare funziona perché non si resiste con la forza razionale ma sfruttando muscoli e riflessi irrazionali, cambiando così le leve per opporsi alle
spinte degli avversari in modo talmente forte e veloce da non offrire una presa stabile e
da deviare verso il terreno quel che resta
della spinta. Più l’avversario si sforza, e più
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tu resti ancorato al terreno: usi la sua forza
deviandola grazie alle leve negative che tu
non conosci ma che il tuo istinto è capace di
usare.
Spero che tu voglia realmente sperimentare quanto ti ho proposto perché solo così
la tua mente razionale si convincerà che può
fidarsi della tua parte non razionale. E quando succederà, la tua vita cambierà perché saprai che dentro di te c’è un Superman.
1. L’harà è un punto energetico che si trova tre dita sotto
l’ombelico: è una sfera immaginaria grande quanto
una mela che è il centro dell’equilibrio e della forza
istintiva. Dal punto di vista occidentale, è una specie
di succursale del cervello dedita a compiti di bassa
manovalanza. Se n’è parlato recentemente su alcune
riviste scientifiche.
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