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numero 35 anno VII 14 ottobre 2015 ISSN 2421-6909
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DOPO EXPO: TRAGICO COME LA TORRE DI BABELE?
Luca Beltrami Gadola
La “Lettera aperta” che abbiamo
pubblicato la settimana scorsa e
che in molti stanno ancora sottoscrivendo, spero otterrà risposte alle
tante domande. Alcuni motivati rifiuti
a sottoscrivere sono pure giunti, chi
per ruolo ricoperto nelle pubbliche
istituzioni chiamate in causa, chi per
dissenso, ma anche commenti all’iniziativa. Ne diamo conto con gli
articoli di Giorgio Goggi e Damiano
Di Simine e con la lettera di Roberto
Biscardini.
Vorrei a quelle domande aggiungerne una che non mi pare irrilevante: siamo sicuri di capirci parlando
del futuro delle aree di Expo (ma
non soltanto di questo)? Mi piacerebbe veder scendere in campo, per
darci una mano, gli esperti di semantica che dottamente registrassero, se ci riescono, i significati che
diamo alla stessa parola, assegnandole una sorta di hashtag distintivo per ogni significato (almeno
per i principali). Lasciamo da parte
le parole più diffuse e bistrattate
come democrazia (uno dei tormentoni preferiti dell’ultimo Berlusconi),
libertà, destra, sinistra e così almanaccando, perché sarebbe un lavoro improbo.
Gli esperti di semantica ci farebbero
un favore se cominciassero da quelle che stiamo usando nel dibattito
sul “dopoexpo”: ricerca, innovazione, progresso, compatibilità, visione, condivisione, partecipazione,
campus … . Operazione semantica
non solo utile ma indispensabile
perché la politica ormai si fa per
slogan e scavalcando i comunicati
ufficiali con i tweet, spesso comodi
nella loro sintetica ambiguità: da
chiosare, da interpretare e da smentire secondo il comodo, tanto ognuno usa le parole a modo suo.
Tornando alle nostre beneamate
aree e al loro destino, io penso che
la fase degli slogan comunque debba finire che si debba arrivare presto alla fase delle idee (appunto
comprensibili), alla fase delle decisioni, a quella dei programmi, a
quella dei tempi, a quella che le
comprende tutte: l’assunzione di
responsabilità.
Emerge prepotente dal dibattito sulla stampa e dalle reazioni alla nostra “Lettera aperta” un interrogativo: chi deve decidere? Anche qui
dovremmo chiarirci le idee: chi deve
proporre? Chi deve decidere? E chi
decide nell’interesse di chi deve
prendere le decisioni?
È esemplare da questo punto di vista la lettera che pubblichiamo qui
accanto e che abbiamo ricevuto dal
consigliere comunale nonché presidente della Commissione urbanistica Roberto Biscardini: “L’unico interlocutore cui spetti dire per competenza la sua sul dopo Expo, non ex
post ma ex ante, è il Consiglio Comunale …”. Dunque il Consiglio
Comunale dovrebbe prendere decisioni che riguardano in parole povere forse uno degli episodi più significativi nel mondo della ricerca? Dovrebbe decidere su una parte dei
destini italiani in tema di economia
della conoscenza? Ne dubito. Non
solo ne dubito ma mi domando: chi
avrebbe in Consiglio il coraggio di
stendere una “Proposta di delibera
di iniziativa consigliare” sul destino
di queste aree? Quanto tempo ci
vorrebbe per discuterla? Quale sarebbe l’atteggiamento della maggioranza che non sembra così compatta?
Forse se ognuno dei livelli istituzionali chiarisse, il che è più facile e
meno divisivo, quali ricadute sarebbero auspicabili per il Paese e i cittadini in relazione alle specifiche
competenze territoriali di ognuno,
faremmo un passo avanti. Si avrebbe un panorama utile a tutti. Sarebbe comunque meglio non seguire la
vecchia strada di aspettare le decisioni altrui e mettersi di traverso per
ostacolare quelle che si ritengono
dannose o tropo poco utili per i pro-
pri amministrati, la classica scelta al
ribasso.
Il problema del “decisore” è dunque
aperto e, di conseguenza, quello
dell’attuatore.
Credo che debba essere ovvio che
il caso “aree Expo” è un banco di
prova per tutti: classe politica, classe dirigente, i cosiddetti oggi poco
amati intellettuali, la classe imprenditoriale, il mondo dell’università e
della ricerca, i cittadini e le loro organizzazioni e per finire i media.
Una scommessa di civiltà. Mission
impossibile?
E Babele che c’azzecca? Tra me e
me vedendo la vicenda ”dopoexpo”
mi vien da pensare alla torre di Babele e alla confusione dei linguaggi,
perché è uno dei versetti della Bibbia (1) che si presta a molte interpretazioni ma che parla di certo della difficoltà di fare se non ci si capisce. Cosa vogliamo dire? Un vecchio problema.
(1) «Tutta la terra aveva una sola lingua
e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura
nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.
Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci
mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone
servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci
una città e una torre, la cui cima tocchi il
cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore
scese a vedere la città e la torre che gli
uomini stavano costruendo. Il Signore
disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e
hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro
impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non
comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la
terra ed essi cessarono di costruire la
città. Per questo la si chiamò Babele,
perché là il Signore confuse la lingua di
tutta la terra e di là il Signore li disperse
su tutta la terra. » (Gen. 11, 1-9)
EXPO VERSO POST-EXPO: QUALI LEZIONI PER IL FUTURO?
Luciano Pilotti
I molti contributi analitici sbocciati
negli ultimi mesi e settimane su Expo- Post-Expo e tra questi anche
quello del Commissario Expo sulle
pagine del Corriere della Sera assieme a tanti altri chiariscono abbastanza bene una delle traiettorie
portanti sulle quali indirizzare gli impatti di Expo nei prossimi mesi e
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anni e come trasferirne gli effetti positivi nel medio - lungo termine: la
promozione del turismo in chiave di
sviluppo delle relazioni internazionali derivate dal-l’evento e del suo mix
tra buon livello di servizio, cultura,
paesaggio e gusto dell’Italian life
style che sono stati enfatizzati nelle
aspettative degli utenti, assegnando
continuità nelle capacità di attrarre e
- soprattutto trattenere - gli utilizzatori effettivi e potenziali (consumatori, investitori, imprese, istituzioni).
Un Grande evento deve innanzitutto
essere un mezzo (di sviluppo, di
benessere, di qualità del contesto,
di consapevolezza dei fattori di forza e debolezza) e non un fine, co-
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gliendo “prima” cosa e come verrà
trasferita la sua eredità “dopo” e disegnandola proprio con questa
scansione temporale. I tanti failures
di non poche precedenti manifestazioni universali sono derivati da
questo punto. Una prospettiva che
può aiutarci a capire e scegliere la
strada migliore per il dopo che ora
sembra delinearsi all’oriz-zonte con
la decisione del Governo di fare la
sua parte in un progetto che è di
scala europea, non solo milanese o
lombarda.
Ma si può e si deve allargare lo
sguardo indagando proprio quelle
aspettative che l’evento a tutta evidenza, nonostante le (spesso improprie) critiche iniziali - ha sospinto
e alle quali ha saputo dare risposte
concrete per affidabilità del servizio,
continuità e livello di prestazione.
Uno degli epifenomeni, le code, apparentemente interminabili, e tuttavia sempre ordinate e ben canalizzate, vanno lette come una domanda crescente del rilievo dell’Italian
Life Style nel mondo da una parte e,
dall’altra, anche e forse soprattutto
come espressione di una forte domanda di partecipazione certo non
“al ristorante globale” - come detto
incautamente - ma quale segnale
inequivocabile di volere contribuire
al “cambiamento del mondo”.
Un cambiamento che parte dalla più
antica tecnologia della vita che è il
cibo con le filiere produttive derivate
dell’alimentazione e dell’a-gro - industria (della ristorazione come del
turismo ovviamente), così come della ricerca e innovazione che queste
piattaforme di produzione e consumo (sempre più integrate e ben sintetizzate dalle figure dei prosumer)
trascinano inevitabilmente. Quindi il
tema “Feeding the Planet Energy for
Life” si è rivelato ben focalizzato e
del tutto coerente con la nostra storia passata recente e (probabilmente) futura, anche perché capace di
intercettare le grandi sfide planetarie: climate change, fame, scarsità
dell’acqua, diseguaglianze, education, accessibilità alle risorse.
È
dunque,
potremmo
dire,
l’avanguardia “normale” di un “popolo planetario” a essere stata presente a Expo per cambiare il mondo a
partire dai giovani e dalle donne innanzitutto nella responsabilità e sostenibilità della ricerca di un nuovo
rapporto tra uomo e natura, tra cultura e tecnologia, tra paesaggio e
urbanesimo, tra territori e infrastrutture, tra manuale e intellettuale da
consegnare alle nuove generazioni.
Accoppiamenti che ‘800 e ‘900 avevano cercato inesorabilmente di separare e che oggi vanno invece ricomposte e sui quali si sono addensati molti insegnamenti e lasciti di
questa Esposizione Universale così
diversa da quelle originarie del 1750
e del 1851, entrambe a Londra a
“mostrare” i “salti” delle prime due
rivoluzioni industriali relativamente a
prodotti e tecnologie idrauliche e
meccaniche, perché pone al centro
le relazioni tra persone e culture,
l’ambiente nel quale vivono e la conoscenza utile per migliorare la
convivenza “sostenibile e responsabile” dell’umanità intera.
Infatti sono almeno altre tre le dimensioni che vanno rilette per cogliere appieno l’impatto di Expo sulle capacità attrattive e che riguardano gli utenti primari (i loro comportamenti), le imprese (le loro forme e
traiettorie di crescita e di internazionalizzazione) e le istituzioni (nazionali e internazionali) e per potere
dare continuità ai diversi (micro e
macro) insegnamenti (che illustrano
le nostre forze e anche le nostre
debolezze) che - ora che ci avviamo
alla sua conclusione - ne possiamo
derivare assieme a quelli già ricordati dai molti osservatori per delinearne con più compiutezza gli effetti
eco-sistemici ai quali dobbiamo dare indirizzo rinforzando ciò che Expo
2015 ha seminato.
Le culture di consumo sono forse
quelle più enfatizzate dall’evento
richiamando a comportamenti sobri
e responsabili e soprattutto solidali
nell’uso/accesso delle/alle risorse e
che si possono sintetizzare nel
“consumare meno per consumare
meglio” e in questo modo “vivere
meglio” nel rispetto degli altri e
dell’am-biente nel quale siamo inseriti e con il quale interagiamo e dal
quale apprendiamo, ripresi opportunamente nel protocollo disegnato
dalla Carta di Milano.
Un consumo attento non spreca,
perché lo spreco del cibo è soprattutto distruzione di lavoro, di risorse
e di tempo oltre che di saperi e di
varietà degli stessi. L’Esposizione
Universale di Milano ci ha stimolato
in questo a una continua curiosità
verso l’altro e alle fonti della vita e in
questo coltivando la varietà (di prodotti, colture e culture, di processi
moderni e pratiche antiche di produzione e consumo come di canali
distributivi) e che vuole fare incontrare una globalizzazione dei sapori
con quella dei saperi perché nulla
venga spento, magari facendo dialogare i contadini africani e McDo-
nald, le donne sudamericane e la
Nestlè, Ferrero e i produttori di olio.
Expo come ponte ambizioso tra
global e no-global, tra Carlin Petrini
e la Coca Cola. Tutto ciò richiede la
disponibilità alla fruizione di convivialità, di mercati che diventano
dunque “conversazioni” che “superano” un individualismo autointeressato per aprirsi a una relazione con l’altro e con la comunità di
riferimento che è sempre più locale
e globale insieme. Una comunità
ben simulata da Expo in Città e le
decine di migliaia di eventi che hanno coinvolto e partecipato un’intelligenza planetaria in forme collaborative anche inaspettate, creative,
con migliaia di piccole e grandi invenzioni sperimentate dal cibo
all’elettronica, dalla sicurezza alla
casa fino alla cultura e all’arte e che
forse troveranno diffusione nei
prossimi mesi e anni ma che già
nella sharing econmy o nel coworking trovano spinte e realizzazioni di
interesse dove Milano sta facendo
da apripista. Abbiamo imparato ad
agire come comunità aperte e permeabili all’innovazione e al cambiamento nella varietà delle interdipendenze tra proposte globali e locali nel “superamento” di consumi e
produzione di massa di un paese
che può competere se saprà sviluppare la “personalizzazione di massa” (mass customization) essendo
la palestra di piccola e media imprenditorialità più ampia e creativa
del mondo.
L’Italian Life Style così come il Made in Italy guardano proprio a un
consumo personalizzato di massa
veicolato da migliaia di PMI che - in
connessione complementare con
medie e grandi imprese - oggi domandano infrastrutture adeguate
(banda larga, scuola, formazione,
mobilità, accesso a risorse finanziarie) e che tuttavia oggi richiedono
approcci di filiera per la porosità intersettoriale emergente che lega
prodotti ai servizi e ai processi che li
generano in specifici contesti: dal
cibo all’agroi-ndustria alla ristorazione, dalla robotica alla meccanica
strumentale, dalla chimica alla farmaceutica fino alla nutriceutica. Filiere che agiscono dentro precisi
contesti territoriali che fanno la qualità dei loro prodotti finali se quel territorio è attrattivo e accogliente, tollerante cioè se diventa capitale sociale, come dicono Giacomo Becattini e Richard Florida.
(continua)
*ArExpo SpA e Università di Milano
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IL TRAMONTO DI PISAPIA
Walter Marossi
Tempo addietro Pisapia voleva fare
il ponte: “Serve un nuovo soggetto
di sinistra che riesca a governare
con il Pd. Io vorrei avere un ruolo di
ponte per fare tornare al dialogo
persone che non si parlano ma che
possono governare insieme, rinunciando a strappi e insulti. La sinistra
ha mancato la rotazione di incarichi
che è fondamentale per la vitalità.
Spero che il futuro leader non sia
uno dei soliti nomi, ma qualcuno
che finora è rimasto dietro le quinte.».
L’esperimento milanese, secondo
Pisapia, dimostrava come si potessero unire le varie anime della sinistra, a Roma ormai lontane. In pratica prospettava per sé il ruolo di
facitore di un centrosinistra nel quale Arancioni, Sel e movimenti vari
dialogavano da pari con il Pd, con
l'ipotesi di esportare il modello Milano in giro per la penisola e forse a
Roma. Un’opzione alternativa a
quella renziana che preso atto dei
numeri parlamentari, governa con
Alfano e Verdini e non disdegna i
patti con Berlusconi.
Oggi però Pisapia non riesce neppure a indicare un suo successore
nonostante questa indicazione sia
l'unica concreta possibilità di dare
continuità politica al lavoro di questa
giunta e nonostante gli sia stato richiesto con inusuale umiltà e generosità dal Presidente del consiglio
(visto anche l'esperienza non felicissima del candidato sostenuto da
Pisapia per la Regione) e da tutti gli
attori milanesi del centrosinistra.
L'indicazione in corner della Balzani
eccellente esperta di bilanci, assessora silenziosa e affascinante ma
senza alcuna popolarità né cittadina
né politica e comunque di molto inferiore a quella di Fiano o Majorino,
sembra più che altro un espediente
per non fare scena muta, e più che
un ponte sembra una passerella di
salvataggio.
Neanche il mantra delle primarie
appare sincerissimo, visto che per
farle basterebbe fissare delle regole, compito non proprio complicatissimo, invece ci mettono mesi per
dare mandato a 11 volonterosi di
scrivere una Carta dei valori di cui
nessuno se ne cale; diciamo che
Pisapia e con lui buona parte del
centro sinistra spera che le primarie
spaventino e allontanino Sala, il vero rappresentante del partito della
nazione, che più che in continuità
con Pisapia è in continuità con la
Moratti che lo volle in Comune e in-
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sieme con altri fedelissimi (meno
commendevoli) in Expo. Strumento
anti Sala forse efficace, le primarie
sono però anche uno strumento pro
Fiano e Majorino, due che misteriosamente risultano essere indigesti
manco c'avessero la rogna.
Perché un declino così rapido?
Semplicemente perché nel momento in cui ha rinunciato a ricandidarsi
Pisapia ha rinunciato alla leadership
che aveva ricevuto dalle primarie
prima e dal voto popolare poi e che
aveva ben esercitato nei primi anni
del suo mandato. Non ricandidarsi è
come annunciare le dimissioni, è
lasciarsi risucchiare nel gioco dei
partiti, dei partitini, delle correnti, dei
candidati, è condannare al massacro i fedelissimi arancioni (giustamente i più delusi dalla rinuncia definita schettiniana), è lasciare campo libero all'omologazione tra politica nazionale e locale, è in poche
parole disertare. Anche in termini di
popolarità ne ha sofferto, che come
diceva mia madre: “Chi non mi vuole non mi merita”.
Il sindaco si è adeguato a quella
sentenza latina che dice “Meglio
dover sopportare il proprio erede
che doversene cercare uno” e ha
cercato di rinviare sine die il chiarimento con Renzi. Suo legittimo diritto quello di riposare ma come diceva il re nano “in casa Savoia si regna uno per volta” e decisa l'abdicazione Pisapia se voleva fare il
king maker doveva accelerare tempi
e modalità dell’investitura dando
prova dello stesso decisionismo dei
tempi del ghigliottinamento di Boeri,
invece ha tentennato troppo a lungo.
Nel centro sinistra con tipica ipocrisia politically correct (pianto d'erede
è mascherato riso diceva Seneca),
ci si nasconde dietro la valorizzazione dei programmi e del ruolo delle primarie, per nascondere una banale verità: scomparso Pisapia
scompare quel modello di proposta
politica. Ricordate i 50.000 in piazza
con Vendola e Camusso? Il manifesto “Grazie Milano si cambia davvero”? Il titolo dell'Unità “finalmente” e
del Manifesto: “Che sballo”? Ne rimane solo il ricordo. L'entusiasmo
del 2011 è evaporato in nostalgia e
oggi Vendola e Camusso sono tra i
principali avversari del governo
Renzi.
Ricorderemo Pisapia con affetto per
aver rinverdito la speranza di un socialismo municipale, per aver dimostrato che si può vincere partendo
dalle idee di sinistra, per aver ridato
vita a una Milano da bere (vedasi le
folle sui Navigli) nel senso positivo
del motto: è stato un bravo amministratore e un modesto politico.
É stata la sua una giunta di ottimi e
onesti gestori verrebbe da dire albertinianamente condominiali, di
seri normalizzatori delle stupidaggini
morattiane, di coraggiosi affrontatori
di emergenze, di rigorosi realizzatori
dei progetti ereditati, una giunta che
ha migliorato la qualità della vita dei
milanesi (sia lode in primis a Maran), di low profile per creatività e
inventiva: una giunta long seller,
un’amministrazione rosa-grigio.
Penso che a Pisapia toccherà il destino di Caldara: archiviata la sua
opzione strategico politica non si
ricandidò alla carica di sindaco ma
fu utilizzato dal suo successore in
pectore per la campagna elettorale
e poi pensionato in ruoli minori.
Comunque sia con tipico spirito meneghino pagato il tributo al merito
passato, si volta pagina.
I primi a prenderne atto sono stati
Majorino e Fiano che certo non
hanno aspettato l'imprimatur del
sindaco; poi la De Cesaris che
quando ha capito che dal sindaco
non sarebbe uscita la sua indicazione ha tolto il disturbo; poi da Rifondazione Comunista che ha salutato
le primarie di coalizione premettendo che loro la coalizione con Renzi
non la vogliono fare, generando entusiasmo tra quei renziani che ben
sostituirebbe Rizzo con Colucci; dal
viperino Civati: lo "schema Pisapia
non esiste più" questo perché "c’è
chi ha scelto la governabilità a scapito della rappresentanza... In giunta erano quasi tutti renziani, più o
meno dichiarati … .Il sindaco di Milano non è una figura minore: non
può non avere un’opinione sulle cose che accadono a Roma, discuterle e influenzarle. L’idea che Milano
faccia altro è molto pericolosa e parecchio ipocrita” e altri verranno.
Con Pisapia appassisce anche il
progetto Arancione originario, quello
della somma di diversi: dai circoli
movimentisti agli ottimati borghesi
dai riformisti socialdemocratici ai
libertari radicali; sbaglierò ma il
nuovo civismo mi pare essere l'apripista del partito della nazione di cui
aspira a essere l'ala sinistra. Appassisce l'epoca del rito ambrosiano, delle giunte anomale rispetto al
quadro nazionale: il candidato o sarà renziano o lo diverrà. Appassisce
l'idea di primarie come strumento
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palingenetico (come diceva il programma ufficiale: “La scelta delle
primarie nasce dall’esigenza di rilegittimare la politica e questo mette
in discussione il ruolo dei partiti. La
loro riforma è senza dubbio necessaria ma passa attraverso la consa-
pevolezza della loro parzialità, della
crescita di esperienze politiche in
altra forma, con altre modalità“).
Appassisce l'idea che da Palazzo
Marino si possa costruire un modello nuovo di partecipazione popolare.
Se fosse andato meno alla Scala e
più ai concerti forse il sindaco avrebbe ricordato i Nirvana: “meglio
bruciare che appassire” e adottato
una strategia diversa. Comunque
grazie.
DOPO L'EXPO, C'E' UNA CITTÀ?
Damiano Di Simine
La decisione sul post-Expo si dibatte in un conflitto di difficile composizione. Da un lato c'è l'urgenza, perché un'area così attrezzata lasciata
in stand-by ha i giorni contati: mantenerla presidiata durante e dopo lo
smontaggio è inevitabile se non si
vuole compromettere il mantenimento in efficienza delle infrastrutture tecnologiche ed evitare l'innesco
di una spirale di degrado ma ha anche un costo alla lunga insostenibile. Occorre fare in fretta anche perché le risorse finanziarie per localizzare un polo universitario, ancorché
disponibili, non possono certo aspettare a lungo.
Ma occorre allo stesso tempo governare l'effetto domino che uno
spostamento in blocco del campus
di Lambrate determinerebbe sul
quartiere universitario: non dimentichiamo che solo due anni fa la Regione Lombardia ha deciso di localizzare Città della Salute nelle aree
ex - Falck di Sesto, per trasferirvi gli
istituti di ricerca e cura di Città Studi, ove si lamentava l'indisponibilità
di spazi per i necessari ampliamenti.
Come si giustificherà ora l'enorme
investimento richiesto, se contestualmente il campus storico si avvia alla dismissione? Occorre affrontare una vera e propria voragine
di programmazione territoriale.
Insieme all'urgenza c'è però la necessità di non prendere decisioni
affrettate, considerando che il destino dell'area ha a che fare con il progetto di città metropolitana, per il
quale la piastra Expo costituisce
piattaforma di atterraggio di funzioni
strategiche. La discesa in campo
del Governo è un segnale importante a una condizione: che sia ferma e
chiara la volontà di localizzare un
intervento di rilevanza nazionale, e
quindi sussista la disponibilità a iniettare risorse finalizzate ad esempio a insediare un polo tecnologico
che
ambisca
a
costituire
un’eccellenza del Paese, possibilmente in continuità con il tema di
Expo. Se così fosse, la metropoli
milanese ha di sicuro le carte in regola per ospitarlo e accudirne lo sviluppo e l'accreditamento internazionale.
L'idea di localizzare un mix di funzioni, dal campus universitario al
polo di ricerca, alle agenzie pubbliche, alla residenza sociale, all'economia sociale, è intrigante ma presuppone una regia, un disegno ed
anche un discernimento non scontati, per evitare che alla fine nel mix
confluiscano funzioni “di risulta” o di
semplice riorganizzazione dell'esistente. La piastra Expo infatti non è
un'isola felice, ma un’enclave entro
un quadrante periferico la cui problematicità, occultata durante il periodo di Expo, è destinata a pesare
sugli utilizzi successivi.
Lungo il perimetro esterno del sito
sono presenti un carcere, industrie
ad alto rischio di incidente rilevante,
una cava contenente centinaia di
migliaia di tonnellate di rifiuti tossici
smaltiti illegalmente per decenni,
un'illeggibile concentrazione di capannoni industriali, il quartiere Stephenson, ovvero uno dei più estesi
non-luoghi nel perimetro urbano milanese, il vasto ambito di trasformazione di Cascina Merlata dalle sorti
incerte, un impressionante e ridondante groviglio di grandi infrastrutture di mobilità. Punto di forza è l'eccellente accessibilità dalla rete del
trasporto pubblico ferroviario, migliorabile con una fermata di rinforzo del passante sul lato orientale.
Ma nonostante ciò la patologia da
perifericità, aggravata dalle condizioni al contorno, resta in agguato.
Vi è poi da ricordare la giusta ipoteca dei referendum civici: un’ampia
consultazione dei cittadini ha infatti
inequivocabilmente stabilito la necessità che il post-Expo lasci in eredità un'area verde di vaste proporzioni, un parco: nei primi masterplan
circolati il verde non manca, ma appare distribuito generosamente a
colmare, in modo più o meno vero-
simile, gli interstizi compresi tra i
futuri volumi: non emerge il disegno
di un vero parco.
L'auspicio è quello di un progetto
che risulti abilitante per un percorso
di rigenerazione, urbana e territoriale, che non sia circoscritto al perimetro della piastra Expo ma si riverberi sull'intorno metropolitano:
diversamente occorrerebbe pensare
a un campus dotato di recinzioni
invalicabili e vigilanza permanente,
una specie di caserma tecnologica,
l'unica configurazione che consenta
di convivere con le funzioni al contorno. Al contrario, il progetto deve
essere un progetto aperto, che non
escluda la società ed anzi sia inclusivo di Cascina Triulza come asset
strategico per l'attivazione e la manutenzione di funzioni comunitarie;
della configurazione espositiva deve
conservare la dimensione di quartiere privo di auto entro cui praticare
schemi, costumi e innovazioni di
mobilità leggera e logistica intelligente, riducendo così anche la necessità di superfici lastricate a favore di spazi pubblici permeabili; le
funzioni del polo tecnologico devono
integrarsi in un insediamento che
sviluppi nel modo più efficace i temi
dell'efficienza ecologica, non solo in
termini di prestazioni energetiche,
ma anche per quanto riguarda, ad
esempio, gli aspetti di gestione e
trattamento delle acque, di resilienza e adattamento climatico, di permeabilità e connessione ecosistemica.
Insomma un ecoquartiere ma, tassativamente, non esclusivo, bensì
una vera e propria piattaforma urbana aperta, che agisca da catalizzatore per il rinnovamento della metropoli circostante: è quanto Legambiente aveva proposto già ai
tempi della prima candidatura, con
la consapevolezza che dall'evento
non potesse sortire un satellite di
Milano, ma una nuova e completa
centralità metropolitana.
MILANO TRASFORMAZIONI E INCLUSIONE SOCIALE: AGENDA AL FUTURO
Silvia Bartellini, Adriana Nannicini, Paolo Oddi
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“La Milano di domani tra scenari in
trasformazione e inclusione sociale”. Questo il workshop che insieme
abbiamo pensato e proposto a Peer
Milano, la maratona politica del 5/6
ottobre all’ex Ansaldo, con lo scopo
di mettere in rete idee e proposte
verso la Milano del 2016, progettato
a partire da una domanda centrale
per noi e per la sinistra: Come coniugare, a livello locale, sviluppo
sociale ed economico con l’inclusione sociale? Quali politiche pubbliche saranno capaci di investire
sulle persone, desideri e risorse, al
contempo capaci di combattere
l’esclusione sociale? E di dare invece pari dignità e accesso alle risorse che la città è in grado di sviluppare?
Nasce da qui l’idea di mettere al
centro del workshop la visione della
Milano dei prossimi anni. Chi saranno gli abitanti del futuro? Chi
abiterà Milano? E intorno a questa
domanda interrogare alcuni dei
punti di vista di chi Milano la studia,
la abita, la vive, e considerando importante collocare questo confronto
nella prospettiva di un protagonismo della sinistra verso le elezioni
dell’anno prossimo. Sono stati coinvolti il sociologo Alessandro Rosina:
“Gli abitanti del futuro”, la ricercatrice Carlotta Cossutta: “Amare e costruire relazioni”, il giornalista ed
ecologista Paolo Hutter: “Le nuove
pratiche ecologiche di condivisione
per un nuovo benessere sociale”.
L’urbanista e presidente di Consiglio di Zona 6 Gabriele Rabaiotti:
“Abitare e governare la città, tra
spazi pubblici e spazi privati” e Cosimo Palazzo dello staff dell’Assessorato alle politiche sociali e della
salute del Comune di Milano.
Quindi non solo punti di vista differenti ma altrettante differenze di
generazioni, di appartenenza al
tessuto sociale o a varie collocazioni nel governo e nell’amministrazione, e soprattutto diversità di
competenze e saperi. Siamo rimasti
sorpresi anche noi, come chi ascoltava e chi parlava, del dispiegarsi di
un evidente filo rosso tra temi, dati,
interrogativi, azioni e orizzonti politici espressi. La domanda di partenza per tutti era centrata sulle trasformazioni della città con al centro
gli abitanti, non dunque solo cittadini elettori, a cui rivolgere prima i
nostri sguardi e in futuro le politiche.
L’incipit arriva da Alessandro Rosina: “Milano tra 10 anni sarà più
povera e con maggiori disuguaglianze, a meno che non riusciamo
a gestire dei cambiamenti già in
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corso, perché se li subiamo e ci difendiamo non ne cogliamo le opportunità”. E dunque alcuni i dati indicativi che ci hanno aiutato a immaginare la Milano di domani. Invecchiamento: la popolazione è maggiormente anziana già adesso, infatti ben il 25% è over 65 anni, e
solo il 20% ha meno di 25 anni. Diventa sempre più necessario distinguere tra anziani con risorse e gli
over 85 non autosufficienti. E ancora l’aumento dell’immigrazione a
Milano, il doppio della media nazionale, il 35% dei nati che sono di
madre straniera. In aumento il numero di immigrati che si stabilizza,
si è superata la fase emergenziale,
bisogna passare a un modello
d’integrazione. Infine le trasformazioni familiari: più del 50% è single
e il dato è in costante aumento,
aumenta la monogenitorialità e il
rischio dunque di povertà soprattutto quella infantile.
Attenzione a quei “processi corrosivi” che colpiscono chi subisce eventi negativi (si pensi all’effetto “a catena” di alcune separazioni), attenzione ai giovani NEET – Not in Education, Employment or Training (forte crescita relativa a Milano),
che ancora parlano del difficile percorso di transizione alla vita adulta
(il tasso di occupazione giovanile 25/34anni - in città è 29% nel 2008,
del 18% nel 2014!). Rosina ci ha
poi raccontato delle risorse di questa città. “La grande opportunità
della popolazione studentesca, abitanti e non cittadini, non elettori,
non stanziali eppure fascia consistente e rilevante”. Questa l’immagine che appare: una città non
statica ma fatta di flussi e veloci
cambiamenti. Dal punto di vista sociale, sono in molti a concordare
che una delle sfide maggiori sarà
proprio rappresentata dai modelli di
convivenza che sapremo sviluppare
e sostenere nelle città europee mete dei progetti migratori epocali.
Carlotta Cossutta ha portato da
subito lo sguardo di chi riflette sui
processi sociali a partire dal viverli.
Giovani abitanti milanesi che vogliono vedere riconosciuti e legittimate le forme di legame affettivo
che è sempre più spesso abitativo e
che non sono, né vogliono essere,
famiglie. "Condividere le case e la
mancanza di reddito con gli amici, il
lato oscuro della sharing economy”.
Legami e relazioni non visti che non
trovano accesso nel rapporto con le
istituzioni cittadine. In una fase storica di contrazione dei redditi per i
giovani è necessario “immaginare
spazi fruibili senza spendere e con-
sumare, dal bar al coworking!” Con
queste parole Carlotta Cossutta ci
ricorda che “privato” e “pubblico”
non sono due termini necessariamente sovrapponibili.
Paolo Hutter sottolinea con grande
convinzione che “La nuova politica
del benessere si deve basare sulla
riduzione degli sprechi e sulle pratiche di condivisione, in particolare
quelle ecologiche. Basta auto private, ciclabilità per tutti, le lavatrici
siano di condominio, ogni casa il
suo orto, scambio e recupero del
cibo eccedente, risparmio energetico, "cool-sharing" (condivisione del
raffrescamento), riciclo totale dei
rifiuti. L'ecologia da radical chic a
sociale. Ogni candidato firmi un suo
codice ecologico con i progressi
previsti nei prossimi mesi e anni”.
Appare abbastanza evidente che
anche il modo di concepire lo sviluppo delle attività economiche in
un contesto cittadino sia in grado di
influenzare la dimensione culturale
delle relazioni e la costruzione dei
legami sociali.
Molto interessante il punto di vista
di Gabriele Rabaiotti, il quale ha
premesso “come passaggio necessario per il prossimo mandato sia
quello di non sottovalutare l’azione
che la macchina amministrativa
produce (o non produce) autonomamente, a prescindere dalle forze
che governano. Non basta avere
buone idee e buoni principi affinché
si sviluppino buone azioni e buoni
progetti. Per il futuro dobbiamo anche prestare attenzione a quella
che si configura come una deriva in
atto da tempo: la città si è chiusa, lo
spazio privato è diventato spazio
“egoisticamente difeso”, lo spazio
pubblico diritto il cui utilizzo sembra
essere riservato a chi vi risiede.
Sono evidenti le forze che spingono
nella direzione di una città fatta di
quartieri dormitorio provinciali, dove
sicuramente è facile prendere sonno ma dove altrettanto certamente
l’energia urbana si riduce fino a
spegnersi. E sono proprio i luoghi in
cui il pubblico e privato si incontrano a diventare spie e paradigmi di
questa deriva e del suo probabile
esito. Abbiamo avuto esperienza di
immissioni di azione pubblica in
quartieri popolari già molto provati
(Lorenteggio - Giambellino, Martinelli) dove le persone hanno reagito
mostrando capacità di ascolto e accoglienza e un livello di tolleranza
non prevedibile e, per contro, reazioni molto dure e difensive in contesti di maggior agio economico,
culturale e sociale (Darsena e area
Navigli, Via Tortona e Via Solari).
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La città ha bisogno di trovare spazi
e occasioni per parlare e dare voce
a un “pubblico” che non si risolve
nella sola popolazione che risiede.
La pluralità degli abitanti, la loro diversità e molteplicità, costituisce la
sfida per lo spazio di domani che o
è pubblico (e perciò stesso inclusivo) o non è spazio urbano. Anche
su questo competiamo e competeremo con le altre città d’Europa e
del mondo e a questa sfida non
possiamo rispondere chiudendoci
noi stessi e anestetizzando le strade, le piazze, gli spazi della collettività”.
Cosimo Palazzo introduce il punto
di vista del governo delle politiche
di welfare. Parlare di welfare (cioè
“benessere”) significa parlare innanzitutto della cultura con cui costruiamo l’idea di città. Tutt’altro che
una politica residuale ma anzi il
cuore della proposta di valore su
cui costruire convivenze e appartenenze. Il nostro (ma non solo) welfare da anni e anni affonda le proprie radici in quella che viene definita “libertà di scelta” che presuppone
l’idea che al centro del nostro vivere, vi sia il singolo individuo e non la
dimensione collettiva delle relazioni
umane (vengono in mente le famose parole dell’allora Primo Ministro
inglese Margaret Thatcher "La vera
società non esiste: esistono gli individui” 1987), quindi singoli individui
espressioni di singoli bisogni a cui
dar risposta attraverso singole prestazioni sociali, costruite su meccanismi burocratici e amministrativi a
cui si aggiunge “una forte frammen-
tazione delle responsabilità (Stato,
Regione, Provincia, Comune, Asl),
delle funzioni, delle fonti di finanziamento e delle unità di offerta”.
Cosimo Palazzo è chiaro: “Dobbiamo continuare nella strada intrapresa e passare da un welfare individuale a uno comunitario. Anche a
Milano, nel tempo, si sono sviluppati servizi che, paradossalmente,
tendono a favorire la frammentazione anziché promuovere la ricomposizione sociale, ad escludere
più che a includere, a istituzionalizzare (implicitamente) barriere di separazione tra chi accede ai servizi
del “pubblico” e chi no. Meccanismi
di selezione e logiche di gestione
dei servizi definiscono nei fatti, in
modo spesso implicito, chi beneficia
degli interventi e chi ne viene lasciato fuori: una “città dei servizi”
contrapposta “alla città di tutti” e
ancora “Garantire servizi gratuiti a
chi altrimenti non potrebbe permetterseli, sia chiaro, deve continuare
a essere responsabilità del “pubblico” ma oggi, a fronte di situazioni in
cui i bisogni sociali delle persone
non coincidono necessariamente
con un disagio di tipo economico si
pone la necessità – ineludibile – di
intervenire in molti ambiti tradizionalmente lasciati sullo sfondo. Detto altrimenti, il welfare deve imparare a guardare alla società nel suo
complesso, a tutte le “sofferenze
urbane” e infine “dobbiamo continuare a considerare le politiche di
welfare come strumento per il benessere dei cittadini e come occasione di sviluppo inclusivo dell’in-
tera comunità. Un welfare, quindi,
che sia per e “di tutti”.
Qual è oggi la sintesi di questa esperienza che è anche un piccolo
tentativo di immaginare i prossimi
10 anni caratterizzati da una sempre maggior sintonia (e dialogo) tra
abitanti e governo?
L’incrocio tra letture differenti costruiscono un focus che non è solo
la sempre evocata “visione della
città” ma la condivisione di un’analisi e una lettura partecipata sia da
chi la città la studia sia da chi la governa sia da chi la abita. Questo
incrocio comprende e non separa il
governo delle politiche cittadine e
ne evidenzia la richiesta di superare
le tradizionali ripartizioni di assessorati, quasi fotocopia di letture
anch’esse tradizionali e non più attuali della città. Non una politica
settoriale ma un approccio che proponga interventi rivolti all’intera popolazione di un dato territorio, affinché sia il territorio stesso a essere
luogo di produzione del benessere
di tutti.
Superarla con un disegno coraggioso, radicato nella realtà e non
nelle ideologie (amministrativiste
comprese!) che governi il territorio?
A proposito di sguardi sulla città,
può il lavoro promosso da Peer Milano può diventare l’inizio di un
percorso che metta insieme i tanti e
frammentati punti di vista della sinistra? Ce ne sarebbe davvero un
gran bisogno!
DOPO EXPO: FARE BENE PRIMA CHE FARE PRESTO
Giorgio Goggi
Mi ha stupito il coro delle sollecitazioni a “fare presto” nel decidere sui
progetti del dopo Expo e a individuare da subito un “commissario” per
sveltire il tutto, dando per scontato
che i progetti già ci siano e vadano
bene. Se, come dice Giuseppe Sala, “bisogna sapere chi comanda”, il
commissario interverrà nella fase
dell’attuazione. Per la fase della
scelta, invece, si sa già chi comanda: le istituzioni democratiche, i
consigli comunali e quelli metropolitano e regionale. La scelta non può
essere spostata in altra sede senza
vulnus all’ordinamento democratico.
Quanto al fare presto, è meglio meditare la scelta ponderatamente:
l’urbanizzazione di un milione di metri quadri è opera di tale rilevanza
da modificare non poco l’assetto
dell’intera città. Anche le proposte
formulate vanno valutate con atten-
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zione, non per rifiutarle, ma per renderle fattibili ed evitare che comportino costi e disagi ai cittadini, nonché ingenti oneri a carico del bilancio dello Stato e degli Enti locali.
Accenno solo brevemente all’aspetto finanziario del problema: alla Statale mancano 160 milioni di Euro, la
Cassa Depositi e Prestiti non comprende nei suoi conti i 295 milioni
del valore nominale dell’area. Non
sono propriamente bruscolini, se ne
farà carico lo Stato? Più importante
è considerare gli aspetti urbanistici
critici. Ne citerò sommariamente alcuni, rilevanti sul piano pratico.
La Cassa depositi e Prestiti intende
trasferire a Expo tutti gli uffici statali
presenti a Milano. Assolombarda
intende insediare aziende tecnologiche su 20 ettari. L’Università Statale vuole trasferire nell’area tutte le
facoltà scientifiche ad eccezione di
medicina. Cosa ne sarà dell’assetto
urbanistico di Città Studi, che già
verrà colpita dal trasferimento a Sesto del suo sistema ospedaliero,
Besta e Istituto dei Tumori; chi si
prenderà carico del suo futuro assetto urbanistico?
L’area Expo è giudicata molto accessibile, perché è collegata a passante e M1 al suo accesso Ovest,
ma non è facile l’accesso alle sue
parti interne e, cosa di non poco
conto per i milanesi, si trova fuori
dall’area di tariffa urbana dell’ATM.
Con il territorio circostante i collegamenti stradali sono ridottissimi,
quelli di trasporto pubblico inesistenti e gli accessi alla grande rete
stradale complicati. I parcheggi sono tutti remoti.
L’ampio spazio esclusivamente pedonale all’interno va benissimo per
un’esposizione, dove si trascorre
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tutta la giornata, ma non per spostamenti di lavoro e studio. Le lunghezze dei percorsi per raggiungere
dagli accessi l’incrocio tra cardo e
decumano (Piazza Italia) sono le
seguenti: 1.495 m dai tram 12-19,
1.560 m dalla stazione del passante, 1.986 m dalla M1. Non si tratta
quindi di distanze pedonali (si considera normalmente distanza pedonale per un persona media quella di
250 m, per un anziano può essere
assai minore). Dovremo dire ad uno
studente che va a lezione o ad un
anziano che va a sbrigare una pratica all’Agenzia delle Entrate che deve percorre a piedi un chilometro e
mezzo o anche due?
Nessun progetto finora considera il
costo dei necessari trasporti pubblici; vedremo anche che non si può
parlare solo di navette. Infatti, la
Statale vuole trasferire 18.000 studenti e 2.500 addetti, gli Uffici statali
trasferiranno qualche migliaio di addetti, oltre al pubblico che vi accederà. Studenti e addetti arriveranno
e partiranno tutti nelle ore di punta.
Considerato il volume degli spostamenti, un servizio di trasporto pubblico dovrebbe avere la capacità di
10.000 pax/h/direzione, come un
metrò leggero. Per di più, come è
caratteristico delle funzioni previste,
la massa si muoverà prevalente-
mente al mattino in un senso, in
senso contrario alla sera, ne risulta
un modello d’esercizio squilibrato e
deficitario, se privo di una mobilità
diffusa che lo riequilibri nelle morbide.
L’eventuale apertura della stazione
FS di Stephenson migliorerebbe la
situazione, ma non la risolverebbe
del tutto. La nuova stazione, peraltro, necessita ancora di studi di fattibilità e di non interferenza con
l’esercizio del passante e, successivamente, di quattro anni per la realizzazione; inoltre richiederebbe circa 900 m di percorso pedonale per
giungere al decumano e circa 1,5
chilometri per Piazza Italia. Le funzioni finora ipotizzate, inoltre, lascerebbero l’area del tutto deserta alla
sera. I 600 abitanti previsti nei
30.000 mq di edilizia sociale si troverebbero totalmente isolati in
un’area di cento ettari (confinata
perché circondata da ogni parte da
autostrade e ferrovie). Avranno seri
problemi di sicurezza ed i costi per
mantenerla saranno ingenti.
L’impianto urbano, poi, non potrà
essere ricalcato sugli isolati espositivi lunghi 300 m con una sola strada interna longitudinale, altrimenti
questo non diventerà mai un pezzo
di città, non sarà il motore urbano
del “quadrante Nord-Ovest”, ma resterà sempre un’esposizione.
Faccio queste osservazioni non per
rigettare i progetti di Assolombarda,
Statale e Agenzia del Demanio, ma
perché va trovata una ragionevole
mediazione tra le esigenze dei progetti insediativi e le caratteristiche
urbane dell’area e del territorio circostante, che renda questi progetti
fattibili. Una scelta sbagliata costerà
molto cara a tutti noi. Una maggiore
quantità di laboratori di ricerca ed
una minore di spazi didattici e di
sportelli per il pubblico mitigherebbe
i problemi di trasporto. Un campus
residenziale li migliorerebbe ulteriormente. La realizzazione di linee
di trasporto che attraversassero
l’area mettendola in rete con i comuni vicini aiuterebbe molto. Un più
vasto mix di funzioni sarebbe necessario. L’insediamento di attività
serali (anche a carattere ludico,
sportivo o di intrattenimento) contribuirebbe alla sicurezza.
Per trovare questa ragionevole mediazione occorre però calma, ponderazione, dibattito aperto e inquadramento delle azioni nell’assetto
complessivo della città di Milano ed
in quella metropolitana. E il potere
di scelta saldamente nelle mani delle istituzioni milanesi e lombarde.
ONU E AGENDA 2030: STARTING FROM GIRLS
Simona Seravesi
Si prevede un boom demografico in
Africa entro il 2050 con una crescita
della popolazione fino a oltre 2 miliardi di persone, di cui un’ampia
parte costituita da adolescenti e
giovani donne. In generale, l'intera
popolazione degli adolescenti è destinata ad aumentare e tra il 2010 e
il 2030 ci sarà una crescita di questo gruppo demografico da 1.2 a 1.3
miliardi. Si tratta di una fetta consistente di popolazione e se non vogliamo un futuro di povertà e ai limiti
della sopravvivenza per la maggior
parte di loro, dobbiamo agire adesso, attraverso scelte politiche forti e
condivise. Di conseguenza mai come oggi è necessario investire sulle
ragazze, soprattutto nell’Africa SubSahariana.
Questo è stato il punto di partenza
della riflessione lanciata a Milano ad
Expo lo scorso 3 luglio, dal titolo
Starting from Girls: they are the
source to trigger a change!, promossa da Save the Children in collaborazione con la piattaforma WE Women for Expo. Il momento è stato importante per promuovere una
riflessione attenta su questo tema a
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livello internazionale. Il tema del diritto universale al cibo non può infatti prescindere da un’attenzione speciale alle ragazze che sono il vero
motore del cambiamento, spesso
proprio nel settore della nutrizione.
Ma perché proprio le ragazze? Facciamo un passo indietro. La maggior
parte delle adolescenti in Africa
Sub-Sahariana di età compresa tra i
14 e i 19 anni vive nelle zone rurali
e sostiene con il lavoro nei campi e
quello domestico intere famiglie e
comunità. Il loro é un lavoro non
remunerato e non riconosciuto, eppure fondamentale per combattere
la malnutrizione dei loro figli e delle
loro famiglie. I dati ci dicono che oltre il 70% della produzione agricola
proviene dal lavoro delle donne che
costituiscono il 43% della forza lavoro agricola.
Nonostante il ruolo chiave nell'agricoltura, le ragazze rimangono
'invisibili' senza accesso alla terra,
alle sementi e all'educazione ma
sopratutto senza la possibilità di decidere del proprio futuro. Esse sono
anche vittime di matrimoni e gravidanze precoci che le portano ad
abbandonare la scuola. In molti paesi in via di sviluppo appena il 60%
delle ragazze completa il ciclo di
istruzione primaria e solo il 30% accede alla scuola secondaria. Alla
dispersione scolastica si aggiunge
la violenza perpetrata negli ambienti
domestici e scolastici.
La mancanza di attenzione e sopratutto di politiche adeguate in favore
di queste giovani donne, il cosiddetto “girl gap” non solo ha effetti devastanti sulle vite di queste donne
ma è anche tra le cause principali di
una bassa produzione di cibo, di
scarsi guadagni e di alti livelli di
malnutrizione. Si stima che assicurando alle ragazze e alle donne le
stesse risorse degli uomini, il numero di bambini e persone malnutrite
diminuirebbe di 100-150 milioni. È
anche dimostrato che a un aumento
del 10% dei tassi di iscrizione delle
adolescenti alla scuola secondaria,
corrisponde una riduzione di circa
350.000 morti infantili ogni anno e di
circa 15.000 morti materne. Inoltre,
una adolescente istruita impiegherà
il 90% dei suoi successivi guadagni
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a favore della famiglia mentre un
ragazzo ne utilizzerà solo il 35%.
È quindi cruciale investire sulle adolescenti e metterle al centro dell’“agenda dello sviluppo” mondiale
perché sono loro la leva del cambiamento globale e il vero antidoto
alla malnutrizione e mortalità infantile. Queste giovani donne devono
avere maggiori tutele e diritti a partire dall’età adolescenziale e anche
nell’ottica di future mamme. Questo
processo richiede un cambiamento
profondo del paradigma dello sviluppo, così come un sostegno allo
sviluppo di quadri normativi, di politiche e di investimenti che garantiscano alle adolescenti pari diritti e
accesso alle risorse. Bisogna mettere in campo politiche e iniziative più
appropriate per dare visibilità a questa fetta di popolazione. L'intera
comunità internazionale a partire
dalla nuova agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile lanciata a New
York a settembre, deve impegnarsi
per dare l'opportunità a queste giovani donne di costruire il proprio futuro.
C'è la necessità di tradurre gli impegni presi in atti concreti favorendo
maggiori investimenti nel campo
dell'educazione e nell'accesso all'imprenditoria, ai crediti finanziari e
alla terra. In questo contesto diversi
attori sono chiamati a partecipare
tra cui i rappresentati di Governi,
delle Nazioni Unite, della Società
Civile e del settore privato. Durante
la fase preparatoria all'Agenda
2030, il governo italiano ha rinnovato il suo impegno a sostenere politiche per la parità di genere, il cui obiettivo specifico deve essere trasformativo, in grado, cioè, di affrontare le cause strutturali delle disuguaglianze fra uomini e donne. In
questo scenario e sull'onda delle
dichiarazioni recenti del Presidente
del Consiglio sull'aumento dell'aiuto
pubblico allo sviluppo, si auspica
che una particolare attenzione venga data a questo tema. Ci auguriamo che il nostro paese possa fare la
sua parte nel contenere il Girl Gap e
in tempi stretti visto che di tempo ne
abbiamo poco.
*International Policy & Advocacy Advisor
Save the Children
QUARTO CAGNINO LA COESIONE CHE VINCE
Francesco Floris
Per fondare una nazione ci vuole
una bandiera. A Quarto Cagnino,
nella periferia ovest di Milano, si sono portati avanti con il lavoro e ne
hanno creata una lunghissima, realizzata con cinquanta tovaglie cucite
insieme, su cui ogni famiglia ha disegnato il proprio simbolo. Lo stendardo ha sfilato per il chilometro e
mezzo di via fratelli Zoia in due occasioni – l’ultima a fine settembre,
durante la seconda edizione della
‘‘Festa in Borgo’’ - la festa di quartiere assieme alle cascine, alla banda jazz ‘‘Figli di Pulcinella’’ e agli
inquilini dei caseggiati popolari. Festa e parata sono state finanziate
col crowdfunding.
Una nazione, o comunque un borgo
indipendente, ha bisogno anche della propria spina dorsale: cioè di
un’economia. E allora a Quarto Cagnino si raccoglie il riso (l’area è per
tradizione dedita alla risicoltura), lo
si stipa in alcuni silos nelle scuole e
lo si ridistribuisce durante l’inverno
alle famiglie meno abbienti.
Il terzo pilastro di una nazione è la
legge, da far rispettare in un luogo
in cui non sempre è questa
l’abitudine. E allora c’è una donna di
nome Mara, che ha stilato un breve
e chiaro codice penale sui generis,
per gli adolescenti dei caseggiati di
via Fleming – strada nota alle cronache, sopratutto nere, della città.
Queste leggi orali non coincidono
con quelle scritte nei codici utilizzati
dalle procure della Repubblica italiana, ma per alcuni dei ragazzi che
abitano qui è il miglior modo per non
fare dentro-fuori dall’Istituto Beccaria – il carcere minorile di via Calchi
Taeggi, che si trova poco distante.
Ovviamente, nessuno pensa di dichiarare davvero l’indipendenza del
quartiere, perché, anche se è stata
creata una bandiera, nessuno ha
ancora pensato a un esercito (che è
la quarta e ultima condizione per la
nascita di una nazione). Si tratta invece di riflettere sul fatto che la periferia, ormai, si consideri sempre più
un luogo a sé, come a una cittadella
dentro la città, e provveda da sola ai
bisogni degli abitanti, troppo spesso
sono abbandonati a loro stessi.
È iniziato tutto nel 2013, quando un
collettivo di artisti, architetti e
designer, con passate esperienze
internazionali nella riqualificazione
di aree degradate – dalla Transilvania, negli ex quartieri operai anni ’70
del regime di Ceausescu, fino agli
arsenali militari abbandonati di Taranto – ha fondato un’impresa sociale di nome Mare Culturale Urbano. È registrata alla Camera di
Commercio e ha lo scopo di fare a
Milano quello che è stato tentato
con successo in altre città europee:
per esempio a Madrid, con il recupero del Matadero, l’ex mattatoio
chiuso nel 1996 dove oggi esiste un
enorme centro artistico e culturale.
Non è nemmeno un sogno da fricchettoni, o almeno non è questo ciò
che pensa l’Università Bocconi, che
ha addirittura studiato questo fenomeno di sostenibilità e riconversione
urbana, all’interno del proprio
master in Management delle Imprese Sociali, Non Profit e Cooperative.
... Per continuare a leggere l'articolo su LINKIESTA clicca qui.
A MILANO PER DISCUTERE DI PROSTITUZIONE E TRATTA
Donatella Martini
Prostituzione e tratta sono fenomeni
complessi che devono essere attentamente studiati prima di poter essere compresi, tenendo ben presente gli interessi economici miliardari superiori addirittura ai proventi della
droga - delle grandi organizzazioni
del crimine organizzato. L’industria
globale del sesso comprende prosti-
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tuzione, pornografia e pedo-pornografia, turismo sessuale.
Stiamo parlando di gestori e proprietari di locali-bordello di ogni
specie, proprietari di agenzie di
escort, intermediari, reclutatori e veri e propri magnaccia, trafficanti,
funzionari vari corrotti, clienti potenti
che usano le donne come merce di
scambio ecc. Lo descrive molto be-
ne la messicana Lydia Cacho, giornalista, scrittrice e attivista per i diritti delle donne e i bambini, nel suo
libro inchiesta in giro per il mondo.
E mentre intellettuali, femministe,
liberi pensatori, politici, donne nella
prostituzione e fuoriuscite dibattono
sulle proposte di legge, le organizzazioni malavitose difendono i propri interessi organizzando la più
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grande campagna mondiale di normalizzazione - banalizzazione della
prostituzione. Addirittura utilizzando
argomenti del femminismo e dei diritti umani per raccogliere consensi.
Cinquantasette anni fa nel nostro
paese venne approvata la legge
Merlin, le case chiuse vennero vietate, lo sfruttamento punito, anche
se la prostituzione non divenne reato. Da allora è calato il silenzio su
questo tema nonostante negli anni
novanta in Europa la discussione si
sia riaccesa e altri paesi stiano sperimentando modelli contrapposti.
Germania e Olanda hanno scelto la
legalizzazione, Svezia, Norvegia,
Islanda e più recentemente Francia
hanno scelto di punire i clienti in
quanto considerano la prostituzione
una forma di violenza nei confronti
delle donne. Nel primo caso, Germania e Olanda non hanno risolto il
problema della tratta né intaccato il
business degli sfruttatori, in quanto
sono le organizzazioni criminali a
fornire la manodopera anche per la
prostituzione legalizzata. Nel secondo caso, la legge svedese ha
avuto effetti sostanzialmente positivi
e la prostituzione di strada è notevolmente diminuita. Ha inoltre contribuito al cambiamento culturale:
nel 1999 la maggioranza dell’opi
nione pubblica svedese era contraria alla legge, oggi il 70% della popolazione è favorevole.
Sulla linea del modello nordico è la
Risoluzione del Parlamento Europeo su “Sfruttamento sessuale e
prostituzione e sulle loro conseguenze per la parità di genere” approvata nel 2014, la cosiddetta Risoluzione Honeyball. “Se vogliamo
vivere in un’Europa dove le donne
hanno eguali diritti, dobbiamo lavorare per eliminare la prostituzione e
creare una cultura in cui non sia
permesso o accettabile acquistare il
corpo di qualcun altro”, così sostiene la eurodeputata inglese Mary
Honeyball.
Lo scorso agosto Amnesty International, durante il 32° International
Council Meeting, ha invece votato
per la depenalizzazione della prostituzione e dell’acquisto di prestazioni
sessuali, scegliendo di dare priorità
al diritto dell’esercizio della prostituzione delle sex workers. Contro la
decisione di Amnesty si sono schierate anche Meryl Streep, Kate Winslet, Carey Mulligan, Lena Durham
e altre ancora e hanno sottoscritto il
testo della Coalizione Contro la
Tratta delle Donne (Coalition Against Trafficking in Women), che
sostiene che la prostituzione è di
per sé causa e conseguenza della
diseguaglianza di genere nonché
l’esercizio del potere degli uomini
sulle donne.
In Italia nel biennio 2013-2015 in
Parlamento sono stati depositati
ben 16 progetti di legge, la Lega sta
raccogliendo le firme per abrogare
la legge Merlin, in Consiglio Comunale a Milano è stata depositata una
mozione sullo zoning che è stata già
approvata in Consiglio di Zona 2, a
Roma lo zoning è stato proposto al
IX Municipio mentre a Venezia si
sta sperimentando dal 1999.
È tempo quindi che l’opinione pubblica e la nostra classe politica riprendano a discutere e per questo
motivo l'associazione DonneinQuota
ha
organizzato
il
convegno
“Prostituzione e tratta in Italia e in
Europa: proposte e modelli a confronto” (il 19 ottobre alla Casa della
Cultura di Milano dalle 9.30 alle
17.30)
La costituzionalista Marilisa D’Amico analizzerà criticamente la legge
Merlin, Suor Claudia Biondi della
Caritas ci farà capire come prostituzione e tratta siano due facce della
stessa medaglia, Maria Costa della
CGIL ci parlerà delle molestie sessuali sul lavoro, la psicologa Elvira
Reale ci racconterà della servitù
sessuale. Diana de Marchi presenterà il dibattito con la Consigliera
delegata alle Pari Opportunità della
Città Metropolitana di Milano, Rosaria Iardino, promotrice di un emendamento contrario allo zoning, e il
consigliere radicale di Zona 2 Yuri
Guaiana, autore di una mozione pro
- zoning che stata votata in Zona 2.
La sessione pomeridiana verrà introdotta da Tiziana Scalco della
CGIL di Milano e ascolteremo la
posizione europea con l’intervento
dell’eurodeputata Mary Honeyball, a
seguire Francesca Russo di Amnesty International e l’Avvocata Siusi Casaccia della sezione italiana
della Lobby Europea delle Donne.
Il dibattito politico è affidato alla moderazione del giornalista Rinaldo
Gianola, al tavolo si confronteranno:
Giovanna Martelli (delegata alle Pari
Opportunità del Presidente del Consiglio), i Senatori del PD Pina Maturani e Sergio Lo Giudice (firmatari di
due ddl), Vera Lamonica (Segretaria
nazionale CGIL), Pietro Romani,
(Sindaco di Rho e Consigliere al Bilancio della Città Metropolitana) e
Stefania Cantatore (UDI, Unione
Donne in Italia).
Come premessa, c’è l’assoluta necessità di scardinare gli stereotipi
sulla sessualità: il mestiere più vecchio del mondo è in realtà la discriminazione più antica del mondo.
Nella società moderna la prostituzione non può più essere considerata un istituto necessario al buon
funzionamento della nostra comunità, che ha come obiettivo la parità
di genere. Le donne non possono
né vogliono essere considerate oggetti. Come disse Martin Luther
King, we have a dream ..., noi sogniamo una società paritaria, dove
la prostituzione e la violenza contro
le donne non esistono più.
*Donne in Quota
“PROSTITUZIONE E TRATTA IN ITALIA
E IN EUROPA: PROPOSTE E MODELLI
A CONFRONTO”
19 OTTOBRE 2015 9.30 – 17.00
Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano
ECCO MILANO: LA CAPITALE DEL VOLONTARIATO
Giovanni Agnesi
Vista la notevole presenza nella nostra città di ben 3.500 enti non profit
nei quali operano 109.000 volontari
(dati dell’Assessorato alla Sicurezza, protezione Civile e Volontariato,
e del CSV - Centro Servizi del Volontariato di Milano), possiamo affermare con tutta umiltà che Milano
è la capitale del volontariato. Su
queste pagine ho trattato in diverse
occasioni sull’esigenza di valorizza-
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re l’esperienza del volontariato e del
Terzo Settore inserendolo in un
contesto più ampio, quale quello di
un rinnovato Stato Sociale capace
di offrire efficaci servizi a fronte di
un costante impoverimento di risorse economiche.
Finalmente dopo mesi di consultazioni e discussioni giovedì 9 Aprile è
stato approvato in prima lettura la
delega per la riforma del Terzo Set-
tore, dell’impresa sociale e per la
disciplina del servizio civile universale. Il testo passerà alla Camera e
successivamente al Senato per il
voto definitivo, dopo di che spetterà
al Governo scrivere i decreti attuativi. Un passaggio questo che, secondo me, è passato purtroppo,
quasi inosservato, ma di un’importanza estrema per il nostro Welfare
che rischia sempre più di trasfor-
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marsi da universalistico a selettivo.
Alcuni esperti calcolano che già oggi la spesa privata per l’assistenza
non coperta dalla finanza pubblica
ha raggiunto i 175 miliardi.
Tenterò qui di seguito segnalare alcune attuali situazioni critiche relative al Terzo Settore da perfezionare,
e alcune importanti proposte inserite
nel disegno di legge delega. A
tutt’oggi il Terzo Settore esprime
quell’insieme di enti privati (organizzazioni di volontariato, associazioni
di promozione sociale, fondazioni,
organizzazioni non governative, società di mutuo soccorso, ONLUS,
cooperative sociali e imprese sociali) che perseguono finalità civiche e
solidaristiche. Esse operano senza
scopo di lucro (infatti hanno l’obbligo di reinvestire tutti gli utili, o meglio avanzi economici, nelle loro attività istituzionali) nei settori legati
alle attività di assistenza sociale e
sanitaria, nella promozione culturale, sportiva e religiosa, nell’istruzione e ricerca, nella cooperazione
internazionale, nell’ambiente e sviluppo economico/sociale.
Le istituzioni del Terzo Settore contano (dati ISTAT del 2013) sul contributo lavorativo di oltre 5 milioni di
volontari, 800 mila dipendenti, 300
mila lavoratoti esterni e 6.000 lavoratori temporanei, un tessuto produttivo che rappresenta un notevole
valore etico ed economico da tutelare e agevolare. Una ricchezza di
esperienza solidale e di cittadinanza, unita a un costante impegno economico che deve essere definiti-
vamente inserito a pieno titolo nel
sistema economico/sociale del Paese unitamente al Primo Settore (lo
Stato) e al Secondo Settore (il mercato). All’interno del Terzo Settore si
trovano anche le imprese sociali e
le cooperative sociali, le quali perseguono le finalità civiche e solidaristiche esclusivamente e prevalentemente attraverso l’attività di impresa tramite la vendita di beni e
servizi di pubblico impiego, rispettando sempre i vincoli del non profit
(non distribuzione degli utili).
Purtroppo lo svilupparsi delle cooperative sociali in questi ultimi anni
senza una precisa normativa, per
una malintesa sussidiarietà, è stata
la forma attraverso cui si sono esternalizzati troppi servizi pubblici
con bandi al massimo ribasso, peggiorandone a volte le prestazioni. O
peggio ancora con affidamenti diretti
(senza bando) che hanno causato
in alcuni casi quelle distorsioni e
corruzioni che le recenti inchieste
hanno messo in luce, e che rischiano di gettare un’ombra su realtà che
nella stragrande maggioranza dei
casi operano con estremo senso di
altruismo e generosità.
Tornando al testo della riforma del
Terzo Settore in sintesi si prevedono: l’istituzione di un Registro unico
del Terzo Settore; un Consiglio
permanente degli Enti con attività di
vigilanza, indirizzo e monitoraggio;
incentivi e sgravi fiscali per gli Enti
non profit (cioè per quanti si finanziano tramite donazioni, lasciti, offerte, ecc.); un perfezionamento del
5 per mille; una profonda rivisitazione e sviluppo del Servizio Civile universale; una revisione dell’impresa
sociale finalizzata a rendere le loro
attività più attrattive da parte degli
investitori di capitale e per poter accedere ai Fondi Europei a esse destinati.
In parole povere per le imprese sociali si propone un forte coinvolgimento di imprenditori sociali, amministrazioni locali, investitori e strumenti finanziari oltre a tutti i cittadini
a investire capitali nelle imprese sociali, al fine di sostenere e sviluppare la loro attività di realizzazione e
vendita di beni e servizi di pubblico
impiego, partecipando in compenso
a una parziale distribuzione degli
utili, investendone però la maggior
parte per migliorare le attività istituzionali dell’impresa.
Il presidente di Ciessevi, Ivan Nissoli, sottolinea che: “La riforma è approdata al Senato sommersa da
ben 700 emendamenti, da parte nostra continueremo a prestare attenzione agli sviluppi che vi saranno,
attraverso il percorso di elaborazione e di confronto che abbiamo attivato insieme al Forum Terzo Settore Lombardia, al Forum Terzo Settore Città di Milano e CSVnet Lombardia, proprio in merito alla Riforma”! È questo un invito a informarsi
responsabilmente ed è un’importante chiamata alla responsabilità di
ognuno di noi per realizzare un miglior Welfare universalistico.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Fabio Vacchi e Michele Serra
Vorrei tornare sul tema “musica
contemporanea” da me praticamente riscoperta dopo anni di disinteresse - lo confesso - solo la settimana scorsa all’Auditorium ascoltando il melologo "Sull’acqua (sotto
di noi il diluvio)” di Fabio Vacchi, diretto da Claire Gibault e recitato da
Lella Costa, con un meraviglioso
testo appositamente scritto da Michele Serra. L’ho annunciato
nell’ultima rubrica con queste parole: “… l’inebriante sensazione di assistere alla nascita di una musica
che resterà nella storia, e che fino a
un’ora prima non esisteva, potrà
sembrare banale ma è stata davvero potente …”. Ci torno perché ap-
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partengo a quella folta schiera di
musicofili che ignorano la musica
leggera, non sono attratti dalla musica cosiddetta etnica, sono stati
molto presi in gioventù dalla musica
contemporanea - incantati da John
Cage, da Luigi Nono, da Stockhausen, dalla musica elettronica - dalla
quale si sono brutalmente staccati
quando è nato il sospetto che “si
cercava, si cercava, ma non si trovava nulla”. Ricordo il pensiero perverso che indirizzavo ai compositori
contemporanei: lavorate, cercate,
sperimentate, e quando finalmente
avrete risolto il problema del linguaggio, trovato il bandolo della matassa, e soprattutto scritto un capo-
lavoro, mandateci un segnale e ne
riparleremo. Ma forse non era un
pensiero così perverso se l’altra sera, ascoltando Vacchi, ho provato e non ero il solo - la sensazione di
ascoltare finalmente un linguaggio
nuovo, comprensibile e affabile, e
l’emozione di trovarmi faccia a faccia con un’opera che sembra aver
già trovato posto nella storia della
musica.
In una delle sue belle interviste ai
compositori contemporanei (nel volume “Note d’autore” edito da Postmedia books, 2013) Ricciarda
Belgiojoso rivolge a Vacchi questa
domanda: “E che linguaggi devono
usare i compositori per essere a-
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scoltati con semplicità e senza pretese?” La risposta di Vacchi è esemplare: “Non usare trucchi! Andare direttamente a un’espressione
chiara, onesta, semplice ma non
semplicistica. È pericolosissimo
confondere la semplicità con il semplicismo perché sono due cose antitetiche”. E poco prima, a una domanda sui suoi precedenti rapporti
con l’avanguardia rispondeva “Mi
sembrava, timidamente, che scrivere una musica non destinata
all’ascolto fosse un’operazione insensata. Tutt’al più utile per la filosofia, per la storia del pensiero interpretativo del mondo ma che rischiava di uccidere la musica dopo
averne aperto i confini e le aspettative. Un paradosso”. Raramente,
quando si legge di musica, si trovano parole così concrete e aderenti
alla realtà (sappiamo tutti quanto
fumosi e ambigui siano i nostri esegeti e critici musicali); Vacchi non
solo usa parole chiare ma poi scrive
anche musica coerente con quelle
parole. Non è poco.
Nel volume “Il mio Liszt” (Bompiani,
2011) Michele Campanella descrive
il melologo come “una composizione musicale che commenta un brano di letteratura, quale può essere
un poema, un racconto, una poesia
in cui la voce recitante e il pianoforte (o, come nel nostro caso,
l’orchestra) procedono insieme oppure separatamente, senza alcuna
regola predisposta a priori”. Che
non vi siano regole lo si dimostra
mettendo a confronto due celebri
melologhi diversissimi fra loro come
l’Enoch Arden di Richard Strauss
per voce e pianoforte (che lo stesso
Campanella eseguì con Glauco
Mauri alla Scala vent’anni fa) e il
grandioso Façade di William Walton
per voce e orchestra su testo di Edith Sitwell (un’opera spiritosa, ironica, amabile, sorridente, una vera
delizia molto difficile da eseguire e
dunque da ascoltare) di cui esiste
un indimenticabile vinile di almeno
quarant’anni fa.
La storia del melologo è molto più
lunga di quanto non si creda, ha le
sue origini nel Settecento, Mozart
dice in una sua lettera che gli piacerebbe scriverne uno (lo chiama in
realtà “duodrama” ma poi non lo
scrive perché in lui il canto prende
sempre il sopravvento sul recitato),
è stato praticato da Beethoven,
Mendelssohn, Schumann, Liszt
(famoso il suo Der traurige Mönch, Il
monaco triste) fino a Schönberg e ai
contemporanei; questo di Fabio
Vacchi non ha nulla da invidiare ai
precedenti, anzi mi sembra che finalmente trovi la corda giusta, ne
elevi la dignità fino a farlo diventare
un’opera importante e completa,
non solo per la complessità della
scrittura musicale, l’accuratezza
dell’orchestrazione, l’uso frequente
e incisivo degli strumenti solisti (in
particolare il violoncello, cui affida
un intrigante incipit), ma anche per
la particolare aderenza al testo di
Serra.
Il quale testo, peraltro, è a sua volta
straordinariamente complesso e
sorprendente per la sua attualità e
per la sua ricca articolazione. Serra,
partendo dalla crisi economica,
dall’angoscia della disoccupazione,
dallo spaesamento per lo svuotamento delle grandi fabbriche, “sente” - e la musica l’aiuta - la falda innalzarsi sotto la città perché l’industria si è fermata, e immagina già
l’acqua zampillare dalle crepe
dell’asfalto; e ricorda come la città
sia costruita sull’acqua come su un
grande lago e come di essa, da
sempre, la città viva. Poco a poco si
capisce che sta parlando di Milano,
dell’area della Falk di Sesto San
Giovanni, e tutto prende la piega un
po’ giornalistica e un po’ filosofica –
anche un po’ moraleggiante – cui
siamo da anni abituati leggendo la
sua “L’amaca” su Repubblica; alla
fine, quando spiega che possiamo
salvarci o soccombere in funzione
del comportamento che decideremo
di assumere verso l’acqua e la terra,
il testo prende il respiro di un grandioso Corale e la musica, che ricorda i grandi Oratori classici, diventa
sublime.
Non è la prima volta che Vacchi e
Serra lavorano insieme: La madre
del mostro (il mostro è un ragazzo
fanatico “ultra” del calcio) è una loro
opera andata in scena al Teatro dei
Rozzi di Siena nel 2007. Dopo questo gustosissimo assaggio sarebbe
forse opportuno che qualcuno ce la
facesse vedere qui a Milano.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Nuove occasioni per riscoprire le Case Museo di Milano
Le quattro case museo di Milano,
Museo Bagatti Valsecchi, Casa Boschi Di Stefano, Villa Necchi Campiglio, Museo Poldi Pezzoli, lanciano una nuova sfida ai giovanissimi
milanesi, e non. Ambrogio, un vecchio corniciaio con le toppe sul camice, ha trovato una misteriosa
mappa sul retro di una tela di un
quadro. L’enigma risulta difficilmente interpretabile dal momento che
mancano molte parole: il compito
dei ‘piccoli enigmisti’ sarà, dunque,
quello di cercare le parole chiave
mancanti visitando le quattro sedi
museali. Chi risolverà il cruciverba e
troverà la parola chiave relativa a
ciascuna casa museo riceverà in
regalo una cornice magnetica che
riproduce quella di un quadro pre-
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sente nelle collezioni, mentre per
chi completerà il percorso risolvendo tutti e quattro i cruciverba è previsto un ulteriore premio: una chiave
magnetica che riproduce il logo delle Case Museo.
Il gioco è una delle proposte per
FAMU 2015, domenica 4 ottobre
(Giornata delle famiglie al Museo) e
sarà disponibile fino al 10 gennaio
con la ‘CasaMuseoCard’ al prezzo
speciale di 10 euro per ciascun genitore, i bambini hanno diritto all'ingresso gratuito nelle quattro Case
Museo e alla mappa omaggio per
ciascuna visita. La CasaMuseoCard
dà diritto all’ingresso in ciascuna
delle case museo nell’arco di 12
mesi.
Il progetto è reso possibile grazie
non solo alla collaborazione virtuosa
tra le quattro casa museo, ma anche al sostegno della Fondazione
Cologni dei Mestieri d'Arte, ma anche al lavoro dei giovani studenti
dell’Accademia di Brera che si sono
occupati dello storytelling e della
realizzazione del cruciverba.
I cruciverba non sono banali, e ci
vuole davvero grande attenzione
per risolverli … anche per i genitori.
Ma si tratta di un’ottima occasione
per tornare (o andare per la prima
volta) in visita a quattro luoghi che
rappresentano una delle tante essenze dalle milanesità.
Il circuito nasce con l’intento di far
conoscere e promuovere il patrimonio culturale e artistico milanese, nel
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corso di quasi due secoli di storia,
attraverso alcuni dei suoi protagonisti: i nobili Gian Giacomo Poldi Pezzoli e i fratelli Fausto e Giuseppe
Bagatti Valsecchi nell’Ottocento, i
coniugi Boschi di Stefano e gli industriali Necchi Campiglio nel Nove-
cento. Le quattro case museo, tutte
situate nel centro di Milano, sono
accomunate dalla generosità dei
loro fondatori, che hanno messo a
disposizione della collettività le loro
abitazioni e le loro collezioni d’arte,
e sono oggi luoghi di grande fasci-
no. Visitarle permette di conoscere
storie personali e scelte di gusto
che riflettono anche l’evoluzione e la
trasformazione della società cittadina.
La potenza dell’acqua nelle fotografie di Edward Burtynsky
Palazzo della Ragione propone Acqua Shock, una mostra dal titolo
evocativo che si concentra sul lavoro del fotografo canadese Edward
Burtynsky, confermando ancora una
volta lo spazio di Piazza dei Mercanti come punto di riferimento cittadino di qualità per la fotografia.
Inaugurata il 3 settembre, l’esposizione porta per la prima volta in Europa il lavoro di Burtynsky in una
riflessione sulla maggiore risorsa
naturale essenziale per la vita. La
mostra rappresenta un capitolo
all’interno della più ampia riflessione
sulla relazione tra Uomo e Natura
che la Città intera ha promosso nei
sei mesi di ExpoinCittà.
La mostra raccoglie 60 fotografie
divise in sette capitoli - Golfo del
Messico, Devastazioni, Controllo,
Agricoltura, Acquacoltura, Rive,
Sorgenti - dove vengono toccati alcuni degli aspetti connessi all’origine e all’utilizzo dell’acqua: dal delta dei fiumi agli spettacolari pozzi a
gradini, dalle colture acquatiche alle
irrigazioni a pivot centrale, dai paesaggi disidratati alle sorgenti indispensabili per la vita. È stato grazie
all’osservazione dei siti e delle immagini dello stabilimento della Ge-
neral Motors nella sua città natale
che Burtynsky gettò le fondamenta
del suo lavoro fotografico. Il suo
immaginario esplora l'impatto collettivo che gli esseri umani stanno avendo sulla superficie del pianeta, il
controllo imposto ai paesaggi naturali.
L’acqua delle fotografie di Bur*tynsky, declinata nelle sue numerose forme, offre paesaggi di straordinaria varietà e nell’incontro con
l’uomo, a volte si piega al suo volere
e a volte vince sopravvalendo. Le
immagini raccolte sono tanto spettacolari per colori, armonia e rigore
da sembrare quasi finzioni digitali.
La visita si conclude con un documentario “Where I Stand” (10 min.)
prodotto
dallo
stesso
Studio
Burtynsky dove viene mostrato il
processo di produzione sotteso alla
realizzazione delle straordinarie
immagini. Per il progetto sull’acqua
Burtynsky ha fatto ampio uso di
droni, elicotteri e strutture per poter
guardare dall’alto i suoi soggetti e
immortalarli da punti di visti privilegiati.
“Burtynsky ha un dono e da
trent’anni lo mette al servizio della
cultura della sostenibilità. Burtynsky
riesce a farci riflettere sui temi scottanti dell’ambiente con un garbo che
non ha eguali. Negli occhi ha i dipinti dei paesaggisti dell’Ottocento,
nell’anima un amore sconfinato per
la natura, nella testa tutte le informazioni possibili, nello spirito
l’indomito desiderio di migliorare il
futuro dei nostri figli.” Queste le parole con le quali Enrica Viganò, curatrice della mostra, presenta
l’autore, sottolineando il carattere di
osservatore con occhio fotografico
votato alla tradizione, ma che osserva il continuo cambiamento degli
scenari e dei paesaggi che lo circondano.
Edward Burtynsky. Acqua Shock
fino al 1 novembre Palazzo della
Ragione, piazza dei Mercanti Milano, orari: da mar a dom 9.30 -20.30
/ giov e sab fino alle 22.30. La biglietteria chiude un'ora prima dell'orario di chiusura. Biglietti: 10,00/
8,00 / 5,00 euro
Foto: Pozzo a gradini n. 2 Panna
Meena, Amber, Rajasthan, India
2010 © Edward Burtynsky/courtesy
Admira, Milano
Il Trittico di Antonello ricomposto al Bagatti Valsecchi
In occasione di Expo 2015 Milano
dedica una mostra a uno dei padri
del Rinascimento italiano: Antonello
da Messina. Con Rinascimento. Il
trittico di Antonello da Messina ricomposto, curata da Antonio Natali
e Tommaso Mozzati, il Museo Bagatti Valsecchi rappresenta l’unica
istituzione culturale a organizzare
un evento rivolto a omaggiare uno
dei più alti periodi dell’arte e della
cultura della nostra penisola. Presso
la celebre casa museo milanese
viene allestito un percorso che vede
nell’opera del pittore messinese il
fulcro centrale dell’esposizione, un
trittico che finalmente trova la sua
integrità e la manifesta orgogliosamente ai visitatori.
L’opera di Antonello, smembrata
nelle sue parti, vede le due tavole
della Vergine col Bambino e di San
Giovanni evangelista di proprietà
della Galleria degli Uffizi mentre
quella raffigurante San Benedetto di
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proprietà della Regione Lombardia.
In un nuovo spazio progettato e allestito dallo studio Lissoni Associati,
il Museo Bagatti Valsecchi consente
di ripercorrere verticalmente la florida espressione artistica del Rinascimento attraverso altre tre opere
esposte in mostra: l’Annunciata e
l’Angelo annunciante di Piero della
Francesca, la Madonna col Bambino e un angelo di Vincenzo Foppa,
e il Cristo in Pietà di Perugino.
Quattro opere che insieme consentono di attraversare idealmente
l’Italia dalla Lombardia del Foppa
fino alla Sicilia di Antonello da Messina, passando per la scuola umbrotoscana di Piero della Francesca e
di Perugino.
La casa museo contribuisce inoltre
con la sua Santa Giustina di Giovanni Bellini che rappresenta in
questa seda l’altra grande scuola
del Rinascimento italiano, quella
veneta, tracciando una linea che fa
emergere quel dialogo fra artisti che
da Nord a Sud si influenzavano reciprocamente in continui scambi e
relazioni. Il dipinto di Bellini accoglie
i visitatori nella sua consueta e originaria collocazione ed entra nel
percorso di visita attraverso una didascalia realizzata appositamente
per la mostra.
La selezione delle opere esposte
consente di affrontare un tema che
si esprime in tutta la sua coerenza e
che conferisce allo spazio un profondo senso religioso e un’intimità
che lega l’osservatore ai dipinti. È
con le tavole di Piero che si preannuncia la venuta salvifica di Cristo
mentre Antonello raffigura una Vergine col Bambino trionfanti dove
emergono però già i primi simboli di
un sacrificio venturo con quel velo
che il Bambino afferra come a voler
richiamare quella sindone che avvolgerà il suo corpo dopo la morte.
Lo stesso elemento compare nel
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dipinto del Foppa dove l’atmosfera
è, al contrario, più cupa contribuendo a rafforzare il legame della nascita di Cristo con la sua morte in una
consapevolezza che caratterizza i
volti della madre e del figlio. Conclude questo ideale percorso la tavola del Perugino con il Cristo in
Pietà, manifestazione esplicita della
sua crocifissione e insieme del suo
sacrificio salvifico.
La mostra vuole anche rappresentare un modello di collaborazione fra
le varie istituzioni culturali italiane
nella reciproca valorizzazione per
realizzare un’offerta culturale sempre più aggiornata e viva. Il trittico
tornerà ricomposto presso le Gallerie degli Uffizi per quindici anni. Il
museo fiorentino concederà in cambio alla Pinacoteca del Castello
Sforzesco il dipinto di Vincenzo
Foppa. Si potrebbe aprire un dibattito circa l’esigenza di esporre
all’interno del museo milanese una
altra opera di un artista lombardo,
laddove mancano esempi di altre
scuole italiane, alla luce del mega
evento rappresentato da Expo 2015
che dovrebbe consacrare definitivamente Milano come città internazionale e globale.
Resta il fatto che il capoluogo lombardo, durante l’Esposizione Universale, offre ai cittadini una mostra
gioiello, intensa, comprensibile,
semplice, unica e incredibilmente
preziosa. Il Museo Bagatti Valsecchi
è uno scrigno in una città che deve
imparare ad amarlo per valorizzare
le sue enormi potenzialità. Rinascimento. Il trittico di Antonello da
Messina ricomposto costituisce il
significativo e importante passo per
avvicinare il museo alla sua comunità e per consacrarsi come uno dei
più importanti poli culturali di Milano.
Giordano Conticelli
Rinascimento. Il trittico di Antonello da Messina ricomposto fino
al 18 ottobre 2015 Museo Bagatti
Valsecchi via Gesù 4 Milano orari:
martedì – domenica 13-18 giovedì
13-21 biglietto: intero 9 euro, ridotto
6 euro.
Moira Ricci. Capitale Terreno
Salendo le scale dello Spazio Oberdan si viene immersi in un mondo
contadino tanto delicato quanto destabilizzante che grazie agli occhi
dell’artista, Moira Ricci, racconta
storie di una realtà (forse solo in
apparenza) fuori dal tempo. La mostra “Moira Ricci. Capitale Terreno”
rappresenta l’ultimo step del progetto “Dal territorio alla terra. Progetto
per un museo di fotografia diffuso”,
che intende anticipare la fisionomia
e l’identità del Museo di Fotografia
Contemporanea nella sua nuova
accezione a rete.
Nata nella campagna maremmana,
Moira Ricci, è sempre rimasta fedele alla cultura della sua terra, studiandone le tradizioni più antiche e
radicate, approfondendone i significati simbolici e costruendo storie
immaginarie intorno ad essa. In Ca-
pitale Terreno vengono raccolti e
presentati insieme per la prima volta
a Milano due grandi progetti recenti
dell’artista: Da buio a buio, 2009 2015 (comprendente quattro storie:
La bambina cinghiale, Il Lupo Mannaro, L’Uomo Sasso, I gemellini), e
Dove il cielo è più vicino, 2014.
Nel primo progetto, il ciclo Da buio a
buio, alcuni personaggi appartenenti
alla comunità contadina e protagonisti dei racconti popolari vengono
documentati dall’artista attraverso
fotografie, riprese video, registrazioni sonore che danno vita a narrazioni totalmente costruite ma assolutamente “reali” nella verosimiglianza della realizzazione. Tra
bambine nate con il grugno da cinghiale e uomini che camminano nudi per i campi trascinandosi grossi
massi di pietra, emerge una fanta-
siosa vivacità che riporta il visitatore
a un tempo di fiabe e racconti.
Nel secondo progetto, Dove il cielo
è più vicino che comprende grandi
fotografie a colori e due videoproiezioni, l’artista racconta della terra in
crisi e immagina l’abbandono dei
poderi da parte dei contadini impoveriti, delusi e oppressi da sentimenti di inadeguatezza alla vita
contemporanea, che trasformano un
trattore in astronave per andarsene
dalla terra tanto amata e raggiungere il cielo.
Moira Ricci. Capitale Terreno fino
al 18 ottobre - Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2, Milano Orari:
martedì-venerdì 12-19.30; sabatodomenica 10-19.30. Chiuso il lunedì
Allucinazioni estive e spinosauri nel parco
Se in un caldo pomeriggio d’estate
state passeggiando nei Giardini
Pubblici, imputerete al caldo la visione dello Spinosauro a grandezza
naturale che divora un pesce. O forse penserete di essere finiti nel
remake di Jurassic Park. Ma non si
tratta né delle alte temperature, né
di un set cinematografico: si tratta
invece della nuova mostra “Spinosaurus. Il gigante perduto del Cretaceo”, frutto della collaborazione tra
Museo di Storia Naturale di Milano,
National Geographic Society, Univer-sity of Chicago, e Geo-Model.
L’esposizione rappresenta l’occasione ideale per riaprire alla cittadinanza e al pubblico il prestigioso Palazzo Dugnani, che fu nell’Ottocento la
prima sede del Museo di Storia Naturale di Milano e che diventa ora
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sede distaccata dello stesso, dedicata alle mostre temporanee.
L’allestimento milanese è una versione ampliata di quello statunitense
e focalizza l’importanza del contributo italiano nella lunga vicenda
degli studi su Spinosaurus: iniziata
nel 1912 con i primi ritrovamenti di
Ernst Stromer e bruscamente interrotta con la distruzione dei reperti
durante la seconda guerra mondiale. Questa affascinate avventura è
ricominciata nel 2005, con lo studio
di un enorme muso di questa specie, conservato al Museo di Storia
Naturale di Milano, ed è continuata
nel 2008, grazie a un nuovo esemplare scoperto nel deserto del Sahara, e studiato pubblicato sulla prestigiosa rivista Science.
Le “star” assolute della mostra sono
il modello in grandezza naturale del
dinosauro,
riprodotto
secondo
l’aspetto “in vivo”, e la riproduzione
completa dello scheletro lunga 15
metri, ottenuta attraverso la scansione dei fossili e la stampa 3D, e,
per la prima volta, sono anche esposti esemplari mai visti delle collezioni del Museo di Storia Naturale
di Milano, messi a disposizione dai
Conservatori delle varie sezioni. A
guidare il visitatore tra i siti remoti,
gli esemplari fossili e le avveniristiche tecniche di studio vi sono i filmati originali degli scavi e delle ricerche nel deserto di Kem-Kem
(Marocco), la storia delle scoperte
precedenti, con la ricostruzione
dell’ufficio del paleontologo Stromer,
modelli anatomici virtuali, animazioni e un’accurata pannellistica in italiano e inglese, oltre a un servizio di
iniziative didattiche mirate, rivolto
alle classi di ogni ordine e grado e
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un’offerta di visite guidate con operatori specializzati.
Tra le varie iniziative nell’ultima
stanza sono ospitate le tecnologie
contemporanee usate dagli studiosi
per ricreare modelli 3d di ossa e animali, per la gioia dei più piccoli (e
dei più grandi) qua può essere ac-
quistata la riproduzione del volto
dello Spinosauro perché faccia
compagnia nella calda estate milanese.
Valeria Barilli - Benedetta Marchesi
Spinosaurus. Il gigante perduto
del Cretaceo Palazzo Dugnani, via
Manin Milano lunedì dalle 9:30 alle
13:30* martedì, mercoledì, venerdì,
sabato e domenica dalle 9:30 alle
19:30* giovedì dalle 9:30 alle 22:30*
(* l'ultimo ingresso un'ora prima della chiusura) Biglietti € 10,00/€
8,00/€ 5,00/Omaggio
La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano
Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione
Prada. La celebre stilista Miuccia
Prada e il marito Patrizio Bertelli
hanno regalato al capoluogo lombardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia
di arte, ma anche di architettura e,
soprattutto, di rigenerazione urbana.
Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per
offrire ai visitatori una superficie di
19.000 mq dove trovano posto non
soltanto spazi espositivi per le varie
mostre temporanee, ma anche un
cinema, un’area didattica dedicata
ai bambini, una biblioteca e il Bar
Luce concepito dal regista Wes Anderson che si ispira ai celebri caffè
meneghini e già diventato “cult” nel
giro di pochi giorni.
La molteplicità e la versatilità degli
spazi della Fondazione consentono
un’offerta culturale estremamente
variegata. Sono attualmente aperte
al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia
Prada e Germano Celant, “In Part” a
cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober
e di Louise Bourgeois presso la
“Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato
di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un
segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è
“Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione
per il contemporaneo per rivolgersi
al passato, all’arte antica dove sono
scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una
mostra che presenta l’ambiguo rapporto fra l’originale e la copia
nell’arte greca e romana.
Un allestimento geniale presenta
più di sessanta opere che dialogano
fra di loro e con lo spazio esterno
circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente
sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni,
emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia
romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da
Rem Koolhaas e dal suo studio
OMA consentono a una vecchia
fabbrica di trovare nuova vita in un
tempio che ospita personaggi della
mitologia, guerrieri e divinità quali
Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del
mondo, dai Vaticani al Louvre. La
Fondazione Prada diventa oggi il
modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani
e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio
creativo di Milano la nuova Capitale
Europea.
Giordano Conticelli
Fondazione Prada - Largo Isarco 2
Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i
giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€
gratuito minori 18 anni e maggiori di
65
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
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Carlo Cottarelli
La lista della spesa
La verità sulla spesa pubblica italiana e come si può tagliare
Feltrinelli, Milano 2015 pp.203, euro 15
Un libro breve e densissimo, semplice. Puntuale. Dove l'autore affronta con un linguaggio chiaro e quotidiano, privo di ogni riferimento al
politichese e alla terminologia specialistica proprie degli autori di cose
economiche, i temi essenziali del
bilancio pubblico, delle voci di entrata e uscita delle amministrazioni
centrali, periferiche, regionali e locali, delle possibilità di comprimere,
ridurre o razionalizzare quel gigantesco fiume di oltre 800 miliardi di
euro, che costituisce il complesso
della spesa pubblica.
n.35 VII 14 ottobre 2015 ISSN 2421-6909
Il professore cremonese narra con
prosa, brillante, a volte quasi scanzonata e, comunque, sempre godibilissima, quell'anno difficile ma assai interessante di commissario
straordinario per la revisione della
spesa pubblica, dall'ottobre 2013 al
novembre 2014.
Come Cottarelli tiene a chiarire immediatamente, nel volume non ci
sono scoop o rivelazioni su quello
che accade nei corridoi dei ministeri
romani, nelle anticamere degli assessorati regionali o nei consigli di
amministrazione delle 8.000 aziende controllate dalla mano pubblica.
Obiettivo primario è fare giustizia
delle troppe "leggende metropolitane", con esagerazioni sia in un senso ("tutta la spesa è spreco") sia
nell'altro ("se si taglia la spesa pubblica si distrugge il welfare state").
Obiettivo perfettamente riuscito, anche se perseguito con uno stile discorsivo ed elegante e senza ricorso a tavole e a grafici. Anche perché, ricorda l'autore, l'editore gli aveva precisato, "che ogni tavola dimezza le vendite!".
I dati di partenza esposti nel primo
capitolo costituiscono la base per
tutta la restante narrazione: 1) La
15
www.arcipelagomilano.org
spesa pubblica italiana, nonostante i
tagli realizzati a partire dal 2010,
eccede quello che ci possiamo permettere (secondo criteri internazionali universalmente accettati) di almeno il 2 e mezzo per cento del
prodotto interno lordo, ovvero circa
40 miliardi. 2) Assumendo che la
spesa per pensioni sia poco comprimibile, spendiamo troppo in quasi
tutti i settori, con l'eccezione di cultura e istruzione. Ed infatti le proposte avanzate da Cottarelli non prevedevano tagli per questi due settori.
Ma non perché non ci fosse da risparmiare anche in queste aree, ma
perché, se si fosse risparmiato, si
sarebbe dovuto reinvestire nelle
medesime. Fra l'altro, studi condotti
dal dipartimento di finanza pubblica
del FMI, diretto proprio da Cottarelli
fino al 2013, indicano che la spesa
per l'istruzione è quella che più fa
aumentare il reddito di un paese nel
medio periodo.
In ogni caso, ed è questa la filosofia
che percorre l'intera opera, ogni governo e parlamento che si ponessero il concreto obiettivo di incidere
sulla spesa, dovrebbero rispondere
preliminarmente a queste cinque
domande:
1) Occorre fare ogni sforzo per accentrare gli acquisti di beni e servizi?
2) La spesa pubblica deve essere
utilizzata per sostenere taluni settori
produttivi?
3) Si intende ridurre la spesa pensionistica ed entro quali limiti?
4) Le tariffe pubbliche debbono coprire i costi dei servizi offerti? Chi
deve godere di tariffe agevolate?
5) Quali sono le aree considerate
prioritarie per la spesa pubblica?
Ai posteri, e soprattutto a Yoram
Gutgelt, successore di Cottarelli nel
delicato incarico, l'ardua sentenza!.
Paolo Bonaccorsi
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
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Da non perdere - Segnalazioni d'autore
Il 15 ottobre debutta ai Filodrammatici “Il compromesso”, il nuovo
testo di Angela Demattè, attrice/autrice fresca della vittoria del
Premio Scenario 2015, scritto apposta per i neo-diplomati dell’accademia dei Filodrammatici, che hanno l’occasione di mettersi subito alla
prova con un regista del calibro di
Carmelo Rifici.
Al Teatro I fino al 18 ottobre “Non
correre Amleto”, di Francesca Garolla, testo da poco presentato in
Francia al Festival di Avignone, regia di Renzo Martinelli.
All’Elfo Puccini, fino al 31 ottobre,
uno degli spettacoli più belli della
scorsa stagione, “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller,
con la regia di Elio De Capitani.
Emanuele Aldrovandi
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
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Arianna
di Carlo Lavagna. [Italia, 2015, 83']
con Ondina Quadri, Massimo Popolizio, Valentina Carnelutti, Corrado Sassi, Blu Yoshimi
Arianna,19 anni, si sente diversa
dalle sue coetanee. Non ha ancora
il ciclo mestruale, ha seni acerbi e
ogni giorno si applica un cerotto.
Ritorna per un weekend con i genitori nella casa in campagna sul lago
di Bolsena che frequentava da piccola. Accanto vivono gli zii e soprattutto Celeste, una cugina della sua
stessa età.
I genitori rientrano in città e Arianna
decide di restare in campagna. Lontano dagli adulti scopre la vita sentimentale e sessuale della cugina, la
osserva amoreggiare con il fidanzato. È curiosa, vuole sapere cosa si
prova per il sesso, per lei il desiderio è qualcosa che appartiene più
alla mente che al fisico, il suo corpo
androgino non risponde agli stimoli
del piacere. Alla ricerca di normalità
Arianna decide di provare ad avere
una relazione con un ragazzo che la
n.35 VII 14 ottobre 2015 ISSN 2421-6909
corteggia. L’esperienza la conferma
che qualcosa che non va nel suo
corpo e le rassicurazioni del padre
medico (“aspetta e vedrai che tutto
si aggiusterà”) non la convincono
più.
Quasi sentendosi in colpa per questo suo corpo refrattario ai piaceri
amorosi si reca da una ginecologa.
L’ incontro la spinge a rileggere
frammenti della sua vita, a dare
nuovi nomi a ciò che le è accaduto
nella prima infanzia e che i suoi
hanno travestito da esigenza chirurgica. Arianna scopre che alla nascita era intersessuale (ermafrodito) e
mal digerisce che i suoi genitori abbiano scelto la sua identità sessuale
e soprattutto le abbiano nascosto il
suo passato.
Il tema scelto da Carlo Lavagna per
il suo debutto è decisamente difficile
e richiede coraggio. Il regista mostra
una certa capacità nel presentarlo in
maniera delicata, credibile e lontana
da pruriginosità. Il racconto segue
passo per passo Arianna nei suoi
dubbi e nelle sue sperimentazioni,
con lei ripercorre il filo che la condurrà a prendere coscienza della
sua origine.
Ciononostante il film si rivela incertezze (ma è un’opera prima), soprattutto nella ricerca di simbolismi
eccessivi (si veda la scena della
caccia al cinghiale). Gli attori, in
compenso, sono molto bravi e ben
diretti, specie Ondina Quadri, (Arianna) che con naturalezza dà
spessore alla protagonista e che si
è meritata il premio per la migliore
attrice esordiente alla 72 Mostra del
Cinema di Venezia.
Dorothy Parker
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IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
SKATEBOARD: DALLA STAZIONE CENTRALE AL GRATOSOGLIO!
http://blog.urbanfile.org/2015/10/11/zona-gratosoglio-inaugurato-lo-skatepark-baroni/
foto Luca Basilico
MILANO OGGI
IN THE MIDDLE OF THE FUTURE
di Giancarmine Arena
https://youtu.be/tBVXyblAvFM
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