Differenze e società Oggi non viviamo più come ai tempi di

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Differenze e società Oggi non viviamo più come ai tempi di
Differenze e società
Oggi non viviamo più come ai tempi di Sparta, nei quali si selezionavano, tra i bambini,
coloro che avrebbero potuto diventare veri cittadini, sulla base delle condizioni fisiche ma
anche economiche oltre che di discendenza.
Non ci troviamo nemmeno nella Germania degli anni trenta che con l’operazione “T4”
iniziò a far “pratica di stragi” con l’eliminazione dei disabili tedeschi, per poi arrivare al
capolavoro dell’orrore; la shoah.
Distanze: così vicini così lontani
Oggi, molti organismi di tutela dei diritti umani, nonché studiosi ed esponenti del mondo
della cultura, hanno denunciato che nei media italiani l'immagine sociale degli “stranieri”
viene costruita quasi esclusivamente nel racconto di fatti di cronaca, quasi sempre “nera”
piuttosto che nell'ambito di una discussione sulla tutela di una differenza etnica, con la
rappresentazione dello “straniero lontano da noi”, dello “straccione” e del “parassita”. Il
modello “segregazionista” che ne consegue, contempla disuguaglianze a livello della sfera
pubblica, con l'assenza di una politica di “reale integrazione”.
Attualmente al termine handicap si preferisce la parola disabilità, che mette in evidenza
come lo svantaggio non sia una caratteristica della persona, ma un problema che nasce dal
rapporto tra lo stato di salute di quel determinato individuo e l'ambiente in cui vive. La
persona in situazione di handicap viene detta disabile; chi non presenta problemi è
considerato 'normale' e definito normodotato. Di solito pensiamo all'handicap come a una
menomazione fisica o mentale permanente e irreversibile, che rende una persona più o meno
incapace di condurre una vita normale, ma ci sono anche forme di handicap date, per
esempio, dal fatto di aver cambiato cultura o paese, di essere anziano e quindi avere
impedimenti dovuti all'età, di avere momentaneamente una gamba ingessata.
L’immigrazione contribuisce fortemente, nell’attuale contesto sociale e politico, alla copresenza di culture e stili di vita che formano universi multi – culturali. La presenza dei
migranti e la strutturazione dell’immigrazione e della profuganza ci obbliga di riflettere
sulle nostre organizzazioni istituzionali e i cambiamenti delle possibili inclusioni da attuare
per gestire gli incontri fra persone di appartenenze differenti che oggi sembrano ridursi ad
un gioco prolungato di “arrivi” per approdare agli ostacoli di una inclusione senza un
progetto. Il passaggio di un possibile percorso di inclusione, la dove l’esclusione non è più
funzionale per la gestione dell’immigrato, arriva alla considerazione della diversità1. Dal
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Dal sito: http://www.accaparlante.it/
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punto di vista materiale, il problema all'origine dell'handicap puòessere affrontato con
strumenti diversi ‒ quali sedie a rotelle, apparecchi ortopedici, supporti tecnologici ‒ oppure
con l'aiuto di persone competenti. Ma questo non basta: la persona disabile deve superare il
senso di inferiorità, la paura di essere rifiutata, la paura della solitudine. Ha quindi bisogno
di trovare la stima di sé, il sostegno della famiglia, il proprio ruolo nella scuola e nel lavoro.
È la società a ricordare costantemente al disabile che è diverso dagli altri. La persona
disabile sente in modo più forte la sua diversità quando si trova di fronte ostacoli materiali
oppure quando è oggetto della curiosità di chi lo circonda. In altre parole, la persona si sente
disabile soprattutto quando gli altri la fanno sentire tale. Come può essere affrontato il
problema dell'emarginazione sociale della persona disabile? Attualmente, nei paesi
dell'Unione europea, si cerca di garantire a ogni persona la piena partecipazione a tutti gli
aspetti della vita sociale e professionale e quindi di integrare la persona disabile in ogni tipo
di attività. Il disabile ha tuttavia bisogni speciali a cui è necessario rispondere con speciali
strategie da adattare caso per caso. Integrare la persona disabile nella società non significa
semplicemente inserirla nelle strutture e nelle attività: questo continua a farla sentire diversa
dagli altri. Integrare il disabile significa fargli condividere le esperienze comuni e metterlo
in condizione di vivere con gli altri, sia pure con modalità proprie2.
Conosci te stesso
Ma proviamo a leggere queste problematiche da un’altra prospettiva, partendo da noi:
siamo cresciuti e viviamo in una società che eleva ad esempio l’uomo sicuro di sé, che sa
parlare di tutto, che sa esprimersi in qualunque contesto e conquista la fiducia di chiunque lo
ascolti. L’uomo “tutto d’un pezzo” è l’uomo che non ha dubbi nè ripensamenti e domina
l’ambiente: “si può dire che negli ultimi secoli l'uomo moderno sia riuscito ad arginare e
dominare la realtà con la costruzione di un robustissimo traliccio artificiale, che però è
diventato ormai così importante e sofisticato da non lasciare al singolo altra scelta che
quella di diventare un nodo del traliccio stesso”3. Tendere a questo modello ci costa,
soprattutto per lo sforzo che richiede quando si tratta di eliminare tutte quelle parti di noi
che ci allontanano da esso, quindi la nostra parte che si sente timida, inadatta, isolata,
impedita, impacciata, ecc. ci impedisce di avvicinarci al nostro “superuomo”. Così, le
problematiche collegate alla disabilità, all’essere profugo o più in generale a delle forme di
differenza, debolezza e vulnerabilità, ci ricordano quelle parti che ci appartengono e che
continuamente, coscientemente o no, cerchiamo di rimuovere, nel nostro tendere a quella
perfezione, massmedialmente riconosciuta. L’adagio socratico: “conosci te stesso” recitato
agli albori della filosofia, vale ancora oggi e si carica di un’importanza essenziale, quando ci
invita a conoscerci meglio, per accettarci così come siamo, con le nostre contraddizioni e
coerenze, pregi e difetti, in questo modo, forse, l’altro, sembrerà meno lontano da noi, anzi,
le sue differenze diventeranno occasione di riflessione e rispecchiamento.
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Dal sito: http://www.treccani.it
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Marcello Cicchese: l’uomo moderno e la perdita della realtà. In: “Credere e comprendere” , Luglio 1991
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Il linguaggio di un film
Perché affrontare delle problematiche così importanti ed impegnative con la proiezione di
un film? Quali pretese può avere questo linguaggio? Ovviamente un film non pretende di
dare risposte illuminanti, però, se riuscisse a far sorgere delle domande, se potesse
accendere un briciolo di inquietudine in ogni spettatore, potremmo riconoscere che qualche
effetto l’abbia prodotto.
A differenza di una tavola rotonda o di un congresso, un film con una regia una
sceneggiatura e degli attori capaci, può accompagnare uno spettatore disposto ad ascoltare
(questo è lo sforzo che ci viene richiesto), nel mondo delle emozioni vissute, permettendo
una comprensione / intuizione che può oltrepassare una semplice descrizione di cronaca,
navigando nell’universo racchiuso della storia raccontata.
I film
Si può fare : (regia G. Manfredonia, 2008, 111 min.)
Milano, nei primi anni 80. Nello è un sindacalista dalle idee troppo avanzate per il suo
tempo. Ritenuto scomodo all'interno del sindacato viene allontanato e "retrocesso" al ruolo
di direttore della Cooperativa 180, un'associazione di malati di mente liberati dalla legge
Basaglia e impegnati in (inutili) attività assistenziali. Trovandosi a stretto contatto con i suoi
nuovi dipendenti e scovate in ognuno di loro delle potenzialità, decide di umanizzarli
coinvolgendoli in un lavoro di squadra. Andando contro lo scetticismo del medico psichiatra
che li ha in cura, Nello integra nel mercato i soci della Cooperativa con un'attività
innovativa
e
produttiva.
"La follia è una condizione umana" dichiarava Basaglia, psichiatra. "In noi la follia esiste ed
è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe
accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di
tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla". Prima dell'introduzione in Italia della
"legge 180/78", detta anche legge Basaglia, i manicomi erano spazi di contenimento fisico
dove venivano utilizzati metodi sperimentali di ogni tipo, dall'elettroshock alla
malarioterapia. Il film di Giulio Manfredonia si colloca proprio negli anni in cui venivano
chiusi i primi ospedali psichiatrici e s'incarica di raccontare un mondo che il cinema
frequenta raramente, non tanto quello trito e ritrito della follia, quanto quello dei confini
allargati in una società impreparata ad accoglierne gli adepti. Attenzione però. Il regista
evita accuratamente qualunque tipo di enfasi, sfiorando appena la drammaticità senza
spettacolarizzarla, in favore di un impianto arioso, ridente, talvolta comico, letiziando lo
spettatore con una commedia (umana) che diverte e allo stesso tempo fa riflettere.
Manfredonia tramuta episodi reali - e nello specifico la storia della Cooperativa Sociale
Noncello - in fiction, trattando con la dovuta discrezione un argomento tanto delicato che
appartiene alla storia dell'Italia, nel rispetto di chi convive con l'infermità mentale e di chi ci
lavora. La sceneggiatura scritta a quattro mani insieme all'autore del soggetto Fabio
Bonifacci non ha falle e permette agli attori di immergersi nella condizione dei loro
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personaggi con grazia. Sebbene Claudio Bisio dia un'ottima prova recitativa nei panni di
Nello, Si può fare è il frutto di un lavoro collettivo che vede tutti gli interpreti (compreso il
regista) impegnati a ricreare un ambiente credibile nel quale far muovere a piccoli passi un
ensemble di "matti" talmente autentici da strappare un applauso.
Welcome : ( regia di P. Lioret, 2009, 116 min. )
Bilal giovane curdo ha lasciato il suo paese alla volta di Calais, dove sogna e spera di
imbarcarsi per l'Inghilterra. Dall'altra parte della Manica lo attende un'adolescente che il
padre ha promesso in sposa a un ricco cugino. Fallito il tentativo di salire clandestinamente
su un traghetto, Bilal è deciso ad attraversare la Manica a nuoto. Recatosi presso una piscina
comunale incontra Simon, un istruttore di nuoto di mezza età prossimo alla separazione
dalla moglie, amata ancora enormemente e in segreto. Colpito dall'ostinazione e dal
sentimento del ragazzo, Simon lo allenerà e lo incoraggerà a non cedere mai ai marosi della
vita. A sua volta Bilal aprirà nel cuore infranto di Simon una breccia in cui accoglierlo. Ma
il mondo fuori è avverso e inospitale e l'uomo dovrà sfidare le delazioni dei vicini di casa e
la legge sull'immigrazione che condanna i cittadini troppo umani e "intraprendenti" col
prossimo. Premiato dal pubblico a Berlino e campione di incassi in Francia, Welcome è un
racconto morale che si interroga sul concetto di alterità e in cui è facile riconoscere i canoni
dell'attualità. Polemizzando con la legge sull'immigrazione voluta da Sarkozy, che infligge
sanzioni severe ai residenti colpevoli di cuore con la straniero, Philippe Lioret mette al
centro del suo film l'Altro, un corpo estraneo da sfruttare o da espellere, senza una vera
possibilità di integrazione. Come aveva già fatto con Tombés du ciel, film d'esordio del
1994, il regista francese riconferma la sua attenzione per la mercificazione delle vite nel
complessivo processo di disumanizzazione dell'Europa contemporanea. Welcome, storia
d'amore e di amicizia tra un uomo e un ragazzo, affronta con lirismo la realtà nelle sue
manifestazioni più crude, disumane e inaccettabili. La sopraffazione del più debole è
analoga a tutte le latitudini, compresa la democratica e "rivoluzionaria" Francia che "ospita"
una teoria di convivenze rese difficili dai codici sociali e da paure ingiustificate. La
coscienza collettiva è assente o rallentata da egoismi, bassezze e diffidenze, che sono
l'humus in cui cresce e prospera l'intolleranza di una comunità verso una minoranza. Il
coraggio del singolo, incarnato e interpretato da un intenso e dolente Vincent Lindon,
sembra allora essere l'unica speranza contro la violenza delle istituzioni, raccontata non
come attrito deflagrante ma come forza di inerzia, attraverso un logorio costante tra i
personaggi.
Nella livida immobilità di fondo entrano in contatto e dialogano un uomo e un ragazzo,
suggerendo un movimento paterno dell'uno verso l'altro e diminuendo "a bracciate" le
distanze tra le parti. Il punto di incontro tra Simon e Bilal è rappresentato dall'acqua,
elemento primitivo che innesca autentiche dinamiche relazionali e allo stesso tempo attende
e accoglie la risoluzione del dramma. Il giovane curdo, in cerca di una patria e di un amore,
è per il francese l'annuncio di una possibilità, la possibilità di ogni essere umano di ritrovare
se stesso e l'altro.
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