numero 13 anno VII – 1 aprile 2015

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numero 13 anno VII – 1 aprile 2015
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ARIA DI LOMBARDIA: LUPI DIMESSO, RAFFAELE CANTONE SANTO SUBITO?
Luca Beltrami Gadola
Eccoci nel bel mezzo di nuovi scandali, non facciamo in tempo ad archiviare il caso Lupi che dal cilindro
di prestigiatore degli inquirenti compaiono di nuovo le cooperative rosse con un intreccio d’affari con lo
sdegnato Massimo D’Alema. Raffaele Cantone scoperchia il caso della
Pedemontana: di nuovo calati nella
“terra di mezzo” dell’Italia dei Lavori
Pubblici. Di nuovo spunta la sempre
nutrita schiera dei sepolcri imbiancati e la sfacciata coorte di quelli
che “oggi” dicono: tutti lo sapevano.
E tutti tacevano conniventi, incompetenti e, a esser buoni, solo stupidi. Sia ben chiaro: Maurizio Lupi è
una figura minore, solo emblematica
dei tempi di Comunione e Liberazione, Massimo D’Alema da ieri è
all’inizio del suo calvario mediatico
ma la storia comincia da lontano e
non manda assolto nessuno, destra,
sinistra, centro sinistra, sinistra centro.
Il gigante che emerge tra tutti gli
amministratori disonesti e i boiardi
di stato è al momento Ercole Incalza, il disonesto servitore dello Stato,
il prototipo del burocrate alto dirigente, l’uomo per tutte le stagioni.
Ha cominciato nel 1988 con Claudio
Signorile, l’uomo della “sinistra ferroviaria”, quest’ultimo nato all’ombra
di Riccardo Lombardi che si volta
ancor oggi nella tomba pensando a
lui e ad altri suoi giovani allievi: Fabrizio Cicchitto, per esempio, ex piduista e passato dalla sinistra socialista a Forza Italia e, come vediamo,
lo stesso Claudio Signorile che ricompare nelle intercettazioni della
magistratura fiorentina. Ma di chi è
stato “fedele servitore” in tanti anni
al ministero il nostro buon Incalza?
Dal 1992, mentre il nostro occupava
la sua poltrona di dirigente, abbiamo
avuto 12 ministri (1) dei Lavori Pubblici (ora chiamati ministri delle infrastrutture) e più del doppio di sottosegretari. A quale delle tre categorie - conniventi, incompetenti o stu-
pidi – li assegnereste questi ministri?
Possibile che, salvo Di Pietro il quale cercò di sbarazzarsi di Incalza - e
la sua provenienza dalla magistratura forse ha contato - tutti gli altri non
si siano accorti di nulla? Questa è la
“terra di mezzo” dell’Italia dei lavori
pubblici e delle infrastrutture. Quanti
di loro siedono ancora in Parlamento o sono stati incistati in aziende
controllate o amiche? Quanti come
il ministro Lupi “escono a testa alta”
e magari pensano a candidarsi sindaco?
Teniamo conto, tra le altre cose,
che il Ministero delle infrastrutture,
già dei Lavori pubblici, gestisce
l’ANAS, società per azioni di proprietà statale, con un unico socio, il
Ministero dell'Economia e delle Finanze, ma di fatto gestita sotto la
vigilanza tecnica e operativa proprio
del Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti, ossia la rete stradale
e autostradale italiana. Capite ora
qual è l’intreccio perverso che tra
l’altro ha permesso tutti i pateracchi
di vendite e rinnovi di concessioni
autostradali ai privati per i quali ANAS addirittura stabiliva il prezzo
dei pedaggi? E tutto questo in mano
a Ercole Incalza. Ora a chi dopo di
lui? Forse all’insostituibile Raffaele
Cantone che arrivato dal sud a respirare la salubre aria di Lombardia
tra Expo, Pedemontana, Brebemi e
chissà quanto altro ancora, ormai
ha assunto il ruolo di salvatore della
Patria corrotta.
Che si invochi sempre lui e solo lui
è un pessimo segnale per il Paese:
cercare un “onesto” tra funzionari
pubblici, tecnici, politici sembra
un’impresa disperata come cercare
l’ago nel pagliaio. Ma quello che desta ancora maggior stupore è che,
malgrado grida manzoniane, nessuno si sia messo a rivedere la legislazione sugli appalti e sulle forniture allo Stato, la vera terra di cultura
della corruzione come da tempo va-
do dicendo. Anzi. Non ci crederete
ma il Ministero dell’ambiente e della
tutela del territorio e del mare tanto
per non sbagliare emana un decreto
il 5 febbraio 2015 dal titolo Criteri
ambientali minimi per l’acquisto di
articoli per l’arredo urbano nel quale
all'articolo 34 dice “…. La forma di
aggiudicazione preferibile è quella
dell’offerta economicamente più
vantaggiosa prevista dal Codice dei
contratti pubblici”. Non vi annoierò
descrivendo ancora una volta di che
si tratta, dirò soltanto che lo stesso
Raffaele Cantone recentemente indicò in quel sistema di aggiudicazione la condizione propiziatoria ai
fenomeni di corruzione. Dobbiamo
aggiungere altro? Quanto dobbiamo
aspettare perché gli stessi ministri e
i loro uffici legislativi si adeguino e
smettano di essere supinamente
conniventi con corruttori e corrotti?
Qualcuno ci sta prendendo per i
fondelli? O sbaglio?
(1) Ecco qua l’elenco: Francesco Merloni, l’artefice della prima legge sugli appalti madre di tutte le corruzioni (DC XI
legislatura Governi Ciampi e Amato),
Roberto Maria Radice (Centro desta XII
legislatura Dini Berlusconi) e Paolo Baratta (area socialista medesima legislatura), Antonio Di Pietro, Paolo Costa (Margherita), Enrico Micheli (Partito Popolare
Italiano), Willer Bordon (allora Italia dei
Valori, Democratici e in fine Margherita)
Antonio Bergone (PC-PDS citato
nell’inchiesta Fiorentina), Nerio Nesi
(PSI) questi quattro tutti nella XII legislatura che vide quattro governi. Veniamo
alla XIV legislatura, qui troviamo sempre
con Berlusconi 2 governi e due ministri:
Maurizio Lupi e Pietro Lunardi, questo
’ultimo più volte inquisito. Nella XV legislatura, e siamo ormai nel 2006 abbiamo
una breve ricomparsa di Di Pietro al ministero delle infrastrutture presto sostituito da Paolo Costa (Ulivo poi Partito Democratico Europeo) coinvolto nel-l’affare
MOSE. Durante la XVI legislatura (Monti
Berlusconi IV) ecco in nostro Lupi, imperituro ministro, che sbarca anche nella
XVII legislatura pronubi Letta e Renzi.
BUROCRAZIA: UN POTERE CHE OPPRIME E FRENA IL PROGRESSO
Elena Grandi
Fin dal tempo dei Romani il potere
degli uffici decentrati, antitetico a
quello centrale, non è mai posto secondo le attese del potere politico. È
sfuggito di mano il controllo del fine
per il quale era stato creato, proprio
perché le persone che lo incarnavano non potevano culturalmente seguire l’essenza delle direttive, legin.13 VII 1 aprile 2015
slative o dittatoriali che fossero.
Persino Tacito negli Annales riferisce, con la forza delle parole dello
storico, “… esercitavano poteri regali con animo di schiavi.”
Ad ogni modo, già durante l’Impero
bizantino (da esso il termine bizantinismo) il nome burocrazia aveva
assunto una connotazione negativa:
la burocrazia e il suo articolato apparato, invece che porsi come strumento di intermediazione tra il potere e la società, anziché porsi come
strumento positivo di realizzazione
delle idee e di regolazione dei rapporti nel vivere civile, si era trasformata in una sorta di creatura tentacolare che sfuggiva al controllo del
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governante e che abusava di un potere spesso senza limiti.
Da allora, la burocrazia ha incrementato il suo potere di pari passo
con la proliferazione delle leggi, sia
amministrative che politiche, in
quanto conduttore delle regole
sempre più numerose che alle leggi
si accompagnano per avere effetti
su una collettività che si è fatta
sempre più complessa e articolata.
Oggi, oltre a essere percepita negativamente dal cittadino, la burocrazia è vista come un potenziale nemico, invece che come un necessario strumento di governo: perché,
attualizzando la chiosa di Tacito, è
incarnata e composta da persone
che nel tempo hanno sfruttato il potere delle carte per acquisire personalmente dei vantaggi in termini di
potere (o addirittura, nei casi patologici, di arricchimento); il risultato
più preoccupante ed evidente è che
i funzionari pubblici, spesso, invece
che costituire una garanzia di rapporti corretti tramite il controllo del
rispetto delle regole, tra la politica
che cerca di realizzare le idee e chi
è delegato a realizzarle, hanno costituito un altro centro di potere, essenzialmente statico nel tempo e in
contrapposizione al variare delle
idee, che frena il processo di rinnovamento, oltre a rallentare tutte le
azioni che le leggi pongono per il
corretto funzionamento della società.
Esaurita questa scoraggiante premessa generale, ed evitando di parlare nello specifico dei fatti noti che
periodicamente assurgono agli onori
della cronaca e che ci rivelano quali
e quanti legami vi siano tra politica,
apparati burocratici e mondo degli
affari, viene spontaneo chiedersi
come un buon governo possa esprimere le sue potenzialità e il suo
intento di rinnovamento se il suo
operare rimane imbrigliato dai laccioli della burocrazia, e se ostacoli e
freni di ogni genere contribuiscono a
rallentare, se non a neutralizzare,
gran parte delle scelte che dovrebbero essere assunte da chi è stato
eletto per governare. Questo vale
per il governo nazionale tanto quanto per i governi locali.
A Milano stiamo vivendo una fase
delicata e complessa: a poco più di
un anno dalla fine del mandato, il
sindaco Pisapia ha annunciato che
non sarà più lui il prossimo candidato sindaco della città. La sua deve
essere stata una scelta difficile e
sofferta (e comprensibile), perché
ha dovuto tenere conto non solo di
Expo ormai alle porte, ma della città
metropolitana in divenire, di quello
che è stato iniziato e che deve essere assolutamente completato, di
ciò che si dovrà affrontare nel dopo
Expo.
C’è chi dice che tale annuncio avrebbe dovuto essere dato all’indomani dell’inaugurazione di Expo o
addirittura più avanti ancora; ma in
realtà io credo che poco sarebbe
cambiato: comunque sia, dovremo
fare i conti con una nuova candidatura e augurarci che questa sia in
grado di unire ed entusiasmare,
come è stato per quella di Giuliano
Pisapia, tutte le forze del centrosinistra e della sinistra milanese.
La realtà però è che, se già in condizioni normali la fase finale del
quinquennio di un governo cittadino
vede il potere politico indebolito da
un apparato burocratico inamovibile
e perciò sempre più arrogante, proprio perché sicuro di rimanere al
suo posto anche quando chi governa se ne sarà andato, il fatto che un
sindaco in carica annunci che non si
ricandiderà rende lui e la sua giunta
molto più deboli.
A prescindere dal dibattito politico
che si scatenerà all’interno del centrosinistra e della sinistra sulla prossima candidatura a Sindaco di Milano, il tema cruciale, con cui dovremo fare i conti da oggi a maggio del
2016, è quello del peso che la macchina amministrativa, gli uffici, i funzionari e i dirigenti dei vari settori
dell’Amministrazione Pubblica potranno esercitare sulle scelte politiche che ancora dovranno, e devono, essere fatte.
Ho già scritto su queste pagine della
fatica del governare dovendo quotidianamente scontrarsi con gli uffici
e con alcuni (non tutti, per fortuna)
funzionari particolarmente riottosi a
introdurre qualsiasi cambiamento
che comporti l’interruzione di un ritmo e di un modo di lavorare assodati. E ho anche scritto, consapevole di esporre un punto di vista personale, che una soluzione, a fronte
di una legislazione complessa e a
volte farraginosa, potesse essere
quella, non tanto di un vero e proprio spoils system, ma di una modifica del regolamento comunale che
consentisse la rotazione dei direttori
di settore e di una parte dei funzionari. Anche a costo di affrontare estenuanti lotte sindacali da un lato e
di perdere qualche competenza (peraltro
facilmente
recuperabile)
dall’altro.
Ora è troppo tardi per intervenire in
questo modo, ma almeno dobbiamo
provare a non soccombere alla prepotenza di certi funzionari che specie in alcuni settori (penso alle strade, ai lavori pubblici, alle piste ciclabili, al demanio) sono, alla fine, i veri
detentori delle decisioni finali.
Il non avere avuto il coraggio di rivoluzionare la nostra macchina burocratica, o meglio, di avere lasciato la
questione nelle mani, sovente impotenti, di quelli più sensibili al tema
tra i nostri assessori, è stata forse la
più grave mancanza di un sindaco
che per il resto ha operato bene,
senza risparmiarsi mai e con rettitudine e trasparenza.
Nel tempo di poco più di un anno
che manca alle prossime elezioni
questa dovrebbe essere la nostra
missione: di non permettere più in
alcun modo ai funzionari di inficiare
le scelte della politica. Non sarà né
facile né scontato, ma vale la pena
di provarci.
OPERAZIONE EXPOST: AREE A PERDERE?
Ugo Targetti
Il dopo Expo era stato pensato come un’operazione immobiliare che
avrebbe dovuto garantire ai proprietari delle aree, privati e pubblici, una
plusvalenza di centinaia di milioni. Il
fallimento della gara pubblica per la
prevendita delle aree edificabili (in
attesa che si concludesse l’esposizione) chiusa nel dicembre del
2014, ha sancito la fine della prospettiva immobiliare per gli enti
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pubblici. Non per i privati che avendo venduto al “pubblico” le aree di
loro proprietà, dopo la variante urbanistica, hanno già realizzato una
plusvalenza di decine di milioni. Anche la fondazione Fiera Milano ha
lucrato una cospicua rendita avendo
venduto ad Arexpo parte delle sue
aree, comprate per 15 milioni, a 66
milioni (dati desunti da fonti giornalistiche). Ma la Fiera presenta una
natura alterna tra pubblica e privata,
secondo le situazioni. Tali plusvalenze gravano ora sugli altri enti
pubblici che si sono indebitati per
comprare le aree edificabili.
La situazione finanziaria che emerge dai dati riportati dalla stampa è la
seguente. Arexpo è indebitata con
le banche per 160 milioni. Quasi
120 sono serviti per pagare le aree;
49,6 alla famiglia Cabassi e 66 alla
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Fondazione Fiera Milano. Arexpo
poi ha l’impegno di pagare a Expo
2015 Spa 75 milioni per l’attrezzatura dell’area (con i quali si supererebbe la disponibilità ottenuta con
il prestito di 160 milioni).
Le questioni di fondo che vanno a
tutt’oggi poste sono le seguenti.
Che ruolo territoriale assegnare al
polo di Expo e che funzioni insediare. Quali sono le strategie e le condizioni di fattibilità economica: vendere le aree o governare il nuovo
polo metropolitano come bene pubblico e fattore di sviluppo. A chi affidare la regia politica dell’operazione. A chi affidare la conduzione
imprenditoriale dell’operazione. Si è
riaperto dunque il dibattito sul che
fare dopo Expo. L’associazione “Vivi
e progetta un’altra Milano” ha organizzato un convegno sul tema: “EXPOST aree dopo Expo 2015, quale destinazione?” (Palazzo Marino,
Sala Alessi, 17 marzo 2015). Al
convegno non erano presenti gli attori ovvero i rappresentanti di Arexpo, del Comune di Milano, della
Regione, del Comune di Rho, e della Provincia - Città metropolitana di
Milano (?).
Le note che seguono sono dunque
un tentativo di fare il punto e delineare strategie alternative prendendo
spunto dal convegno. Riprenderò
alcune considerazioni già sviluppate
nel n. 40 di ArcipelagoMilano del 19
novembre 2014, aggiornando la situazione di Arexpo come risulta dalle notizie di stampa.
Che sta facendo Arexpo - Arexpo
mantiene l’obbiettivo di alienare le
aree, pagare i debiti alle banche e
garantire una se pur ridotta plusvalenza ai soci pubblici, senza modificare l’Accordo di programma che
lega i diversi soggetti e chiudere così la propria missione. A tale fine sta
predisponendo un bando per individuare l’ ”advisor” che dovrebbe a
sua volta predisporre un nuovo masterplan per bandire una nuova gara
prima dell’estate. Nel frattempo sta
raccogliendo le manifestazioni di
interesse. Quelle note già presentate sono di insediare nel sito: la Città
della scienza; gli Uffici dell’Agenzia
del territorio, le strutture della Statale di Città studi su proposta del Rettore. Un Parco tecnologico - Nexpo
- su proposta di Assolombarda. A
questo nucleo forte si sono aggiunte
le proposte della Lega Coop e di
Confcooperative di un Centro di ricerca sull’alimentazione e le proposte dalle associazioni degli artigiani
e della Coldiretti per strutture di sostegno alle piccole imprese.
Il prezzo di cessione delle aree sarà
stabilito dal bando ma se l’obbiettivo
finanziario resta lo stesso (restitu-
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zione immediata del debito e valorizzazione immobiliare delle aree)
l’ordine di grandezza dovrà essere
lo stesso del primo bando, cioè circa 300 milioni di euro. Ma chi tra i
manifestanti di interesse suddetti
può e intenderà pagare quelle aree
come aree edificabili a valori di
mercato pre-crisi? Il rischio è un
nuovo
fallimento
del
bando.
L’alternativa è una strategia a guida
pubblica.
Che ruolo assegnare al polo Expo
e che funzioni insediare - Le idee
del convegno. Su questi temi i relatori, dopo la critica alla scelta del
sito e all’impostazione immobiliare
di Expo, hanno sviluppato diverse
considerazioni sulle funzioni da insediare. Alcuni interventi hanno delineato temi strategici. Mantenere e
sviluppare il tema di Expo, “Nutrire il
pianeta, energie per la vita” (Basilio
Rizzo). Creare un polo per la ricerca
e lo sviluppo di imprese innovative.
Costruire relazioni tra il polo Expo e
il territorio metropolitano tali da contrastare il processo di periferizzazione (Vittorio Gregotti). Altri interventi hanno o commentato le proposte in campo o fatto nuove proposte precise. Stefano Boeri ha
proposto tra l’altro, di trasferire
l’Ortomercato e dare una prospettiva di rinnovo urbanistico all’area liberata.
È stata poi rilevata l’urgenza di decidere un uso transitorio dell’area
per non ritrovarsi, al termine
dell’esposizione, un’enorme area ad
altissima accessibilità ma abbandonata per molti mesi o anni (Luca
Beltrami Gadola). A tale proposito si
deve ricordare la proposta del presidente della Triennale Claudio De
Albertis di usare i padiglioni Expo
per una mostra straordinaria di architettura. È stato quindi proposto di
conservare i padiglioni adatti al riuso anziché abbatterli (a spese delle
Nazioni assegnatarie) chiedendo al
BIE di modificare la clausola del
contratto che ne impone assurdamente la demolizione.
Un’alternativa strategica e condizioni di fattibilità economica - Venuta meno la prospettiva immobiliare con il fallimento del primo bando
la parte pubblica, intesa come insieme degli enti pubblici responsabili dell’operazione, compresa la Fondazione Fiera Milano che è società
di capitali pubblici, potrebbe decidere di giocare diversamente il patrimonio di aree e opere messe in
campo; dovrebbe rinunciare al rientro a breve dei capitali investiti e alla
valorizzazione immobiliare delle
proprie aree e considerare l’operazione non come prestazione di servizi a carico del bilancio pubblico,
ma come investimento a lungo termine per lo sviluppo e la crescita
economica del Paese. Università,
ricerca, imprese “innovative”, possibilmente nel campo dell’alimentazione e dell’energia, costituiscono
fattori di sviluppo. Arexpo dovrebbe
diventare ente di gestione dell’operazione che potremmo definire Polo
per l’innovazione e lo sviluppo. Perché l’operazione sia fattibile è necessario l’intervento dello Stato attraverso il sostegno all’innovazione
(Piano Operativo Nazionale), l’istituzione di speciali condizioni fiscali
(free tax area ?), l’investimento diretto in termini di opere per l’attrezzatura dell’area.
Expo 2015 Spa, società di capitale
pubblico finanziata dallo Stato potrebbe infatti rinunciare al pagamento dei costi di costruzione delle attrezzature dell’area (piastra centrale, canale, Palazzo Italia ecc.) e il
ministero competente potrebbe entrare nel capitale di Arexpo. Sarebbe inoltre necessario attivare da subito i rapporti con l’Unione Europea
per costruire un progetto che trovi
riscontro nei criteri fissati dalla Comunità per l’uso dei fondi comunitari
2014 – 2020 per l’innovazione, dedicati alle città – metropolitane. Da
queste scelte e azioni derivano le
condizioni di fattibilità economica
della conversione dell’area.
Resta il problema del debito e del
suo finanziamento: con la “restituzione” dei capitali da parte della
Fondazione Fiera, la rinuncia di Expo 2015 ai costi di urbanizzazione,
il debito si ridurrebbe molto. Lascio
le soluzioni finanziarie agli esperti
ma si possono prospettare alcune
ipotesi. Le banche potrebbero tramutare il finanziamento a breve
concesso per l’acquisto delle aree
(la restituzione del prestito era prevista con la vendita dell’area) in un
prestito a lungo termine (mutui fondiari trentennali, obbligazioni, ecc)
operazione che non dovrebbe presentare difficoltà nella raccolta del
denaro (QE della BCE) e che dovrebbe essere comunque garantita
dallo Stato.
Naturalmente va programmato il ripiano del debito se pure a lungo
termine. Alcuni servizi di complemento alle funzioni primarie come
residenze speciali, alberghi, impianti
per lo sport, la cultura e il tempo libero, spazi di lavoro in affitto, ecc.
possono produrre un reddito utilizzabile per ripianare il debito, mentre
una parte delle aree – destinate a
residenza connessa alle funzioni
guida, sedi di imprese, uffici - potrebbero anche essere messe in
vendita sul mercato immobiliare per
ridurre il debito.
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A chi affidare la regia politica
dell’operazione - Le strategie di
riuso dell’area Expo, le funzioni da
collocare, il riuso delle aree urbane
liberate sono temi propri di un piano
strategico metropolitano, ma poco o
nulla è stato detto sulla direzione
politica dell’operazione di riconversione dell’area, dando forse per
scontato che Regione e comune di
Milano siano gli unici possibili protagonisti. Nessuno ha accennato al
fatto che a dicembre 2014 è stata
istituita la Città-Metropolitana e che
sarebbe logico che la nuova istituzione assumesse la direzione politica dell’operazione. Il ruolo territoriale di centralità metropolitana prospettato, richiederebbe appunto che
quell’istituzione ne dirigesse l’attuazione. È pur vero che Pisapia ha
denunciato come la neonata CittàMetropolitana sia in tali difficoltà economiche da metterne in forse la
reale sopravvivenza, ma se non si
coglie questa occasione per dare
forza alla nuova istituzione vuol dire
che la si considera già fallita: un
cambio di carta intestata della moribonda provincia.
Certo affidare EXPOST alla CittàMetropolitana è una scommessa
perché la gestione della riconversione dell’area richiede una forte
direzione politica che vuol dire sancire la nuova strategia, scegliere le
funzioni da insediare, attivare i rapporti con lo Stato, l’Unione Europea
e la Regione, pronunciarsi sul destino delle aree liberate dalle funzioni
trasferite. Vuol dire ancora coinvolgere i comuni nel contesto del Piano
strategico metropolitano a partire
dal comune di Rho che è interessato territorialmente, ha una partecipazione in Arexpo ed esprime, nella
figura del sindaco, l’assessore al
bilancio della Città-Metropolitana.
Vuol dire riprendere in mano la gestione urbanistica, dall’Accordo di
programma, al Masterplan, alla formazione del Piano attuativo intercomunale o metropolitano (?). Tempi lunghi che chiedono di iniziare
subito a occuparsene e di trovare
usi provvisori per i padiglioni.
A chi affidare la conduzione imprenditoriale - Per raggiungere le
finalità pubbliche e nello stesso
tempo garantire il rientro del debito
è necessaria una gestione manageriale dell’operazione EXPOST, ovvero è necessario istituire un ente di
gestione del patrimonio immobiliare
e delle operazioni economiche,
consolidato e dedicato, capace di
mettere insieme la strategia pubblica, il piano di gestione economica,
gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica e di gestire contratti, appalti e progetti edilizi. I responsabili politici devono valutare
se la società Arexpo, proprietaria
delle aree e concepita per una funzione di breve termine che si sarebbe conclusa con la vendita dell’area,
sia adatta o debba esserne mutata
la missione e la natura e dunque lo
Statuto e se gli attuali organi direttivi
non debbano essere rinforzati con
competenze specifiche d’alto profilo,
individuate magari attraverso una
selezione di evidenza pubblica.
C’è molto da fare e sei mesi sono
un tempo breve.
CONSIGLIERI COMUNALI COME I MACCHINISTI DEL TITANIC
Walter Marossi
In premessa vorrei informare gli affezionati lettori di ArcipelagoMilano:
1) che Pisapia Giuliano non è deceduto ne è stato rapito dagli alieni ma
fa ancora il sindaco; 2) che le elezioni saranno tra un anno e che
quindi è abbastanza prematuro lanciarsi in commiati, orazioni, commemorazioni e proiezioni. Ciononostante il milieu politico/giornalistico è
tutto in fibrillazione a partire dal
consiglio comunale. A proposito,
cos'è oggi il consiglio comunale? Un
tempo il luogo principale della politica cittadina, l'indispensabile palestra dei politici, il primo gradino di
ogni carriera politica, l'onorifico suggello del prestigio per i protagonisti
della vita economico, sociale, culturale della città; un leader doveva
essere passato da Palazzo Marino
battendo record di preferenze, viceversa era un parvenu.
Sui suoi scranni si sono seduti presidenti del consiglio, ministri, scienziati, artisti e premi Nobel. Basta
scorrere a casaccio l'elenco dei
consiglieri (per non parlare degli aspiranti tali ovvero i trombati) del
passato per rendersi conto, nel bene e nel male, del prestigio che a
esso veniva riconosciuto: Elio Vittorini, Cesare Musatti, Ludovico D'Aragona, Ugo Guido Mondolfo, Eugenio Scalfari, Giuseppe Lazzati,
Giovanni Marcora, Giovanni Spado-
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lini, Giovanni Pesce, Piero Bottoni,
Ezio Vigorelli, Bettino Craxi, Giovanni Malagodi, Silvio Leonardi,
Armando Cossutta, Piero Parini, Nicola Abbagnano, Raffaele De Grada, Luca Beltrami, Virgilio Brocchi,
Eugenio Chiesa, Luigi Conconi, Malachia De Cristoforis, Giuseppe Forlanini, Bruno Fortichiari, Enrico
Gonzales, Francesco Ingegnoli,
Stefan Jacini, Luigi Majno, Ernesto
Teodoro Moneta, Mario Capanna,
Benito Mussolini, Paolo Pini, Cesare
Sarfatti, Claudio Treves, Filippo Turati, Carlo Valvassori Peroni, Rossana Rossanda, Luigi Granelli, Rinaldo Rigola, Alessandro Vaia, Lalla
Romano, Mario Alberto Rollier, Walter Alini, Sergio Turone, Antonio
Baslini, Roberto Tremelloni, Giorgio
Morpurgo, Andrea Borruso, Umberto Dragone, Libero Mazza, Antonio
Banfi. Ovviamente hanno calcato il
palcoscenico anche un congruo
numero di guitti.
Scelte fondamentali per la storia del
paese e della città sono state prese
in quelle aule: è li che nasce la “repubblica ambrosiana” (cito Crispi
non Salvini) e lì che si sviluppa il
riformismo amministrativo socialista
che sarà da esempio a mezza Italia,
è li che con D'Annunzio e le squadracce fasciste viene abbattuta la
democrazia municipale, è li che viene fatta la prima giunta di centro si-
nistra che cambierà la storia del secondo dopoguerra e ancora a Palazzo Marino giusto 40 anni fa si
diede vita alla giunta di sinistra che
porrà fine al centro sinistra strategico.
Ma questo è il passato, oggi la realtà è ben diversa. Tutto è cambiato
con l'elezione diretta del sindaco.
Da assemblea di direzione strategica, di elaborazione e di indirizzo politico, che faceva tremare sindaci e
potenti, il consiglio è diventato un
luogo di ratifica senza particolari poteri e per la verità senza figure di
particolare prestigio.
Per la giunta il consiglio è un freno
alle decisioni, azionato strumentalmente dalle opposizioni ma anche
dalla propria maggioranza; anzi nel
caso di Pisapia sembrano più difficili
i rapporti tra consiglieri e assessori
dello stesso schieramento che quelli
con gli oppositori. I capigruppo sono
visti dagli assessori come dei concorrenti insidiosi e invidiosi, dal sindaco come dei postulanti, dalle segreterie dei partiti come dei turbatori
dell'ordine costituito.
I consiglieri devono limitarsi a essere interfaccia con gli aderenti al proprio partito o meglio iscritti agli albi
delle primarie, a coltivare le preferenze, a blandire l'opinione pubblica
localmente attiva (associazioni, comitati, gruppi), per ricevere nella più
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parte casi segnalazioni, proteste,
denunce e qualche contumelia. Sono come gli addetti alla sala macchine dei vecchi transatlantici, come
quelli del Titanic: durante le feste
sono sporchi di grasso e al buio,
durante il naufragio sono vittime sicure. La loro possibilità di condizionare la giunta è quasi zero e se per
circostanze spesso casuali ci riescono, si alzano alti lai contro l'ingerenza dei politicanti/partiti “che intralcia il funzionamento del governo
cittadino”; esemplare la discussione
sul bilancio.
In pratica si limitano all'enterteinment o come diceva Nenni “un
O.d.g. in consiglio comunale sulla
pace non si nega mai a nessuno”.
Peccato perché con la crisi irreversibile di circoli, sezioni e club sono
gli ultimi politici in ascolto permanente, gli ultimi che battono il marciapiede alla ricerca della mitica
“gente”, i meno dipendenti da Face-
book perché sanno che li preferenze non se ne pigliano.
Il loro stipendio difficilmente supera i
1500 euro, i benefit si limitano al
parcheggio libero e a qualche biglietto per San Siro (che stante il
livello del Milan dovrebbero pagarti
per andarci). Candidarsi oltretutto
costa. A Milano, sulla base delle dichiarazioni ufficiali, dai 5.000 ai
30.000 euro (vale a dire qualche
euro a preferenza) non molto rispetto a Roma dove ci sono consiglieri che hanno dichiarato spese
anche 10 volte superiori, ma comunque “palanche”. Quindi a rigor
di logica dovremmo avere una crisi
di vocazioni e difficoltà a riempire le
liste. Invece...
Alle ultime comunali milanesi si sono presentate 29 liste con circa
1300 candidati (per 48 eletti), cioè
uno ogni 500 votanti. 120 liste di
candidati nelle zone per un totale di
circa 2400 candidati a consiglieri
comunali di serie c. In zona 3 ad
esempio un candidato ogni 230 votanti.
Le preferenze necessarie per essere eletti variano in relazione al partito, minimo 1500 per Forza Italia,
poco più di 500 per tutti gli altri. La
maggioranza assoluta dei candidati
al consiglio comunale non supera le
20 preferenze. Taluni consiglieri di
zona ottengono più voti di preferenza di quelli necessari per entrare in
consiglio ma molti non ottengono
neppure il voto dei propri cari.
L'anno prossimo, stante il clima annusato sabato al meeting regionale
del PD e a quella di Forza Italia il
numero dei candidati, è destinato ad
aumentare. Perché? La spiegazione
è semplice: in un sistema dove tra
primarie, elezione diretta, scarsa
democrazia interna i partiti sono diventati comitati elettorali candidarsi
è l'unico modo per fare politica o
almeno per poter dire “io c'ero”.
IL MUDEC, CHIPPERFIELD E "I DETTAGLI"
Alberto Caruso
Del Corno è un assessore che lavora molto e in silenzio. Le sue poche
dichiarazioni sono sempre sintetiche e molto concrete, ma sulla polemica MUDEC / Chipperfield ha
sbagliato - non avendo competenza
sulla esecuzione dei lavori - a riportare pubblicamente, e senza verifiche, quanto gli avranno riferito
dall'assessorato ai Lavori Pubblici.
Il tema ha un rilievo - non solo per
coloro che per mestiere si occupano di progettazione e di costruzione, ma anche per la generalità degli
utenti delle opere pubbliche - e merita una riflessione.
Il progetto di Chipperfield è eccellente. Soprattutto i suoi spazi di accoglienza al piano terra, la scala e
la grande piazza luminosa al primo
piano sono di una qualità davvero
rara tra gli spazi culturali milanesi.
Finché lo sguardo non si posa sul
pavimento di lastre lapidee, molto
diverse tra loro, molto macchiate,
alcune rotte e poi sigillate. Addirittura, al primo piano, il loro allineamento non corrisponde a quello delle lastre verticali del rivestimento
del parapetto della scala, perché il
marmista ha sbagliato le misure: ha
tagliato le lastre verticali tutte uguali, senza tenere conto del giunto di
dilatazione del pavimento.
Del Corno ha definito - facendo suo
quanto gli hanno riferito - i difetti
“dettagli”, rimandando al giudizio di
un soggetto terzo, che ovviamente
si concluderà, se il soggetto terzo
vorrà individuare i difetti come tali,
n. 13 VII -1 aprile 2015
con una detrazione all’impresa e
null’altro. Difendendo la decisione
di aprire comunque il museo, è stato anche detto che i collaboratori
dello studio Chipperfield avevano
svolto un sopralluogo nella cava e
avevano approvato un campione di
lastra. E le responsabilità del direttore dei lavori, che era di nomina
comunale? Il direttore dei lavori avrebbe dovuto – perché questa è la
sua mansione – verificare che le
lastre fornite corrispondessero al
campione approvato, che fossero
prive di difetti, che il casellario fosse
corretto, che la posa fosse eseguita
a regola d’arte. Non lo ha fatto. E
Chipperfield è anche stato generoso, contestando soltanto il pavimento, perché, per esempio, i pannelli
lignei tipo MDF che rivestono tutte
le pareti al piano terra risultano in
parte disallineati e spesso non
complanari.
Non si tratta di dettagli, ma della
qualità di un’opera che è costata
molti milioni di euro e che i tecnici
del Comune avrebbero dovuto seguire, dirigendo i lavori delle imprese appaltatrici, nel modo più intransigente, utilizzando appieno i poteri
che la normativa attribuisce loro.
Degli spazi culturali inaugurati negli
ultimi anni – il Museo del ‘900, le
Gallerie d’Italia, il MUDEC – il primo
ha sfigurato i pregevoli ambienti del
‘900 preesistenti, mentre l’ultimo, il
cui progetto era il più importante e
innovativo, con la sinuosa piazza
opalina illuminata dall’alto, che so-
spende l’attenzione del visitatore
preparandolo alla concentrazione
necessaria alla visita, è stato realizzato male.
Perché, dei tre citati, l’unico spazio
privato è quello più apprezzabile,
pur essendo un museo di concezione e distribuzione così tradizionale? Perché non ci impegniamo a
mettere in crisi il luogo comune,
ormai consolidatissimo, che solo il
privato può perseguire pienamente
la qualità?
David Chipperfield viene definito
giornalisticamente come un’archistar. A parte che il termine archistar sa di disprezzo, un po’ di destra populista, per la cultura - anche
se molti degli architetti così definiti
lo meritano, per la professata concezione del mestiere molto lontana
dalla sua dimensione civile – Chipperfield invece è un architetto rigoroso, scevro da atteggiamenti spettacolari, attento all’urbanità (si veda
il recente progetto berlinese di Joachimstrasse). E temo che diventerà
l’ennesimo architetto straniero che
rifiuta di lavorare in Italia.
Il tema della qualità esecutiva è, per
gli architetti italiani, un grande tema
dell’attualità. Stretti tra le imprese
che, in gran parte, cercano di risparmiare su tutto (per recuperare
lo sconto eccessivo) e tentano di
mettere il direttore dei lavori davanti
al fatto compiuto, e il committente –
per lo più insensibile per ignoranza
alle ragioni della compiutezza e coerenza esecutiva dell’opera – che
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alla fine concorda con l’impresa per
risparmiare grane e tempo, gli architetti vivono un mestiere molto
pesante, spesso scoraggiante.
E poi al MUDEC c’è la questione
dell’allestimento delle due mostre
inaugurate, sulla cui qualità non si
può tacere. Mondi a Milano è una
mostra colta, riferita in modo intelligente all’evento di Expo, ma
l’allestimento è dilettantesco, graficamente sovraccarico. Africa mette
in mostra sculture lignee preziosissime, ma i commenti che guidano il
visitatore, privi di un inquadramento
storico-critico sui diversi popoli del
continente nero, rivelano un atteggiamento un po’ colonialista – di
curiosità per la cultura dei selvaggi
– e il suo allestimento, che vorrebbe essere scenografico, risulta invece improvvisato e artigianale.
Gli spazi del museo, pensati da
Chipperfield come una sequenza di
rettangoli illuminati dall’alto, non
sono stati utilizzati per le loro dimensioni e qualità, a cominciare
dall’interessante spazio intermedio
(tra la sinuosa piazza centrale e le
sale) desolatamente vuoto. Se è
vero che l’architettura dei musei
deve offrire spazi disponibili a ogni
azione espositiva, è anche vero che
chi ordina e allestisce lo deve fare
non prescindendo dal carattere degli spazi a disposizione.
Milano, che ruolo vuole avere nella
cultura europea? Non dico di guardare all’immenso parigino Musée
du quai Branly a Parigi ma almeno
all’esempio del piccolo Museum der
Kulturen di Basilea, capace di mettere in scena immagini, oggetti e
racconti delle culture altre dalla no-
stra, con allestimenti spartani, elementari e diretti, scientifici, didatticamente utili alla conoscenza di
quei mondi. E lavori perfetti, eseguiti con “normale” rigore.
Con qualche mese di più, avremmo
potuto finire i lavori a regola d’arte e
avremmo potuto pensare un po’ di
più agli allestimenti. Tra 15 anni e
15 anni più tre mesi, non fa molta
differenza.
La questione è sempre la stessa,
sono le modalità di affidamento dei
lavori, ed anche la qualità di chi li
dirige. Piazza XXIV Maggio è un
esempio di modalità inadeguate di
affidamento, del progetto oltre che
dei lavori. Il risultato è lì da vedere,
e non nascosto dentro il cortile
dell’Ansaldo, ma in mezzo al teatro
della città. Ma è un altro discorso.
DAL PASSATO DI PISAPIA VERSO UN NUOVO PROGRAMMA DI GIUNTA
Emanuele Patti
Non ho commentato ancora e non
lo farò ora in questo articolo la scelta di Pisapia, anche se personalmente capisco la coerenza delle cose dette e del suo stile, che lo fa identificare da tutti anche dell'opposizione come una persona per bene, a prescindere dal ritenerle soddisfacenti o meno; ma di una cosa
sono al momento convinto ed è che
a sto giro perde chi entra troppo velocemente in campagna elettorale,
soprattutto nel fronte della Sinistra
milanese.
C'è un anno abbondante di governo
e tante cose ancora da fare e "dimostrare" , c'è un Expo difficile da
gestire che sarà comunque decisivo, soprattutto saranno decisive le
scelte sulle eredità dell'evento, dove
sicuramente si potranno correggere
errori grossi fatti secondo me nella
gestione di questa "patata bollente"
sganciata dalla Moratti e da Formigoni su Milano, sempre che la si
voglia ovviamente gestire. Per cui
meno nomi e più fatti direi.
Infinita inizia ad essere la lista dei
papabili, sia nel frastagliato versante della destra che in quello apparentemente più coeso, che sta governando la Città. Ritengo abbastanza pericoloso in questo momento perdersi in questa ridda di ipotesi
e penso invece si debba riflettere
più seriamente sui bisogni attuali
della Città e dei suoi cittadini.
Questa guida di sinistra-centro di
Milano, non ancora terminata come
dicevo più sopra, aveva degli obiettivi alcuni dei quali deve avere ancora cercare di centrare, ma questi
anni di amministrazione ora ci forni-
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scono molti elementi per poter cominciare un primo bilancio sincero e
senza pregiudizi dei risultati ottenuti
e di quelli ancora ottenibili. Questo
esercizio non potrà che essere a
mio avviso, il punto di partenza per
valutare cosa serve fare per il futuro.
Bisognerà partire proprio dagli aspetti più critici o dalle aspettative
non pienamente soddisfatte, soprattutto di un corpo elettorale a cui toccherà riesprimersi alle prossime elezioni amministrative della nostra
Città. Bisognerà ricordarsi delle
condizioni politiche e sociali in cui
iniziò l'avventura di governo di questa Giunta Pisapia, e analizzare la
situazione attuale, profondamente
cambiata, in questi pochi anni. Bisognerà non dimenticare il clima in
cui si disputarono le Primarie, e capire se questo strumento sarà ancora utile come strumento di selezione
del prossimo candidato Sindaco o
Sindaca che sia, in una fase politica
in cui questo strumento non gode
certamente di esempi esaltanti.
Detto questo è innegabile che nella
nostra Città si respira un'altra aria
rispetto alle Amministrazioni precedenti, soprattutto se ci vogliamo ricordare delle pesanti condizioni economiche e finanziarie di partenza
ereditate da una inguardabile Giunta Moratti, aggravate dalla crisi economica di questi anni, dal conseguente difficile rapporto con lo Stato, dalla fine di fatto dei trasferimenti
per la spesa sociale e dalle difficoltà
di bilancio dovute al Patto di Stabilità.
L'aggravamento delle condizioni di
vita generale, la povertà crescente e
il lento impoverimento anche dei
ceti medi, la definitiva precarizzazione di tutti i lavori, ci devono convincere a mio parere che la prossima campagna elettorale si giocherà
sui temi legati al welfare, al sistema
di protezione sociale dei cittadini, di
tutti i cittadini.
Sarà io credo il campo di battaglia
dove si giocheranno le sorti delle
prossime elezioni. Inevitabilmente ci
sarà chi giocherà sulle paure vere o
percepite di insicurezza dei cittadini/elettori e parlerà come sappiamo
bene alla pancia degli elettori e ci
sarà chi proverà io spero a trovare
le soluzioni e le politiche più corrette
e giuste per rispondere a questi bisogni, senza farsi condizionare solo
dai numeri dei sondaggi, magari
cercando di parlare alla testa e al
cuore delle persone.
Platea attenta non saranno solo i
singoli cittadini ma le molte forze
sociali presenti nella città, fatte di
movimenti, gruppi informali di cittadini, Comitati di quartiere, ma soprattutto tante organizzazioni di
Terzo Settore, associazioni e cooperative, centinaia di volontari, attivisti e operatori del Sociale. I radicali cambiamenti di questi anni prefigurano una situazione molto mutevole, un futuro non molto certo, ansie legate alla mancanza di lavoro
che incideranno profondamente nei
convincimenti dei nostri concittadini,
non tenerne conto sarebbe colpevole.
Milano è una città però in grado di
elaborare una sua risposta in primis
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culturale, sociale e politica, progressista e moderna, attenta al suo ruolo di città davvero metropolitana e
internazionale, ma dovrà in ogni sua
componente sociale poter far contribuire tutte e tutti alla creazione di
questa risposta.
Diamoci quindi la possibilità di Primarie, ma vere. Aperte, autonome,
di coalizione e civiche, che prefigurino il futuro quadro e la temperatura di governo, piuttosto che essere
solo una contesa tra correnti, candidati e partiti. Mi piacerebbe ritrovarmi in quel clima di fermento in
cui spopolò l'hashtag #tuttacolpadipisapia. Ci serve quella leggera ironica consapevolezza di avere bisogno ancora di gentilezza assieme a
una solida fermezza di contenuti e
proposte. Se cadiamo nel politicismo addio! Ci perdiamo un popolo,
che sta già faticando a capire.
Non sottovalutiamo quello che si
riuscì a fare proprio con i cittadini.
Certo ci sono molte delusioni ma
capiamole prima di stigmatizzarle, e
per quanto possibile partiamo proprio dagli insuccessi. Una coalizione
sociale in fondo Milano l'aveva
messa in campo. E si erano visti i
risultati. Per quello che conta penso
questo.
CITYLIFE E VIA SENOFONTE: TANTE NUOVE CASE SENZA CITTÀ
Renzo Riboldazzi
Sorprendono, non c’è dubbio, le
nuove case di via Senofonte, quelle
di CityLife. Colpisce il loro biancore
che ti aspetteresti forse in Costa
Azzurra, di certo non a Milano. Colpiscono l’irrequietezza delle forme e
la lucentezza dei materiali, specie
se passi di lì in una di quelle mattine
in cui il vento ha ripulito l’aria e la
luce è più cristallina che mai. Colpisce la loro baldanza, tipica di
quell’età in cui cambiare il mondo
sembra facile o almeno possibile.
Ma soprattutto colpiscono la sfacciataggine di un’opulenza ostentata,
di un linguaggio architettonico sopra
le righe, dell’incredibile senso di
spaesamento che sanno provocare.
L’effetto che fanno è lo stesso che
Berengo Gardin ha saputo cogliere
magistralmente fotografando le navi
da crociera che entrano fin nel cuore di Venezia: enormi e abbaglianti
ammassi ferrosi che sfilano a due
passi da mirabili, misurati e fragili
monumenti, incapaci di qualsiasi
difesa come certi bambini che non
si aspettano la violenza dei più
grandi.
Ecco, avvicinandosi a questo nuovo
complesso
residenziale
sorto
sull’area dell’ex Fiera di Milano –
225 appartamenti per un totale di
oltre 37mila metri quadrati (fonte:
Milano che cambia, Ordine Architetti
PPC di Milano) – provi lo stesso eccitato stupore e al contempo lo
stesso scoramento perché è abbastanza chiaro che, così come probabilmente i veneziani, anche i milanesi «purtroppo ci stanno facendo
l'abitudine [… e forse questi] mostri
hanno preso il sopravvento anche
nell'immaginario» collettivo dei cittadini di questa città (G. Berengo
Gardin, intervista di M. Smargiassi,
La Repubblica, 8 giugno 2013).
D’altra parte Milano ha tutta una
storia di architetture fuori luogo e
fuori scala a cui poi ha fatto il callo e
si è perfino affezionata. Basta provare a immaginare a come certi edifici simbolo della modernità nove-
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centesca – per esempio, l’altrettanto
bianco e mastodontico palazzo Ina
in Corso Sempione o la coeva Torre
Velasca – saranno apparsi al momento della loro realizzazione nel
secondo dopoguerra e basta pensare a come questi stessi edifici oggi
ci appaiano quasi domestici e siano
celebrati per le loro qualità architettoniche.
Dunque, se l’obiettivo era quello di
assumere un atteggiamento provocatorio per suscitare attenzione e
interesse, d’accordo, diciamo pure
che è stato raggiunto. Se era quello
di parlare la lingua di quella cultura
architettonica internazionale veicolata dai mezzi di comunicazione di
massa, va bene, diciamo che è stato raggiunto anche questo. Se invece lo scopo era quello dare corpo a
un’edilizia residenziale radicalmente
diversa da quella prodotta a Milano
nella seconda metà del novecento –
quella che caratterizza gran parte
dei tessuti urbani di questa città che
il più delle volte tessuti non sono –,
forse allora ancora non ci siamo.
Certo tutto è arrotondato, inclinato,
distorto, “stretchato” – come usano
dire i grafici informatici con un brutto
neologismo che sta a significare allungato, stirato –. Lo sono le finestre, i balconi, gli ingressi e volumetrie di queste nuove case in via Senofonte. Si tratta tuttavia di una ricerca che pare stare alla superficie
delle cose.
È chiaro che ci sarà sempre chi, per
mille ragioni qui insondabili e tuttavia legittime - sensibilità, cultura,
gusto -, potrà preferire il rigore funzionalista e chi lo troverà di una noia mortale; chi apprezzerà l’ansiogena ricerca di fluidità e movimento
di queste nuove case e chi le troverà - anch’esse e soprattutto dopo un
po’ di tempo - altrettanto ripetitive e
scontate. Il problema, semmai, sta
nella capacità dell’architettura - di
un’architettura che voglia dirsi davvero innovativa e al tempo stesso
profondamente radicata nella cultu-
ra della città europea – di tornare a
praticare quella che, nel titolo di un
bel libro di qualche anno fa, è stata
giustamente definita una “difficile
arte” che è quella di “fare città”,
specialmente oggi, “nell’era della
metropoli” (G. Consonni, Maggioli
2008). Sta cioè nel modo con cui
queste nuove case dovrebbero saper interpretare l’identità di Milano e
proseguirne il racconto, nella maniera con cui si rapportano tra loro e
soprattutto con ciò che gli sta intorno. Soprattutto sta nella capacità –
tipica di quella tradizione premoderna sciaguratamente trascurata in
particolare nel secondo dopoguerra
- di definire e arricchire di senso e
bellezza lo spazio urbano. Spazio
che - come sosteneva Bruno Zevi
nel suo celeberrimo Saper vedere
l’urbanistica (Einaudi, 1960) - è il
vero “protagonista […] dell’organismo urbano”.
Via Senofonte - che è quella alla
destra del vecchio ingresso principale della Fiera in Piazzale Giulio
Cesare - era probabilmente qualcosa di formalmente irrisolto e sbilanciato così come lo sono in genere
tutte quelle strade a ridosso di qualche grande area recintata e inaccessibile. Se a ciò si aggiunge una
cortina composta da una sequenza
di architetture senza granché di
memorabile dobbiamo riconoscere
che, a parte qualche eccezione,
l’immediato contesto forse non offriva spunti progettuali esaltanti. Detto
questo, le nuove corpulente case
realizzate sull’area di City Life pare
non facciano alcuno sforzo per rapportarsi a questo tipo di paesaggio:
che non vuol dire scimmiottarne le
sembianze ma praticare un disegno
che attribuisca armonia spaziale là
dove questa non c’è.
L’altezza dei nuovi edifici (da cinque
a tredici piani), la loro sintassi architettonica, l’impermeabilità dei piani
terra e perfino la recinzione dura e
ostile non lasciano spazio ad alcun
tipo di dialogo formale e funzionale.
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Il loro isolamento nel verde (rigorosamente privato), il modo di disporsi
rispetto alla strada, la mano unica
nel disegno dei prospetti lungo tutta
la via e la monofunzionalità
dell’intero isolato - ammesso che di
isolato si possa parlare - lasciano
trasparire un sostanziale perpetuarsi di approcci progettuali stantii che
sarebbe davvero il caso di lasciarci
alle spalle. Approcci tutt’altro che
innovativi che vanno nella direzione
opposta a quella di creare strade
urbane e vitali. Se a ciò si aggiunge
che tutte queste case si rivolgono a
ceti sociali quantomeno privilegiati
in un momento in cui il disagio abitativo a Milano non può certo dirsi
assopito, vien da chiedersi a quale
immaginario urbano la nostra società stia guardando, quale tipo di regia pubblica sia stata condotta
nell’interesse del bene comune e se
questo intervento non comunichi un
sottile disprezzo verso la vita che
scorre a due passi da lì, dove c’è la
città.
ALLA SINISTRA DEL PD: IL PIANTO DEGLI ORFANI MILANESI
Vincenzo Robustelli
Con la scelta di non ripresentarsi
alle prossime elezioni amministrative del 2016 Pisapia ha fatto uno dei
pochi gesti politici di tutta la sua
amministrazione. Un gesto intelligente che ha posto i partiti di fronte
alle proprie e dirette responsabilità
che nascondevano dietro le spalle
del sindaco.
SeL e RC sono oramai in fibrillazione e non essendosi costruiti un proprio e autonomo percorso politico in
tutti questi anni ora non possono
che porsi il quesito amletico “Il PD
mi vuole o non mi vuole?”. Il PD a
Milano, che è sempre stato tra i
peggiori in Italia, è evidentemente
spaccato in due e nessuno dei due
è in grado di esprimere un candidato unitario proveniente dalla politica
e con uno spessore adeguato a gestire il dopo Pisapia.
Diciamo che questa mancanza è
oramai la caratteristica di tutta la
classe politica italiana (destra, sinistra, centro) per cui nessuna meraviglia. Sarà pertanto facile che possa uscire dal cappello un esponente
conosciuto della società milanese
(tipo De Bortoli o altro).
Non potrà avvenire, come nel caso
di Pisapia, che un politico sconosciuto ai più possa intraprendere il
lungo viaggio verso una nomina
perché ciò presupporrebbe che avvenisse ciò che è avvenuto con Pisapia e cioè la mobilitazione crescente di centinaia di persone che
proprio grazie al proprio impegno ed
entusiasmo, alla stesura comune di
un programma, hanno contribuito a
farlo conoscere, a ribaltare un risultato acquisito (Boeri per le primarie
e Moratti come sindaco) e infine a
farlo vincere.
Purché le due anime del PD non
vogliano fare la conta e tentare di
far prevalere un proprio candidato
(tipo Fiano da una parte o tipo Majorino dall’altra) o individuare un candidato né carne né pesce come
Ambrosoli o Dalla Chiesa.
Il periodo vissuto con le elezioni di
Pisapia non è ripetibile checché ne
pensino Limonta o i residui dei ComitatiXMilano. Milano è cambiata e
la vicenda Expo, con annessi e
connessi, la faranno trovare cambiata non solo nel territorio, ma nei
cittadini.
Aggiungiamo che se anche se si
dovesse andare alle elezioni di un
sindaco di una città, l’occhio deve
andare ben oltre e ragionare in termini di Città Metropolitana nella cui
logica non stiamo ancora ragionando. Parliamo di 1 milione e 300 mila
abitanti contro ben oltre 3 milioni.
Ma pur rimanendo in un’ottica ristretta alla situazione attuale,
all’orizzonte c’è solo la subordinazione al PD chiunque sia il suo candidato. Occorre farsene una ragione
e non risolve il problema la principale motivazione addotta (altro che
programma ma pura ideologia) che
occorre turarsi il naso altrimenti vince Salvini o chi per lui.
Per chi intende cominciare o ricominciare, e non è detto che si possa
essere pronti per il 2016, si può solo
partire dai vari comitati o movimenti
seppur spontanei, carsici e settoriali
che però portano una ricchezza di
partecipazione che questa maggioranza si era fatta lustro nella propaganda elettorale del 2011.
Dobbiamo riconoscere che questo
clima si è creato proprio, e non per
merito di questa giunta, quando i
cittadini si sono accorti della forbice
tra programma e realtà e quando si
sono accorti che il territorio veniva
devastato e che i costi e gli aumenti
richiesti (e siamo solo all’inizio) servivano a mantenere una classe dirigente clientelare e una diffusa corruzione.
Non potremo sfuggire prima o poi a
un bilancio su questa maggioranza
come si tende a fare. Il prevalere
dei poteri forti (finanziari, speculativi, immobiliari, bancari, ecc) risulta
evidente e non credo che questo
problema non sia stata una causa di
questa rinuncia alla ricandidatura.
Infatti credo che Pisapia sia stato un
pessimo politico non per scelta ma
per incapacità e la sua subordinazione sia ai poteri sopra detti che ad
alcuni personaggi della sua giunta
(leggi De Cesaris) oltre che al PD
l’ha portato a questa scelta inevitabile. Altro che “Non lasciatemi solo”.
CITTÀ METROPOLITANE: UN LABIRINTO TRA INNOVAZIONE E AMARCORD
Marco Pompilio
Ho da poco lanciato alcune proposte sull’attuazione della legge Delrio
ma c’è dell’altro che vorrei aggiungere: cose che la lettura del testo
della legge mi ha suggerito e che
restano alla base delle idee da me
avanzate. L’elenco non ha pretese
di sistematicità, completezza o organicità, sono semplici appunti.
* A seguito della riforma Delrio i
comuni si occupano di fatto di funzioni di area vasta (che riguardano
n. 13 VII -1 aprile 2015
bacini sovra comunali) in aggiunta
alle funzioni cosiddette di prossimità
(in sostanza i servizi ai cittadini).
Con la scomparsa degli amministratori eletti a suffragio universale, rappresentativi in modo diretto del
complesso della comunità provinciale, la provincia, o città metropolitana, diventa, ora ancora più di prima,
luogo deputato all’incontro e dialogo
tra i comuni, quasi una sorta di estensione istituzionale del munici-
pio. Vero è che nelle città metropolitane esiste ancora la possibilità attraverso lo statuto di tornare
all’elezione a suffragio universale,
ma le condizioni sono tanto gravose
da allontanare quest’obiettivo molto
in là negli anni. Sindaci e amministratori comunali che siedono negli
organi della città metropolitana rappresentano il proprio territorio comunale, non rappresentano una
parte politica. In questa nuova si-
9
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tuazione la contrapposizione politica
tra maggioranza e minoranza, che
prima determinava i lavori del consiglio, non ha più senso, appartiene
a un’impostazione ormai superata
dalla nuova legge.
* La riforma definisce compiti e caratteristiche dei singoli organi, ma
poco ci dice su come raccordare gli
organi, su come farli lavorare a sistema. Il sindaco metropolitano
(come il nuovo presidente nelle province) ha poteri molto più ampi di
quelli del precedente presidente, e li
esercita attraverso atti monocratici
(decreti), non essendo più previsto
l’organo esecutivo, la giunta, e le
relative delibere collegiali. Il sindaco
metropolitano può assegnare deleghe ai consiglieri, ma queste hanno
natura e valore molto diversi da
quelle date in precedenza agli assessori. La carica di assessore era
incompatibile con quella di consigliere dello stesso ente, e il consigliere eletto che veniva nominato
assessore doveva lasciare la carica
elettiva, senza più potervi ritornare,
almeno entro il mandato amministrativo. La legge supera questa incompatibilità, anzi la rende necessaria visto che non è possibile assegnare deleghe a soggetti esterni
al consiglio. Il consigliere si trova
nella strana situazione di dovere da
un lato, come delegato, aiutare il
sindaco metropolitano nel raggiungimento degli obiettivi di mandato,
ma dall’altro di dovere nello stesso
tempo esercitare un potere di indirizzo e controllo nei confronti
dell’azione del capo dell’amministrazione. Segnale anche questo
che ci troviamo dopo la legge Delrio
in una situazione completamente
inedita, tutta da esplorare, dove non
si possono riproporre modelli collegiali che replicano la vecchia giunta.
Una situazione di contesto più istituzionale dove gli organi sono
chiamati responsabilmente a cooperare.
* Viene introdotto un nuovo organo,
la conferenza metropolitana (denominata Assemblea dei sindaci nelle
province), che funge da cerniera
con il territorio ed è specificamente
dedicato a rendere più fluido il rac-
cordo tra organi dell’ente intermedio
e comuni, e a favorire il confronto
cooperativo tra i sindaci. Nella provincia, dei tre organi (presidente,
consiglio, assemblea dei sindaci)
l’assemblea è l’unica ad avere componenti eletti con suffragio universale. Nel senso che dopo la legge Delrio i cittadini di un comune nelle elezioni votano il sindaco, e allo stesso
tempo anche il proprio rappresentante nell’assemblea organo della
provincia. Nel caso della città metropolitana, nel periodo attuale di
transizione (che probabilmente durerà diversi anni), anche il sindaco
metropolitano è eletto direttamente,
dai cittadini del solo comune capoluogo. Anche questa differenza, non
è la sola, evidenzia l’impostazione
più centralista del modello di ente
intermedio per la città metropolitana.
* Il consiglio, organo che si compone di una rappresentanza selettiva
di amministratori comunali, ha lo
specifico compito di disegnare la
linea strategica e le priorità per le
decisioni dell’ente, guidandone anche l’attuazione unitamente al sindaco metropolitano. Prima della
Legge 56/2014 erano i consiglieri a
occuparsi del raccordo con il territorio, generalmente ripartendosi in
modo informale secondo il bacino
elettorale di provenienza. Ora per
questo compito c’è il nuovo dedicato
organo, e i consiglieri si possono
concentrare sull’attuazione di strategie e priorità.
* La legge dà allo statuto dell’ente
intermedio la possibilità di organizzare il territorio in zone omogenee,
anche se previa intesa con la regione. Questa è un’importante opportunità per rafforzare il dialogo con il
territorio, particolarmente utile per
coinvolgere e sviluppare partecipazione nelle città metropolitane e
province che hanno un numero elevato di comuni. Entro gli organismi
decentrati delle zone omogenee i
comuni possono incontrarsi per discutere i temi di area vasta che
specificamente interessano la propria area, portando i risultati all’attenzione della conferenza metropolitana attraverso il sindaco coordina-
tore della zona. I comuni si sentiranno maggiormente partecipi se
l’articolazione in zone omogenee
non sarà disegnata a tavolino, sulla
base di criteri teorici, ma sarà in
qualche modo riferita alle forme associative tra comuni che nel passato
si sono già spontaneamente consolidate sul territorio.
* Nell’affrontare l’organizzazione dei
nuovi enti intermedi si deve tenere
conto di alcune differenze significative di impostazione tra provincia e
città metropolitana. Non ci si riferisce qui solo a quelle più evidenti: il
numero di funzioni attribuite e la
possibilità, anche se remota, di tornare all’elezione diretta. Vi sono un
po’ nascoste nelle pieghe della legge altre differenze, apparentemente
minori, ma in realtà importanti per
comprendere il modello di ente intermedio pensato dalla riforma. Citandone una per esempio: i poteri di
controllo sono riconosciuti all’assemblea dei sindaci provinciale, ma
non alla conferenza metropolitana.
Una differenza significativa, che ci
parla da un lato di una provincia
maggiormente controllata e determinata nella sua azione dal volere
dei comuni, e dall’altro di una città
metropolitana fortemente centrata,
almeno nei primi anni, sulla guida
del comune capoluogo.
Si potrebbe continuare con altre
considerazioni, la lettura della legge
ne suggerisce diverse, ma quelle
sopra sono sufficienti per evidenziare come la riforma delinei un sistema di governance nuovo, anche se
ancora molto schematico, lasciando
spazio a leggi regionali e statuti degli enti per trasformarlo in un’opportunità concreta. Si tratta di una
grande occasione, ma per coglierne
in pieno le potenzialità, un semplice
adeguamento degli statuti vigenti
non è sufficiente. Si deve essere
disposti a reinterpretare il ruolo
dell’ente intermedio secondo logiche nuove, fortemente innovative,
resistendo alla tentazione di riprodurre attraverso soluzioni artificiali
forme tradizionali cui ci si sente legati, più rassicuranti, ma che la riforma ha ormai cancellato.
“IL GIOCO DEL RISPETTO” E IL CONSERVATORE COL PROBLEMA DEI FIGLI
Paola Bocci
Che cos’è davvero “Il Gioco del Rispetto” che ha scatenato nelle scorse settimane tanto sdegno, riportato
dalla stampa nazionale prima e milanese poi, nel timore che tale ‘pericolosa’ iniziativa si possa diffondere rapidamente anche da noi? È un
n. 13 VII -1 aprile 2015
kit ludico-didattico, per i bambini e le
bambine delle scuole dell’infanzia,
un percorso formativo serio, sperimentato e adottato dall’Amministrazione di Trieste nelle sue scuole, che ha l’obiettivo di trasmettere
attraverso il gioco il principio di u-
guaglianza e parità tra uomini e
donne. È uno degli strumenti formativi che faticosamente, in un clima
spesso ostile, iniziano a diffondersi
in Italia, grazie alla collaborazione
tra associazioni e istituzioni che
hanno compreso che l’educazione
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alle differenze e al rispetto è fondamentale fin dalla prima infanzia.
Il ‘Gioco del Rispetto’ è un progetto
nella sua semplicità straordinario,
realizzato da formatrici e esperte di
comunicazione competenti che da
tempo lavorano su progetti di formazione sul tema della violenza sulle donne, supportato dal Dipartimento di Studi Umanistici e Scienze
della Vita dell’Università di Trieste e
condiviso con educatori ed educatrici, per promuovere il rispetto reciproco tra i generi e il superamento
degli stereotipi che sono alla base di
molte discriminazioni. Progetto articolato che propone un ventaglio di
percorsi attraverso laboratori che
mettono in evidenza la varietà delle
possibili inclinazioni di ciascun
bambino o bambina e, senza sminuire le possibili differenze, trasmettono il valore delle pari opportunità di
realizzazione delle loro aspirazioni
sia che siano maschi, sia che siano
femmine.
La scatola di giochi prodotta per le
scuole contiene linee guida e strumenti propedeutici per gli insegnanti
utili
all’analisi
del
contesto,
all’ascolto e all’osservazione, per
comprendere quale sia l’immaginario dei bambini sul maschile e
femminile, quale il loro universo di
riferimento. A corredo degli strumenti didattici ci sono diverse proposte di gioco, dal simbolico alla
narrazione, che mettono in discussione stereotipi diffusi, come quello
del papà che è quello che lavora e
basta mentre la mamma si occupa
della casa e dei figli, o delle professioni che sembrano essere solo per
maschi e altre solo per femmine utilizzate per realizzare un memory
che le declina sia al maschile sia al
femminile.
La disinformazione e la strumentalizzazione che ha caratterizzato il
dibattito sui media intorno al ‘Gioco
del Rispetto’, è una spia di quanto
siano forti le resistenze all’introduzione nelle scuole di un nuovo
repertorio di conoscenze che consenta di superare idee stereotipate
sul maschile e femminile. Spostare
il dibattito verso contenuti che nel
Gioco non sono presenti, come
l’educazione sessuale, evitando accuratamente di approfondire il progetto, oltre alla mistificazione, rivela
la paura verso una educazione im-
prontata ad una visione plurale e di
parità tra i generi.
Ma questa è la strada: cominciare
dai più piccoli studiando strumenti a
loro congeniali e garantendo formazione agli insegnanti, che spesso si
sentono impreparati e senza mezzi
adeguati per aiutare i bambini a
comprendere e affrontare i cambiamenti che attraversano la società.
Perché nella prima infanzia si forma
il sistema di riferimenti attraverso il
quale si costruiscono relazioni e
comportamenti, e quanto più saranno rigidi e univoci i modelli proposti,
tanto più sarà difficile discostarsi da
essi anche in futuro.
Se un bambino conoscerà come
unico modello possibile di relazioni
familiari ad esempio il padre che
lavora e fa carriera e la mamma che
resta a casa per crescere i figli e
avere cura dei nonni, difficilmente
sarà portato a comprendere che anche a ruoli invertiti tutto funzionerebbe lo stesso bene. Proporre ai
bambini un ventaglio di possibilità è
determinante per contrastare e decostruire stereotipi dominanti, ampiamente diffusi, che semplificano e
irrigidiscono la realtà nella contrapposizione tra cose da femmine e
cose da maschi.
La distorsione del dibattito mediatico su altri contenuti, la dice poi lunga sul fatto che il superamento della
dicotomia tra maschile e femminile,
e quindi l’educazione alla parità e al
rispetto, venga considerato un obiettivo educativo e sociale secondario. E questo è particolarmente
scoraggiante, considerato il tasso di
occupazione femminile del Paese, il
divario di remunerazione, il maggiore carico di cura per le donne e una
tradizionale distinzione delle professioni per genere (con un’eccessiva
femminilizzazione di alcune soprattutto in ambito umanistico e formativo, e predominio maschile in campo
scientifico sia per studi/ impiego
/opportunità di carriera), che richiederebbero azioni mirate a colmare il
gap.
Le Istituzioni rimangono indifferenti,
a volte ostili - sono dell’Assessore
alla Cultura della Regione Lombardia le più dure e meno documentate
critiche al Gioco del Rispetto - ignorando i richiami della Convenzione
di Istanbul (art.14) e dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità a introdurre azioni formative a partire
dalla scuola dell’infanzia, ripresi anche nelle linee di indirizzo nazionali
(nel D.M. 254 del 16 novembre
2012, e nelle Misure di accompagnamento delle Indicazioni nazionali
per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione).
Spesso si cade nell’errore di mettere in contrapposizione interventi educativi e interventi sanzionatori sugli adulti, visti come miglior deterrente alla violenza di genere, ignorando quanto la prevenzione sia
strumento efficace. Purtroppo ricerche autorevoli dimostrano che già
nell’adolescenza, il rapporto tra giovanissimi è caratterizzato da relazioni segnate da violenze, psicologiche e fisiche, così come
l’omofobia è tratto dominante del
bullismo adolescenziale.
E mentre la violenza cresce, qualcuno sotto lo slogan “Giù le mani
dai bambini” propone di bruciare
nelle pubbliche piazze libri per
l’infanzia che raccontano che di famiglia non ne esiste una sola, e che
tutte hanno pari dignità e pari diritto
alla felicità e al rispetto degli altri.
Dobbiamo colmare il ritardo e cominciare presto e dai bambini a
proporre dinamiche di relazione sane tra i generi, perché una educazione alla non-discriminazione nei
suoi molteplici risvolti, è il migliore
punto di partenza per crescere adulti migliori. Attraverso i Comuni, enti
gestori dei servizi educativi all’Infanzia, può diffondersi una capacità
di intervenire in rete con progetti
educativi e formativi nella fascia dei
più piccoli, condividendo e adottando esperienze che già funzionano,
come il Gioco del Rispetto.
Questo il significato della presentazione del ‘Gioco del Rispetto’
all’Assessore all’Educazione e alla
Delegata del Sindaco alle Pari Opportunità, a molte coordinatrici delle
scuole d’Infanzia di Milano, e della
mia sollecitazione a considerarlo
utile strumento da adottare nelle
nostre scuole d’Infanzia. Milano,
che ha storicamente sempre sostenuto lo sviluppo dei suoi servizi educativi di fascia 0-6 con la formazione, non può non cogliere questa
opportunità, condividendo quanto
già in uso a Trieste, e scegliendo di
mettere a disposizione delle sue
scuole e dei suoi insegnanti uno
strumento valido e già sperimentato.
L’EX MUNICIPIO DI CRESCENZAGO: “NON SIAMO ALL’ASTA NON SIAMO IN VENDITA …”
Giuseppe Natale
In un video di poco più di 5 minuti
viene rappresentato con efficacia
n. 13 VII -1 aprile 2015
comunicativa il “NO” forte e chiaro
alla vendita a privati del Palazzo ex
Municipio di Crescenzago, dove
hanno la loro sede - con regolare
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contratto d’affitto - le associazioni
ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), Banda Musicale e
Legambiente Crescenzago, che non
vogliono essere messe all’asta e in
vendita. E chiedono che l’immobile
torni bene comune e pubblico a disposizione del quartiere che ha tanto bisogno di spazi e servizi di aggregazione sociale culturale e civile.
Si sta parlando della cosiddetta “valorizzazione”, cioè la messa in vendita a privati, tramite due Fondi Immobiliari affidati (2007 e 2009, Amministrazione Moratti) alla Banca
BNP Paribas, di 175 (76+99) beni
immobili del patrimonio comunale di
Milano, tuttora in corso. E’ possibile
chiedere un bilancio pubblico e trasparente di queste due operazioni ?
Tornando a Crescenzago, scaduto il
primo periodo senza esito del Fondo Milano 1, nel 2013 il Comune ha
autorizzato la proroga fino al 2016
della messa in vendita del palazzo
di Via Adriano / Piazza Costantino,
senza sentire le associazioni che
sin dall’inizio si erano dichiarate
contrarie all’asta e avevano raccolto
nel 2008 3.000 firme. Non sono valse neanche due delibere del Consiglio di Zona 2, con le quali si chiedeva: “il blocco della dismissione
dell’immobile” e “il mantenimento
dell’attuale uso alle Associazioni”
(2008); “l’ex municipio di piazza Costantino/Adriano 2 resti fruibile per
la cittadinanza “, “ venga tolto dal
Fondo Immobiliare Milano 1 e riacquistato dal Comune di Milano”, e
“venga mantenuto il godimento alle
associazioni locate” (2012). Le associazioni e i cittadini dei quartieri
interessati ribadiscono la loro richiesta che il palazzo ex municipio di
Crescenzago, luogo non solo “della
memoria e del cuore” ma anche
spazio di vita collettiva , ritorni bene
pubblico e comune, continui ad essere “Casa Crescenzago”, palazzo
delle associazioni e delle culture,
dell’impegno civico e dell’ambiente,
della musica e delle arti. Lo si richiede con una petizione al sindaco
Pisapia.
Basti pensare che si vuole tutelare
un edificio pubblico dichiarato di “interesse storico artistico” e sottoposto a vincolo e tutela dalla Sovrintendenza ai Beni architettonici e
ambientali. Un edificio che si colloca
in una posizione nevralgica tra il
borgo antico di Crescenzago (con la
romanica Chiesa di Santa Maria
Rossa) e le ville della riviera del piccolo naviglio Martesana, in una
piazza che potrebbe tornare a essere veramente tale se si intervenisse
a salvaguardare altri spazi e a ridurre il traffico con opportuni interventi
di razionalizzazione viaria, ciclopedonale e di trasporto pubblico.
Basti pensare che la Banda Musicale di Crescenzago è un patrimonio
culturale che ha un’età ultracentenaria (nacque nel 1894!) e sarebbe
un vero delitto privarla di sede. Basti
pensare alla storica sezione di ANPI
Crescenzago, che è nata con la liberazione dal nazifascismo in un
quartiere protagonista della lotta
partigiana e dell’occupazione delle
fabbriche nel 1943-44 ! Basti pensare a Legambiente che, insediata 15
anni fa, svolge un’importante funzione sociale e di educazione alla
tutela e cura dell’ambiente. Basti
pensare che altre esperienze associative e culturali si sono realizzate
e si realizzano nel palazzo di Piazza
Costantino, tra le quali molto significativa l’ospitalità data all’Orchestra
di Via Padova e all’associazione di
cultura e musica d’Africa Sinitah.
Da qui nasce l’idea progettuale di
valorizzare veramente l’immobile,
già sede del comune di Crescenzago che nel 1923 venne sciolto e integrato nella ‘grande’ Milano. Si
propone di: - realizzare la “Casa
Crescenzago”, sede permanente
delle associazioni e centro civico e
culturale, musicale e artistico; luogo
di elaborazione di proposte finalizzate al miglioramento della qualità
della vita quotidiana nei quartieri di
Crescenzago, Via Padova, Via Adriano, Gobba. L’ipotesi progettuale
risponde ai bisogni e alle esigenze
della Zona 2 di Milano (12,58 kmq
su cui si addensano ca. 140.000
abitanti, con una presenza di immigrati che raggiunge il 13% della popolazione residente) che, mentre è
ricca di associazioni e comitati e
gruppi di volontariato, è invece molto povera di spazi sociali e servizi.
Per esempio nel quartiere Adriano –
Crescenzago - Gobba non c’è una
biblioteca e si aspetta da oltre dieci
anni la scuola media di quartiere;
per rispondere al crescente bisogno
di asili nido e di scuole materne il
quartiere ha perso il centro polifunzionale... . Se l’asta andasse in porto e il palazzo diventasse proprietà
privata, si verificherebbero un ulteriore grave impoverimento del tessuto civile e la perdita di un notevole
patrimonio storico e architettonico,
sociale e culturale, oltre al rischio di
sfratto delle associazioni. Alla faccia
della politica che declama di volere
migliorare le periferie o, come dice
l’archistar Piano, “rammendarle”
!?... Le tre associazioni stanno traducendo l’idea progettuale in vero e
proprio progetto di fattibilità finalizzato a raggiungere almeno tre obiettivi fondamentali:
- salvaguardare un bene pubblico e
comune di grande interesse storico
sociale e artistico;
- tutelare rafforzare e promuovere le
associazioni dei quartieri interessati,
a cominciare da quelle che risiedono nel Palazzo ex municipio di Crescenzago;
- contribuire a migliorare il contesto
urbano tra Piazza Costantino, Via
Meucci e la riviera del Martesana.
Amministrazione Pisapia se ci sei,
batti un colpo. Grazie!
INQUILINI MOROSI? A MEDIARE CI PENSA IL COMUNE
Fabrizio Marino
Alloggi sfitti, sgomberi, sfratti, occupazioni abusive. L’emergenza abitativa sembra una ferita che non ne
vuole sapere di rimarginarsi per il
Comune di Milano. Da un lato le
numerose proteste - pronte a riesplodere in qualsiasi momento - dei
principali quartieri popolari della città, dove in molti negli ultimi tempi si
sono riversati in strada per difendere il loro “diritto alla casa”. Dall’altro
la lotta alle occupazioni abusive e il
piano di sgomberi che da novembre
n. 13 VII -1 aprile 2015
scorso in poi è stato avviato di concerto con la Regione Lombardia.
In mezzo un’altra emergenza, quella
degli sfratti per la cosiddetta “morosità incolpevole”, condizione in cui
versa chi non paga l’affitto per mancanza di mezzi. I numeri sono in
continua crescita e, secondo la Prefettura, si viaggia ad una velocità di
duemila richieste di sfratto ogni mese, considerando che a Milano dei
20mila sfratti cittadini, ogni anno,
15mila sono causati proprio dalla
“morosità incolpevole”.
Per questo motivo a Palazzo Marino
hanno deciso di realizzare l’Agenzia
Sociale per la Locazione, uno strumento per favorire l’incontro tra la
domanda, cioè i cittadini con un’esigenza abitativa effettiva, e l’offerta,
ovvero i proprietari delle abitazioni.
Il 26 marzo è stata firmata la convenzione tra il Comune e la Fondazione Welfare Ambrosiano, che si
occuperà della gestione dell’Agenzia.
La vera novità sta nel fatto che stavolta il compito delle istituzioni sarà
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quello di intervenire sugli affitti privati, facendo da mediatore tra inquilini e proprietari, con lo scopo di trovare un punto di incontro tra le parti
che riesca ad evitare sfratti e renda
sostenibile l’affitto per gli inquilini.
Incoraggiando oltretutto la realizzazione di contratti a canone concordato.
Il progetto prende vita nel febbraio
del 2014 e si inserisce in un quadro
economico-sociale estremamente
delicato, che ha avuto ricadute ne-
gative sui redditi delle famiglie non
più in grado di sostenere i canoni di
locazione, a tal punto da ricorrere a
situazioni di morosità e conseguente sfratto. Il progetto si rivolge ai nuclei familiari impossibilitati a sostenere i costi di locazione richiesti dal
mercato ma al tempo stesso con
una disponibilità economica incompatibile con i requisiti di accesso
all’Edilizia Residenziale pubblica.
Come si legge nel documento pubblicato di seguito, i principali obiettivi
dell’Agenzia riguardano l’accrescere
dell’offerta complessiva di alloggi in
locazione temporanea e permanente a canoni calmierati, incentivare la
partecipazione del soggetto privato
tramite l’offerta di un percorso agevolato e garantito, favorire la mobilità nel settore della locazione attraverso percorsi di accompagnamento
rivolti agli assegnatari. Per continuare a leggere l'articolo su LINKIESTA clicca qui
Scrive Andrea Rui a proposito del sindaco Pisapia
Gentilissimo direttore, non è che
Pisapia sia stato "troppo" gentile?
Non crede che con certa gente,
"certi vecchi mascalzoni i cui nomi si
rincorrono nelle intercettazioni delle
forze dell’ordine" occorreva invece il
pugno di ferro? Non le sembra che
Pisapia sia stato un Don Abbondio
cioè "come un vaso di terracotta,
costretto a viaggiare in compagnia
di molti vasi di ferro". Perché ha accettato tutto compresa la realizzazione dell'ultima metropolitana, progetto vecchio di vent'anni, con un
rapporto costo - benefici che non
giustificava la spesa se non per ve-
nire incontro ai gruppi di potere che
proprio in questi giorni vengono indiziati? È stato veramente il sindaco
di tutti i cittadini o non ha voluto
scontentare la Milano dei potenti
che, da avvocato di successo, ha
sempre difeso?
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Hauskonzerte
Esistono delle realtà, nel mondo
della musica classica, che si fa fatica a immaginare. Una l’ho scoperta
sabato scorso, ospite di un “concerto in villa” che pensavo fosse un evento sporadico, legato a qualche
festeggiamento familiare, e che invece si è rivelato essere il capitolo
di una lunga e bella storia di cultura
musicale diffusa con radici antiche e
risvolti di grande freschezza.
La storia inizia nel 1981 quando, in
una villa nella bella regione che si
distende fra il lago Maggiore e quello di Varese, un ingegnere con la
passione per il violino - che quando
trovava gli amici giusti dialogava
con un pianoforte e si dilettava in
trii, quartetti, quintetti - invitò tre professori d’orchestra della Scala, riuniti in trio, a suonare davanti a un
gruppo di ospiti abitanti nei dintorni
e la serata ebbe un tale successo
che venne ripetuta più volte invitando diversi musicisti. Così sono nati
più di trent’anni fa gli “Amici della
musica”, oggi una cinquantina di
persone molto appassionate e attente, che regolarmente organizzano nelle loro case “Hauskonzerte” di
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grande qualità, sia dal punto di vista
musicale che da quello sociale e
ambientale.
Questi Hauskonzerte funzionano
così: ogni anno vengono invitati
concertisti più o meno famosi - scelti
sempre con grande cura e con
l’intenzione di soddisfare ascoltatori
molto esigenti - e proposti sofisticati
programmi di musica da camera. Le
serate vengono distribuite durante
l’anno in modo da formare una vera
e propria “stagione” concertistica, e
si svolgono a turno in una delle residenze degli Amici della Musica,
scelte fra le più adatte ad accogliere
una platea di ospiti. Gli “Amici” si
fanno carico pro quota dei costi essenziali e portano un contributo in
natura – cibo e bevande – per il rinfresco che segue il concerto; uno di
loro, il più volenteroso o il più preparato degli altri, si assume il delicato
compito di presentare gli artisti e di
illustrare il programma della serata.
L’albo d’oro di questi Hauskonzerte
annovera, fra i musicisti invitati, interpreti di grandissima notorietà,
compresi celebri ensemble cameristici, personalità che mai ci si im-
maginerebbe impegnati in concerti
veri e propri ma in case private, totalmente prive di quella visibilità che
in genere viene ricercata o pretesa
da professionisti già affermati anche
internazionalmente.
Partecipare a una di queste serate
non è solo un privilegio per la qualità degli interpreti e la bellezza dei
luoghi, né si limita a soddisfare il
bisogno di concentrazione e di intimità richiesto dall’ascolto di musica
colta e raffinata, ma risponde anche
all’esigenza di mettersi in sintonia
con la storia di quella musica “da
camera” che nasce giusto per atmosfere e situazioni simili, per un
pubblico di quel tipo – limitato di
numero, amicale, preparato, interessato, senza attese di mondanità
– che interagisce con gli esecutori
creando una comunità complice ed
affiatata.
L’altra sera ho sentito un concerto di
due magnifici musicisti, di cui non
faccio i nomi per rispetto della riservatezza in cui tutto si è svolto e di
cui ho dato conto, che hanno eseguito tre Sonate per violino e pianoforte rispettivamente di Bach (la
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BWV 1014 in si minore), Mozart (la
n. 21 in mi minore K.304) e Beethoven (n. 5 in fa maggiore opera 24,
detta “Der Frühling”, la Primavera)
illustrando così in modo esemplare
l’evoluzione di questo genere, dalla
prima versione “moderna” fino
all’acme raggiunto nel momento di
passaggio fra il classicismo ed il
romanticismo.
All’ora del tramonto e poi con il primo buio e con la luna che già si affacciava dal Sacro Monte, con i profili dei musicisti e dei loro strumenti
che si stagliavano oltre i vetri sulla
superficie del lago, l’atmosfera era
tale per cui la musica riusciva a esplodere in tutti i suoi significati con
una capacità di presa sugli ascoltatori ben lontana da quella cui siamo
abitati nelle sale da concerto; ricordava l’atmosfera magica delle
Schubertiadi, quel festival musicale
che si svolge ogni anno a Schwarzenberg, nel Vorarlberg, dove tutto
è un po’ più “in grande” ma, grazie
all’isolamento del paese dal resto
del mondo e al dolcissimo paesaggio dei prati e dei boschi in cui è
immerso, la concentrazione sulla
musica ha la stessa intensità.
Hauskonzerte. Come sarebbe logico e ragionevole che questa modalità tipicamente europea di fare e di
ascoltare musica si diffondesse anche da noi e riempisse quel vuoto di
stimoli che caratterizza gran parte
della nostra società e in particolare
il mondo dei giovani. Fare e ascoltare musica insieme, scegliendosela,
inseguendola, organizzandola, in un
“fai da te” che ha anche il pregio di
darci enormi soddisfazioni.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Un entusiasmante McCurry fuoriporta
Ci sono domeniche in cui, con
l’arrivo del bel tempo, si è indecisi
fra fare una passeggiata all’aperto o
rinchiudersi a vedere mostre o musei. La Villa Reale di Monza, recentemente riaperta al pubblico dopo
due anni di restauro, non costringe
a scegliere fra le due alternative:
offre la possibilità di godersi una
struttura di elevato pregio storicoartistico, di visitare una piacevole
mostra ed è anche immersa nel
verde di un arioso parco. Nello specifico, le raffinate sale della Villa
stanno ospitando in questo periodo
la mostra “Steve McCurry - Oltre lo
sguardo”, dedicata a uno dei più celebri fotografi contemporanei.
Non si tratta della solita rassegna
cronologica che parte dall’inizio della carriera dell’autore e ne ripercorre
l’evoluzione: gli scatti di McCurry si
susseguono e si incrociano con
l’entusiasmo con cui un viaggiatore,
al ritorno, racconta gli episodi più
esaltanti dell’avventura. Le fotografie dialogano con l’ambiente - si affacciano da porte e finestre, si sporgono sulle aperture dei saloni, si
inerpicano su scale di legno - e sorprendono lo spettatore da una sala
all’altra con prospettive nuove e inaspettate.
Oltre all’inserimento originale nell’elegante contesto della Villa, le immagini si rincorrono in una lunga
narrazione fatta di ritratti e di scene
di vita quotidiana provenienti da paesi lontani: India, Birmania, America, Afghanistan, Kuwait, Giappone,
Cambogia, Etiopia, qualche accenno all’Italia. Il risultato è un caleidoscopico atlante fatto di sguardi intensi, di colori sgargianti e di dettagli
curiosi.
L’audioguida, fornita gratuitamente
insieme al biglietto d’ingresso, è uno
strumento indispensabile per poter
usufruire dei racconti di McCurry,
poiché in questo modo durante il
percorso si possono ascoltare le
storie che narrano la nascita di un
scatto o la vita del soggetto fotografato.
Si scopre così che il fotografo ha
iniziato a viaggiare a 19 anni, ancor
prima di saper fotografare, ma che
fin da allora era determinato a fare
del viaggio l’elemento essenziale
della sua vita; che ha vissuto fra i
pescatori indiani o fra i tuareg nel
deserto; che nel 1981 è stato addirittura arrestato in Pakistan perché
nel tentativo di raggiungere l’Afghanistan si era addentrato in una
zona proibita agli stranieri.
Appassionato nei ritratti, rispettoso
e riflessivo nella scoperta di altre
culture, cordiale nei rapporti con i
soggetti: la mostra celebra uno Steve McCurry profondamente partecipe e metodico nel suo lavoro.
Tutta il percorso, molto lungo ma
poco pesante, è un inno all’imprevedibile e spiazzante bellezza del
volto umano, inquadrato sempre
con attento rispetto e simpatizzante
confidenza.
Giulia Grassini
Steve McCurry - Oltre lo sguardo
fino al 6 aprile 2015 Villa Reale di
Monza – Aperta dal martedì al venerdì, dalle 10.00 alle 18.00; sabato, domenica e festivi, dalle 10.00
alle 19.00 – Biglietto 12/10/4 euro
Italia Inside Out: i maestri della fotografia raccontano l'Italia
Dal 21 marzo al 27 settembre 2015,
Palazzo della Ragione ospita Italia
Inside Out, la grande mostra di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più
importanti fotografi del mondo.
Un’unica iniziativa articolata in due
successivi allestimenti, dal 21 marzo al 21 giugno con i fotografi italiani e dal 1° luglio al 27 settembre con
i fotografi del mondo, che raccontano a chi li visita le trasformazioni e
le emozioni di un’Italia che cambia
dal secondo dopoguerra fino ai
n. 13 VII -1 aprile 2015
giorni nostri. E il cambiamento si
percepisce in ogni cosa: nelle tecniche, nell’uso del bianconero e del
colore, nei ritratti e nelle storie dei
protagonisti ritratti.
Promossa e prodotta dal Comune di
Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm
Giunti, curata da Giovanna Calvenzi; l’allestimento si deve a un progetto scenografico di Peter Bottazzi
dove ogni autore è una carrozza di
un immaginario treno che porta il
visitatore alla scoperta del Bel Paese.
Il viaggio inizia da Milano con le
immagini storiche di Paolo Monti e
qui si conclude con le vedute della
nuova Milano di Vincenzo Castella;
su ciascuna carrozza si scopre
un’Italia differente per geografia
(dalla Venezia degli anni cinquanta
di Berengo Gardin alla Palermo della Battaglia, passando per il delta
del Po di Pietro Donzelli); per epoche (la Sardegna dei primi anni ’60
di Franco Pinna, gli estemporanei
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anni ’80 della Via Emilia di Luigi
Ghirri, ma anche il terremoto
dell’Aquila ritratto da Marta Sarlo);
per progetti (Io parto di Paola de
Pietri, Gli ultimi Gattopardi di Shobha, Florence versus the World di
Riverboom).
La prima parte - INSIDE - accoglie
dal 21 marzo al 21 giugno 2015 una
selezione di oltre 250 immagini di
quarantadue fotografi. Nella seconda parte - OUT -, dal 1° luglio al 27
settembre 2015, saranno protagoniste le fotografie dei grandi maestri
internazionali, quali Henri Cartier-
Bresson, David Seymour, Alexey
Titarenko, Bernard Plossu, Isabel
Muñoz, John Davies, Abelardo Morell e altri.
Quella ospitata negli spazi del Palazzo della Ragione è una mostra
davvero ricca, piena di punti vista e
sguardi, quasi troppo: al punto che il
visitatore talvolta si smarrisce, vista
l’assenza di un percorso definito,
rischiando di non vedere alcuni degli autori. L’allestimento, poi, pare
incompleto (o la scelta molto curiosa) laddove solo alcuni pannelli con
le fotografie hanno le didascalie
mentre altri no. E va aggiunto che al
terzo giorno dall’apertura le audioguide sono ancora non pervenute,
causa corriere. Si perdona tutto davanti alla bellezza di questa italianità per immagini?
Italia Inside Out - I fotografi italiani fino al 21 giugno 2015 Palazzo
della Ragione Fotografia Milano,
Piazza Mercanti, 1 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 –
20.30/ Giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietto €12/10/6 Congiunto
€18/16/9
Gli scatti di David Bailey: star system (e non solo) al PAC
Varcare la soglia del PAC in questi
giorni (fino al 2 giugno) è fare un
tuffo tra i volti pop degli ultimi 50
anni: nella mostra Stardust sono
esposti più di 300 scatti di David
Bailey tra divi del cinema, grandi
artisti visivi, top model ma anche
persone normali e scatti sociali per
risvegliare le più pigre coscienze.
Curata dallo stesso artista e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra e con
il magazine ICON, la mostra contiene una vasta serie di fotografie, selezionate personalmente da Bailey
come le immagini più significative o
memorabili della sua carriera, che
ha attraversato più di mezzo secolo.
Nello spazio progettato da Ignazio
Gardella si articolano per temi alcuni dei progetti più interessanti del
grande fotografo: dagli scatti realizzati per Vogue che lo hanno reso
famoso nei primi anni ’60, alle immagini realizzate per i dischi dei
Rolling Stones o ai gemelli pugili
Reggie e Ronnie Kray; i grandi ritratti che hanno per protagonista
Catherine Dyer, talvolta straordinaria modella talaltra moglie e madre
dei loro tre figli, sempre donna di
straordinaria femminilità. L’arte di
Bailey non si limita però alle celebrità: sono una decina le fotografie
appartenenti al progetto “Democracy”, realizzato tra il 2001 e il
2005, dove un gruppo di sconosciuti, a turno, ha posato nudo per 10
minuti; ci sono le immagini degli anziani con i costumi tradizionali scattate durante il viaggio nella regione
indiana di Naga Hills; ci sono gli
scatti dedicati ai teschi; c’è il reportage realizzato negli anni ’80 per
portare l’attenzione mondiale sulla
situazione in Sudan.
Non l’ordine cronologico ma quello
tematico sancisce ancora una volta
la profondità e la qualità del lavoro
del grande artista inglese, che attraverso le proprie immagini racconta
non solo le storie dei protagonisti
ritratti, ma anche del mondo attorno
che li circonda.
Unica pecca della mostra: l’assoluto
divieto di usare gli smartphone e di
fare fotografie all’interno degli spazi,
curioso e un po’ anacronistico in un
mondo dove la promozione e la comunicazione dell’arte passano anche attraverso la condivisione digitale.
Stardust. David Bailey fino al 2
giugno 2015 PAC Via Palestro 14,
Milano Da martedì a domenica 9.30
– 19.30, giovedì fino alle 22.30 Biglietti € 8,00/ 6,50 /4,00
Medardo Rosso alla Gam, con molti dubbi
Medardo Rosso, torna ad essere
protagonista di una mostra monografica a Milano dopo 35 anni
dall'ultima. Organizzata e prodotta
dalla Galleria d'Arte Moderna di Milano, da 24 ore Cultura - Gruppo 24,
insieme al Museo Rosso di Barzio,
la mostra è a cura di Paola Zatti,
conservatore della Galleria d’Arte
Moderna di Milano.
Rosso è l'artista della forma che
prende vita: nel percorso espositivo,
tra gessi, bronzi e modelli in cera,
oltre ad immagini d’archivio, i personaggi ritratti sono vive idee che si
animano, con l’intento di perseguire
non una verosimiglianza ma una
rappresentazione dell’impressione.
Le 15 opere di Rosso della GAM
sono affiancate da una selezione
significativa proveniente dal Museo
Rosso di Barzio, che ha partecipato
alla curatela della mostra, e una serie di prestiti nazionali e internazionali (Musée d’Orsay e Musée Rodin
di Parigi, Staatliche Kunstammlun-
n. 13 VII -1 aprile 2015
gen di Dresda, il Museo d’Arte di
Winthertur, Szepmuveszeti Muzeum
di Budapest).
L’insieme di queste opere consente
di avere una visione ampia sia dei
soggetti affrontati dall’artista sia della sua evoluzione interpretativa e
della sua competenza e passione
per la tecnica fotografica. Infatti ad
arricchire l’esposizione è presente
un cospicuo contributo iconografico
che documenta il lavoro di Medardo:
l’artista infatti quando esponeva i
propri lavori creava loro intorno una
sorta di scenografia che ne accresceva, o addirittura modificava, il
senso. La straordinaria Madame X,
opera del 1896, è al centro della
terza sezione della mostra, e dialoga con due versioni a confronto in
bronzo e cera dell’Enfant Malade,
documento della fase sperimentale
di Rosso.
Seppur interessante il dialogo che si
va a creare tra le sale della galleria
e i lavori dell’artista, dove i grandi
specchi consentono di osservare da
diversi punti di vista le stesse opere,
gli spazi danno poca aria alle sculture che ne risultano penalizzate e
laddove vi siano dei gruppi guidati la
visita risulta estremamente complessa, quasi impossibile. Il costo
dell’ingresso è piuttosto alto (12€)
considerando che si tratta di una
mostra articolata in sole sei sale e
che poi per visitare gli altri spazi della Galleria deve essere acquistato
un ulteriore biglietto. Purtroppo si
deve notare che il livello della conoscenza della lingua inglese da parte
degli operatori della biglietteria non
è adeguato, elemento invece che
dovrebbe essere curato e seguito
da ogni organizzazione in particolar
modo nell’anno di Expo.
Medardo Rosso la luce e la materia - fino al 31 maggio Galleria d'Arte Moderna di Milano via Palestro
16 - Lunedì 14.30 – 19.30 Martedì,
15
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mercoledì, venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30 Giovedì 9.30 –
22.30
Food. Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto,
non è solo una mostra dedicata
all’alimentazione: è un percorso di
avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è
seme fino alle reazioni chimiche che
sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su
provenienza
storico-geografica,
suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno
2015 e allestita nelle sale del Museo
di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal
Comune di Milano sul tema di Expo
2015. “Nutrire il Pianeta, Energia
per la Vita” e costituisce una delle
più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della
prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e fami-
glie con caratteristiche, provenienza
e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni
casi per la prima volta, esemplari
che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e
l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non
avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è
facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo
della mostra è infatti la capacità di
rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato,
senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo
da tempo, ma che alla base di tante
ricette vi siano principi di chimica e
fisica passa spesso inosservato: la
terza sezione della mostra illustra
come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un
metabolismo più veloce delle cipolle
e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di
plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa
fare se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è
come sembra: vista, olfatto e tatto
anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di
allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se non
altro per cominciare ad affacciarsi
nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015.
Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì
09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì,
Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 –
19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca
Se un pomeriggio d’inverno un
viaggiatore avesse voglia di scoprire
Milano attraverso uno dei luoghi
simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi
all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello
spazio è la personale di Céline
Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano.
L’esposizione ha un titolo che non
passa inosservato:
bau bau.
L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche
un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e
all’esperienza della scuola del Bauhaus.
Effettivamente, superate le difficoltà
iniziali di approccio all’apparente
incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela
ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video
e scritti.
L’artista ha una formazione relativa
all’architettura e alla cultura visuale,
e ha riflettuto a lungo sulle “strutture
di sostegno”, ovvero su ciò che
supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che
relazionale.
L’amicizia diventa per l’artista una
dimensione di lavoro e una forma
d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia
sono condensati nel libro The
company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque
può accomodarsi e leggerlo, e chi
vuole può anche salire sul tavolo
per osservare dall’alto la visuale
all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta
appositamente dalla Condorelli in
occasione della mostra.
Un altro tema forte è infatti il dialogo
con gli spazi dell’Hangar. La mostra
è stata pensata in relazione alle
precedenti esposizioni (il pannello di
legno all’ingresso è lo stesso della
mostra precedente di Gusmão e
Paiva, e Céline vi ha posto una ven-
tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la
scoperta delle opere; i video in onda
su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione
con lo stabilimento Pirelli di Settimo
Torinese.
Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che
diventano sedute su cui i visitatori
possono accomodarsi e colloquiare,
tende dorate mosse dal vento: bau
bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici,
stupore negli appassionati. Giulia
Grassini
Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano
fino al 10 maggio 2015 – da giovedì
a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso
gratuito
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
n. 13 VII -1 aprile 2015
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Pietro Salmoiraghi
Anatomia dell’ovvio. Poesie
La Vita Felice, Milano 2014
Quando la parte di vita che abbiamo
alle spalle è maggiore di quella che
ci resta, gli occhi acquistano una
chiarezza nuova, e la mente registra
il tempo e lo spazio con insolito nitore. La poesia di Salmoiraghi è questo: parola che mette a fuoco gli oggetti in penombra; che illumina le
cose che non vediamo perché sotto
gli occhi, nel quotidiano. Anatomia
dell’ovvio: in altri termini, analisi e
definizione del quotidiano. Operazione che prende forma vagando tra
frammenti di visione, pensieri, memorie, suggestioni. Con un pensiero
fisso: mantenere una dignità per
quanto inutile e fittizia.
Pensieri come schegge impazzite,/
ripiegato su me stesso / in preda
all’inestinguibile – spossante, / moto
circolare della mente: / cercando di
riscattare il nulla / di una vita insulsa.
Poesia di affabulazione; poesia di
meditazione: dove il metro si dissolve e al verso dà misura il respiro,
che determina anche la quantità sillabica e il ritmo. Salmoiraghi, scrivendo, si sottrae per scelta a ogni
schema:
Strano piacere per il non finito, / il
provvisorio: per quel che non è conclusivo. / Ovvero l’incompiuto.
Le opere perfette sono quelle che,
in apparenza hanno forma “non finita”, come la Pietà Rondanini di Michelangelo, strada maestra per il
sublime. Ma a Salmoiraghi poco
sembra interessare “l’oltre”: egli resta attaccato con ostinazione al suo
oggi, al suo essere uomo in un consesso di individui aggrappati stolidamente alla propria solitudine:
Occorre, si direbbe, sbrogliare /
vecchie matasse, aggrovigliate: /
tessere inconsueti fili narrativi. /
Scoprire un nuovo cielo. / Non da
soli: possibilmente tutti insieme costituire, / per così dire, “un noi narrante”. / Inedito e, soprattutto, non di
massa: ma, certamente, collettivo.
Il “noi” come “nuovo cielo”: ovvio.
Ma ancora da venire. Un ovvio di
cui si parla da millenni, ma che non
pare realizzabile. Eppure l’unica soluzione è
un vero progressismo: che combatta / per superare ogni diseguaglianza. Materiale o immateriale che sia.
PS: / Vero è purtroppo, / che ci sono
situazioni in cui / le speranze – e, al
tempo stesso, / l’inerzia dei miei simili, / mi risultano davvero esasperanti.
L’affabulazione, che di norma è distesa e fluisce come assorta, qui si
impunta e dà segni di insofferenza:
il rimedio è ovvio ma, al tempo stesso, ignorato. Come se l’uomo avesse una sorta di cecità persistente
che gli impedisce di comprendere e
di ben operare.
Non è dato sapere / Che cosa sia il
vero: / né dove stia. / Forse non è,
non sta: / è in continuo divenire./ Un
ininterrotto divenire.
Panta rei: niente è uguale a se
stesso, mai; eppure dei punti fermi
vanno individuati. Altrimenti è impossibile la convivenza e maledettamente dura la vita del singolo.
Nella raccolta precedente (Autobiografia involontaria, 2012) aveva
scritto:
Chi non è capace di credere / - per
fede secolare, laica: / o religiosa
che sia, / è condannato ad una esistenza / dominata dal dubbio: / una
quieta vita disperata.
Perfetta alchimìa lessicale, che si
chiude in un apparente ossimoro
(quieta / disperata) che rimanda alla
coscienza dell’adynaton che caratterizza l’esistenza del genere uma-
no: sarà possibile un’esistenza diversa, quando l’uomo saprà tradurre
in
azione
quotidiana
l’ovvio,
l’uguaglianza e la parità di diritti.
Cioè: mai.
Quel che resta è dunque assai poco, in particolare quando il passato
supera per durata il futuro. In una
contiguità scandita di vibrante (r) e
sibilante (s), la quieta disperazione
domina la scena, chiudendosi nel
rifiuto integrale dell’esistenza:
Morte le mani: quasi trasparenti, /
rugose, segnate solo / dal colore
bluastro delle vene. / E fin qui ci potrebbe anche stare. / Ma è l’anima –
non il corpo, / che viene meno: si
finisce per provare / una sorta di orrore per la vita.
Se in Autobiografia involontaria aveva parlato di rapporto controverso
col mondo, “in bilico tra entusiasmo
e insofferenza”, in questa raccolta è
l’insofferenza a prevalere. Senza
appello. L’umanità, per cui aveva
vagheggiato tempi migliori, non merita né attenzione né cura e
l’uguaglianza è un’utopia (spesso è
faticoso e difficile / eliminare le distanze). Da preservare, al fondo, l’
”io” che conosce, che valuta, che
propone, che desidera. Sopra tutto
che desidera. Con l’assenza della
tensione, del desiderio, perde tutto
di significato, anche la pura sopravvivenza. Ed è questo, al finale di
ogni possibile anatomia; è questo
l’ovvio.
Corpi che si urtano, si scontrano, si
toccano … / Sensazione di sentirsi
nudo in mezzo / ad una umanità
troppo vestita. / Un uomo scorticato,
/ urticato dalla sua stessa sensibilità. / Ecco: spesso è faticoso e difficile / eliminare le distanze. / Mantenendo le differenze.
Giuliana Nuvoli
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
Grazie, Rudy!
Gala di danza tributo a Rudol’f NureevInterpreti: Nikola Hristov Hadjitnev e Marta Petkova, Balletto Nazionale di Sofia (Bulgaria) - Bella addormentata e Raymonda. Vittorio Galloro e Arianne Lafita Gonzalez, Balletto
Nazionale di Cuba - Corsaro e Don Chisciotte. Dinu Tamazlâcaru e Ol’ga Čelpanova, Balletto Nazionale di
Berlino (Germania) - Sylfiden e Lago dei cigni. Viktor Iščuk ed Kateryna Kurčenko, Balletto Nazionale di Kiev
(Ucraina) - Schiaccianoci ed Esmeralda. Teatro Nuovo di Milano, 30.3.2015.
Ci sono stati dei cambi di programma nel cast di interpreti e nella sequenza dei pas de deux, ma lo spet-
n. 13 VII -1 aprile 2015
tacolo Grazie, Rudy! Gala di danza
tributo a Rudol’f Nureev in occasio-
ne del ventennale della sua morte si
è svolto con il plauso del pubblico.
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Rudol’f Nureev: russo di nascita e
formazione, francese di spirito e lavoro, austriaco sul passaporto, ballerino globale che ha danzato sui
palchi di tutto il mondo. Danzatori
da tutto il mondo hanno detto il loro
«Grazie, Rudy!» a Milano. Le coppie più applaudite sono state quelle
dal Berliner Staatsballett (in particolare l’assolo neoclassico di chiusura
di Dinu Tamalâcaru) e quella dal
Ballet Nacional de Cuba (in particolare i virtuosismi maschili del salto e
del giro).
I due tempi si aprivano con due video memoriali di Nureev: particolarmente interessante è stata l’intervista sul mancato ritorno in Unione
Sovietica dopo la prima tournée a
Parigi di Nureev con il Balletto del
Kirov (oggi Mariinskij di San Pietroburgo). L’inizio è stata una lettera
aperta al grande artista che ha
cambiato la danza classica nel Novecento, la conclusione è stata affi-
data allo stesso Nureev che ha dichiarato il suo amore per la vita e
per la danza, che in Nureev hanno
sempre coinciso.
Il programma delle danze è stato
interessante: ha proposto i più famosi pas de deux del repertorio
classico nelle versioni coreografiche
Nureev per quelli che hanno avuto
la sua coreografia, altrimenti di coreografie che Nureev danzò con le
partner più importanti (Carla Fracci
per Sylfiden, cioè La Sylphide nella
versione coreografica danese di
August Bournonville; Margot Fonteyn per Raymonda). Il pubblico ha
molto apprezzato l’antologia del repertorio; tuttavia, l’esclusiva presenza di pas de deux di repertorio classico rischiava di essere monotona
nella sequenza fissa di entrée - adagio - variazione I - variazione II coda. Mancava poi un programma
scritto che sarebbe potuto esser letto dal pubblico di non intenditori o
un’introduzione ai diversi pas de
deux dei balletti che avrebbero introdotto il pubblico alle danze, che
altrimenti potevano apparire ‘tutte
uguali’, al di là del virtuosismo che
fa spettacolo.
I danzatori sono stati bravissimi.
Oggi coppia proveniente da corpo di
ballo differente con tecnica differente ha portato sul palco una storia
della danza: la pulizia e la linea leggera e filiforme dei danzatori ucraini
e bulgari di pura tecnica Vaganova,
la brillante e ‘scoppiettante’ tecnica
cubana, la ‘sopraelevata’ (per la
grande presenza del salto) della
tecnica nordeuropea. Tutti stili e
tecniche che il grande Nureev ha
assorbito nei suoi viaggi e nei suoi
spettacoli per il mondo, per diventare il grande artista che è stato e
continua a essere modello per tutti i
danzatori.
Domenico G. Muscianisi
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
[email protected]
Latin Lover
di Cristina Comencini [Italia, 2015, 114']
con Virna Lisi, Marisa Paredes, Angela Finocchiaro, Valeria Bruni Tedeschi, Candela Peña
Quando la vita non gira per il verso
giusto (il lavoro nei rodeo non paga
più, la fidanzata se la spassa con un
altro) Chris Kyle ha una nuova opportunità: servire la patria. L’esercito
Usa ha sempre bisogno di uomini,
c’è sempre una guerra da combattere in questo caso la guerra al terrorismo dopo l’11 settembre promossa da Bush. Kyle crede nella causa
e diventa un Navy Seal. Per la precisione diventa un cecchino, ha una
mira quasi infallibile.
Durante le sue missioni lo vediamo
appostato, intento a studiare la situazione e a decidere se sparare o
meno. La decisione è la sua, sta a
lui scegliere se colpire un bambino
o una donna che possono rivelarsi
bombe umane. La coscienza viene
spesso
tacitata
dal
dovere,
dall’ossessione per il nemico. Perché questa è la guerra e se non
spari ti sparano, il nemico non ha
n. 13 VII -1 aprile 2015
forse un cecchino formidabile come
lui?
E il dovere si fa sempre sentire anche quando Chris torna a casa dalla
famiglia che ha costruito tra una
missione e l’altra. La sua testa è in
Iraq, Chris era una perfetta macchina da guerra e non smette di esserlo anche a casa. Come tutti i reduci
affetti dal disturbo post traumatico
da stress comincia a curarsi frequentando un centro per ex- militari.
Sarà la sua fine.
American sniper è un film ambizioso, ci racconta la solitudine di fronte
alla guerra, l’eroismo che nasce dal
basso e le conseguenze sulla vita
privata. Ma stupisce un po’ per chi
ha visto gli altri film che Clint Eastwood ha dedicato alla guerra. In
quest’opera sembra infatti venir
meno quell’intreccio o alternarsi di
dovere e responsabilità, manca il
dubbio del protagonista che buca il
destino e il dovere. Sembra che anche il regista abbia fatto propria una
affermazione del padre di Chris che
suona più o meno così: il mondo si
divide in pecore, lupi e cani pastore
e nella nostra famiglia non ci sono
mai state pecore.
Manca anche lo spessore umano
nelle relazioni famigliari, Kyle è un
automa, soldato anche tra le pareti
domestiche. Incapace di uscire dal
ruolo. Nella biografia di Chris sono
narrati l’alcolismo, la violenza e la
sua spacconeria che per essere eroe totale gli faceva raccontare balle, ma Eastwood ha deciso di non
soffermarsi su questo aspetto umano, facendo del suo protagonista un
eroe monodimensionale. Ciò nonostante l’interpretazione di Bradley
Cooper è magistrale e si fa notare
anche Sienna Miller per il suo ruolo
di moglie.
Dorothy Parker
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IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
PIAZZA XXIV MAGGIO: C’È UN PALO PER TUTTI!
http://blog.urbanfile.org/2015/03/30/zona-porta-ticinese-palification-la-citta-dei-pali/
L’ORDINE DEGLI AVVOCATI secondo [ Remo ]
Remo Danovi L'AVVIO DELLA MIA PRESIDENZA
https://youtu.be/dmfUBsifEtk
n. 13 VII -1 aprile 2015
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