numero 13 anno VII – 1 aprile 2015
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www.arcipelagomilano.org numero 13 anno VII – 1 aprile 2015 edizione stampabile www.arcipelagomilano.org ARIA DI LOMBARDIA: LUPI DIMESSO, RAFFAELE CANTONE SANTO SUBITO? Luca Beltrami Gadola Eccoci nel bel mezzo di nuovi scandali, non facciamo in tempo ad archiviare il caso Lupi che dal cilindro di prestigiatore degli inquirenti compaiono di nuovo le cooperative rosse con un intreccio d’affari con lo sdegnato Massimo D’Alema. Raffaele Cantone scoperchia il caso della Pedemontana: di nuovo calati nella “terra di mezzo” dell’Italia dei Lavori Pubblici. Di nuovo spunta la sempre nutrita schiera dei sepolcri imbiancati e la sfacciata coorte di quelli che “oggi” dicono: tutti lo sapevano. E tutti tacevano conniventi, incompetenti e, a esser buoni, solo stupidi. Sia ben chiaro: Maurizio Lupi è una figura minore, solo emblematica dei tempi di Comunione e Liberazione, Massimo D’Alema da ieri è all’inizio del suo calvario mediatico ma la storia comincia da lontano e non manda assolto nessuno, destra, sinistra, centro sinistra, sinistra centro. Il gigante che emerge tra tutti gli amministratori disonesti e i boiardi di stato è al momento Ercole Incalza, il disonesto servitore dello Stato, il prototipo del burocrate alto dirigente, l’uomo per tutte le stagioni. Ha cominciato nel 1988 con Claudio Signorile, l’uomo della “sinistra ferroviaria”, quest’ultimo nato all’ombra di Riccardo Lombardi che si volta ancor oggi nella tomba pensando a lui e ad altri suoi giovani allievi: Fabrizio Cicchitto, per esempio, ex piduista e passato dalla sinistra socialista a Forza Italia e, come vediamo, lo stesso Claudio Signorile che ricompare nelle intercettazioni della magistratura fiorentina. Ma di chi è stato “fedele servitore” in tanti anni al ministero il nostro buon Incalza? Dal 1992, mentre il nostro occupava la sua poltrona di dirigente, abbiamo avuto 12 ministri (1) dei Lavori Pubblici (ora chiamati ministri delle infrastrutture) e più del doppio di sottosegretari. A quale delle tre categorie - conniventi, incompetenti o stu- pidi – li assegnereste questi ministri? Possibile che, salvo Di Pietro il quale cercò di sbarazzarsi di Incalza - e la sua provenienza dalla magistratura forse ha contato - tutti gli altri non si siano accorti di nulla? Questa è la “terra di mezzo” dell’Italia dei lavori pubblici e delle infrastrutture. Quanti di loro siedono ancora in Parlamento o sono stati incistati in aziende controllate o amiche? Quanti come il ministro Lupi “escono a testa alta” e magari pensano a candidarsi sindaco? Teniamo conto, tra le altre cose, che il Ministero delle infrastrutture, già dei Lavori pubblici, gestisce l’ANAS, società per azioni di proprietà statale, con un unico socio, il Ministero dell'Economia e delle Finanze, ma di fatto gestita sotto la vigilanza tecnica e operativa proprio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ossia la rete stradale e autostradale italiana. Capite ora qual è l’intreccio perverso che tra l’altro ha permesso tutti i pateracchi di vendite e rinnovi di concessioni autostradali ai privati per i quali ANAS addirittura stabiliva il prezzo dei pedaggi? E tutto questo in mano a Ercole Incalza. Ora a chi dopo di lui? Forse all’insostituibile Raffaele Cantone che arrivato dal sud a respirare la salubre aria di Lombardia tra Expo, Pedemontana, Brebemi e chissà quanto altro ancora, ormai ha assunto il ruolo di salvatore della Patria corrotta. Che si invochi sempre lui e solo lui è un pessimo segnale per il Paese: cercare un “onesto” tra funzionari pubblici, tecnici, politici sembra un’impresa disperata come cercare l’ago nel pagliaio. Ma quello che desta ancora maggior stupore è che, malgrado grida manzoniane, nessuno si sia messo a rivedere la legislazione sugli appalti e sulle forniture allo Stato, la vera terra di cultura della corruzione come da tempo va- do dicendo. Anzi. Non ci crederete ma il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare tanto per non sbagliare emana un decreto il 5 febbraio 2015 dal titolo Criteri ambientali minimi per l’acquisto di articoli per l’arredo urbano nel quale all'articolo 34 dice “…. La forma di aggiudicazione preferibile è quella dell’offerta economicamente più vantaggiosa prevista dal Codice dei contratti pubblici”. Non vi annoierò descrivendo ancora una volta di che si tratta, dirò soltanto che lo stesso Raffaele Cantone recentemente indicò in quel sistema di aggiudicazione la condizione propiziatoria ai fenomeni di corruzione. Dobbiamo aggiungere altro? Quanto dobbiamo aspettare perché gli stessi ministri e i loro uffici legislativi si adeguino e smettano di essere supinamente conniventi con corruttori e corrotti? Qualcuno ci sta prendendo per i fondelli? O sbaglio? (1) Ecco qua l’elenco: Francesco Merloni, l’artefice della prima legge sugli appalti madre di tutte le corruzioni (DC XI legislatura Governi Ciampi e Amato), Roberto Maria Radice (Centro desta XII legislatura Dini Berlusconi) e Paolo Baratta (area socialista medesima legislatura), Antonio Di Pietro, Paolo Costa (Margherita), Enrico Micheli (Partito Popolare Italiano), Willer Bordon (allora Italia dei Valori, Democratici e in fine Margherita) Antonio Bergone (PC-PDS citato nell’inchiesta Fiorentina), Nerio Nesi (PSI) questi quattro tutti nella XII legislatura che vide quattro governi. Veniamo alla XIV legislatura, qui troviamo sempre con Berlusconi 2 governi e due ministri: Maurizio Lupi e Pietro Lunardi, questo ’ultimo più volte inquisito. Nella XV legislatura, e siamo ormai nel 2006 abbiamo una breve ricomparsa di Di Pietro al ministero delle infrastrutture presto sostituito da Paolo Costa (Ulivo poi Partito Democratico Europeo) coinvolto nel-l’affare MOSE. Durante la XVI legislatura (Monti Berlusconi IV) ecco in nostro Lupi, imperituro ministro, che sbarca anche nella XVII legislatura pronubi Letta e Renzi. BUROCRAZIA: UN POTERE CHE OPPRIME E FRENA IL PROGRESSO Elena Grandi Fin dal tempo dei Romani il potere degli uffici decentrati, antitetico a quello centrale, non è mai posto secondo le attese del potere politico. È sfuggito di mano il controllo del fine per il quale era stato creato, proprio perché le persone che lo incarnavano non potevano culturalmente seguire l’essenza delle direttive, legin.13 VII 1 aprile 2015 slative o dittatoriali che fossero. Persino Tacito negli Annales riferisce, con la forza delle parole dello storico, “… esercitavano poteri regali con animo di schiavi.” Ad ogni modo, già durante l’Impero bizantino (da esso il termine bizantinismo) il nome burocrazia aveva assunto una connotazione negativa: la burocrazia e il suo articolato apparato, invece che porsi come strumento di intermediazione tra il potere e la società, anziché porsi come strumento positivo di realizzazione delle idee e di regolazione dei rapporti nel vivere civile, si era trasformata in una sorta di creatura tentacolare che sfuggiva al controllo del 2 www.arcipelagomilano.org governante e che abusava di un potere spesso senza limiti. Da allora, la burocrazia ha incrementato il suo potere di pari passo con la proliferazione delle leggi, sia amministrative che politiche, in quanto conduttore delle regole sempre più numerose che alle leggi si accompagnano per avere effetti su una collettività che si è fatta sempre più complessa e articolata. Oggi, oltre a essere percepita negativamente dal cittadino, la burocrazia è vista come un potenziale nemico, invece che come un necessario strumento di governo: perché, attualizzando la chiosa di Tacito, è incarnata e composta da persone che nel tempo hanno sfruttato il potere delle carte per acquisire personalmente dei vantaggi in termini di potere (o addirittura, nei casi patologici, di arricchimento); il risultato più preoccupante ed evidente è che i funzionari pubblici, spesso, invece che costituire una garanzia di rapporti corretti tramite il controllo del rispetto delle regole, tra la politica che cerca di realizzare le idee e chi è delegato a realizzarle, hanno costituito un altro centro di potere, essenzialmente statico nel tempo e in contrapposizione al variare delle idee, che frena il processo di rinnovamento, oltre a rallentare tutte le azioni che le leggi pongono per il corretto funzionamento della società. Esaurita questa scoraggiante premessa generale, ed evitando di parlare nello specifico dei fatti noti che periodicamente assurgono agli onori della cronaca e che ci rivelano quali e quanti legami vi siano tra politica, apparati burocratici e mondo degli affari, viene spontaneo chiedersi come un buon governo possa esprimere le sue potenzialità e il suo intento di rinnovamento se il suo operare rimane imbrigliato dai laccioli della burocrazia, e se ostacoli e freni di ogni genere contribuiscono a rallentare, se non a neutralizzare, gran parte delle scelte che dovrebbero essere assunte da chi è stato eletto per governare. Questo vale per il governo nazionale tanto quanto per i governi locali. A Milano stiamo vivendo una fase delicata e complessa: a poco più di un anno dalla fine del mandato, il sindaco Pisapia ha annunciato che non sarà più lui il prossimo candidato sindaco della città. La sua deve essere stata una scelta difficile e sofferta (e comprensibile), perché ha dovuto tenere conto non solo di Expo ormai alle porte, ma della città metropolitana in divenire, di quello che è stato iniziato e che deve essere assolutamente completato, di ciò che si dovrà affrontare nel dopo Expo. C’è chi dice che tale annuncio avrebbe dovuto essere dato all’indomani dell’inaugurazione di Expo o addirittura più avanti ancora; ma in realtà io credo che poco sarebbe cambiato: comunque sia, dovremo fare i conti con una nuova candidatura e augurarci che questa sia in grado di unire ed entusiasmare, come è stato per quella di Giuliano Pisapia, tutte le forze del centrosinistra e della sinistra milanese. La realtà però è che, se già in condizioni normali la fase finale del quinquennio di un governo cittadino vede il potere politico indebolito da un apparato burocratico inamovibile e perciò sempre più arrogante, proprio perché sicuro di rimanere al suo posto anche quando chi governa se ne sarà andato, il fatto che un sindaco in carica annunci che non si ricandiderà rende lui e la sua giunta molto più deboli. A prescindere dal dibattito politico che si scatenerà all’interno del centrosinistra e della sinistra sulla prossima candidatura a Sindaco di Milano, il tema cruciale, con cui dovremo fare i conti da oggi a maggio del 2016, è quello del peso che la macchina amministrativa, gli uffici, i funzionari e i dirigenti dei vari settori dell’Amministrazione Pubblica potranno esercitare sulle scelte politiche che ancora dovranno, e devono, essere fatte. Ho già scritto su queste pagine della fatica del governare dovendo quotidianamente scontrarsi con gli uffici e con alcuni (non tutti, per fortuna) funzionari particolarmente riottosi a introdurre qualsiasi cambiamento che comporti l’interruzione di un ritmo e di un modo di lavorare assodati. E ho anche scritto, consapevole di esporre un punto di vista personale, che una soluzione, a fronte di una legislazione complessa e a volte farraginosa, potesse essere quella, non tanto di un vero e proprio spoils system, ma di una modifica del regolamento comunale che consentisse la rotazione dei direttori di settore e di una parte dei funzionari. Anche a costo di affrontare estenuanti lotte sindacali da un lato e di perdere qualche competenza (peraltro facilmente recuperabile) dall’altro. Ora è troppo tardi per intervenire in questo modo, ma almeno dobbiamo provare a non soccombere alla prepotenza di certi funzionari che specie in alcuni settori (penso alle strade, ai lavori pubblici, alle piste ciclabili, al demanio) sono, alla fine, i veri detentori delle decisioni finali. Il non avere avuto il coraggio di rivoluzionare la nostra macchina burocratica, o meglio, di avere lasciato la questione nelle mani, sovente impotenti, di quelli più sensibili al tema tra i nostri assessori, è stata forse la più grave mancanza di un sindaco che per il resto ha operato bene, senza risparmiarsi mai e con rettitudine e trasparenza. Nel tempo di poco più di un anno che manca alle prossime elezioni questa dovrebbe essere la nostra missione: di non permettere più in alcun modo ai funzionari di inficiare le scelte della politica. Non sarà né facile né scontato, ma vale la pena di provarci. OPERAZIONE EXPOST: AREE A PERDERE? Ugo Targetti Il dopo Expo era stato pensato come un’operazione immobiliare che avrebbe dovuto garantire ai proprietari delle aree, privati e pubblici, una plusvalenza di centinaia di milioni. Il fallimento della gara pubblica per la prevendita delle aree edificabili (in attesa che si concludesse l’esposizione) chiusa nel dicembre del 2014, ha sancito la fine della prospettiva immobiliare per gli enti n. 13 VII -1 aprile 2015 pubblici. Non per i privati che avendo venduto al “pubblico” le aree di loro proprietà, dopo la variante urbanistica, hanno già realizzato una plusvalenza di decine di milioni. Anche la fondazione Fiera Milano ha lucrato una cospicua rendita avendo venduto ad Arexpo parte delle sue aree, comprate per 15 milioni, a 66 milioni (dati desunti da fonti giornalistiche). Ma la Fiera presenta una natura alterna tra pubblica e privata, secondo le situazioni. Tali plusvalenze gravano ora sugli altri enti pubblici che si sono indebitati per comprare le aree edificabili. La situazione finanziaria che emerge dai dati riportati dalla stampa è la seguente. Arexpo è indebitata con le banche per 160 milioni. Quasi 120 sono serviti per pagare le aree; 49,6 alla famiglia Cabassi e 66 alla 3 www.arcipelagomilano.org Fondazione Fiera Milano. Arexpo poi ha l’impegno di pagare a Expo 2015 Spa 75 milioni per l’attrezzatura dell’area (con i quali si supererebbe la disponibilità ottenuta con il prestito di 160 milioni). Le questioni di fondo che vanno a tutt’oggi poste sono le seguenti. Che ruolo territoriale assegnare al polo di Expo e che funzioni insediare. Quali sono le strategie e le condizioni di fattibilità economica: vendere le aree o governare il nuovo polo metropolitano come bene pubblico e fattore di sviluppo. A chi affidare la regia politica dell’operazione. A chi affidare la conduzione imprenditoriale dell’operazione. Si è riaperto dunque il dibattito sul che fare dopo Expo. L’associazione “Vivi e progetta un’altra Milano” ha organizzato un convegno sul tema: “EXPOST aree dopo Expo 2015, quale destinazione?” (Palazzo Marino, Sala Alessi, 17 marzo 2015). Al convegno non erano presenti gli attori ovvero i rappresentanti di Arexpo, del Comune di Milano, della Regione, del Comune di Rho, e della Provincia - Città metropolitana di Milano (?). Le note che seguono sono dunque un tentativo di fare il punto e delineare strategie alternative prendendo spunto dal convegno. Riprenderò alcune considerazioni già sviluppate nel n. 40 di ArcipelagoMilano del 19 novembre 2014, aggiornando la situazione di Arexpo come risulta dalle notizie di stampa. Che sta facendo Arexpo - Arexpo mantiene l’obbiettivo di alienare le aree, pagare i debiti alle banche e garantire una se pur ridotta plusvalenza ai soci pubblici, senza modificare l’Accordo di programma che lega i diversi soggetti e chiudere così la propria missione. A tale fine sta predisponendo un bando per individuare l’ ”advisor” che dovrebbe a sua volta predisporre un nuovo masterplan per bandire una nuova gara prima dell’estate. Nel frattempo sta raccogliendo le manifestazioni di interesse. Quelle note già presentate sono di insediare nel sito: la Città della scienza; gli Uffici dell’Agenzia del territorio, le strutture della Statale di Città studi su proposta del Rettore. Un Parco tecnologico - Nexpo - su proposta di Assolombarda. A questo nucleo forte si sono aggiunte le proposte della Lega Coop e di Confcooperative di un Centro di ricerca sull’alimentazione e le proposte dalle associazioni degli artigiani e della Coldiretti per strutture di sostegno alle piccole imprese. Il prezzo di cessione delle aree sarà stabilito dal bando ma se l’obbiettivo finanziario resta lo stesso (restitu- n. 13 VII -1 aprile 2015 zione immediata del debito e valorizzazione immobiliare delle aree) l’ordine di grandezza dovrà essere lo stesso del primo bando, cioè circa 300 milioni di euro. Ma chi tra i manifestanti di interesse suddetti può e intenderà pagare quelle aree come aree edificabili a valori di mercato pre-crisi? Il rischio è un nuovo fallimento del bando. L’alternativa è una strategia a guida pubblica. Che ruolo assegnare al polo Expo e che funzioni insediare - Le idee del convegno. Su questi temi i relatori, dopo la critica alla scelta del sito e all’impostazione immobiliare di Expo, hanno sviluppato diverse considerazioni sulle funzioni da insediare. Alcuni interventi hanno delineato temi strategici. Mantenere e sviluppare il tema di Expo, “Nutrire il pianeta, energie per la vita” (Basilio Rizzo). Creare un polo per la ricerca e lo sviluppo di imprese innovative. Costruire relazioni tra il polo Expo e il territorio metropolitano tali da contrastare il processo di periferizzazione (Vittorio Gregotti). Altri interventi hanno o commentato le proposte in campo o fatto nuove proposte precise. Stefano Boeri ha proposto tra l’altro, di trasferire l’Ortomercato e dare una prospettiva di rinnovo urbanistico all’area liberata. È stata poi rilevata l’urgenza di decidere un uso transitorio dell’area per non ritrovarsi, al termine dell’esposizione, un’enorme area ad altissima accessibilità ma abbandonata per molti mesi o anni (Luca Beltrami Gadola). A tale proposito si deve ricordare la proposta del presidente della Triennale Claudio De Albertis di usare i padiglioni Expo per una mostra straordinaria di architettura. È stato quindi proposto di conservare i padiglioni adatti al riuso anziché abbatterli (a spese delle Nazioni assegnatarie) chiedendo al BIE di modificare la clausola del contratto che ne impone assurdamente la demolizione. Un’alternativa strategica e condizioni di fattibilità economica - Venuta meno la prospettiva immobiliare con il fallimento del primo bando la parte pubblica, intesa come insieme degli enti pubblici responsabili dell’operazione, compresa la Fondazione Fiera Milano che è società di capitali pubblici, potrebbe decidere di giocare diversamente il patrimonio di aree e opere messe in campo; dovrebbe rinunciare al rientro a breve dei capitali investiti e alla valorizzazione immobiliare delle proprie aree e considerare l’operazione non come prestazione di servizi a carico del bilancio pubblico, ma come investimento a lungo termine per lo sviluppo e la crescita economica del Paese. Università, ricerca, imprese “innovative”, possibilmente nel campo dell’alimentazione e dell’energia, costituiscono fattori di sviluppo. Arexpo dovrebbe diventare ente di gestione dell’operazione che potremmo definire Polo per l’innovazione e lo sviluppo. Perché l’operazione sia fattibile è necessario l’intervento dello Stato attraverso il sostegno all’innovazione (Piano Operativo Nazionale), l’istituzione di speciali condizioni fiscali (free tax area ?), l’investimento diretto in termini di opere per l’attrezzatura dell’area. Expo 2015 Spa, società di capitale pubblico finanziata dallo Stato potrebbe infatti rinunciare al pagamento dei costi di costruzione delle attrezzature dell’area (piastra centrale, canale, Palazzo Italia ecc.) e il ministero competente potrebbe entrare nel capitale di Arexpo. Sarebbe inoltre necessario attivare da subito i rapporti con l’Unione Europea per costruire un progetto che trovi riscontro nei criteri fissati dalla Comunità per l’uso dei fondi comunitari 2014 – 2020 per l’innovazione, dedicati alle città – metropolitane. Da queste scelte e azioni derivano le condizioni di fattibilità economica della conversione dell’area. Resta il problema del debito e del suo finanziamento: con la “restituzione” dei capitali da parte della Fondazione Fiera, la rinuncia di Expo 2015 ai costi di urbanizzazione, il debito si ridurrebbe molto. Lascio le soluzioni finanziarie agli esperti ma si possono prospettare alcune ipotesi. Le banche potrebbero tramutare il finanziamento a breve concesso per l’acquisto delle aree (la restituzione del prestito era prevista con la vendita dell’area) in un prestito a lungo termine (mutui fondiari trentennali, obbligazioni, ecc) operazione che non dovrebbe presentare difficoltà nella raccolta del denaro (QE della BCE) e che dovrebbe essere comunque garantita dallo Stato. Naturalmente va programmato il ripiano del debito se pure a lungo termine. Alcuni servizi di complemento alle funzioni primarie come residenze speciali, alberghi, impianti per lo sport, la cultura e il tempo libero, spazi di lavoro in affitto, ecc. possono produrre un reddito utilizzabile per ripianare il debito, mentre una parte delle aree – destinate a residenza connessa alle funzioni guida, sedi di imprese, uffici - potrebbero anche essere messe in vendita sul mercato immobiliare per ridurre il debito. 4 www.arcipelagomilano.org A chi affidare la regia politica dell’operazione - Le strategie di riuso dell’area Expo, le funzioni da collocare, il riuso delle aree urbane liberate sono temi propri di un piano strategico metropolitano, ma poco o nulla è stato detto sulla direzione politica dell’operazione di riconversione dell’area, dando forse per scontato che Regione e comune di Milano siano gli unici possibili protagonisti. Nessuno ha accennato al fatto che a dicembre 2014 è stata istituita la Città-Metropolitana e che sarebbe logico che la nuova istituzione assumesse la direzione politica dell’operazione. Il ruolo territoriale di centralità metropolitana prospettato, richiederebbe appunto che quell’istituzione ne dirigesse l’attuazione. È pur vero che Pisapia ha denunciato come la neonata CittàMetropolitana sia in tali difficoltà economiche da metterne in forse la reale sopravvivenza, ma se non si coglie questa occasione per dare forza alla nuova istituzione vuol dire che la si considera già fallita: un cambio di carta intestata della moribonda provincia. Certo affidare EXPOST alla CittàMetropolitana è una scommessa perché la gestione della riconversione dell’area richiede una forte direzione politica che vuol dire sancire la nuova strategia, scegliere le funzioni da insediare, attivare i rapporti con lo Stato, l’Unione Europea e la Regione, pronunciarsi sul destino delle aree liberate dalle funzioni trasferite. Vuol dire ancora coinvolgere i comuni nel contesto del Piano strategico metropolitano a partire dal comune di Rho che è interessato territorialmente, ha una partecipazione in Arexpo ed esprime, nella figura del sindaco, l’assessore al bilancio della Città-Metropolitana. Vuol dire riprendere in mano la gestione urbanistica, dall’Accordo di programma, al Masterplan, alla formazione del Piano attuativo intercomunale o metropolitano (?). Tempi lunghi che chiedono di iniziare subito a occuparsene e di trovare usi provvisori per i padiglioni. A chi affidare la conduzione imprenditoriale - Per raggiungere le finalità pubbliche e nello stesso tempo garantire il rientro del debito è necessaria una gestione manageriale dell’operazione EXPOST, ovvero è necessario istituire un ente di gestione del patrimonio immobiliare e delle operazioni economiche, consolidato e dedicato, capace di mettere insieme la strategia pubblica, il piano di gestione economica, gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica e di gestire contratti, appalti e progetti edilizi. I responsabili politici devono valutare se la società Arexpo, proprietaria delle aree e concepita per una funzione di breve termine che si sarebbe conclusa con la vendita dell’area, sia adatta o debba esserne mutata la missione e la natura e dunque lo Statuto e se gli attuali organi direttivi non debbano essere rinforzati con competenze specifiche d’alto profilo, individuate magari attraverso una selezione di evidenza pubblica. C’è molto da fare e sei mesi sono un tempo breve. CONSIGLIERI COMUNALI COME I MACCHINISTI DEL TITANIC Walter Marossi In premessa vorrei informare gli affezionati lettori di ArcipelagoMilano: 1) che Pisapia Giuliano non è deceduto ne è stato rapito dagli alieni ma fa ancora il sindaco; 2) che le elezioni saranno tra un anno e che quindi è abbastanza prematuro lanciarsi in commiati, orazioni, commemorazioni e proiezioni. Ciononostante il milieu politico/giornalistico è tutto in fibrillazione a partire dal consiglio comunale. A proposito, cos'è oggi il consiglio comunale? Un tempo il luogo principale della politica cittadina, l'indispensabile palestra dei politici, il primo gradino di ogni carriera politica, l'onorifico suggello del prestigio per i protagonisti della vita economico, sociale, culturale della città; un leader doveva essere passato da Palazzo Marino battendo record di preferenze, viceversa era un parvenu. Sui suoi scranni si sono seduti presidenti del consiglio, ministri, scienziati, artisti e premi Nobel. Basta scorrere a casaccio l'elenco dei consiglieri (per non parlare degli aspiranti tali ovvero i trombati) del passato per rendersi conto, nel bene e nel male, del prestigio che a esso veniva riconosciuto: Elio Vittorini, Cesare Musatti, Ludovico D'Aragona, Ugo Guido Mondolfo, Eugenio Scalfari, Giuseppe Lazzati, Giovanni Marcora, Giovanni Spado- n. 13 VII -1 aprile 2015 lini, Giovanni Pesce, Piero Bottoni, Ezio Vigorelli, Bettino Craxi, Giovanni Malagodi, Silvio Leonardi, Armando Cossutta, Piero Parini, Nicola Abbagnano, Raffaele De Grada, Luca Beltrami, Virgilio Brocchi, Eugenio Chiesa, Luigi Conconi, Malachia De Cristoforis, Giuseppe Forlanini, Bruno Fortichiari, Enrico Gonzales, Francesco Ingegnoli, Stefan Jacini, Luigi Majno, Ernesto Teodoro Moneta, Mario Capanna, Benito Mussolini, Paolo Pini, Cesare Sarfatti, Claudio Treves, Filippo Turati, Carlo Valvassori Peroni, Rossana Rossanda, Luigi Granelli, Rinaldo Rigola, Alessandro Vaia, Lalla Romano, Mario Alberto Rollier, Walter Alini, Sergio Turone, Antonio Baslini, Roberto Tremelloni, Giorgio Morpurgo, Andrea Borruso, Umberto Dragone, Libero Mazza, Antonio Banfi. Ovviamente hanno calcato il palcoscenico anche un congruo numero di guitti. Scelte fondamentali per la storia del paese e della città sono state prese in quelle aule: è li che nasce la “repubblica ambrosiana” (cito Crispi non Salvini) e lì che si sviluppa il riformismo amministrativo socialista che sarà da esempio a mezza Italia, è li che con D'Annunzio e le squadracce fasciste viene abbattuta la democrazia municipale, è li che viene fatta la prima giunta di centro si- nistra che cambierà la storia del secondo dopoguerra e ancora a Palazzo Marino giusto 40 anni fa si diede vita alla giunta di sinistra che porrà fine al centro sinistra strategico. Ma questo è il passato, oggi la realtà è ben diversa. Tutto è cambiato con l'elezione diretta del sindaco. Da assemblea di direzione strategica, di elaborazione e di indirizzo politico, che faceva tremare sindaci e potenti, il consiglio è diventato un luogo di ratifica senza particolari poteri e per la verità senza figure di particolare prestigio. Per la giunta il consiglio è un freno alle decisioni, azionato strumentalmente dalle opposizioni ma anche dalla propria maggioranza; anzi nel caso di Pisapia sembrano più difficili i rapporti tra consiglieri e assessori dello stesso schieramento che quelli con gli oppositori. I capigruppo sono visti dagli assessori come dei concorrenti insidiosi e invidiosi, dal sindaco come dei postulanti, dalle segreterie dei partiti come dei turbatori dell'ordine costituito. I consiglieri devono limitarsi a essere interfaccia con gli aderenti al proprio partito o meglio iscritti agli albi delle primarie, a coltivare le preferenze, a blandire l'opinione pubblica localmente attiva (associazioni, comitati, gruppi), per ricevere nella più 5 www.arcipelagomilano.org parte casi segnalazioni, proteste, denunce e qualche contumelia. Sono come gli addetti alla sala macchine dei vecchi transatlantici, come quelli del Titanic: durante le feste sono sporchi di grasso e al buio, durante il naufragio sono vittime sicure. La loro possibilità di condizionare la giunta è quasi zero e se per circostanze spesso casuali ci riescono, si alzano alti lai contro l'ingerenza dei politicanti/partiti “che intralcia il funzionamento del governo cittadino”; esemplare la discussione sul bilancio. In pratica si limitano all'enterteinment o come diceva Nenni “un O.d.g. in consiglio comunale sulla pace non si nega mai a nessuno”. Peccato perché con la crisi irreversibile di circoli, sezioni e club sono gli ultimi politici in ascolto permanente, gli ultimi che battono il marciapiede alla ricerca della mitica “gente”, i meno dipendenti da Face- book perché sanno che li preferenze non se ne pigliano. Il loro stipendio difficilmente supera i 1500 euro, i benefit si limitano al parcheggio libero e a qualche biglietto per San Siro (che stante il livello del Milan dovrebbero pagarti per andarci). Candidarsi oltretutto costa. A Milano, sulla base delle dichiarazioni ufficiali, dai 5.000 ai 30.000 euro (vale a dire qualche euro a preferenza) non molto rispetto a Roma dove ci sono consiglieri che hanno dichiarato spese anche 10 volte superiori, ma comunque “palanche”. Quindi a rigor di logica dovremmo avere una crisi di vocazioni e difficoltà a riempire le liste. Invece... Alle ultime comunali milanesi si sono presentate 29 liste con circa 1300 candidati (per 48 eletti), cioè uno ogni 500 votanti. 120 liste di candidati nelle zone per un totale di circa 2400 candidati a consiglieri comunali di serie c. In zona 3 ad esempio un candidato ogni 230 votanti. Le preferenze necessarie per essere eletti variano in relazione al partito, minimo 1500 per Forza Italia, poco più di 500 per tutti gli altri. La maggioranza assoluta dei candidati al consiglio comunale non supera le 20 preferenze. Taluni consiglieri di zona ottengono più voti di preferenza di quelli necessari per entrare in consiglio ma molti non ottengono neppure il voto dei propri cari. L'anno prossimo, stante il clima annusato sabato al meeting regionale del PD e a quella di Forza Italia il numero dei candidati, è destinato ad aumentare. Perché? La spiegazione è semplice: in un sistema dove tra primarie, elezione diretta, scarsa democrazia interna i partiti sono diventati comitati elettorali candidarsi è l'unico modo per fare politica o almeno per poter dire “io c'ero”. IL MUDEC, CHIPPERFIELD E "I DETTAGLI" Alberto Caruso Del Corno è un assessore che lavora molto e in silenzio. Le sue poche dichiarazioni sono sempre sintetiche e molto concrete, ma sulla polemica MUDEC / Chipperfield ha sbagliato - non avendo competenza sulla esecuzione dei lavori - a riportare pubblicamente, e senza verifiche, quanto gli avranno riferito dall'assessorato ai Lavori Pubblici. Il tema ha un rilievo - non solo per coloro che per mestiere si occupano di progettazione e di costruzione, ma anche per la generalità degli utenti delle opere pubbliche - e merita una riflessione. Il progetto di Chipperfield è eccellente. Soprattutto i suoi spazi di accoglienza al piano terra, la scala e la grande piazza luminosa al primo piano sono di una qualità davvero rara tra gli spazi culturali milanesi. Finché lo sguardo non si posa sul pavimento di lastre lapidee, molto diverse tra loro, molto macchiate, alcune rotte e poi sigillate. Addirittura, al primo piano, il loro allineamento non corrisponde a quello delle lastre verticali del rivestimento del parapetto della scala, perché il marmista ha sbagliato le misure: ha tagliato le lastre verticali tutte uguali, senza tenere conto del giunto di dilatazione del pavimento. Del Corno ha definito - facendo suo quanto gli hanno riferito - i difetti “dettagli”, rimandando al giudizio di un soggetto terzo, che ovviamente si concluderà, se il soggetto terzo vorrà individuare i difetti come tali, n. 13 VII -1 aprile 2015 con una detrazione all’impresa e null’altro. Difendendo la decisione di aprire comunque il museo, è stato anche detto che i collaboratori dello studio Chipperfield avevano svolto un sopralluogo nella cava e avevano approvato un campione di lastra. E le responsabilità del direttore dei lavori, che era di nomina comunale? Il direttore dei lavori avrebbe dovuto – perché questa è la sua mansione – verificare che le lastre fornite corrispondessero al campione approvato, che fossero prive di difetti, che il casellario fosse corretto, che la posa fosse eseguita a regola d’arte. Non lo ha fatto. E Chipperfield è anche stato generoso, contestando soltanto il pavimento, perché, per esempio, i pannelli lignei tipo MDF che rivestono tutte le pareti al piano terra risultano in parte disallineati e spesso non complanari. Non si tratta di dettagli, ma della qualità di un’opera che è costata molti milioni di euro e che i tecnici del Comune avrebbero dovuto seguire, dirigendo i lavori delle imprese appaltatrici, nel modo più intransigente, utilizzando appieno i poteri che la normativa attribuisce loro. Degli spazi culturali inaugurati negli ultimi anni – il Museo del ‘900, le Gallerie d’Italia, il MUDEC – il primo ha sfigurato i pregevoli ambienti del ‘900 preesistenti, mentre l’ultimo, il cui progetto era il più importante e innovativo, con la sinuosa piazza opalina illuminata dall’alto, che so- spende l’attenzione del visitatore preparandolo alla concentrazione necessaria alla visita, è stato realizzato male. Perché, dei tre citati, l’unico spazio privato è quello più apprezzabile, pur essendo un museo di concezione e distribuzione così tradizionale? Perché non ci impegniamo a mettere in crisi il luogo comune, ormai consolidatissimo, che solo il privato può perseguire pienamente la qualità? David Chipperfield viene definito giornalisticamente come un’archistar. A parte che il termine archistar sa di disprezzo, un po’ di destra populista, per la cultura - anche se molti degli architetti così definiti lo meritano, per la professata concezione del mestiere molto lontana dalla sua dimensione civile – Chipperfield invece è un architetto rigoroso, scevro da atteggiamenti spettacolari, attento all’urbanità (si veda il recente progetto berlinese di Joachimstrasse). E temo che diventerà l’ennesimo architetto straniero che rifiuta di lavorare in Italia. Il tema della qualità esecutiva è, per gli architetti italiani, un grande tema dell’attualità. Stretti tra le imprese che, in gran parte, cercano di risparmiare su tutto (per recuperare lo sconto eccessivo) e tentano di mettere il direttore dei lavori davanti al fatto compiuto, e il committente – per lo più insensibile per ignoranza alle ragioni della compiutezza e coerenza esecutiva dell’opera – che 6 www.arcipelagomilano.org alla fine concorda con l’impresa per risparmiare grane e tempo, gli architetti vivono un mestiere molto pesante, spesso scoraggiante. E poi al MUDEC c’è la questione dell’allestimento delle due mostre inaugurate, sulla cui qualità non si può tacere. Mondi a Milano è una mostra colta, riferita in modo intelligente all’evento di Expo, ma l’allestimento è dilettantesco, graficamente sovraccarico. Africa mette in mostra sculture lignee preziosissime, ma i commenti che guidano il visitatore, privi di un inquadramento storico-critico sui diversi popoli del continente nero, rivelano un atteggiamento un po’ colonialista – di curiosità per la cultura dei selvaggi – e il suo allestimento, che vorrebbe essere scenografico, risulta invece improvvisato e artigianale. Gli spazi del museo, pensati da Chipperfield come una sequenza di rettangoli illuminati dall’alto, non sono stati utilizzati per le loro dimensioni e qualità, a cominciare dall’interessante spazio intermedio (tra la sinuosa piazza centrale e le sale) desolatamente vuoto. Se è vero che l’architettura dei musei deve offrire spazi disponibili a ogni azione espositiva, è anche vero che chi ordina e allestisce lo deve fare non prescindendo dal carattere degli spazi a disposizione. Milano, che ruolo vuole avere nella cultura europea? Non dico di guardare all’immenso parigino Musée du quai Branly a Parigi ma almeno all’esempio del piccolo Museum der Kulturen di Basilea, capace di mettere in scena immagini, oggetti e racconti delle culture altre dalla no- stra, con allestimenti spartani, elementari e diretti, scientifici, didatticamente utili alla conoscenza di quei mondi. E lavori perfetti, eseguiti con “normale” rigore. Con qualche mese di più, avremmo potuto finire i lavori a regola d’arte e avremmo potuto pensare un po’ di più agli allestimenti. Tra 15 anni e 15 anni più tre mesi, non fa molta differenza. La questione è sempre la stessa, sono le modalità di affidamento dei lavori, ed anche la qualità di chi li dirige. Piazza XXIV Maggio è un esempio di modalità inadeguate di affidamento, del progetto oltre che dei lavori. Il risultato è lì da vedere, e non nascosto dentro il cortile dell’Ansaldo, ma in mezzo al teatro della città. Ma è un altro discorso. DAL PASSATO DI PISAPIA VERSO UN NUOVO PROGRAMMA DI GIUNTA Emanuele Patti Non ho commentato ancora e non lo farò ora in questo articolo la scelta di Pisapia, anche se personalmente capisco la coerenza delle cose dette e del suo stile, che lo fa identificare da tutti anche dell'opposizione come una persona per bene, a prescindere dal ritenerle soddisfacenti o meno; ma di una cosa sono al momento convinto ed è che a sto giro perde chi entra troppo velocemente in campagna elettorale, soprattutto nel fronte della Sinistra milanese. C'è un anno abbondante di governo e tante cose ancora da fare e "dimostrare" , c'è un Expo difficile da gestire che sarà comunque decisivo, soprattutto saranno decisive le scelte sulle eredità dell'evento, dove sicuramente si potranno correggere errori grossi fatti secondo me nella gestione di questa "patata bollente" sganciata dalla Moratti e da Formigoni su Milano, sempre che la si voglia ovviamente gestire. Per cui meno nomi e più fatti direi. Infinita inizia ad essere la lista dei papabili, sia nel frastagliato versante della destra che in quello apparentemente più coeso, che sta governando la Città. Ritengo abbastanza pericoloso in questo momento perdersi in questa ridda di ipotesi e penso invece si debba riflettere più seriamente sui bisogni attuali della Città e dei suoi cittadini. Questa guida di sinistra-centro di Milano, non ancora terminata come dicevo più sopra, aveva degli obiettivi alcuni dei quali deve avere ancora cercare di centrare, ma questi anni di amministrazione ora ci forni- n. 13 VII -1 aprile 2015 scono molti elementi per poter cominciare un primo bilancio sincero e senza pregiudizi dei risultati ottenuti e di quelli ancora ottenibili. Questo esercizio non potrà che essere a mio avviso, il punto di partenza per valutare cosa serve fare per il futuro. Bisognerà partire proprio dagli aspetti più critici o dalle aspettative non pienamente soddisfatte, soprattutto di un corpo elettorale a cui toccherà riesprimersi alle prossime elezioni amministrative della nostra Città. Bisognerà ricordarsi delle condizioni politiche e sociali in cui iniziò l'avventura di governo di questa Giunta Pisapia, e analizzare la situazione attuale, profondamente cambiata, in questi pochi anni. Bisognerà non dimenticare il clima in cui si disputarono le Primarie, e capire se questo strumento sarà ancora utile come strumento di selezione del prossimo candidato Sindaco o Sindaca che sia, in una fase politica in cui questo strumento non gode certamente di esempi esaltanti. Detto questo è innegabile che nella nostra Città si respira un'altra aria rispetto alle Amministrazioni precedenti, soprattutto se ci vogliamo ricordare delle pesanti condizioni economiche e finanziarie di partenza ereditate da una inguardabile Giunta Moratti, aggravate dalla crisi economica di questi anni, dal conseguente difficile rapporto con lo Stato, dalla fine di fatto dei trasferimenti per la spesa sociale e dalle difficoltà di bilancio dovute al Patto di Stabilità. L'aggravamento delle condizioni di vita generale, la povertà crescente e il lento impoverimento anche dei ceti medi, la definitiva precarizzazione di tutti i lavori, ci devono convincere a mio parere che la prossima campagna elettorale si giocherà sui temi legati al welfare, al sistema di protezione sociale dei cittadini, di tutti i cittadini. Sarà io credo il campo di battaglia dove si giocheranno le sorti delle prossime elezioni. Inevitabilmente ci sarà chi giocherà sulle paure vere o percepite di insicurezza dei cittadini/elettori e parlerà come sappiamo bene alla pancia degli elettori e ci sarà chi proverà io spero a trovare le soluzioni e le politiche più corrette e giuste per rispondere a questi bisogni, senza farsi condizionare solo dai numeri dei sondaggi, magari cercando di parlare alla testa e al cuore delle persone. Platea attenta non saranno solo i singoli cittadini ma le molte forze sociali presenti nella città, fatte di movimenti, gruppi informali di cittadini, Comitati di quartiere, ma soprattutto tante organizzazioni di Terzo Settore, associazioni e cooperative, centinaia di volontari, attivisti e operatori del Sociale. I radicali cambiamenti di questi anni prefigurano una situazione molto mutevole, un futuro non molto certo, ansie legate alla mancanza di lavoro che incideranno profondamente nei convincimenti dei nostri concittadini, non tenerne conto sarebbe colpevole. Milano è una città però in grado di elaborare una sua risposta in primis 7 www.arcipelagomilano.org culturale, sociale e politica, progressista e moderna, attenta al suo ruolo di città davvero metropolitana e internazionale, ma dovrà in ogni sua componente sociale poter far contribuire tutte e tutti alla creazione di questa risposta. Diamoci quindi la possibilità di Primarie, ma vere. Aperte, autonome, di coalizione e civiche, che prefigurino il futuro quadro e la temperatura di governo, piuttosto che essere solo una contesa tra correnti, candidati e partiti. Mi piacerebbe ritrovarmi in quel clima di fermento in cui spopolò l'hashtag #tuttacolpadipisapia. Ci serve quella leggera ironica consapevolezza di avere bisogno ancora di gentilezza assieme a una solida fermezza di contenuti e proposte. Se cadiamo nel politicismo addio! Ci perdiamo un popolo, che sta già faticando a capire. Non sottovalutiamo quello che si riuscì a fare proprio con i cittadini. Certo ci sono molte delusioni ma capiamole prima di stigmatizzarle, e per quanto possibile partiamo proprio dagli insuccessi. Una coalizione sociale in fondo Milano l'aveva messa in campo. E si erano visti i risultati. Per quello che conta penso questo. CITYLIFE E VIA SENOFONTE: TANTE NUOVE CASE SENZA CITTÀ Renzo Riboldazzi Sorprendono, non c’è dubbio, le nuove case di via Senofonte, quelle di CityLife. Colpisce il loro biancore che ti aspetteresti forse in Costa Azzurra, di certo non a Milano. Colpiscono l’irrequietezza delle forme e la lucentezza dei materiali, specie se passi di lì in una di quelle mattine in cui il vento ha ripulito l’aria e la luce è più cristallina che mai. Colpisce la loro baldanza, tipica di quell’età in cui cambiare il mondo sembra facile o almeno possibile. Ma soprattutto colpiscono la sfacciataggine di un’opulenza ostentata, di un linguaggio architettonico sopra le righe, dell’incredibile senso di spaesamento che sanno provocare. L’effetto che fanno è lo stesso che Berengo Gardin ha saputo cogliere magistralmente fotografando le navi da crociera che entrano fin nel cuore di Venezia: enormi e abbaglianti ammassi ferrosi che sfilano a due passi da mirabili, misurati e fragili monumenti, incapaci di qualsiasi difesa come certi bambini che non si aspettano la violenza dei più grandi. Ecco, avvicinandosi a questo nuovo complesso residenziale sorto sull’area dell’ex Fiera di Milano – 225 appartamenti per un totale di oltre 37mila metri quadrati (fonte: Milano che cambia, Ordine Architetti PPC di Milano) – provi lo stesso eccitato stupore e al contempo lo stesso scoramento perché è abbastanza chiaro che, così come probabilmente i veneziani, anche i milanesi «purtroppo ci stanno facendo l'abitudine [… e forse questi] mostri hanno preso il sopravvento anche nell'immaginario» collettivo dei cittadini di questa città (G. Berengo Gardin, intervista di M. Smargiassi, La Repubblica, 8 giugno 2013). D’altra parte Milano ha tutta una storia di architetture fuori luogo e fuori scala a cui poi ha fatto il callo e si è perfino affezionata. Basta provare a immaginare a come certi edifici simbolo della modernità nove- n. 13 VII -1 aprile 2015 centesca – per esempio, l’altrettanto bianco e mastodontico palazzo Ina in Corso Sempione o la coeva Torre Velasca – saranno apparsi al momento della loro realizzazione nel secondo dopoguerra e basta pensare a come questi stessi edifici oggi ci appaiano quasi domestici e siano celebrati per le loro qualità architettoniche. Dunque, se l’obiettivo era quello di assumere un atteggiamento provocatorio per suscitare attenzione e interesse, d’accordo, diciamo pure che è stato raggiunto. Se era quello di parlare la lingua di quella cultura architettonica internazionale veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, va bene, diciamo che è stato raggiunto anche questo. Se invece lo scopo era quello dare corpo a un’edilizia residenziale radicalmente diversa da quella prodotta a Milano nella seconda metà del novecento – quella che caratterizza gran parte dei tessuti urbani di questa città che il più delle volte tessuti non sono –, forse allora ancora non ci siamo. Certo tutto è arrotondato, inclinato, distorto, “stretchato” – come usano dire i grafici informatici con un brutto neologismo che sta a significare allungato, stirato –. Lo sono le finestre, i balconi, gli ingressi e volumetrie di queste nuove case in via Senofonte. Si tratta tuttavia di una ricerca che pare stare alla superficie delle cose. È chiaro che ci sarà sempre chi, per mille ragioni qui insondabili e tuttavia legittime - sensibilità, cultura, gusto -, potrà preferire il rigore funzionalista e chi lo troverà di una noia mortale; chi apprezzerà l’ansiogena ricerca di fluidità e movimento di queste nuove case e chi le troverà - anch’esse e soprattutto dopo un po’ di tempo - altrettanto ripetitive e scontate. Il problema, semmai, sta nella capacità dell’architettura - di un’architettura che voglia dirsi davvero innovativa e al tempo stesso profondamente radicata nella cultu- ra della città europea – di tornare a praticare quella che, nel titolo di un bel libro di qualche anno fa, è stata giustamente definita una “difficile arte” che è quella di “fare città”, specialmente oggi, “nell’era della metropoli” (G. Consonni, Maggioli 2008). Sta cioè nel modo con cui queste nuove case dovrebbero saper interpretare l’identità di Milano e proseguirne il racconto, nella maniera con cui si rapportano tra loro e soprattutto con ciò che gli sta intorno. Soprattutto sta nella capacità – tipica di quella tradizione premoderna sciaguratamente trascurata in particolare nel secondo dopoguerra - di definire e arricchire di senso e bellezza lo spazio urbano. Spazio che - come sosteneva Bruno Zevi nel suo celeberrimo Saper vedere l’urbanistica (Einaudi, 1960) - è il vero “protagonista […] dell’organismo urbano”. Via Senofonte - che è quella alla destra del vecchio ingresso principale della Fiera in Piazzale Giulio Cesare - era probabilmente qualcosa di formalmente irrisolto e sbilanciato così come lo sono in genere tutte quelle strade a ridosso di qualche grande area recintata e inaccessibile. Se a ciò si aggiunge una cortina composta da una sequenza di architetture senza granché di memorabile dobbiamo riconoscere che, a parte qualche eccezione, l’immediato contesto forse non offriva spunti progettuali esaltanti. Detto questo, le nuove corpulente case realizzate sull’area di City Life pare non facciano alcuno sforzo per rapportarsi a questo tipo di paesaggio: che non vuol dire scimmiottarne le sembianze ma praticare un disegno che attribuisca armonia spaziale là dove questa non c’è. L’altezza dei nuovi edifici (da cinque a tredici piani), la loro sintassi architettonica, l’impermeabilità dei piani terra e perfino la recinzione dura e ostile non lasciano spazio ad alcun tipo di dialogo formale e funzionale. 8 www.arcipelagomilano.org Il loro isolamento nel verde (rigorosamente privato), il modo di disporsi rispetto alla strada, la mano unica nel disegno dei prospetti lungo tutta la via e la monofunzionalità dell’intero isolato - ammesso che di isolato si possa parlare - lasciano trasparire un sostanziale perpetuarsi di approcci progettuali stantii che sarebbe davvero il caso di lasciarci alle spalle. Approcci tutt’altro che innovativi che vanno nella direzione opposta a quella di creare strade urbane e vitali. Se a ciò si aggiunge che tutte queste case si rivolgono a ceti sociali quantomeno privilegiati in un momento in cui il disagio abitativo a Milano non può certo dirsi assopito, vien da chiedersi a quale immaginario urbano la nostra società stia guardando, quale tipo di regia pubblica sia stata condotta nell’interesse del bene comune e se questo intervento non comunichi un sottile disprezzo verso la vita che scorre a due passi da lì, dove c’è la città. ALLA SINISTRA DEL PD: IL PIANTO DEGLI ORFANI MILANESI Vincenzo Robustelli Con la scelta di non ripresentarsi alle prossime elezioni amministrative del 2016 Pisapia ha fatto uno dei pochi gesti politici di tutta la sua amministrazione. Un gesto intelligente che ha posto i partiti di fronte alle proprie e dirette responsabilità che nascondevano dietro le spalle del sindaco. SeL e RC sono oramai in fibrillazione e non essendosi costruiti un proprio e autonomo percorso politico in tutti questi anni ora non possono che porsi il quesito amletico “Il PD mi vuole o non mi vuole?”. Il PD a Milano, che è sempre stato tra i peggiori in Italia, è evidentemente spaccato in due e nessuno dei due è in grado di esprimere un candidato unitario proveniente dalla politica e con uno spessore adeguato a gestire il dopo Pisapia. Diciamo che questa mancanza è oramai la caratteristica di tutta la classe politica italiana (destra, sinistra, centro) per cui nessuna meraviglia. Sarà pertanto facile che possa uscire dal cappello un esponente conosciuto della società milanese (tipo De Bortoli o altro). Non potrà avvenire, come nel caso di Pisapia, che un politico sconosciuto ai più possa intraprendere il lungo viaggio verso una nomina perché ciò presupporrebbe che avvenisse ciò che è avvenuto con Pisapia e cioè la mobilitazione crescente di centinaia di persone che proprio grazie al proprio impegno ed entusiasmo, alla stesura comune di un programma, hanno contribuito a farlo conoscere, a ribaltare un risultato acquisito (Boeri per le primarie e Moratti come sindaco) e infine a farlo vincere. Purché le due anime del PD non vogliano fare la conta e tentare di far prevalere un proprio candidato (tipo Fiano da una parte o tipo Majorino dall’altra) o individuare un candidato né carne né pesce come Ambrosoli o Dalla Chiesa. Il periodo vissuto con le elezioni di Pisapia non è ripetibile checché ne pensino Limonta o i residui dei ComitatiXMilano. Milano è cambiata e la vicenda Expo, con annessi e connessi, la faranno trovare cambiata non solo nel territorio, ma nei cittadini. Aggiungiamo che se anche se si dovesse andare alle elezioni di un sindaco di una città, l’occhio deve andare ben oltre e ragionare in termini di Città Metropolitana nella cui logica non stiamo ancora ragionando. Parliamo di 1 milione e 300 mila abitanti contro ben oltre 3 milioni. Ma pur rimanendo in un’ottica ristretta alla situazione attuale, all’orizzonte c’è solo la subordinazione al PD chiunque sia il suo candidato. Occorre farsene una ragione e non risolve il problema la principale motivazione addotta (altro che programma ma pura ideologia) che occorre turarsi il naso altrimenti vince Salvini o chi per lui. Per chi intende cominciare o ricominciare, e non è detto che si possa essere pronti per il 2016, si può solo partire dai vari comitati o movimenti seppur spontanei, carsici e settoriali che però portano una ricchezza di partecipazione che questa maggioranza si era fatta lustro nella propaganda elettorale del 2011. Dobbiamo riconoscere che questo clima si è creato proprio, e non per merito di questa giunta, quando i cittadini si sono accorti della forbice tra programma e realtà e quando si sono accorti che il territorio veniva devastato e che i costi e gli aumenti richiesti (e siamo solo all’inizio) servivano a mantenere una classe dirigente clientelare e una diffusa corruzione. Non potremo sfuggire prima o poi a un bilancio su questa maggioranza come si tende a fare. Il prevalere dei poteri forti (finanziari, speculativi, immobiliari, bancari, ecc) risulta evidente e non credo che questo problema non sia stata una causa di questa rinuncia alla ricandidatura. Infatti credo che Pisapia sia stato un pessimo politico non per scelta ma per incapacità e la sua subordinazione sia ai poteri sopra detti che ad alcuni personaggi della sua giunta (leggi De Cesaris) oltre che al PD l’ha portato a questa scelta inevitabile. Altro che “Non lasciatemi solo”. CITTÀ METROPOLITANE: UN LABIRINTO TRA INNOVAZIONE E AMARCORD Marco Pompilio Ho da poco lanciato alcune proposte sull’attuazione della legge Delrio ma c’è dell’altro che vorrei aggiungere: cose che la lettura del testo della legge mi ha suggerito e che restano alla base delle idee da me avanzate. L’elenco non ha pretese di sistematicità, completezza o organicità, sono semplici appunti. * A seguito della riforma Delrio i comuni si occupano di fatto di funzioni di area vasta (che riguardano n. 13 VII -1 aprile 2015 bacini sovra comunali) in aggiunta alle funzioni cosiddette di prossimità (in sostanza i servizi ai cittadini). Con la scomparsa degli amministratori eletti a suffragio universale, rappresentativi in modo diretto del complesso della comunità provinciale, la provincia, o città metropolitana, diventa, ora ancora più di prima, luogo deputato all’incontro e dialogo tra i comuni, quasi una sorta di estensione istituzionale del munici- pio. Vero è che nelle città metropolitane esiste ancora la possibilità attraverso lo statuto di tornare all’elezione a suffragio universale, ma le condizioni sono tanto gravose da allontanare quest’obiettivo molto in là negli anni. Sindaci e amministratori comunali che siedono negli organi della città metropolitana rappresentano il proprio territorio comunale, non rappresentano una parte politica. In questa nuova si- 9 www.arcipelagomilano.org tuazione la contrapposizione politica tra maggioranza e minoranza, che prima determinava i lavori del consiglio, non ha più senso, appartiene a un’impostazione ormai superata dalla nuova legge. * La riforma definisce compiti e caratteristiche dei singoli organi, ma poco ci dice su come raccordare gli organi, su come farli lavorare a sistema. Il sindaco metropolitano (come il nuovo presidente nelle province) ha poteri molto più ampi di quelli del precedente presidente, e li esercita attraverso atti monocratici (decreti), non essendo più previsto l’organo esecutivo, la giunta, e le relative delibere collegiali. Il sindaco metropolitano può assegnare deleghe ai consiglieri, ma queste hanno natura e valore molto diversi da quelle date in precedenza agli assessori. La carica di assessore era incompatibile con quella di consigliere dello stesso ente, e il consigliere eletto che veniva nominato assessore doveva lasciare la carica elettiva, senza più potervi ritornare, almeno entro il mandato amministrativo. La legge supera questa incompatibilità, anzi la rende necessaria visto che non è possibile assegnare deleghe a soggetti esterni al consiglio. Il consigliere si trova nella strana situazione di dovere da un lato, come delegato, aiutare il sindaco metropolitano nel raggiungimento degli obiettivi di mandato, ma dall’altro di dovere nello stesso tempo esercitare un potere di indirizzo e controllo nei confronti dell’azione del capo dell’amministrazione. Segnale anche questo che ci troviamo dopo la legge Delrio in una situazione completamente inedita, tutta da esplorare, dove non si possono riproporre modelli collegiali che replicano la vecchia giunta. Una situazione di contesto più istituzionale dove gli organi sono chiamati responsabilmente a cooperare. * Viene introdotto un nuovo organo, la conferenza metropolitana (denominata Assemblea dei sindaci nelle province), che funge da cerniera con il territorio ed è specificamente dedicato a rendere più fluido il rac- cordo tra organi dell’ente intermedio e comuni, e a favorire il confronto cooperativo tra i sindaci. Nella provincia, dei tre organi (presidente, consiglio, assemblea dei sindaci) l’assemblea è l’unica ad avere componenti eletti con suffragio universale. Nel senso che dopo la legge Delrio i cittadini di un comune nelle elezioni votano il sindaco, e allo stesso tempo anche il proprio rappresentante nell’assemblea organo della provincia. Nel caso della città metropolitana, nel periodo attuale di transizione (che probabilmente durerà diversi anni), anche il sindaco metropolitano è eletto direttamente, dai cittadini del solo comune capoluogo. Anche questa differenza, non è la sola, evidenzia l’impostazione più centralista del modello di ente intermedio per la città metropolitana. * Il consiglio, organo che si compone di una rappresentanza selettiva di amministratori comunali, ha lo specifico compito di disegnare la linea strategica e le priorità per le decisioni dell’ente, guidandone anche l’attuazione unitamente al sindaco metropolitano. Prima della Legge 56/2014 erano i consiglieri a occuparsi del raccordo con il territorio, generalmente ripartendosi in modo informale secondo il bacino elettorale di provenienza. Ora per questo compito c’è il nuovo dedicato organo, e i consiglieri si possono concentrare sull’attuazione di strategie e priorità. * La legge dà allo statuto dell’ente intermedio la possibilità di organizzare il territorio in zone omogenee, anche se previa intesa con la regione. Questa è un’importante opportunità per rafforzare il dialogo con il territorio, particolarmente utile per coinvolgere e sviluppare partecipazione nelle città metropolitane e province che hanno un numero elevato di comuni. Entro gli organismi decentrati delle zone omogenee i comuni possono incontrarsi per discutere i temi di area vasta che specificamente interessano la propria area, portando i risultati all’attenzione della conferenza metropolitana attraverso il sindaco coordina- tore della zona. I comuni si sentiranno maggiormente partecipi se l’articolazione in zone omogenee non sarà disegnata a tavolino, sulla base di criteri teorici, ma sarà in qualche modo riferita alle forme associative tra comuni che nel passato si sono già spontaneamente consolidate sul territorio. * Nell’affrontare l’organizzazione dei nuovi enti intermedi si deve tenere conto di alcune differenze significative di impostazione tra provincia e città metropolitana. Non ci si riferisce qui solo a quelle più evidenti: il numero di funzioni attribuite e la possibilità, anche se remota, di tornare all’elezione diretta. Vi sono un po’ nascoste nelle pieghe della legge altre differenze, apparentemente minori, ma in realtà importanti per comprendere il modello di ente intermedio pensato dalla riforma. Citandone una per esempio: i poteri di controllo sono riconosciuti all’assemblea dei sindaci provinciale, ma non alla conferenza metropolitana. Una differenza significativa, che ci parla da un lato di una provincia maggiormente controllata e determinata nella sua azione dal volere dei comuni, e dall’altro di una città metropolitana fortemente centrata, almeno nei primi anni, sulla guida del comune capoluogo. Si potrebbe continuare con altre considerazioni, la lettura della legge ne suggerisce diverse, ma quelle sopra sono sufficienti per evidenziare come la riforma delinei un sistema di governance nuovo, anche se ancora molto schematico, lasciando spazio a leggi regionali e statuti degli enti per trasformarlo in un’opportunità concreta. Si tratta di una grande occasione, ma per coglierne in pieno le potenzialità, un semplice adeguamento degli statuti vigenti non è sufficiente. Si deve essere disposti a reinterpretare il ruolo dell’ente intermedio secondo logiche nuove, fortemente innovative, resistendo alla tentazione di riprodurre attraverso soluzioni artificiali forme tradizionali cui ci si sente legati, più rassicuranti, ma che la riforma ha ormai cancellato. “IL GIOCO DEL RISPETTO” E IL CONSERVATORE COL PROBLEMA DEI FIGLI Paola Bocci Che cos’è davvero “Il Gioco del Rispetto” che ha scatenato nelle scorse settimane tanto sdegno, riportato dalla stampa nazionale prima e milanese poi, nel timore che tale ‘pericolosa’ iniziativa si possa diffondere rapidamente anche da noi? È un n. 13 VII -1 aprile 2015 kit ludico-didattico, per i bambini e le bambine delle scuole dell’infanzia, un percorso formativo serio, sperimentato e adottato dall’Amministrazione di Trieste nelle sue scuole, che ha l’obiettivo di trasmettere attraverso il gioco il principio di u- guaglianza e parità tra uomini e donne. È uno degli strumenti formativi che faticosamente, in un clima spesso ostile, iniziano a diffondersi in Italia, grazie alla collaborazione tra associazioni e istituzioni che hanno compreso che l’educazione 10 www.arcipelagomilano.org alle differenze e al rispetto è fondamentale fin dalla prima infanzia. Il ‘Gioco del Rispetto’ è un progetto nella sua semplicità straordinario, realizzato da formatrici e esperte di comunicazione competenti che da tempo lavorano su progetti di formazione sul tema della violenza sulle donne, supportato dal Dipartimento di Studi Umanistici e Scienze della Vita dell’Università di Trieste e condiviso con educatori ed educatrici, per promuovere il rispetto reciproco tra i generi e il superamento degli stereotipi che sono alla base di molte discriminazioni. Progetto articolato che propone un ventaglio di percorsi attraverso laboratori che mettono in evidenza la varietà delle possibili inclinazioni di ciascun bambino o bambina e, senza sminuire le possibili differenze, trasmettono il valore delle pari opportunità di realizzazione delle loro aspirazioni sia che siano maschi, sia che siano femmine. La scatola di giochi prodotta per le scuole contiene linee guida e strumenti propedeutici per gli insegnanti utili all’analisi del contesto, all’ascolto e all’osservazione, per comprendere quale sia l’immaginario dei bambini sul maschile e femminile, quale il loro universo di riferimento. A corredo degli strumenti didattici ci sono diverse proposte di gioco, dal simbolico alla narrazione, che mettono in discussione stereotipi diffusi, come quello del papà che è quello che lavora e basta mentre la mamma si occupa della casa e dei figli, o delle professioni che sembrano essere solo per maschi e altre solo per femmine utilizzate per realizzare un memory che le declina sia al maschile sia al femminile. La disinformazione e la strumentalizzazione che ha caratterizzato il dibattito sui media intorno al ‘Gioco del Rispetto’, è una spia di quanto siano forti le resistenze all’introduzione nelle scuole di un nuovo repertorio di conoscenze che consenta di superare idee stereotipate sul maschile e femminile. Spostare il dibattito verso contenuti che nel Gioco non sono presenti, come l’educazione sessuale, evitando accuratamente di approfondire il progetto, oltre alla mistificazione, rivela la paura verso una educazione im- prontata ad una visione plurale e di parità tra i generi. Ma questa è la strada: cominciare dai più piccoli studiando strumenti a loro congeniali e garantendo formazione agli insegnanti, che spesso si sentono impreparati e senza mezzi adeguati per aiutare i bambini a comprendere e affrontare i cambiamenti che attraversano la società. Perché nella prima infanzia si forma il sistema di riferimenti attraverso il quale si costruiscono relazioni e comportamenti, e quanto più saranno rigidi e univoci i modelli proposti, tanto più sarà difficile discostarsi da essi anche in futuro. Se un bambino conoscerà come unico modello possibile di relazioni familiari ad esempio il padre che lavora e fa carriera e la mamma che resta a casa per crescere i figli e avere cura dei nonni, difficilmente sarà portato a comprendere che anche a ruoli invertiti tutto funzionerebbe lo stesso bene. Proporre ai bambini un ventaglio di possibilità è determinante per contrastare e decostruire stereotipi dominanti, ampiamente diffusi, che semplificano e irrigidiscono la realtà nella contrapposizione tra cose da femmine e cose da maschi. La distorsione del dibattito mediatico su altri contenuti, la dice poi lunga sul fatto che il superamento della dicotomia tra maschile e femminile, e quindi l’educazione alla parità e al rispetto, venga considerato un obiettivo educativo e sociale secondario. E questo è particolarmente scoraggiante, considerato il tasso di occupazione femminile del Paese, il divario di remunerazione, il maggiore carico di cura per le donne e una tradizionale distinzione delle professioni per genere (con un’eccessiva femminilizzazione di alcune soprattutto in ambito umanistico e formativo, e predominio maschile in campo scientifico sia per studi/ impiego /opportunità di carriera), che richiederebbero azioni mirate a colmare il gap. Le Istituzioni rimangono indifferenti, a volte ostili - sono dell’Assessore alla Cultura della Regione Lombardia le più dure e meno documentate critiche al Gioco del Rispetto - ignorando i richiami della Convenzione di Istanbul (art.14) e dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità a introdurre azioni formative a partire dalla scuola dell’infanzia, ripresi anche nelle linee di indirizzo nazionali (nel D.M. 254 del 16 novembre 2012, e nelle Misure di accompagnamento delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione). Spesso si cade nell’errore di mettere in contrapposizione interventi educativi e interventi sanzionatori sugli adulti, visti come miglior deterrente alla violenza di genere, ignorando quanto la prevenzione sia strumento efficace. Purtroppo ricerche autorevoli dimostrano che già nell’adolescenza, il rapporto tra giovanissimi è caratterizzato da relazioni segnate da violenze, psicologiche e fisiche, così come l’omofobia è tratto dominante del bullismo adolescenziale. E mentre la violenza cresce, qualcuno sotto lo slogan “Giù le mani dai bambini” propone di bruciare nelle pubbliche piazze libri per l’infanzia che raccontano che di famiglia non ne esiste una sola, e che tutte hanno pari dignità e pari diritto alla felicità e al rispetto degli altri. Dobbiamo colmare il ritardo e cominciare presto e dai bambini a proporre dinamiche di relazione sane tra i generi, perché una educazione alla non-discriminazione nei suoi molteplici risvolti, è il migliore punto di partenza per crescere adulti migliori. Attraverso i Comuni, enti gestori dei servizi educativi all’Infanzia, può diffondersi una capacità di intervenire in rete con progetti educativi e formativi nella fascia dei più piccoli, condividendo e adottando esperienze che già funzionano, come il Gioco del Rispetto. Questo il significato della presentazione del ‘Gioco del Rispetto’ all’Assessore all’Educazione e alla Delegata del Sindaco alle Pari Opportunità, a molte coordinatrici delle scuole d’Infanzia di Milano, e della mia sollecitazione a considerarlo utile strumento da adottare nelle nostre scuole d’Infanzia. Milano, che ha storicamente sempre sostenuto lo sviluppo dei suoi servizi educativi di fascia 0-6 con la formazione, non può non cogliere questa opportunità, condividendo quanto già in uso a Trieste, e scegliendo di mettere a disposizione delle sue scuole e dei suoi insegnanti uno strumento valido e già sperimentato. L’EX MUNICIPIO DI CRESCENZAGO: “NON SIAMO ALL’ASTA NON SIAMO IN VENDITA …” Giuseppe Natale In un video di poco più di 5 minuti viene rappresentato con efficacia n. 13 VII -1 aprile 2015 comunicativa il “NO” forte e chiaro alla vendita a privati del Palazzo ex Municipio di Crescenzago, dove hanno la loro sede - con regolare 11 www.arcipelagomilano.org contratto d’affitto - le associazioni ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), Banda Musicale e Legambiente Crescenzago, che non vogliono essere messe all’asta e in vendita. E chiedono che l’immobile torni bene comune e pubblico a disposizione del quartiere che ha tanto bisogno di spazi e servizi di aggregazione sociale culturale e civile. Si sta parlando della cosiddetta “valorizzazione”, cioè la messa in vendita a privati, tramite due Fondi Immobiliari affidati (2007 e 2009, Amministrazione Moratti) alla Banca BNP Paribas, di 175 (76+99) beni immobili del patrimonio comunale di Milano, tuttora in corso. E’ possibile chiedere un bilancio pubblico e trasparente di queste due operazioni ? Tornando a Crescenzago, scaduto il primo periodo senza esito del Fondo Milano 1, nel 2013 il Comune ha autorizzato la proroga fino al 2016 della messa in vendita del palazzo di Via Adriano / Piazza Costantino, senza sentire le associazioni che sin dall’inizio si erano dichiarate contrarie all’asta e avevano raccolto nel 2008 3.000 firme. Non sono valse neanche due delibere del Consiglio di Zona 2, con le quali si chiedeva: “il blocco della dismissione dell’immobile” e “il mantenimento dell’attuale uso alle Associazioni” (2008); “l’ex municipio di piazza Costantino/Adriano 2 resti fruibile per la cittadinanza “, “ venga tolto dal Fondo Immobiliare Milano 1 e riacquistato dal Comune di Milano”, e “venga mantenuto il godimento alle associazioni locate” (2012). Le associazioni e i cittadini dei quartieri interessati ribadiscono la loro richiesta che il palazzo ex municipio di Crescenzago, luogo non solo “della memoria e del cuore” ma anche spazio di vita collettiva , ritorni bene pubblico e comune, continui ad essere “Casa Crescenzago”, palazzo delle associazioni e delle culture, dell’impegno civico e dell’ambiente, della musica e delle arti. Lo si richiede con una petizione al sindaco Pisapia. Basti pensare che si vuole tutelare un edificio pubblico dichiarato di “interesse storico artistico” e sottoposto a vincolo e tutela dalla Sovrintendenza ai Beni architettonici e ambientali. Un edificio che si colloca in una posizione nevralgica tra il borgo antico di Crescenzago (con la romanica Chiesa di Santa Maria Rossa) e le ville della riviera del piccolo naviglio Martesana, in una piazza che potrebbe tornare a essere veramente tale se si intervenisse a salvaguardare altri spazi e a ridurre il traffico con opportuni interventi di razionalizzazione viaria, ciclopedonale e di trasporto pubblico. Basti pensare che la Banda Musicale di Crescenzago è un patrimonio culturale che ha un’età ultracentenaria (nacque nel 1894!) e sarebbe un vero delitto privarla di sede. Basti pensare alla storica sezione di ANPI Crescenzago, che è nata con la liberazione dal nazifascismo in un quartiere protagonista della lotta partigiana e dell’occupazione delle fabbriche nel 1943-44 ! Basti pensare a Legambiente che, insediata 15 anni fa, svolge un’importante funzione sociale e di educazione alla tutela e cura dell’ambiente. Basti pensare che altre esperienze associative e culturali si sono realizzate e si realizzano nel palazzo di Piazza Costantino, tra le quali molto significativa l’ospitalità data all’Orchestra di Via Padova e all’associazione di cultura e musica d’Africa Sinitah. Da qui nasce l’idea progettuale di valorizzare veramente l’immobile, già sede del comune di Crescenzago che nel 1923 venne sciolto e integrato nella ‘grande’ Milano. Si propone di: - realizzare la “Casa Crescenzago”, sede permanente delle associazioni e centro civico e culturale, musicale e artistico; luogo di elaborazione di proposte finalizzate al miglioramento della qualità della vita quotidiana nei quartieri di Crescenzago, Via Padova, Via Adriano, Gobba. L’ipotesi progettuale risponde ai bisogni e alle esigenze della Zona 2 di Milano (12,58 kmq su cui si addensano ca. 140.000 abitanti, con una presenza di immigrati che raggiunge il 13% della popolazione residente) che, mentre è ricca di associazioni e comitati e gruppi di volontariato, è invece molto povera di spazi sociali e servizi. Per esempio nel quartiere Adriano – Crescenzago - Gobba non c’è una biblioteca e si aspetta da oltre dieci anni la scuola media di quartiere; per rispondere al crescente bisogno di asili nido e di scuole materne il quartiere ha perso il centro polifunzionale... . Se l’asta andasse in porto e il palazzo diventasse proprietà privata, si verificherebbero un ulteriore grave impoverimento del tessuto civile e la perdita di un notevole patrimonio storico e architettonico, sociale e culturale, oltre al rischio di sfratto delle associazioni. Alla faccia della politica che declama di volere migliorare le periferie o, come dice l’archistar Piano, “rammendarle” !?... Le tre associazioni stanno traducendo l’idea progettuale in vero e proprio progetto di fattibilità finalizzato a raggiungere almeno tre obiettivi fondamentali: - salvaguardare un bene pubblico e comune di grande interesse storico sociale e artistico; - tutelare rafforzare e promuovere le associazioni dei quartieri interessati, a cominciare da quelle che risiedono nel Palazzo ex municipio di Crescenzago; - contribuire a migliorare il contesto urbano tra Piazza Costantino, Via Meucci e la riviera del Martesana. Amministrazione Pisapia se ci sei, batti un colpo. Grazie! INQUILINI MOROSI? A MEDIARE CI PENSA IL COMUNE Fabrizio Marino Alloggi sfitti, sgomberi, sfratti, occupazioni abusive. L’emergenza abitativa sembra una ferita che non ne vuole sapere di rimarginarsi per il Comune di Milano. Da un lato le numerose proteste - pronte a riesplodere in qualsiasi momento - dei principali quartieri popolari della città, dove in molti negli ultimi tempi si sono riversati in strada per difendere il loro “diritto alla casa”. Dall’altro la lotta alle occupazioni abusive e il piano di sgomberi che da novembre n. 13 VII -1 aprile 2015 scorso in poi è stato avviato di concerto con la Regione Lombardia. In mezzo un’altra emergenza, quella degli sfratti per la cosiddetta “morosità incolpevole”, condizione in cui versa chi non paga l’affitto per mancanza di mezzi. I numeri sono in continua crescita e, secondo la Prefettura, si viaggia ad una velocità di duemila richieste di sfratto ogni mese, considerando che a Milano dei 20mila sfratti cittadini, ogni anno, 15mila sono causati proprio dalla “morosità incolpevole”. Per questo motivo a Palazzo Marino hanno deciso di realizzare l’Agenzia Sociale per la Locazione, uno strumento per favorire l’incontro tra la domanda, cioè i cittadini con un’esigenza abitativa effettiva, e l’offerta, ovvero i proprietari delle abitazioni. Il 26 marzo è stata firmata la convenzione tra il Comune e la Fondazione Welfare Ambrosiano, che si occuperà della gestione dell’Agenzia. La vera novità sta nel fatto che stavolta il compito delle istituzioni sarà 12 www.arcipelagomilano.org quello di intervenire sugli affitti privati, facendo da mediatore tra inquilini e proprietari, con lo scopo di trovare un punto di incontro tra le parti che riesca ad evitare sfratti e renda sostenibile l’affitto per gli inquilini. Incoraggiando oltretutto la realizzazione di contratti a canone concordato. Il progetto prende vita nel febbraio del 2014 e si inserisce in un quadro economico-sociale estremamente delicato, che ha avuto ricadute ne- gative sui redditi delle famiglie non più in grado di sostenere i canoni di locazione, a tal punto da ricorrere a situazioni di morosità e conseguente sfratto. Il progetto si rivolge ai nuclei familiari impossibilitati a sostenere i costi di locazione richiesti dal mercato ma al tempo stesso con una disponibilità economica incompatibile con i requisiti di accesso all’Edilizia Residenziale pubblica. Come si legge nel documento pubblicato di seguito, i principali obiettivi dell’Agenzia riguardano l’accrescere dell’offerta complessiva di alloggi in locazione temporanea e permanente a canoni calmierati, incentivare la partecipazione del soggetto privato tramite l’offerta di un percorso agevolato e garantito, favorire la mobilità nel settore della locazione attraverso percorsi di accompagnamento rivolti agli assegnatari. Per continuare a leggere l'articolo su LINKIESTA clicca qui Scrive Andrea Rui a proposito del sindaco Pisapia Gentilissimo direttore, non è che Pisapia sia stato "troppo" gentile? Non crede che con certa gente, "certi vecchi mascalzoni i cui nomi si rincorrono nelle intercettazioni delle forze dell’ordine" occorreva invece il pugno di ferro? Non le sembra che Pisapia sia stato un Don Abbondio cioè "come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro". Perché ha accettato tutto compresa la realizzazione dell'ultima metropolitana, progetto vecchio di vent'anni, con un rapporto costo - benefici che non giustificava la spesa se non per ve- nire incontro ai gruppi di potere che proprio in questi giorni vengono indiziati? È stato veramente il sindaco di tutti i cittadini o non ha voluto scontentare la Milano dei potenti che, da avvocato di successo, ha sempre difeso? MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola [email protected] Hauskonzerte Esistono delle realtà, nel mondo della musica classica, che si fa fatica a immaginare. Una l’ho scoperta sabato scorso, ospite di un “concerto in villa” che pensavo fosse un evento sporadico, legato a qualche festeggiamento familiare, e che invece si è rivelato essere il capitolo di una lunga e bella storia di cultura musicale diffusa con radici antiche e risvolti di grande freschezza. La storia inizia nel 1981 quando, in una villa nella bella regione che si distende fra il lago Maggiore e quello di Varese, un ingegnere con la passione per il violino - che quando trovava gli amici giusti dialogava con un pianoforte e si dilettava in trii, quartetti, quintetti - invitò tre professori d’orchestra della Scala, riuniti in trio, a suonare davanti a un gruppo di ospiti abitanti nei dintorni e la serata ebbe un tale successo che venne ripetuta più volte invitando diversi musicisti. Così sono nati più di trent’anni fa gli “Amici della musica”, oggi una cinquantina di persone molto appassionate e attente, che regolarmente organizzano nelle loro case “Hauskonzerte” di n. 13 VII -1 aprile 2015 grande qualità, sia dal punto di vista musicale che da quello sociale e ambientale. Questi Hauskonzerte funzionano così: ogni anno vengono invitati concertisti più o meno famosi - scelti sempre con grande cura e con l’intenzione di soddisfare ascoltatori molto esigenti - e proposti sofisticati programmi di musica da camera. Le serate vengono distribuite durante l’anno in modo da formare una vera e propria “stagione” concertistica, e si svolgono a turno in una delle residenze degli Amici della Musica, scelte fra le più adatte ad accogliere una platea di ospiti. Gli “Amici” si fanno carico pro quota dei costi essenziali e portano un contributo in natura – cibo e bevande – per il rinfresco che segue il concerto; uno di loro, il più volenteroso o il più preparato degli altri, si assume il delicato compito di presentare gli artisti e di illustrare il programma della serata. L’albo d’oro di questi Hauskonzerte annovera, fra i musicisti invitati, interpreti di grandissima notorietà, compresi celebri ensemble cameristici, personalità che mai ci si im- maginerebbe impegnati in concerti veri e propri ma in case private, totalmente prive di quella visibilità che in genere viene ricercata o pretesa da professionisti già affermati anche internazionalmente. Partecipare a una di queste serate non è solo un privilegio per la qualità degli interpreti e la bellezza dei luoghi, né si limita a soddisfare il bisogno di concentrazione e di intimità richiesto dall’ascolto di musica colta e raffinata, ma risponde anche all’esigenza di mettersi in sintonia con la storia di quella musica “da camera” che nasce giusto per atmosfere e situazioni simili, per un pubblico di quel tipo – limitato di numero, amicale, preparato, interessato, senza attese di mondanità – che interagisce con gli esecutori creando una comunità complice ed affiatata. L’altra sera ho sentito un concerto di due magnifici musicisti, di cui non faccio i nomi per rispetto della riservatezza in cui tutto si è svolto e di cui ho dato conto, che hanno eseguito tre Sonate per violino e pianoforte rispettivamente di Bach (la 13 www.arcipelagomilano.org BWV 1014 in si minore), Mozart (la n. 21 in mi minore K.304) e Beethoven (n. 5 in fa maggiore opera 24, detta “Der Frühling”, la Primavera) illustrando così in modo esemplare l’evoluzione di questo genere, dalla prima versione “moderna” fino all’acme raggiunto nel momento di passaggio fra il classicismo ed il romanticismo. All’ora del tramonto e poi con il primo buio e con la luna che già si affacciava dal Sacro Monte, con i profili dei musicisti e dei loro strumenti che si stagliavano oltre i vetri sulla superficie del lago, l’atmosfera era tale per cui la musica riusciva a esplodere in tutti i suoi significati con una capacità di presa sugli ascoltatori ben lontana da quella cui siamo abitati nelle sale da concerto; ricordava l’atmosfera magica delle Schubertiadi, quel festival musicale che si svolge ogni anno a Schwarzenberg, nel Vorarlberg, dove tutto è un po’ più “in grande” ma, grazie all’isolamento del paese dal resto del mondo e al dolcissimo paesaggio dei prati e dei boschi in cui è immerso, la concentrazione sulla musica ha la stessa intensità. Hauskonzerte. Come sarebbe logico e ragionevole che questa modalità tipicamente europea di fare e di ascoltare musica si diffondesse anche da noi e riempisse quel vuoto di stimoli che caratterizza gran parte della nostra società e in particolare il mondo dei giovani. Fare e ascoltare musica insieme, scegliendosela, inseguendola, organizzandola, in un “fai da te” che ha anche il pregio di darci enormi soddisfazioni. ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi [email protected] Un entusiasmante McCurry fuoriporta Ci sono domeniche in cui, con l’arrivo del bel tempo, si è indecisi fra fare una passeggiata all’aperto o rinchiudersi a vedere mostre o musei. La Villa Reale di Monza, recentemente riaperta al pubblico dopo due anni di restauro, non costringe a scegliere fra le due alternative: offre la possibilità di godersi una struttura di elevato pregio storicoartistico, di visitare una piacevole mostra ed è anche immersa nel verde di un arioso parco. Nello specifico, le raffinate sale della Villa stanno ospitando in questo periodo la mostra “Steve McCurry - Oltre lo sguardo”, dedicata a uno dei più celebri fotografi contemporanei. Non si tratta della solita rassegna cronologica che parte dall’inizio della carriera dell’autore e ne ripercorre l’evoluzione: gli scatti di McCurry si susseguono e si incrociano con l’entusiasmo con cui un viaggiatore, al ritorno, racconta gli episodi più esaltanti dell’avventura. Le fotografie dialogano con l’ambiente - si affacciano da porte e finestre, si sporgono sulle aperture dei saloni, si inerpicano su scale di legno - e sorprendono lo spettatore da una sala all’altra con prospettive nuove e inaspettate. Oltre all’inserimento originale nell’elegante contesto della Villa, le immagini si rincorrono in una lunga narrazione fatta di ritratti e di scene di vita quotidiana provenienti da paesi lontani: India, Birmania, America, Afghanistan, Kuwait, Giappone, Cambogia, Etiopia, qualche accenno all’Italia. Il risultato è un caleidoscopico atlante fatto di sguardi intensi, di colori sgargianti e di dettagli curiosi. L’audioguida, fornita gratuitamente insieme al biglietto d’ingresso, è uno strumento indispensabile per poter usufruire dei racconti di McCurry, poiché in questo modo durante il percorso si possono ascoltare le storie che narrano la nascita di un scatto o la vita del soggetto fotografato. Si scopre così che il fotografo ha iniziato a viaggiare a 19 anni, ancor prima di saper fotografare, ma che fin da allora era determinato a fare del viaggio l’elemento essenziale della sua vita; che ha vissuto fra i pescatori indiani o fra i tuareg nel deserto; che nel 1981 è stato addirittura arrestato in Pakistan perché nel tentativo di raggiungere l’Afghanistan si era addentrato in una zona proibita agli stranieri. Appassionato nei ritratti, rispettoso e riflessivo nella scoperta di altre culture, cordiale nei rapporti con i soggetti: la mostra celebra uno Steve McCurry profondamente partecipe e metodico nel suo lavoro. Tutta il percorso, molto lungo ma poco pesante, è un inno all’imprevedibile e spiazzante bellezza del volto umano, inquadrato sempre con attento rispetto e simpatizzante confidenza. Giulia Grassini Steve McCurry - Oltre lo sguardo fino al 6 aprile 2015 Villa Reale di Monza – Aperta dal martedì al venerdì, dalle 10.00 alle 18.00; sabato, domenica e festivi, dalle 10.00 alle 19.00 – Biglietto 12/10/4 euro Italia Inside Out: i maestri della fotografia raccontano l'Italia Dal 21 marzo al 27 settembre 2015, Palazzo della Ragione ospita Italia Inside Out, la grande mostra di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più importanti fotografi del mondo. Un’unica iniziativa articolata in due successivi allestimenti, dal 21 marzo al 21 giugno con i fotografi italiani e dal 1° luglio al 27 settembre con i fotografi del mondo, che raccontano a chi li visita le trasformazioni e le emozioni di un’Italia che cambia dal secondo dopoguerra fino ai n. 13 VII -1 aprile 2015 giorni nostri. E il cambiamento si percepisce in ogni cosa: nelle tecniche, nell’uso del bianconero e del colore, nei ritratti e nelle storie dei protagonisti ritratti. Promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm Giunti, curata da Giovanna Calvenzi; l’allestimento si deve a un progetto scenografico di Peter Bottazzi dove ogni autore è una carrozza di un immaginario treno che porta il visitatore alla scoperta del Bel Paese. Il viaggio inizia da Milano con le immagini storiche di Paolo Monti e qui si conclude con le vedute della nuova Milano di Vincenzo Castella; su ciascuna carrozza si scopre un’Italia differente per geografia (dalla Venezia degli anni cinquanta di Berengo Gardin alla Palermo della Battaglia, passando per il delta del Po di Pietro Donzelli); per epoche (la Sardegna dei primi anni ’60 di Franco Pinna, gli estemporanei 14 www.arcipelagomilano.org anni ’80 della Via Emilia di Luigi Ghirri, ma anche il terremoto dell’Aquila ritratto da Marta Sarlo); per progetti (Io parto di Paola de Pietri, Gli ultimi Gattopardi di Shobha, Florence versus the World di Riverboom). La prima parte - INSIDE - accoglie dal 21 marzo al 21 giugno 2015 una selezione di oltre 250 immagini di quarantadue fotografi. Nella seconda parte - OUT -, dal 1° luglio al 27 settembre 2015, saranno protagoniste le fotografie dei grandi maestri internazionali, quali Henri Cartier- Bresson, David Seymour, Alexey Titarenko, Bernard Plossu, Isabel Muñoz, John Davies, Abelardo Morell e altri. Quella ospitata negli spazi del Palazzo della Ragione è una mostra davvero ricca, piena di punti vista e sguardi, quasi troppo: al punto che il visitatore talvolta si smarrisce, vista l’assenza di un percorso definito, rischiando di non vedere alcuni degli autori. L’allestimento, poi, pare incompleto (o la scelta molto curiosa) laddove solo alcuni pannelli con le fotografie hanno le didascalie mentre altri no. E va aggiunto che al terzo giorno dall’apertura le audioguide sono ancora non pervenute, causa corriere. Si perdona tutto davanti alla bellezza di questa italianità per immagini? Italia Inside Out - I fotografi italiani fino al 21 giugno 2015 Palazzo della Ragione Fotografia Milano, Piazza Mercanti, 1 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 20.30/ Giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietto €12/10/6 Congiunto €18/16/9 Gli scatti di David Bailey: star system (e non solo) al PAC Varcare la soglia del PAC in questi giorni (fino al 2 giugno) è fare un tuffo tra i volti pop degli ultimi 50 anni: nella mostra Stardust sono esposti più di 300 scatti di David Bailey tra divi del cinema, grandi artisti visivi, top model ma anche persone normali e scatti sociali per risvegliare le più pigre coscienze. Curata dallo stesso artista e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra e con il magazine ICON, la mostra contiene una vasta serie di fotografie, selezionate personalmente da Bailey come le immagini più significative o memorabili della sua carriera, che ha attraversato più di mezzo secolo. Nello spazio progettato da Ignazio Gardella si articolano per temi alcuni dei progetti più interessanti del grande fotografo: dagli scatti realizzati per Vogue che lo hanno reso famoso nei primi anni ’60, alle immagini realizzate per i dischi dei Rolling Stones o ai gemelli pugili Reggie e Ronnie Kray; i grandi ritratti che hanno per protagonista Catherine Dyer, talvolta straordinaria modella talaltra moglie e madre dei loro tre figli, sempre donna di straordinaria femminilità. L’arte di Bailey non si limita però alle celebrità: sono una decina le fotografie appartenenti al progetto “Democracy”, realizzato tra il 2001 e il 2005, dove un gruppo di sconosciuti, a turno, ha posato nudo per 10 minuti; ci sono le immagini degli anziani con i costumi tradizionali scattate durante il viaggio nella regione indiana di Naga Hills; ci sono gli scatti dedicati ai teschi; c’è il reportage realizzato negli anni ’80 per portare l’attenzione mondiale sulla situazione in Sudan. Non l’ordine cronologico ma quello tematico sancisce ancora una volta la profondità e la qualità del lavoro del grande artista inglese, che attraverso le proprie immagini racconta non solo le storie dei protagonisti ritratti, ma anche del mondo attorno che li circonda. Unica pecca della mostra: l’assoluto divieto di usare gli smartphone e di fare fotografie all’interno degli spazi, curioso e un po’ anacronistico in un mondo dove la promozione e la comunicazione dell’arte passano anche attraverso la condivisione digitale. Stardust. David Bailey fino al 2 giugno 2015 PAC Via Palestro 14, Milano Da martedì a domenica 9.30 – 19.30, giovedì fino alle 22.30 Biglietti € 8,00/ 6,50 /4,00 Medardo Rosso alla Gam, con molti dubbi Medardo Rosso, torna ad essere protagonista di una mostra monografica a Milano dopo 35 anni dall'ultima. Organizzata e prodotta dalla Galleria d'Arte Moderna di Milano, da 24 ore Cultura - Gruppo 24, insieme al Museo Rosso di Barzio, la mostra è a cura di Paola Zatti, conservatore della Galleria d’Arte Moderna di Milano. Rosso è l'artista della forma che prende vita: nel percorso espositivo, tra gessi, bronzi e modelli in cera, oltre ad immagini d’archivio, i personaggi ritratti sono vive idee che si animano, con l’intento di perseguire non una verosimiglianza ma una rappresentazione dell’impressione. Le 15 opere di Rosso della GAM sono affiancate da una selezione significativa proveniente dal Museo Rosso di Barzio, che ha partecipato alla curatela della mostra, e una serie di prestiti nazionali e internazionali (Musée d’Orsay e Musée Rodin di Parigi, Staatliche Kunstammlun- n. 13 VII -1 aprile 2015 gen di Dresda, il Museo d’Arte di Winthertur, Szepmuveszeti Muzeum di Budapest). L’insieme di queste opere consente di avere una visione ampia sia dei soggetti affrontati dall’artista sia della sua evoluzione interpretativa e della sua competenza e passione per la tecnica fotografica. Infatti ad arricchire l’esposizione è presente un cospicuo contributo iconografico che documenta il lavoro di Medardo: l’artista infatti quando esponeva i propri lavori creava loro intorno una sorta di scenografia che ne accresceva, o addirittura modificava, il senso. La straordinaria Madame X, opera del 1896, è al centro della terza sezione della mostra, e dialoga con due versioni a confronto in bronzo e cera dell’Enfant Malade, documento della fase sperimentale di Rosso. Seppur interessante il dialogo che si va a creare tra le sale della galleria e i lavori dell’artista, dove i grandi specchi consentono di osservare da diversi punti di vista le stesse opere, gli spazi danno poca aria alle sculture che ne risultano penalizzate e laddove vi siano dei gruppi guidati la visita risulta estremamente complessa, quasi impossibile. Il costo dell’ingresso è piuttosto alto (12€) considerando che si tratta di una mostra articolata in sole sei sale e che poi per visitare gli altri spazi della Galleria deve essere acquistato un ulteriore biglietto. Purtroppo si deve notare che il livello della conoscenza della lingua inglese da parte degli operatori della biglietteria non è adeguato, elemento invece che dovrebbe essere curato e seguito da ogni organizzazione in particolar modo nell’anno di Expo. Medardo Rosso la luce e la materia - fino al 31 maggio Galleria d'Arte Moderna di Milano via Palestro 16 - Lunedì 14.30 – 19.30 Martedì, 15 www.arcipelagomilano.org mercoledì, venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30 Giovedì 9.30 – 22.30 Food. Quando il cibo si fa mostra Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso di avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è seme fino alle reazioni chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi. La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del Museo di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal Comune di Milano sul tema di Expo 2015. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”. Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono raccontate le diverse classi e fami- glie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato, senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo. Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di tante ricette vi siano principi di chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della mostra illustra come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa fare se la maionese impazzisce?). Quando poi sembra che niente in materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione. Il costo del biglietto è medio alto (12/10 euro), ma la visita merita davvero il prezzo d’ingresso se non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015. Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca Se un pomeriggio d’inverno un viaggiatore avesse voglia di scoprire Milano attraverso uno dei luoghi simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello spazio è la personale di Céline Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano. L’esposizione ha un titolo che non passa inosservato: bau bau. L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e all’esperienza della scuola del Bauhaus. Effettivamente, superate le difficoltà iniziali di approccio all’apparente incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video e scritti. L’artista ha una formazione relativa all’architettura e alla cultura visuale, e ha riflettuto a lungo sulle “strutture di sostegno”, ovvero su ciò che supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che relazionale. L’amicizia diventa per l’artista una dimensione di lavoro e una forma d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia sono condensati nel libro The company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque può accomodarsi e leggerlo, e chi vuole può anche salire sul tavolo per osservare dall’alto la visuale all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta appositamente dalla Condorelli in occasione della mostra. Un altro tema forte è infatti il dialogo con gli spazi dell’Hangar. La mostra è stata pensata in relazione alle precedenti esposizioni (il pannello di legno all’ingresso è lo stesso della mostra precedente di Gusmão e Paiva, e Céline vi ha posto una ven- tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la scoperta delle opere; i video in onda su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione con lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese. Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che diventano sedute su cui i visitatori possono accomodarsi e colloquiare, tende dorate mosse dal vento: bau bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici, stupore negli appassionati. Giulia Grassini Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano fino al 10 maggio 2015 – da giovedì a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso gratuito LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero [email protected] n. 13 VII -1 aprile 2015 16 www.arcipelagomilano.org Pietro Salmoiraghi Anatomia dell’ovvio. Poesie La Vita Felice, Milano 2014 Quando la parte di vita che abbiamo alle spalle è maggiore di quella che ci resta, gli occhi acquistano una chiarezza nuova, e la mente registra il tempo e lo spazio con insolito nitore. La poesia di Salmoiraghi è questo: parola che mette a fuoco gli oggetti in penombra; che illumina le cose che non vediamo perché sotto gli occhi, nel quotidiano. Anatomia dell’ovvio: in altri termini, analisi e definizione del quotidiano. Operazione che prende forma vagando tra frammenti di visione, pensieri, memorie, suggestioni. Con un pensiero fisso: mantenere una dignità per quanto inutile e fittizia. Pensieri come schegge impazzite,/ ripiegato su me stesso / in preda all’inestinguibile – spossante, / moto circolare della mente: / cercando di riscattare il nulla / di una vita insulsa. Poesia di affabulazione; poesia di meditazione: dove il metro si dissolve e al verso dà misura il respiro, che determina anche la quantità sillabica e il ritmo. Salmoiraghi, scrivendo, si sottrae per scelta a ogni schema: Strano piacere per il non finito, / il provvisorio: per quel che non è conclusivo. / Ovvero l’incompiuto. Le opere perfette sono quelle che, in apparenza hanno forma “non finita”, come la Pietà Rondanini di Michelangelo, strada maestra per il sublime. Ma a Salmoiraghi poco sembra interessare “l’oltre”: egli resta attaccato con ostinazione al suo oggi, al suo essere uomo in un consesso di individui aggrappati stolidamente alla propria solitudine: Occorre, si direbbe, sbrogliare / vecchie matasse, aggrovigliate: / tessere inconsueti fili narrativi. / Scoprire un nuovo cielo. / Non da soli: possibilmente tutti insieme costituire, / per così dire, “un noi narrante”. / Inedito e, soprattutto, non di massa: ma, certamente, collettivo. Il “noi” come “nuovo cielo”: ovvio. Ma ancora da venire. Un ovvio di cui si parla da millenni, ma che non pare realizzabile. Eppure l’unica soluzione è un vero progressismo: che combatta / per superare ogni diseguaglianza. Materiale o immateriale che sia. PS: / Vero è purtroppo, / che ci sono situazioni in cui / le speranze – e, al tempo stesso, / l’inerzia dei miei simili, / mi risultano davvero esasperanti. L’affabulazione, che di norma è distesa e fluisce come assorta, qui si impunta e dà segni di insofferenza: il rimedio è ovvio ma, al tempo stesso, ignorato. Come se l’uomo avesse una sorta di cecità persistente che gli impedisce di comprendere e di ben operare. Non è dato sapere / Che cosa sia il vero: / né dove stia. / Forse non è, non sta: / è in continuo divenire./ Un ininterrotto divenire. Panta rei: niente è uguale a se stesso, mai; eppure dei punti fermi vanno individuati. Altrimenti è impossibile la convivenza e maledettamente dura la vita del singolo. Nella raccolta precedente (Autobiografia involontaria, 2012) aveva scritto: Chi non è capace di credere / - per fede secolare, laica: / o religiosa che sia, / è condannato ad una esistenza / dominata dal dubbio: / una quieta vita disperata. Perfetta alchimìa lessicale, che si chiude in un apparente ossimoro (quieta / disperata) che rimanda alla coscienza dell’adynaton che caratterizza l’esistenza del genere uma- no: sarà possibile un’esistenza diversa, quando l’uomo saprà tradurre in azione quotidiana l’ovvio, l’uguaglianza e la parità di diritti. Cioè: mai. Quel che resta è dunque assai poco, in particolare quando il passato supera per durata il futuro. In una contiguità scandita di vibrante (r) e sibilante (s), la quieta disperazione domina la scena, chiudendosi nel rifiuto integrale dell’esistenza: Morte le mani: quasi trasparenti, / rugose, segnate solo / dal colore bluastro delle vene. / E fin qui ci potrebbe anche stare. / Ma è l’anima – non il corpo, / che viene meno: si finisce per provare / una sorta di orrore per la vita. Se in Autobiografia involontaria aveva parlato di rapporto controverso col mondo, “in bilico tra entusiasmo e insofferenza”, in questa raccolta è l’insofferenza a prevalere. Senza appello. L’umanità, per cui aveva vagheggiato tempi migliori, non merita né attenzione né cura e l’uguaglianza è un’utopia (spesso è faticoso e difficile / eliminare le distanze). Da preservare, al fondo, l’ ”io” che conosce, che valuta, che propone, che desidera. Sopra tutto che desidera. Con l’assenza della tensione, del desiderio, perde tutto di significato, anche la pura sopravvivenza. Ed è questo, al finale di ogni possibile anatomia; è questo l’ovvio. Corpi che si urtano, si scontrano, si toccano … / Sensazione di sentirsi nudo in mezzo / ad una umanità troppo vestita. / Un uomo scorticato, / urticato dalla sua stessa sensibilità. / Ecco: spesso è faticoso e difficile / eliminare le distanze. / Mantenendo le differenze. Giuliana Nuvoli SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi [email protected] Grazie, Rudy! Gala di danza tributo a Rudol’f NureevInterpreti: Nikola Hristov Hadjitnev e Marta Petkova, Balletto Nazionale di Sofia (Bulgaria) - Bella addormentata e Raymonda. Vittorio Galloro e Arianne Lafita Gonzalez, Balletto Nazionale di Cuba - Corsaro e Don Chisciotte. Dinu Tamazlâcaru e Ol’ga Čelpanova, Balletto Nazionale di Berlino (Germania) - Sylfiden e Lago dei cigni. Viktor Iščuk ed Kateryna Kurčenko, Balletto Nazionale di Kiev (Ucraina) - Schiaccianoci ed Esmeralda. Teatro Nuovo di Milano, 30.3.2015. Ci sono stati dei cambi di programma nel cast di interpreti e nella sequenza dei pas de deux, ma lo spet- n. 13 VII -1 aprile 2015 tacolo Grazie, Rudy! Gala di danza tributo a Rudol’f Nureev in occasio- ne del ventennale della sua morte si è svolto con il plauso del pubblico. 17 www.arcipelagomilano.org Rudol’f Nureev: russo di nascita e formazione, francese di spirito e lavoro, austriaco sul passaporto, ballerino globale che ha danzato sui palchi di tutto il mondo. Danzatori da tutto il mondo hanno detto il loro «Grazie, Rudy!» a Milano. Le coppie più applaudite sono state quelle dal Berliner Staatsballett (in particolare l’assolo neoclassico di chiusura di Dinu Tamalâcaru) e quella dal Ballet Nacional de Cuba (in particolare i virtuosismi maschili del salto e del giro). I due tempi si aprivano con due video memoriali di Nureev: particolarmente interessante è stata l’intervista sul mancato ritorno in Unione Sovietica dopo la prima tournée a Parigi di Nureev con il Balletto del Kirov (oggi Mariinskij di San Pietroburgo). L’inizio è stata una lettera aperta al grande artista che ha cambiato la danza classica nel Novecento, la conclusione è stata affi- data allo stesso Nureev che ha dichiarato il suo amore per la vita e per la danza, che in Nureev hanno sempre coinciso. Il programma delle danze è stato interessante: ha proposto i più famosi pas de deux del repertorio classico nelle versioni coreografiche Nureev per quelli che hanno avuto la sua coreografia, altrimenti di coreografie che Nureev danzò con le partner più importanti (Carla Fracci per Sylfiden, cioè La Sylphide nella versione coreografica danese di August Bournonville; Margot Fonteyn per Raymonda). Il pubblico ha molto apprezzato l’antologia del repertorio; tuttavia, l’esclusiva presenza di pas de deux di repertorio classico rischiava di essere monotona nella sequenza fissa di entrée - adagio - variazione I - variazione II coda. Mancava poi un programma scritto che sarebbe potuto esser letto dal pubblico di non intenditori o un’introduzione ai diversi pas de deux dei balletti che avrebbero introdotto il pubblico alle danze, che altrimenti potevano apparire ‘tutte uguali’, al di là del virtuosismo che fa spettacolo. I danzatori sono stati bravissimi. Oggi coppia proveniente da corpo di ballo differente con tecnica differente ha portato sul palco una storia della danza: la pulizia e la linea leggera e filiforme dei danzatori ucraini e bulgari di pura tecnica Vaganova, la brillante e ‘scoppiettante’ tecnica cubana, la ‘sopraelevata’ (per la grande presenza del salto) della tecnica nordeuropea. Tutti stili e tecniche che il grande Nureev ha assorbito nei suoi viaggi e nei suoi spettacoli per il mondo, per diventare il grande artista che è stato e continua a essere modello per tutti i danzatori. Domenico G. Muscianisi CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi [email protected] Latin Lover di Cristina Comencini [Italia, 2015, 114'] con Virna Lisi, Marisa Paredes, Angela Finocchiaro, Valeria Bruni Tedeschi, Candela Peña Quando la vita non gira per il verso giusto (il lavoro nei rodeo non paga più, la fidanzata se la spassa con un altro) Chris Kyle ha una nuova opportunità: servire la patria. L’esercito Usa ha sempre bisogno di uomini, c’è sempre una guerra da combattere in questo caso la guerra al terrorismo dopo l’11 settembre promossa da Bush. Kyle crede nella causa e diventa un Navy Seal. Per la precisione diventa un cecchino, ha una mira quasi infallibile. Durante le sue missioni lo vediamo appostato, intento a studiare la situazione e a decidere se sparare o meno. La decisione è la sua, sta a lui scegliere se colpire un bambino o una donna che possono rivelarsi bombe umane. La coscienza viene spesso tacitata dal dovere, dall’ossessione per il nemico. Perché questa è la guerra e se non spari ti sparano, il nemico non ha n. 13 VII -1 aprile 2015 forse un cecchino formidabile come lui? E il dovere si fa sempre sentire anche quando Chris torna a casa dalla famiglia che ha costruito tra una missione e l’altra. La sua testa è in Iraq, Chris era una perfetta macchina da guerra e non smette di esserlo anche a casa. Come tutti i reduci affetti dal disturbo post traumatico da stress comincia a curarsi frequentando un centro per ex- militari. Sarà la sua fine. American sniper è un film ambizioso, ci racconta la solitudine di fronte alla guerra, l’eroismo che nasce dal basso e le conseguenze sulla vita privata. Ma stupisce un po’ per chi ha visto gli altri film che Clint Eastwood ha dedicato alla guerra. In quest’opera sembra infatti venir meno quell’intreccio o alternarsi di dovere e responsabilità, manca il dubbio del protagonista che buca il destino e il dovere. Sembra che anche il regista abbia fatto propria una affermazione del padre di Chris che suona più o meno così: il mondo si divide in pecore, lupi e cani pastore e nella nostra famiglia non ci sono mai state pecore. Manca anche lo spessore umano nelle relazioni famigliari, Kyle è un automa, soldato anche tra le pareti domestiche. Incapace di uscire dal ruolo. Nella biografia di Chris sono narrati l’alcolismo, la violenza e la sua spacconeria che per essere eroe totale gli faceva raccontare balle, ma Eastwood ha deciso di non soffermarsi su questo aspetto umano, facendo del suo protagonista un eroe monodimensionale. Ciò nonostante l’interpretazione di Bradley Cooper è magistrale e si fa notare anche Sienna Miller per il suo ruolo di moglie. Dorothy Parker 18 www.arcipelagomilano.org IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE PIAZZA XXIV MAGGIO: C’È UN PALO PER TUTTI! http://blog.urbanfile.org/2015/03/30/zona-porta-ticinese-palification-la-citta-dei-pali/ L’ORDINE DEGLI AVVOCATI secondo [ Remo ] Remo Danovi L'AVVIO DELLA MIA PRESIDENZA https://youtu.be/dmfUBsifEtk n. 13 VII -1 aprile 2015 19