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Uno
Ero appena tornato dalle vacanze estive trascorse tra Roma
e la Toscana con Davide, il mio migliore amico, e proprio lui
mi aveva invitato a fare un giro in città. Non ne avevo molta
voglia, ero un po’ stanco e, soprattutto, ero triste, di una tristezza che non mi lasciava e m’immalinconiva sempre di più.
Il periodo di meritato riposo era stato a dir poco emozionante, avevo ancora dentro di me gli struggenti tramonti di
Roma e le romantiche nebbie mattutine della Val d’Orcia, ma
il rientro, anche quella volta, era stato fonte di disagio e d’inquietudine; avevo una sensazione di vuoto, di un autunno interiore che non riuscivo a sconfiggere.
Lontano dalla routine quotidiana, mi ero divertito moltissimo ed ero riuscito, con l’aiuto di Davide, a dimenticare per un
momento la mia condizione di solitario forzato, di uomo alla
perenne ricerca di una serenità che gli sfuggiva. Prima di partire ero perseguitato da un’ansia e da una spasmodica voglia di
qualcosa che potesse placare quella mia costante insofferenza.
In Toscana e a Roma invece mi ero come rallentato in un piacevole raccoglimento intimo, che mi aveva dato speranza ma
che ora non c’era più.
Alla fine, cedetti alla richiesta di Davide, forse una passeggiata, un caffè e due chiacchiere con una persona amica mi
avrebbero giovato.
Persi qualche minuto per vestirmi: anche se giù di corda,
difficilmente esco se non sono più che presentabile e a mio
agio. Scelsi jeans a vita bassa, maglietta Armani, un filo di profumo e l’immancabile tracolla di Prada.
Era stata una giornata molto calda e l’afa pareva aver im9
mobilizzato tutto; anche la consueta brezza che giunge verso
sera dalla Valle dei Mocheni era intimorita dal bagliore della luna quasi che d’un tratto tutto fosse caduto in una sorta
di torpore metafisico. Persino le cicale, di solito numerose e
fastidiose nel meleto che circonda casa mia, rispettavano un
insolito silenzio.
Alzai lo sguardo verso il cielo e lo fissai per un lungo istante:
un brivido glaciale, arrivato dritto dalle stelle, mi percorse la
schiena, lasciandomi rattrappito in un senso d’inadeguatezza
come la prima volta che entrai nella Cappella Sistina.
Sarei voluto scappare, rintanarmi in casa, invece mi feci
coraggio e salii in macchina. Aprii la capote della spider, permettendo all’aria fresca di asciugare il gel nei capelli; ci sono
due cose che mi ossessionano: i capelli e i denti. Se non sono
perfetti, non mi sento a posto, non sono io.
Ingranai le marce in rapida sequenza e partii verso la città,
accompagnato come sempre dalla voce unica e avvolgente di
Luciano Pavarotti. La Mazda scendeva veloce e silenziosa e il
breve tragitto da Pergine, dove abito, fino a Trento mi caricò di
un’energia inaspettata; l’aria sul viso, la musica di Puccini, il
rombo ovattato del motore e il buio della notte, mi galvanizzavano, avvolgendomi in un piacevole e surreale abbraccio.
Trovai Davide già al parcheggio e decidemmo di farci un
caffè in centro, alla Contrada dei tedeschi, ma le nostre speranze di trovare qualche ragazzo interessante si affievolirono
presto. La città era quasi deserta, complice sicuramente anche
il mese di agosto; pochi i locali aperti e quei pochi con scarsissima affluenza.
Passammo allora al piano b, quello sicuramente più stimolante, e decidemmo di farci una “vasca”, un giro nel parco di
piazza Torre alla ricerca di qualche inaspettato incontro: due
parole, una sigaretta, uno sguardo d’intesa e se si ha fortuna si
finisce a letto. Visto con altri occhi potrebbe sembrare squallido, eppure non è così, è solo uno dei tanti modi per conoscere
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persone e soprattutto con i nostri stessi gusti, senza imbarazzi
e senza dare spiegazioni.
Arrivati ai giardini, trovammo solo qualche tizio in mezzo
alla pineta che si aggirava con fare annoiato, sbirciando di tanto in tanto il cellulare, così decidemmo di dividerci, magari
avremmo avuto più chance.
Dopo un po’ intravidi un tipo davvero carino che mi fissava
sorridendo. Da lontano dava l’impressione di essere giovane,
curato e interessato a me. Non era della città, veniva da un piccolo paese di una valle a nord, sperduto tra le montagne. Per
le sue scorribande notturne preferiva andare fuori provincia
dove la probabilità di imbattersi in conoscenti era remota, ma
quella sera aveva deciso di rischiare e scendere fino a lì, anche
se si stava già pentendo: non aveva ancora combinato nulla e
rischiava di tornarsene a bocca asciutta.
Mentre mi parlava, lo fissavo con desiderio, attratto dai
pettorali ben definiti e dalle braccia robuste da boscaiolo. Una
leggera tensione mi stava invadendo e quando il mio sguardo
cadde sui suoi jeans e mi accorsi che stava avendo una vistosa
erezione, iniziai a tremare in maniera quasi percettibile, riflesso della voglia che cresceva prepotente dentro di me.
Con poche parole d’intesa, ci dirigemmo verso la parte alta
della piazza, quella più nascosta agli occhi indiscreti, dove
avremmo potuto approfondire la conoscenza. Come me, non
era uno che perdeva tempo in inutili preamboli e infatti mi
ritrovai subito con la sua lingua ficcata in gola e il suo corpo
che si strusciava ansioso contro il mio. La sua mano scivolava
veloce e decisa su di me e raggiunse ben presto il mio sesso, io
però lo fermai: eravamo troppo esposti, rischiavamo davvero
di essere arrestati per atti osceni. Gli proposi di spostarci a
casa mia, saremmo stati più tranquilli e più comodi. Lui non
volle saperne, anzi, si chinò e prese a leccarmelo con avidità.
Sentivo la sua bocca calda avvolgermi delicatamente il
membro che stava crescendo a dismisura mentre io gli tenevo
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la testa tra le mani. Non avrei voluto farlo smettere, ma era
davvero troppo azzardato e dovetti a malincuore bloccarlo rinnovandogli l’invito a continuare in un posto più sicuro. Non
accettò e l’incontro si concluse con il meccanico rituale dello
scambio di numeri di telefono, anche se era pressoché scontato che non ci saremmo sentiti né rivisti. Lo vidi allontanarsi,
indifferente e distante ancora prima di essere risucchiato dalle
ombre degli alberi. Rimasi un po’ con l’amaro in bocca per non
essere riuscito a portarmelo a casa: sentivo che ci saremmo
capiti e non solo fisicamente, ero sicuro che quell’assaggio di
estasi fosse solo l’accesso a una comunione ben più profonda
ed esaltante.
Il mio amico nel frattempo era sparito, forse era stato più
fortunato di me e si stava divertendo oppure, conoscendo la
sua innata impazienza, si era stufato, ed era già andato via.
Mi accesi una sigaretta per tranquillizzarmi e decidere cosa
fare. Guardai l’orologio, erano le ventidue e quarantasette.
Portai il filtro alle labbra spostando distrattamente lo sguardo
verso la parte bassa della piazza ed è lì che apparve lui: Lorenzo. Con la mano sospesa a mezz’aria, iniziai a squadrarlo,
sostenendo in maniera quasi arrogante il suo sguardo.
Aveva l’eleganza di un ghepardo che avanza furtivo, e un
po’ intimorito, come se temesse di essere spiato e avesse paura
di incontrare qualcuno di conosciuto. Era vestito in maniera
molto semplice, forse anche troppo per i miei gusti: bermuda
scuri, polo a righine che non avrei messo neanche per andare
in cantina e soprattutto, cosa per me a dir poco inaccettabile,
indossava gli infradito. Era magro, un po’ scialbo e a prima
vista poteva passare inosservato, eppure su di me aveva un
effetto ipnotico. Più si avvicinava più ero ammaliato dall’espressione dei suoi occhi profondi e penetranti e dal sorriso
luminoso e aperto.
Fu una specie di visione che mi trasportò in un istante senza tempo, in un’altra dimensione, come fossi uno spettatore
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che portato per mano al limitare del palcoscenico poteva sbirciare da una posizione privilegiata tutta la scena.
Aveva una voce baritonale, autorevole e molto erotica, mani
lunghe e affusolate e il suo modo di porsi era calmo e cortese.
Dava l’impressione di essere un uomo d’altri tempi, un nobile
ottocentesco che desiderava qualcosa di alternativo alla solita
serata al club.
Scambiammo qualche parola, dopodiché proposi senza esitazione di andare a casa mia; lui acconsentì con entusiasmo;
alla fine però decidemmo per la sua che era più vicina.
Capii subito che a differenza mia non era un appassionato
di automobili, la sua era di un ordinario imbarazzante; ovviamente non dissi nulla, non volevo apparire maleducato, inoltre
la serata prometteva bene e non volevo rovinarla sul nascere.
In pochi minuti raggiungemmo il parcheggio del palazzo
dove abitava; era un po’ isolato e non c’era nessuno in strada,
soltanto un vigilante della guardia notturna che faceva il giro
di controllo, che nemmeno ci notò. Ero un po’ teso e mi stavo
domandando se non fosse il caso di inventare una scusa per
andarmene: non sarebbe stata certo la prima volta e sicuramente neanche l’ultima che battevo in ritirata ancora prima
dello scontro. Ero indeciso tra il fuggire e il rimanere, andando
fino in fondo con un tipo di cui a malapena ricordavo il nome.
Tutte le mie avventure iniziano più o meno allo stesso
modo: ci si incontra, ci si squadra e si decide cosa fare e dove
andare. Quella volta, invece, avevo una sensazione che non
riuscivo a decifrare, ero insieme galvanizzato e titubante, forse un po’ preoccupato, vagavo tra l’eccitazione e la diffidenza.
Respinsi quegli impulsi contrastanti, anche perché eravamo
già entrati in ascensore e non c’era più tempo per tirarsi indietro, le sue dita erano già sulle mie labbra, ormai lo scontro era
cominciato.
L’attico era di un’eleganza mai vista; raffinato e originale,
era una fusione di mobili d’epoca mescolati con gusto e auda13
cia ad arredamento di design. Il salotto profumava di incenso
e aveva un’aria orientale: foulards in taffetà ricoprivano parzialmente cuscini in damasco adagiati per terra e uno strepitoso Shirvan era srotolato ai bordi del divano. Il pavimento
era in statuario venato con suggestivi intervalli di marmo nero
marquinia: uno splendore. Un gigantesco quadro di Zimmer
dai colori accesi troneggiava al centro del salone, sovrastando
una scultura gotica di legno chiaro, forse cirmolo, un accostamento insolito e di grande effetto e grazia.
Dopo uno scambio di domande e risposte di routine, mi
venne spontaneo abbracciarlo da dietro, e lo feci come se ci
conoscessimo da sempre, con naturalezza, senza imbarazzo e
tutta la tensione e i dubbi di poco prima già non esistevano
più.
Gli sbottonai la polo lentamente e altrettanto lentamente
gliela tolsi, poi passai alla cintura dei pantaloni. Era brutta,
tutta consumata, una stonatura rispetto al lusso dell’appartamento che mi strappò un risolino, di cui però, per fortuna, lui
non si accorse.
La mia mano scese con delicatezza e si infilò nei boxer, anche questi non molto seducenti, in compenso, racchiudevano
una graditissima sorpresa: un sesso bello, dritto e di notevoli
dimensioni. Non resistetti e glielo presi in bocca con una voracità e un desiderio che non ricordo di aver provato con nessuno: era caldo, invitante e soprattutto duro. I nostri corpi iniziarono a fondersi, accompagnati da un’armonia che solo noi
potevamo sentire, come se un maestro invisibile ci guidasse in
quella danza di passione ed erotismo. Le sue mani scivolavano
dolci sulla mia schiena che si inarcava e abbassava, quasi a
segnare il ritmo del nostro desiderio; il respiro era accelerato
e interrotto da baci audaci e le nostre lingue continuavano a
mulinare spingendosi sempre più in profondità.
Eravamo eccitatissimi e senza lasciarci un momento, insistevamo a sbatterci contro il muro che portava in camera da
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letto, sentendo pulsare i nostri membri impazienti di dare sfogo alla voglia. In pochi secondi mi ritrovai sul letto con Lorenzo in ginocchio che mi stava sfilando i pantaloni.
Quasi avesse già previsto che quella sera si sarebbe portato
a casa un ragazzo, aveva steso sopra le lenzuola una preziosa
coperta di velluto verde acido. Non era l’occasione giusta, lo
so, purtroppo però non potei fare a meno di dirgli di toglierla:
ho un’innata cura per gli oggetti fatti di quel tessuto e mi sarebbe dispiaciuto sporcarla con il nostro sperma.
Il velluto mi riporta alla città di Ala, antica patria di questa preziosa stoffa e piccolo gioiello nel Trentino meridionale,
dove magnifici palazzi barocchi del Settecento si aprono alla
vista dei fortunati viaggiatori e dove Mozart, che ci soggiornò
per un periodo, sembra materializzarsi a ogni angolo.
Facemmo l’amore due volte con una foga e una grazia che
non scorderò mai.
Il suo corpo profumava di spezie e di legni preziosi e più lo
baciavo più sentivo un gusto strano in bocca che mi ricordava il caramello e le mandorle. Mentre lo penetravo, lo vedevo
contorcersi di piacere, come se stesse raggiungendo vette di
godimento mai provate, perdendosi in un rinnovato dolore ed
estasi a ogni mia nuova concessione.
Il suo viso era una sequela di smorfie e la sua voce si era
fatta roca e mi supplicava di non smettere.
Dopo ripetuti orgasmi, gli rimasi addosso per un tempo che
mi sembrò stranamente lungo per una scopata occasionale;
non voleva che mi separassi da lui e godeva e voleva continuare a godere del mio odore e del battito del mio cuore sul
suo petto. Del resto, nemmeno io riuscivo a trovare la forza di
spostarmi da lui che mi stringeva accarezzandomi la schiena
con la punta delle dita.
Alla fine ma non senza dispiacere, fui io a staccarmi da
quel caldo e sensuale abbraccio e con una naturalezza, per me
del tutto insolita, facemmo una doccia assieme baciandoci e
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scambiandoci tenerezze. Alla fine ci rilassammo nel suo soggiorno avvolti in morbidi accappatoi, come fosse la perfetta
chiusura di un incontro tra due innamorati e non tra completi
sconosciuti.
Passammo più di un’ora a parlare di musica, e scoprii che
anche lui era appassionato di lirica. Come me aveva frequentato il Conservatorio: io oboe, lui pianoforte. Avevamo tante
cose in comune e a furia di chiacchierare e perderci in aneddoti sui vari compositori, mi resi conto di aver fatto molto tardi.
Erano già passate le due e mi ricordai di Davide.
Mi rivestii a fatica e dopo averlo baciato ancora una volta,
mi venne naturale sfiorargli con la mano il corpo guardandolo
dritto negli occhi. Quindi avvicinai il mio viso al suo con un
gesto di affetto e gratitudine e meccanicamente, senza entusiasmo, gli chiesi il numero di cellulare, poi uscii dall’appartamento. Ero sicuro che non lo avrei più rivisto e che anche lui
sarebbe finito nella lunga lista degli altri uomini, senza volto
e senza nome.
Scesi le scale centellinando i passi, strisciando la schiena
sul marmo della parete, come fasciato da un senso di disagio.
Anche se contento, avevo l’immotivato sentore di aver fatto
una cosa sbagliata, quasi sporca. Era una sensazione di cui ero
spesso vittima, e a cui non sapevo dare una spiegazione, per
fortuna spariva presto. Ero stremato, le gambe mi tremavano, come segnate da un’intensa lezione di dressage e sentivo
freddo, nonostante i ventotto gradi di quella serata agostana.
La gola era riarsa, mi bruciava, le labbra erano secche e avevo
una gran sete che dovevo placare. Con la mente ancora eccitata per le intense emozioni provate e un sorriso di compiacimento stampato sul volto, aprii con cautela il portone cercando di non fare rumore ma lo scatto inaspettato della serratura
risuonò forte come un colpo di rivoltella nella notte. Feci un
sobbalzo e veloce come un ladro me ne andai.
Mi diressi di corsa verso la piazza alla ricerca di Davide.
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