Le origini della camorra – (anno 2010)

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Le origini della camorra – (anno 2010)
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OSSERVATORIO PER LA LEGALITA’ E LA SICUREZZA
CENTRO STUDI E DOCUMENTAZIONE
Via Vincenzo Ricchioni, 1 - 70123 Bari
LE ORIGINI DELLA CAMORRA
a cura di Nisio Palmieri
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LE ORIGINI DELLA CAMORRA
Introduzione
Nel settembre 1982 la proposta del defunto onorevole La Torre, diventerà legge con la firma anche
del ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Nel codice penale sarà introdotto l’articolo 416bis, per
una nuova fattispecie di reato: l’associazione a delinquere di stampo mafioso e camorristico.
E’ la prima volta che la camorra è riconosciuta ufficialmente quale organizzazione criminale
pericolosa come la mafia e la ‘ndrangheta. E per la prima volta la Commissione parlamentare
antimafia, vent’anni dopo la sua istituzione, dedicherà una indagine specifica alla criminalità
organizzata in Campania.
Eppure alla spalle di questa organizzazione criminale vi è una lunga storia che, a volte, si intreccia
con quella tormentata che portò all’unità d’Italia. Noi ripercorreremo il suo cammino facendoci
aiutare sia da Vittorio Paliotti che dal prof. Francesco Barbagallo che con la loro “Storia della
Camorra”, edite la prima nel 2006, la seconda nel 2010, hanno svolto un’opera meritoria, mettendo
in grado il lettore di conoscere, fin nelle sue pieghe più intime, questa associazione criminale che
nulla può invidiare, sul piano degli obiettivi e dell’efferatezza posta nel raggiungerli, a quelle
insediate in Sicilia e Calabria.
Sul piano storico abbiamo ritenuto necessario nel capitolo “Dal tempo dei Borbone all’Italia”, di
richiamare con più insistenza i fatti politici dell’epoca in quanto, ci è sembrato, più direttamente
partecipi alla vita e alle gesta di quei criminali. D’altra parte la trasformazione dei comportamenti
delittuosi, inizialmente rivolti soprattutto a danno della plebe, si potevano spiegare soltanto con
un’analisi attenta (come quella che fanno Paliotti e Barbagallo) degli avvenimenti che videro loschi
personaggi utilizzati nella lotta politica che pure si poneva traguardi ambiziosi ed esaltanti. Nel
prosieguo del lavoro abbiamo reso più scorrevole (almeno così ci è sembrato) la narrazione,
preferendo mettere l’accento sullo spessore criminale dell’organizzazione camorrista. Non
trascurando, naturalmente, di riferire gli intrecci con la politica che pure, ahinoi, sono violentemente
presenti.
Dai Borbone all’unità d’Italia
Intorno al 1860 lo scrittore italo-svizzero Marc Monnier (figlio di un albergatore residente nella
capitale borbonica) definiva la Napoli ottocentesca descrivendo una specie di catena di montaggio
che colpiva il visitatore ignaro sin da quando toccava terra, nel vedere l’esattore meglio vestito di
altri plebei <<spesso coperto di anelli e gioielli>> che divideva, senza proferire parola, con l’umile
barcaiolo il prezzo del passaggio. Dopo il barcaiolo toccava al facchino, che portava i bagagli alla
locanda, pagare un secondo esattore. Quando poi saliva in carrozza compariva un altro individuo,
che riceveva il suo soldo dal cocchiere. E così via: <<ad ogni passo nei quartieri poveri, alle
stazioni delle strade ferrate, alle porte della città, sui mercati, nelle taverne incontrava il bravo
implacabile……si intrometteva negli affari equivoci e nei piaceri dei poveri, in specie nei piaceri
viziosi e negli affari equivoci, e a vicenda agente di cambio, mezzano, intermediario, ispettore di
polizia, secondo i casi…>>.
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L’inchiesta di Monnier, condotta durante il processo unitario, è un documento prezioso perché si
giovò delle testimonianze dirette dei maggiori esperti, ministri e dirigenti delle forze di polizia, sia
del regime borbonico, che del nuovo governo italiano. Quindi una fonte storica attendibile ben più
dei fantasiosi racconti e leggende che si tramandano, in gran numero, sulle origini, le forme
organizzative, i riti, i miti della peculiare forma di organizzazione criminale che si sviluppa nel
tessuto urbano della Napoli ottocentesca, dentro gli strati sociali plebei.
Riti e miti ad ogni modo fortemente intrecciati. Da più parti, ad esempio, si riferisce di un rito
iniziatico che vedeva riuniti i camorristi intorno ad un tavolo su cui erano posti un pugnale, una
pistola carica e un bicchiere d’acqua o vino avvelenati. L’aspirante bagnava la mano nel sangue che
gli veniva estratto e giurava fedeltà alla setta, mostrando di essere pronto a spararsi e a bere il
veleno. Il capo della riunione prendeva atto del giuramento di sangue; scaricava l’arma, gettava a
terra il bicchiere e consegnava il pugnale al nuovo camorrista. Questo cerimoniale pareva essere di
rigore, ma non era indispensabile seguirlo in ogni circostanza. Altre testimonianze indicavano
procedure molto semplificate, specie nelle carceri. In ogni caso l’ingresso nell’associazione
camorristica veniva festeggiato con grandi banchetti.
Le stesse spiegazioni etimologiche del termine ‘camorra’ sono numerosissime e molto divergenti.
Del resto la parola ‘camorra’ è entrata nella lingua italiana dal gergo, non scritto, usato tra
Settecento e Ottocento dai malviventi napoletani. Tra questi due secoli il termine ‘camorristi’ viene
usato ripetutamente – accanto a ‘oziosi’, ‘vagabondi’, ‘rissosi’, ‘giocatori di professione’ – nei
documenti della polizia borbonica e del ministero della Guerra.
Tra le interpretazioni più recenti ce ne sono un paio di carattere storico, notevolmente differenti.
L’uno associa ‘gamorra’ alla città biblica di Gomorra, come traslato di vizio e di malaffare. L’altra
afferma una sorta di solidarietà lessicale tra i nomi delle tre organizzazioni criminali dell’Italia
meridionale – camorra, mafia, ‘ndrangheta – e li fa risalire alla terminologia pastorale della cultura
preromana. Secondo questa spiegazione si sottolinea l’originario fine protettivo e non criminale di
queste ‘fratellanze’ segrete, ‘morra’ significherebbe ‘madre di tutte le greggi’.
C’è da aggiungere che ci sono poi le possibili derivazioni dalla lingua castigliana: i termini
‘camorra’, ‘camora’, ‘gamurra’ rinviano sia a una corta giacca di tela, sia alla rissa, alla lite.
La connessione tra camorra e gioco d’azzardo si è fatta risalire al termine arabo ‘kumar’; e si ritrova
di frequente nei vocabolari dialettali napoletani dell’Ottocento. Proprio al gioco d’azzardo si
connette l’interpretazione più diffusa nel corso dell’Ottocento, per questo camorra diventa sinonimo
di estorsione, di riscossione di una tangente, una mazzetta, un pizzo su qualsiasi tipo di attività.
Poi, anche per l’influenza delle sette segrete – la massoneria, la carboneria, l’”unità italiana”, i
calderari del reazionario principe di Canosa – la camorra diverrà sempre più organizzazione,
strutturandosi specie dopo l’unificazione nazionale, in associazione di delinquenti specializzati
anzitutto nelle estorsioni su ampia scala, ma diffuse soprattutto nelle carceri e negli eserciti, dove
spesso venivano arruolati i criminali già detenuti.
La camorra, come attività e organizzazione distinta dalla criminalità comune, si diffuse nella città di
Napoli presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento. Diciamo non a caso presumibilmente,
perché non si è finora ritrovata alcuna traccia archivistica degli atti della polizia borbonica, né si
sono rinvenuti altri documenti di rilievo storico: Le prime notizie ufficiali si ritrovano nella
documentazione approntata dalla neonata amministrazione italiana. Ci sono, è vero, testimonianze
storiche e letterarie di notevole spessore, come quella citata all’inizio: l’inchiesta di Monnier. Altra
cosa sono i tentativi di cercare antecedenti di questo specifico fenomeno criminale nella storia
moderna di Napoli, tra Cinquecento e Settecento, tra viceregno spagnolo e primo periodo
borbonico. La ricerca, però, si sfilaccia lungo improbabili fili criminali che si immaginano dipanarsi
nei secoli tra la Spagna, Napoli e la Sicilia. Questa si addensò in centinaia di miglia di persone nella
città-capitale, tra Cinquecento e primo Ottocento, richiamata dalle elargizioni sovrane e
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aristocratiche, dall’esenzione fiscale e dal clima mite, che consentiva di sopravvivere in grotte e
caverne a queste masse di diseredati.
Già i primi decenni dell’Ottocento è quasi impossibile tracciare un profilo di questa realtà
criminale.
Ricorrendo alle fonti storiche attualmente disponibili, si può dire che la camorra, come associazione
di delinquenti, si sviluppa tra Napoli, Caserta e altre aree della regione Campania lungo tutto
l’Ottocento, fino ai primi decenni del Novecento. Poi si determinerà una rottura nella continuità del
fenomeno criminale, che assumerà caratteri innovativi ed espansivi, e manterrà il vecchio nome
solo in ordine alla collocazione territoriale.
Negli anni della restaurazione borbonica, dopo il congresso di Vienna, la camorra si dà
un’organizzazione, che prevede tre livelli da percorrere: picciotto d’onore, picciotto di sgarro,
camorrista. Prima di iniziare questa specie di carriera, il giovane aspirante è chiamato tamurro.
Viene eletto un capo per ognuno dei dodici quartieri di Napoli, che sono a loro volta suddivisi in
paranze. Lo stesso avviene per alcuni capoluoghi provinciali, oltre che nei luoghi di detenzione e
nei corpi militari.
Questi caposocietà eleggono un capintesta generale della camorra napoletana, che per un lungo
periodo corrisponde al caposocietà della Vicaria: per molto tempo il comando dell’organizzazione
resta nelle mani della famiglia Cappuccio. I capi della camorra avevano il titolo di Masto, che
significa maestro, ma anche padrone.
Oltre che nella capitale, la camorra si era affermata già in epoca borbonica nella Terra di Lavoro, in
particolare nell’area ristretta fra Caserta, Marcianise e Santa Maria Capua Vetere, dove pare ci
fossero circa 2000 affiliati. La struttura eminentemente napoletana della camorra prevedeva che ci
fosse un solo capintesta e che fosse di Napoli. I comuni, anche capoluoghi di provincia, erano
equiparati ai quartieri di Napoli e potevano avere solo un caposocietà.
Negli anni dell’unificazione nazionale, capintesta della camorra era Salvatore De Crescenzo, Tore
‘e Criscienzo. Capo dell’organizzazione criminale della Terra di Lavoro era Francesco Zampella,
cui De Crescenzo, per antica amicizia, riconosceva solo formalmente il titolo di capintesta del
Casertano, senza però alcun riconoscimento di autonomia. Poi il comando passò nelle mani della
camorra di Aversa e aumentarono le istanze di autonomia rispetto ai capintesta napoletani.
Bisognerà attendere la fine dell’Ottocento perché l’organizzazione criminale della Terra di Lavoro
proclami la sua autonomia eleggendo capintesta l’aversano Vincenzo Serra, senza più reazioni della
casa madre dell’ex capitale.
A Napoli, intanto, le estorsioni si estendevano dappertutto. Terreno privilegiato erano le carceri. Il
dominio degli affiliati alla Consorteria dei camorristi era qui totale, e ciascun detenuto era
tartassato dall’ingresso alla eventuale uscita. La prima richiesta riguardava una quota di denaro
necessaria – si affermava – ad assicurare l’olio per la lampada della Madonna del Carmine. Poi
erano estorsioni e vessazioni continue, che toccavano qualsiasi attività svolta dal detenuto, e si
riassumevano nella trattenuta di una decima sul denaro e su tutto quanto veniva nella sua
disponibilità. Lo sfruttamento dei detenuti da parte degli onnipresenti camorristi toccava l’apice
nelle colonie penitenziarie che il governo borbonico aveva organizzato nelle isole, a partire dalle
Tremiti, di fronte al Gargano.
Ogni detenuto riceveva dieci soldi al giorno. Il camorrista ne prendeva anzitutto uno, il decimo, per
suo conto; due soldi per la cassa comune, religiosamente conservata. Restavano sette soldi che il
detenuto spendeva nell’unica distrazione possibile, il gioco. Giocava i sette soldi che gli restavano,
ma sotto la vigilanza del compagno. Il quale sorvegliava tutte le ricreazioni, e prendeva un decimo
delle scommesse, per ricompensa alle proprie fatiche. Alla fine della giornata, decimo per decimo, i
sette soldi erano passati nelle tasche del camorrista. Fino al punto che il depredato,
paradossalmente, finiva per essere anche grato alla previdenza dell’organizzazione camorristica,
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perché se riusciva ancora, in qualche modo, a mangiare e a vestirsi lo doveva solo all’uso dei due
soldi accantonati per la cassa comune. L’associazione delinquenziale plebea iniziava così la sua
costitutiva attività estorsiva, esercitando una forma di totale sfruttamento delle categorie sociali più
diseredate.
Altro importantissimo fronte delle attività camorristiche era costituito dai mercati, dalle farine e
cereali alla frutta, al pesce, alla carne. C’erano inoltre le tangenti sulle case da gioco e sulla
prostituzione, sul “gioco piccolo” diffuso nelle bettole e per le strade.
I camorristi, poi, esercitavano in proprio il lotto clandestino, che procedeva parallelamente a quello
legale. E ancora estorsioni sul nolo delle carrozze e dei carri da trasporto, sullo scarico delle barche,
sull’attività di facchinaggio.
La camorra esercitava anche il contrabbando alle barriere daziarie. Percepiva cioè l’esazione fiscale
dei dazi per le merci che giungevano nella capitale sia dalla terra che dal mare. L’attività
dell’imposizione fiscale era svolta dai camorristi in aggiunta ai funzionari, ma anche, spesso, in loro
sostituzione, con notevole danno per l’erario pubblico.
Addetto agli affari economici e finanziari era il contarulo, nominato da ciascun caposocietà per la
gestione del barattolo, dove erano versati gli introiti delle estorsioni compiute dall’organizzazione
camorristica, che si dava il nome di onorata società, o anche di Bella Società Riformata.
L’associazione criminale svolgeva altre funzioni di grosso rilievo: affrontava e risolveva le più
diverse questioni pendenti, componeva le liti e le risse: amministrava cioè – a modo suo – la
giustizia nei diversi quartieri della capitale.
Era una violenta organizzazione composta di plebei, che però guardavano in alto. Da una parte si
ponevano in diretta concorrenza con lo Stato, sottraendogli in notevole parte l’esercizio di una
funzione basilare, qual’era l’esazione fiscale. Per altro verso cercavano di imitare i modelli e codici
di comportamento dell’aristocrazia, facendo ricorso a rituali che davano valore al giuramento e
all’onore. Un ruolo centrale aveva il duello, che si chiamava zumpata, e si svolgeva però con il
coltello, non con la spada. Guardava anche, con interesse imitativo, alle associazioni settarie diffuse
tra le èlites liberali: la massoneria e la carboneria, anzitutto.
La Consorteria dei camorristi si vedeva come una èlite criminale, si autorappresentava come una
sorta di “aristocrazia della plebe”, coi propri vincoli e riti iniziatici. Ogni quartiere aveva il suo
tribunale, che si chiamava Mamma. L’intera città aveva il suo organo giudiziario supremo. Era la
Gran Mamma, presieduta dal capintesta, che in tale funzione assumeva il titolo di
Mammasantissima.
Le regole della camorra si volevano raccolte in una sorta di statuto della setta. Di questo frieno
comparivano ogni tanto versioni scritte, sulla cui veridicità e utilità sorgono diversi dubbi, visto il
totale analfabetismo dei camorristi. Tuttavia nel 1842 il contarulo o contaiuolo Francesco
Scorticelli, che evidentemente sapeva leggere e scrivere, raccolse queste regole in un frieno
composto di ventisei articoli. Il testo dell’articolo I recitava: <<La Società dell’Umiltà o Bella
Società Riformata ha per scopo di riunire tutti quei compagni che hanno cuore, allo scopo di potersi,
in circostanze speciali, aiutare sia moralmente che materialmente>>.
La Società dell’umiltà esercitava in definitiva una forma di amministrazione privata e illegale, della
fiscalità, della sicurezza, della giustizia. Nell’esercizio di queste funzioni riceveva spesso anche il
plauso di autorevoli esponenti della classe dirigente, che mostravano di apprezzare questo ruolo di
supplenza.
La camorra costituiva quindi una specie di potere parallelo rispetto ad una debole struttura statale.
Una sorta di contropotere di origine e rappresentanza plebee, che trovava nei propri simili le prime
vittime.
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Prima del 1848 la camorra non si era mai occupata di politica e quindi non aveva avuto problemi
col governo borbonico. Nel decennio seguito alla fallita insurrezione liberale del 15 maggio 1848, il
regime poliziesco di Ferdinando II provvide ad incarcerare i principali esponenti dell’opposizione
che non erano espatriati (centri dell’emigrazione politica napoletana erano soprattutto Torino e
Firenze). I camorristi trattarono per lo più con rispetto questi aristocratici e intellettuali di valore,
autorizzandoli anche a portare armi di difesa da loro offerte in segno di particolare considerazione.
Da parte sua la polizia borbonica, nella tutela dell’ordine pubblico, non mancò di servirsi
dell’organizzazione camorristica, che esercitava una intensa e diffusa autorità nella “città plebea”. E
spesso fece ricorso ai camorristi incarcerati per avere informazioni sui comportamenti dei detenuti
politici. In vero, non ci sono prove documentarie a sostegno di una precisa strategia di
collaborazione tra il regime poliziesco borbonico e la camorra, che comunque riusciva a fare
carriera nella “bassa polizia” e a confermare, anche per questa via, il suo ruolo di dominio sulle
masse plebee della capitale. Esistono invece documenti e rapporti di ministri borbonici che attestano
la profonda corruzione degli organi di polizia ai diversi livelli. Si pagavano stabilmente cospicue
tangenti ai commissari di molti quartieri per l’esercizio di ogni attività commerciale. Le singole
guardie provvedevano in proprio a raccogliere denaro da ogni negozio. Si vendevano permessi di
vario genere, come per l’apertura domenicale di caffetterie e cantine. Ed era notevole l’attività della
polizia nei tradizionali settori della prostituzione e del gioco d’azzardo. In tal modo la pessima
amministrazione di questo settore del regime forniva un preciso esempio operativo per la già esperta
e attiva organizzazione camorristica; che si occupava di sovrintendere all’ordine nelle prigioni, nei
mercati, nei bordelli, nelle bische.
A loro volta, i liberali cercarono accordi politici con alcuni camorristi. Cercarono un contatto, anzi
fu dato l’incarico a Gennaro Sambiase Sanseverino duca di San Donato di contattare alcuni
camorristi e incontrò alcuni capiparanza vicino all’Albergo dei Poveri. Alle richieste di sostegno i
capicamorra risposero con una proposta di ingaggio, che doveva assicurare a ciascuno di loro
10.000 ducati. La trattativa fallì subito. Ma i liberali, che avevano rilasciato imprudentemente ai
camorristi alcuni documenti con la denominazione del loro comitato segreto, subirono a lungo, coi
loro amici, pesanti ricatti economici.
La tesi delle parti sociali sempre contrapposte e delle due città sempre inconciliabili tra loro non
corrisponde a una realtà ben più complessa e variegata, fatta di relazioni cangianti nel tempo ma
solide, tra la parte aristocratica-borghese della città e quella plebea-popolare. Altre occasioni di
scambio, a metà Ottocento, avrebbero visto gentiluomini liberali fornire denaro a gruppi
camorristici per l’organizzazione di tumulti antiborbonici.
Si andavano invece accentuando le differenze di orientamento tra i ceti popolari di diverse zone
della capitale. Per antica tradizione il quartiere marinaro di Santa Lucia era sempre schierato dalla
parte del re e del regime borbonico (i luciani d’‘o rre). I ceti popolari di Montecalvario, invece,
dove c’erano molti artigiani ed era attivo il famoso capintesta Tore ‘e Criscienzo, parevano più
orientati verso l’opposizione liberale, specie verso la fine del regno delle Due Sicilie.
L’estate 1860 vide scomparire il più grande Stato della penisola italiana. Il 25 giugno 1860 il
giovane re Francesco II di Borbone, tentò di frenare la caduta del suo regno nominando, tra l’altro,
un governo di moderati e liberali, tra cui il prefetto di polizia Liborio Romano. Concesse, ai primi
di luglio, una larga amnistia che liberò detenuti politici, criminali e camorristi. A fine giugno
esplosero tre giorni di tumulti e violenze provocati da delinquenti e da popolani schierati su fronti
opposti e da quanti si vendicavano delle prepotenze e dei soprusi subiti. Assalti ai commissariati,
tentativi di linciaggio di poliziotti e gendarmi, distruzioni di archivi videro come protagonisti i
capicamorra e i loro adepti. In prima fila si schierarono il capintesta Salvatore De Crescenzio e sua
cugina Marianna, detta la “Sangiovannara”, che gestiva una taverna alla Pignasecca, dentro
Montecalvario. Alla testa della polizia e poi del ministero dell’Interno era stato posto Liborio
Romano, avvocato e professore di diritto commerciale originario della Terra d’Otranto, liberale e
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massone già carbonaro e partecipe dei moti del 1820-21 e del 1848. Venne confinato, imprigionato
e andò in esilio in Francia. Richiesta la grazia al re, tornò a Napoli nel ’54.
Nel novembre 1860 giunge a Napoli, dall’Emilia, Luigi Carlo Farini, primo luogotenente generale
delle province meridionali, appena cedute da Garibaldi a Vittorio Emanuele. Alla testa del governo
nominato da Farini viene posto Liborio Romano, che conserva il ministero dell’Interno. Ma
direttore della polizia viene nominato Silvio Spaventa, cui nel marzo 61 il nuovo luogotenente,
principe Eugenio di Savoia-Carignano, affiderà anche la guida del ministero.
Pochi giorni dopo l’insediamento del governo della prima luogotenenza, Spaventa e il prefetto di
polizia De Blasio dirigono il primo grande blitz contro l’organizzazione camorristica, che, intanto,
grazie alla sua parziale legittimazione da parte dello Stato, aveva superato ogni limite nel
contrabbando e nell’esazione in proprio dei dazi.
Tra i più solerti funzionari si illustreranno proprio gli ex camorristi Capuano e Jossa. La parentesi
legalitaria si chiuderà invece per il capintesta Salvatore De Crescenzo, che aveva siglato l’accordo
con Liborio Romano: tornerà a svolgere le sue attività criminali e trascorrerà alcuni annui nelle
carceri napoletane, all’isola di Ponza, alle Murate di Firenze, per poi tornare libero alle tradizionali
funzioni di capocamorra della Vicaria.
Poco dopo la proclamazione del regno d’Italia (ai primi di aprile 1861), il giovane diplomatico
Costantino Nigra, segretario generale della Luogotenenza Carignano, invia a Spaventa una richiesta
riservata per ottenere Notizie sul camorrismo. Il direttore della polizia napoletana ha appena inviato
al ministro dell’Interno Marco Minghetti un articolato rapporto sul brigantaggio, la questione
demaniale, la difficile organizzazione della Guardia nazionale, senza accenni però all’attività
camorristica.
Spaventa si applica a preparare personalmente un Rapporto sulla camorra, affidando a un esperto
funzionario di sua fiducia. Vincenzo Cuciniello, la preparazione di Memoria sulla Consorteria dei
Camorristi esistente nelle Provincie Napolitane. Queste relazioni saranno inviate al Luogotenente e
al ministero di Torino a fine maggio. Minghetti farà pubblicare il rapporto sul giornale torinese
<<L’Opinione>>, con il suo apprezzamento.
La Memoria preparata da Cuciniello è una precisa descrizione delle forme organizzative della
Consorteria: sono indicati i tre gradi percorsi dagli adepti, le diverse responsabilità, la
strutturazione per province e quartieri napoletani, la presenza nelle prigioni e nell’esercito. Più
approfondito è il Rapporto di Spaventa. Intanto parla di camorra sia per le province napoletane che
per la Sicilia e ne fa discendere l’origine dalla Spagna e dal suo dominio. Distingue anche tra una
camorra napoletana, che si limitava in principio a tassare il gioco e i giocatori, e una più feroce
criminalità siciliana, che entrava come leva volontaria nel reggimento borbonico per sfuggire al
carcere duro, ma poi ricadeva nei reati e tornava nelle carceri, dove affermava il suo potere
estorsivo in ogni direzione, dandosi <<ad esercitare la camorra secondo gli usi più pravi dei bagni
della Sicilia>>.
Spaventa, da parte sua, proseguiva nell’operazione di espellere dalla polizia napoletana la gran parte
delle forze camorristiche che vi erano state immesse nel periodo transitorio tra le fine del regno
delle Due Sicilie e l’avvento del regno d’Italia. I problemi più delicati riguardavano
l’organizzazione della Guardia nazionale, che prevedeva l’espulsione delle guardie cittadine di
provenienza camorristica, e le proteste che montavano tra la bassa forza dell’esercito garibaldino.
La decisione, poi, di vietare l’uso della divisa alle guardie nazionali fuori servizio, per impedire i
frequenti abusi e soprusi, scatenò una violenta protesta contro l’azione di Spaventa, che fu assediato
nei suoi uffici e assalito nella sua abitazione. Altre proteste erano organizzate da una parte dei
soldati garibaldini, in cerca di sussidi e di sistemazione.
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L’arrivo dell’ultimo Luogotenente, il generale Enrico Cialdini, nell’estate 1861, pose fine alla
permanenza dell’austero dirigente politico alla guida della polizia napoletana. Cialdini avvierà una
politica più aperta nei confronti dei democratici e dei garibaldini, reclutandoli in maggior misura tra
le guardie nazionali mobili. I fidati carabinieri, però, informavano il segretario di polizia che i noti
commissari Jossa e Capuano avevano pensato di rafforzare la loro posizione, accordandosi con il
partito garibaldino, introducendo un forte numero di camorristi.
Meno fortuna ebbe il terzo commissario di polizia venuto dalla camorra, Ferdinando Mele, che fu
ucciso dal delinquente Salvatore De Mata, accusato di aver ricattato un barone borbonico. Ma i
fratelli De Mata avevano anche svolto il ruolo di guardie del corpo di Silvio Spaventa, quando
mezza Napoli voleva ammazzarlo.
Nell’estate 1861 esplode con grande violenza il brigantaggio nelle province meridionali. Il governo
Ricasoli conferirà al generale Cialdini il comando del VI corpo d’armata e tutti i poteri per
reprimere le insorgenze contadine. Lo stato d’assedio sarà subito utilizzato a Napoli dal prefetto, in
accordo col questore Carlo Aveta, per procedere al rapido arresto di 300 camorristi.
Il prefetto generale La Marmora era fiero di comunicare al ministero dell’Interno, il 23 settembre
1862, di aver potuto assumere questo energico provvedimento <<senza transazioni, senza rilenti di
forme giudiziarie (inadeguate a raggiungere i nuovi imperversamenti di questo straordinario male
sociale)>>. E aggiungeva il suggerimento di confinare in Sardegna i più <<accaniti macchinatori di
camorra>> (circa 150), per recidere i rapporti e la gestione degli affari con le mogli e gli altri
scherani. Il governo recepì questo indirizzo. Una sessantina di camorristi furono inviati al carcere
delle Murate a Firenze, guidati dal capocamorra del carcere di Castelcapuano, il ben noto Salvatore
De Crescenzo, e dal suo omologo nel carcere di San Francesco, Vincenzo Zingone, che fu poi
trasferito insieme a una quindicina di affiliati a Cagliari, dove progettò di uccidere il prefetto e il
delegato di Pubblica sicurezza. Altri camorristi, a decine, furono inviati in isole lontane: duecento a
Capraia, e poi a Pantelleria, Favignana, alle Tremiti. Quindi a Saluzzo, a Brescia, a Pisa, a Pistoia.
Tra il dicembre 1862 e il marzo 1863 si succedono alla testa del governo Farini e Minghetti. Al
ministero dell’Interno subentra Ubaldino Peruzzi, che sceglie come principale collaboratore Silvio
Spaventa, con l’incarico di segretario generale (carica corrispondente a quella di un odierno
sottosegretario). Da questa postazione Spaventa rilancia la sua guerra alla camorra, chiedendo a tutti
i prefetti del Mezzogiorno gli elenchi dei camorristi detenuti e associando poi la camorra al
brigantaggio nelle indagini che effettuerà nelle province meridionali la Commissione parlamentare
d’inchiesta nel corso del 1863.
Vengono poi istituite la Commissione provinciale per la <<revisione degli arresti dei camorristi
effettuati durante lo stato d’assedio>>. I documenti fondamentali esaminati dalla Commissione
sono costituiti da una quarantina di lettere ritrovate, insieme a numerosi biglietti di
raccomandazione, durante una perquisizione nel carcere San Francesco. Queste lettere erano
sottoscritte dal camorrista Antonio Formino e indirizzate a Vincenzo Zingone.
Il problema giuridico affrontato, in via preliminare, dalla Commissione in merito a questi
documenti fu <<se potessero essi soli costituire una prova legale della criminosa associazione
contro coloro che vi sono mentovati, senza esservi bisogno d’altro ausilio di prova>>. L’unanime
conclusione, di netta impronta garantistica, dichiarò sia l’insufficienza di prova, sia l’indispensabile
verifica della sua veridicità e di ogni specifica attribuzione. Ad ogni modo, su circa 600 casi
esaminati l’accusa di camorra fu confermata per circa 500 imputati.
Nello stesso periodo aveva operato la Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, le
cui competenze erano state estese alla camorra per impulso di Spaventa.
Ai primi di giugno 1863 veniva presentato alla Camera un disegno di legge, di cui era relatore
l’esule pugliese Giuseppe Massari. Il prolungarsi di un aspro dibattito che rendeva ormai prossimo
il rinvio all’autunno, spinse il deputato Giuseppe Pica a proporre la rapida approvazione di uno
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stralcio. Il testo, più breve, prevedeva la sottrazione della materia alla magistratura ordinaria e il
domicilio coatto per i sospettati anche solo di connivenza con i briganti e i camorristi, nonché gli
oziosi e i vagabondi. La “legge Pica” fu approvata il 15/8/1863. Il governo ebbe la <<facoltà di
assegnare per un tempo ma non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi,
alle persone sospette, secondo la designazione del codice penale, nonché ai camorristi e sospetti
manutengoli, dietro parere di una Giunta composta dal Prefetto, dal Presidente del Tribunale, del
Procuratore del Re e di due consiglieri provinciali>>:
La legge eccezionale fu estesa dal brigantaggio alla camorra, perché questa venne considerata come
un potere parallelo e alternativo rispetto alla sovranità dello Stato, sia sul terreno del monopolio
della violenza e dell’ordine sociale, che sul piano dell’amministrazione di essenziali funzioni statali:
la tutela dell’ordine pubblico e della convivenza civile, l’esazione dei tributi fiscali.
A Napoli la Giunta operò dall’autunno ’63 alla primavera ’64, esaminando circa 2000 casi. Ne uscì
una mappa documentata della delinquenza napoletana, con l’indicazione dei dati anagrafici, dei capi
d’accusa, dei mestieri e dei precedenti penali.
Gli inquisiti per camorra nella provincia di Napoli, risultano 1285, di cui 900 a Napoli. Oltre il 30%
dei camorristi si concentra nel quartiere Mercato, un altro 35,5% si distribuisce tra Vicaria, Porto e
Pendino. Quartieri poveri; ma anche luoghi dove si svolgono i traffici, le attività economiche: i
mercati della frutta e del pesce, il porto, la dogana, la ferrovia, la piazza degli orefici e infine il
Tribunale, le carceri, i bordelli.
Circa la metà dei sospetti camorristi è costituita da giovani sotto i trent’anni. Tra i mestieri
dichiarati i più numerosi sono i facchini, presenti in tutti i mercati, poi i sensali, che spesso sono
estorsori degli orefici, quindi i commercianti al dettaglio e gli ambulanti, i cantinieri, i caffettieri, i
cocchieri, i calzolai, i falegnami. Il carattere plebeo dell’associazione viene confermato dall’assenza
di impiegati e operai.
La Giunta riaffermò la convinzione che la documentazione ritrovata l’anno prima nel carcere di San
Francesco poteva considerarsi fondamento probatorio dell’associazione criminale.
L’affermazione del carattere associativo e organizzato della camorra costituiva un punto molto
importante. La cultura giuridica liberale aveva in gran sospetto il reato associativo: sia per la sua
prevalente applicazione ai delitti di associazione e cospirazione politica, sia per il rischio di punire
come reati penali anche gli atti solo ‘preparatori’ di progetti non portati a compimento. I problemi
non sorgevano nella valutazione di un concreto reato, ma risultavano di difficile applicazione
quando l’imputato non era accusato di aver compiuto un reato determinato, oltre quello di
associazione criminosa.
Nel primo decennio unitario fu la camorra napoletana, e non la mafia siciliana, l’oggetto
privilegiato di una continua azione repressiva dello Stato. L’espiazione delle pene e l’esaurirsi delle
procedure eccezionali riportavano a Napoli e dintorni i camorristi, che riprendevano subito le
tradizionali attività.
Nel settembre 1866 il direttore superiore al ministero dell’Interno, Nicola Amore, scriveva al
prefetto della sua città che l’allarme destato nella cittadinanza per il prossimo ritorno dei camorristi
dal domicilio coatto aveva costretto il ministero ad appigliarsi alla determinazione di non rilasciare
più camorristi di nessuna specie, non tenendo conto delle questioni di mera forma legale,
considerando generalmente il ritorno alla loro patria coma causa di un pericolo incessante alla
pubblica sicurezza.
Questo principio non durò a lungo perché ledeva i principi garantisti che lo Stato liberale intendeva
comunque assicurare, fuori dai periodi eccezionali, tanto che già al principio del 1868 il procuratore
Marvasi denunciava che in meno di quattro mesi, dall’aprile all’agosto del ’67, erano tornati nella
provincia 158 camorristi.
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Nel settembre 1869 in un documento preparato dalla Prefettura di Napoli venivano confermate le
relazioni che legavano gli ambienti criminali ai ceti sociali più elevati. Autorevoli membri delle
classi dominanti intervenivano per salvare dal carcere i loro omologhi nel sottomondo criminale.
“Le raccomandazioni, diceva la relazione prefettizia, cadano d’ordinario a favore dei camorristi più
influenti, quando si pensa che i più famosi camorristi non furono a quel rigore, che altri sottopostivi
ne furono presto liberati, si sarebbe del domicilio coatto tentati di dire: che non colpì i pessimi, che
colpì per breve tempo i cattivi e che nella rete ora rimangono solo i pesci piccoli>>.
Sempre nel 1869 si svolgeva, nella città di Castellammare di Stabia, un processo a carico di 67
imputati, di cui 18 pregiudicati accusati di aver costituito un’associazione criminale con lo scopo di
depredare nel Porto Mercantile, con minacce a mano armata, continuare contrabbandi, esercitare
camorra in danno dei commercianti, dell’Erario dello Stato e dei privati. Gli altri 49, imputati di
complicità e ricettazione, erano impiegati doganali, pesatori, facchini.
Nello stesso rapporto del pretore al procuratore del re si dava conto anche di un contrabbando
compiuto dal comandante siciliano di un bastimento proveniente da Trapani con 100 quintali di
sale, in accordo con alcuni camorristi di Castellammare. Lo sbarco avvenne rapidamente sulla
spiaggia cittadina e, la sera dopo, alla marina di Cassano per la distribuzione nei paesi della penisola
sorrentina, col favore di parecchie guardie doganali corrotte.
Il sindaco di Castellammare, ch’era proprietario di alcuni bastimenti, non aveva alcuna difficoltà a
rilasciare certificati di buona condotta ai notori camorristi e aveva introdotto negli uffici doganali
due imputati già ammoniti dal pretore. Tra i suoi scaricatori al porto c’era il camorrista più temuto,
Gennaro Ferrara, che, non per caso, citerà come testi a suo discarico il sindaco e gli assessori
municipali.
Le indagini e gli atti istruttori compiuti dalla polizia e dal pretore non appaiono però sufficienti a
configurare per gli imputati il reato di “associazione di malfattori”: né al pubblico ministero, né poi
al tribunale, che procedono rapidamente alla scarcerazione di tutti i detenuti. Questa linea liberale,
fortemente garantista, corrispondeva agli orientamenti governativi. C’è da notare che, se il reato
associativo era raramente applicato ai camorristi, più facilmente colpiva internazionalisti, anarchici
e socialisti.
Intanto, anche a Napoli e al Sud era in atto una trasformazione delle relazioni sociali, che produceva
interazioni tra i diversi strati della società, in uno con il progressivo ampliamento della
partecipazione politica e delle funzioni di amministrazione e di governo. Anche in presenza di un
suffragio particolarmente ristretto, intorno al 3-4%, si segnalavano brogli e compravendita di voti.
Era il caso di un deputato moderato del quartiere napoletano San Giuseppe, De Rosa, che affidava
l’acquisto dei voti a un comitato formato da un commesso municipale, due guardie nazionali, un
cantiniere e un camorrista appena tornato dal domicilio coatto.
L’inchiesta diretta dal senatore Saredo sulle amministrazioni napoletane dopo l’unificazione,
mostrava che già nei primi decenni unitari illegalità e criminalità si diffondevano attraverso
relazioni più complesse che andavano ben oltre il sottomondo plebeo e camorristico.
Si andavano formando reti di interessi che avvicinavano sempre più i ceti bassi e quelli alti. Si
affacciavano atteggiamenti, valori che allargavano i confini della camorra plebea verso più moderne
forme di illegalità. Al posto della bassa camorra, esercitata sulla povera plebe, sorgeva un’alta
camorra, composta dai più audaci borghesi. Costoro traevano alimento nei commerci e negli
appalti, nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli e nella stampa.
Come rilevava l’inchiesta Saredo, veniva fuori una figura sociale della realtà politicoamministrativa di Napoli di fine Ottocento, l’interposta persona. Questa figura, sempre attiva nella
Napoli borbonica, trovava più ampi spazi nella nuova organizzazione politica ed elettorale, con la
diffusione del voto, l’affermazione delle clientele e dello scambio tra voti e servizi. Con le forme
della corruzione diventava centrale la figura dell’intermediario.
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Scrive, in proposito, lo storico Barbagallo: <<Dall’industriale ricco, che voglia aprirsi la strada nel
campo politico o amministrativo, al piccolo commerciante, che debba richiedere una riduzione
dell’imposta; dall’uomo d’affari che aspira ad una concessione, all’operaio che cerchi il posto in
un’officina; dal professionista desideroso della clientela d' un istituto o d’un corpo morale, a colui
che solleciti un piccolo impiego, dal provinciale che viene a Napoli per fare acquisti, a quello che
deve emigrare per l’America; tutti trovano dinanzi a loro l’interposta persona….>>.
Una città più moderna
Nel 1874 il prefetto, Antonio Mordini, aveva segnalato al ministro dell’Interno Minghetti un
preoccupante aumento delle attività criminali della camorra, nonché l’incremento dei suoi rapporti
di affari illeciti con esponenti dei più elevati strati sociali. Si praticavano estorsioni alla luce del
sole. Camorristi controllavano appalti e aste pubbliche. Si recavano in tribunale per intimidire i
giudici e i giurati.
Ormai, però, i camorristi, come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, non erano più
delinquenti marginali, facili da perseguire. Nel primo quindicennio unitario avevano allargato e
consolidato le loro relazioni, aumentato gli affari, affermato la loro posizione sociale. Avevano
amici autorevoli, compagni di affari e quindi ricattabili, che, per forza di cose, garantivano per loro.
Su questo aspetto, sempre Barbagallo, ci racconta una storia esemplare. Pasquale Cafiero, era capo
dei facchini alla Gran Dogana, <<famoso contrabbandiere e facinoroso camorrista>>. Inviato dal
1864 al ’67 al domicilio coatto, nel 1875 ormai <<vive con lusso, non lavora mai, veste da
Signore>>. L’ispettore di polizia del Porto lo protegge. Nel 1880 Cafiero rischia di essere licenziato
dalla Dogana. Il solerte ispettore di Mercato denuncia le sue continue prepotenze sui facchini, le
estorsioni e i furti a danno dei commercianti di grano. Si schierano immediatamente dalla sua parte
amici garanti del facchino-camorrista, trai quali il giornalista e deputato De Zerbi. Una lettera di
raccomandazione al questore viene fornita dai principali mercanti di grano operanti a Napoli. A suo
favore interviene il consigliere provinciale e proprietario dei mulini Luigi Petriccione. Da Palermo
giunge, sempre al questore, la raccomandazione dell’onorevole Saverio Fruscia Sciacca,
internazionalista e socialista. Aveva, infatti, segnalato l’ispettore, che Cafiero si atteggiava <<ad
internazionalista>>: ma la principale attività politica era consistita nell’estorcere denaro
<<minacciando coloro i quali erano stati in relazione con la polizia del caduto governo
borbonico>>. All’inizio del 1881 il questore chiudeva il caso, comunicando al direttore della
Dogana che, in merito al procedimento per l’ammonizione giudiziaria, <<si è creduto sospendere
per ora l’effetto, mostrando il C. da qualche tempo buona intenzione di ravvedimento, a quanto mi
assicura codesta ispezione>>, compiuta naturalmente dall’ispettore del Porto, l’amico. Come si è
letto, è antico il vergognoso rapporto tra politici e criminalità organizzata.
Al Porto c’erano anche le banchine della Pietra del pesce, dove i pescatori sbarcavano e
consegnavano le ceste ai grossisti. I pescatori, dopo lunghi ed inutili tentavi di sottrarsi alle
estorsioni, alla fine decisero di pagare una somma per ogni cesta sbarcata. A loro volta i
capiparanza si accordavano per tenere alti i prezzi di vendita del pesce, per cui i pescivendoli erano
costretti a indebitarsi con loro.
Per scandire meglio l’evoluzione della camorra, riferiamo anche della incredibile, precoce e rapida
carriera delinquenziale di un giovane camorrista. Pasquale Scialò, ‘o Sciascillo, a 15 anni compie
quattro ferimenti a colpi di pistola. Alla fine del 1878 fa esplodere una bomba carta; il 30 dicembre
ammazza un giovane di vent’anni. Il tribunale gli concede sempre la libertà provvisoria, anche dopo
l’omicidio; per il quale sarà condannato nel 1880 a cinque anni di reclusione. Nel gennaio 1881 il
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questore di Napoli denuncia al procuratore del re che il soggetto dopo tante ribalderie non risulta
mai condannato e per questo “va pubblicamente vantandosi per le alte protezioni di cui gode”.
Finalmente il 1883 il ventenne ‘o Sciascillo, dopo aver proseguito imperterrito nelle sue azioni
criminose, viene condannato a sei anni di carcere, in via definitiva. Se ne perderanno le tracce, né si
conosceranno le specifiche protezioni di cui aveva goduto.
Un settore fondamentale dell’attività camorristica, nel quale operavano anzitutto i capintesta da
Salvatore De Crescenzo a Ciccio Cappuccio, ‘o signorino era quello legato alla “filiera” dei cavalli.
Il controllo partiva al momento delle aste degli scarti equini dell’esercito, che venivano accaparrati
a basso prezzo, eliminando, si intuisce con quali mezzi, la concorrenza. Il secondo passaggio era
rappresentato dal commercio della crusca e delle carrube per l’alimentazione degli animali. Era
quest’ultima, poi, l’attività ufficiale svolta da molti camorristi. L’organizzazione criminale
esercitava il pieno controllo di tutti i cocchieri e stallieri. A dare forza a questi traffici quindi la
stretta congiunzione con l’esercizio dell’usura.
La camorra non cessava di evolversi. La pratica dell’estorsione, rinnovata e allargata, si diffondeva
nella “società civile” di quel tempo e nella sua rappresentanza politica e amministrativa.
Ce ne spiega il perché il prof. Barbagallo: <<Del resto l’estorsione è l’attività illegale che meglio si
accosta alla politica. Infatti, si fonda sulla organizzazione e la violenza attributi specifici della
dimensione statuale. Dà quindi vita a una organizzazione che punta a conquistare il monopolio
territoriale della violenza, in diretta concorrenza con lo Stato. L’estorsione si manifesta in tanti
modi, ossia come richiesta di compensi per prestazioni di servizi pubblici, per procurarsi un appalto
pubblico con sistemi illegali e/o violenti, per offrire protezione e ordine in cambio di pagamenti in
denaro>>.
Alla fine dell’Ottocento l’espansione dell’illegalità criminale si misurava con gli sviluppi della
politica. Non essendo ancora nati i partiti di massa, questi si muovevano come aggregati di notabili,
guidati da personalità eminenti come Nicotera, Crispi, Rudinì, Giolitti, Zanardelli, Sonnino. Non
era più una stretta oligarchia di ricchi e aristocratici. Sulla scena politica irrompevano ceti meno
altolocati, più disponibili a più larghe relazioni. Si tenga presente che le riforme elettorali degli anni
’80 allargavano il voto ai maschi ventunenni in grado di leggere e scrivere.
D’altra parte l’illegalità e la criminalità applicata alle amministrazioni pubbliche non erano una
novità. L’amministrazione del potere politico era nata, nell’età moderna, a cominciare dalla Francia,
con la vendita delle cariche e la venalità degli uffici. A Napoli, poi, i Borbone avevano affidato
gestione di appalti e tangenti, forniture e concessioni a nobili e principi, ma anche ai propri
camerieri.
La modernità quindi, senza alcun stupore, avanzava anche a Napoli, esprimendo qui pratiche
corruttive e illegali.
A metà agosto del 1884 arrivò il colera e fece il primo morto. A settembre l’epidemia esplose nei
quartieri popolari e devastò la popolazione ammonticchiata nei fondaci e nei bassi.
Il 15 gennaio 1885 fu approvato dal Parlamento la legge per il Risanamento della città di Napoli.
Prevedeva un finanziamento di 100 milioni per le opere di bonifica e per la nuova rete fognaria,
agevolazioni fiscali, una più incisiva procedura d’espropriazione per pubblica utilità, che colpiva gli
interessi dei proprietari.
Queste condizioni non convinsero le imprese edili nazionali ad assumere i lavori di ‘sventramento’
e di risanamento dei quartieri bassi, considerati costosi e incerti. Si determinò così una paralisi
produttiva.
Soltanto nel 1904 un nuova convenzione consentirà di portare a termine nel 1910 i lavori previsti
per il 1894. E soprattutto avevano privilegiato la costruzione di nuovi quartieri signorili.
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L’ammodernamento edilizio di Napoli, insomma, era giovato alla borghesia e aveva ignorato i
bisogni dei diseredati per i quali era stato in principio pensato.
Tuttavia fu realizzato un efficiente sistema di fognature che migliorava la situazione igienica della
città.
La ricostruzione del centro, del sistema fognario e i contratti stipulati con le società erogatrici dei
servizi pubblici, sollecitavano le amministrazioni ad assumere atteggiamenti imprenditoriali che, tra
scontri certamente non disinteressati, assumevano una sinistra modernità, in quanto spingeva ad
intervenire con la richiesta e la percezione di ‘contrattare tangenti’.
Sullo sfondo di tutto questo si sviluppava una lotta tra gli aggregati conservatori e clerico- moderati
sostenuti dalla Curia arcivescovile e un sistema di potere politico-amministrativo della Sinistra
massonica guidato dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera.
Il gruppo (ma era ben più di un gruppo) nicoterino, attivo nell’organizzazione delle clientele
politico-amministrativo nei quartieri popolari del centro, presidiava anche il settore delle imprese
economiche.
Nell’ultimo quinquennio dell’Ottocento l’amministrazione comunale di Napoli resta dei gruppi
nicoterini, poi diventati crispini. Sono questi poi i giorni in cui vengono messe a punto le nuove
convenzioni con la Società belga dei tramways, con la società per l’acqua del Serino e con le
aziende elettriche per l’impianto di illuminazione. La pubblica opinione era generalmente convinta,
non a caso, che queste società avessero erogate somme per contrattare e definire le convenzioni. Un
rappresentante della Società belga confermò: <<che in questo paese nessun contratto può farsi senza
mediazione. Prima però si pagava a qualche amministratore, oggi si deve pagare agli amici degli
amministratori>>.
La camorra, intesa come organizzazione di plebei e analfabeti di certo non c’entrava direttamente.
Si trattava di una forma moderna di corruzione clientelare e familistica diffusa anche in altre città e
in altri continenti. Anche se Napoli, nella sua originalità, ci metteva del suo. Per esempio, non
aveva titolo di studio nemmeno il ragioniere capo, che preparava il bilancio.
Il 1° maggio 1899 i giovani socialisti napoletani fondarono il settimanale <<La Propaganda>>.
Obiettivo immediato fu l’attacco contro la ‘camorra’ amministrativa e politica che dominava
Napoli, per cui fu creata un’apposita rubrica titolata “Contro la camorra”.
Sul finire del ’99 iniziò il processo a Milano per l’omicidio mafioso del marchese Emanuele
Notarbartolo, già sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia. Il figlio Leopoldo denunciò in
aula il deputato Raffaele Palizzolo quale mandante del delitto. L’8 dicembre la Camera approvò
l’autorizzazione a procedere contro l’onorevole che fu arrestato la sera stessa.
Due giorni dopo <<La Propaganda>> pubblicava un numero speciale tutto dedicato <<all’opera
dell’alta e bassa camorra>> a Napoli, in considerazione del fatto che <<importanti vicende hanno
mostrato a luce meridiana ciò che il partito socialista va proclamando da tempo, che cioè nel
mezzogiorno del paese alligna e spadroneggia spavalda la fitta rete della camorra e della mafia>>.
Gli inizi del novecento – La lotta ai guappi di sciammeria
La lotta alla “camorra amministrativa” segnerà la fine del gruppo che, in un primo tempo, si
richiamava a Nicotera e poi a Crispi. Tuttavia ciò non provoca un cambiamento progressivo e più
democratico. Al Municipio di Napoli tornano a insediarsi i clerico-moderati, i cattolici conservatori
che avevano già amministrato e che rimarranno al potere per oltre dieci anni.
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Negli anni del rilancio industriale e di una modernizzazione che aveva invaso una larga parte della
Penisola, a Napoli sarà un moderato conservatorismo politico a guidare il Municipio, le associazioni
commerciali e industriali, gli stessi processi di espansione, anche se relativa, di gruppi finanzieri e
mercantili.
Non si fermava intanto l’attacco socialista al sistema clientelare e camorristico che caratterizzava
l’attività amministrativa nella metropoli e nel vastissimo territorio agricolo della Terra del Lavoro
(che si combinava con la provincia di Caserta). La condanna più dura, pronunciata da un deputato
socialista, fu riservata al giolittiano Peppuccio Romano, non a caso deputato di Sessa Aurunca
(collocata nella Terra di Lavoro) definito <<il maggiore esponente della camorra di Terra di
Lavoro>>.
Le dure parole subite dal giolittiano furono confermate, qualche tempo dopo, dal prefetto della
provincia di Caserta, che all’epoca si estendeva a Sora e a Gaeta, che in una relazione riservata al
ministero diceva che nell’agro aversano <<è innegabile l’esistenza della malavita organizzata in
camorra, la quale secondo i vecchi sistemi di lotte elettorali di queste contrade, viene assoldata da’
partiti per essere spalleggiati e per guadagnare terreno coi mezzi più riprovevoli e riprovati>>.
Per il vero non erano soltanto i deputati dell’Estrema sinistra ad intervenire contro la camorra. Un
deputato clerico-moderato di Napoli-Chiaia, denunciava <<la piaga sociale della camorra>> e
invitava il governo a combatterla, ammonendo: <<Ma per far ciò nelle elezioni, specialmente nelle
elezioni politiche, l’autorità di pubblica sicurezza non deve ufficialmente organizzare la camorra,
non deve servirsene per fini suoi>>.
Una parte della stampa locale (quella che contava) e in particolare il “Mattino” e il suo vate
Scarfoglio, difendeva a tutto campo e con veemenza il Romano. Questo però non fermava l’azione
della Prefettura casertana contro il politico-camorrista. Nel collegio di Aversa si raddoppiavano i
contingenti di carabinieri e poliziotti, si aggiungevano quaranta guardie di finanza, veniva impiegata
anche la cavalleria. Lo Stato, attestava il prefetto al governo, era entrato in guerra contro
l’onorevole che
si appoggia alla malavita locale e la sostiene vigorosamente traendo in gran parte da essa la sua
forza elettorale. Perciò è grato alle figure principali di essa; perciò si adopera in ogni contingenza
in favore loro. Non appena esse hanno a rendere qualche conto alla giustizia, egli si pone in prima
linea per difenderle recandosi personalmente nelle Aule del Tribunale e mostrandosi apertamente
ai Magistrati compiacenti con la veste di fautore e di patrocinatore, sostenuto a sua volta da
numerosi affiliati alla malavita.[…] Per tutto ciò, che ora il Cav. Romano sia ritenuto moralmente
diffamato è noto; ma la recente lotta elettorale ha valso a confermarlo ed a caratterizzarlo
moralmente e politicamente la figura di lui.
Il processo Cuocolo, di cui parleremo fra poco, provocò un’attenzione inedita al problema
criminale. Si sviluppava così un’analisi dei caratteri e soprattutto dell’evoluzione del fenomeno
camorristico. Il dirigente sindacale e giornalista, Eugenio Guarino, per esempio, poneva fortemente
l’accento sulla persistenza e aggiornamento dell’associazione delinquenziale, che pareva assumere
la forma di una <<immensa piovra>>, i cui tentacoli invadevano tutta la città. Indicava, con molto
coraggio e spregiudicatezza, quelli che erano i <<puntelli della camorra>>: i legami con la polizia,
specie per il controllo del mercato elettorale; la tolleranza della magistratura e, soprattutto, delle
autorità religiose che tanto peso avevano nella città; infine l’assuefazione della pubblica opinione
allo spettacolo delle istituzioni conniventi con la delinquenza.
Il <<Mattino>> pubblicherà una attenta inchiesta, poi raccolta in volume da Ernesto Serao e
Ferdinando Russo. Serao spiegherà la profondità dei cambiamenti che avevano ormai oscurato i
tradizionali riti camorristici e che vedevano sempre più crescere la presenza, accanto ai delinquenti
plebei, di strati sociali più elevati ed aperti ad altolocate relazioni, grazie agli accordi elettorali, alle
pratiche usuraie, al controllo delle aste, al gioco e al mondo appassionato ai cavalli.
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Sarà un funzionario di polizia, Eugenio De Cosa, nel 1908, a tracciare un intrigante profilo di questi
criminali aggiornati ai tempi nuovi:
Il camorrista moderno conosce anticipatamente a chi verrà aggiudicato l’appalto di questa o di
quella amministrazione, regola la vendita dell’asta pubblica, ne svia le maggiori offerte, concerta e
mena a termine questue e feste di beneficenza da cui detrae lauta sua spettanza. Egli inizia e
“protegge” case da gioco e di prostituzione prestandosi a fornire i capitali che gli vengono poi resi
quintuplicati, dispone della servitù di tutto il quartiere, ed in caso di elezioni, per logica
conseguenza, di 100 o 200 voti, secondo la sua importanza e secondo gli anni della sua carriera. Il
camorrista moderno conosce ed è conosciuto da tutte le Autorità locali; qualche volta è nominato
“notabile” municipale del quartiere, e mercé le sue raccomandazioni, gli abitanti del rione
ottengono dei favori delle concessioni.
A questi delinquenti che, abbandonate le vecchie frequentazioni, si appropriavano delle abitudini
borghesi ed aristocratiche, fu imposto il termine di guappi di sciammeria (ch’era una specie di
abito).
Veniamo ora al <<caso Cuocolo>>. Lo raccontiamo perché rappresenta la fine della camorra
elegante, non sopravviverà al proditorio assalto dei Reali Carabinieri.
Gennaro Cuocolo era un rinomato basista di furti di appartamenti, pur discendendo da commercianti
di pellami; sua moglie veniva dalla prostituzione. Lui fu ammazzato sulla spiaggia di Torre del
Greco; lei, poche ore dopo, nella nuova casa sita tra via Toledo e i Quartieri spagnoli. Era quasi
certamente, una storia di sgarro. Il basista si era appropriato della parte spettante ai ladri finiti in
carcere, che poi si erano vendicati.
La vicenda fu resa più torbida dal fatto che sulla stessa spiaggia in una trattoria si intrattenevano
famosi camorristi. C’era il caposocietà di Vicaria e aspirante capintesta Enrico Alfano, detto
Erricone, arricchitosi nei traffici di cavalli: C’era poi il professore Giovanni Rapi, molto attivo in
un Circolo del Mezzogiorno, ben frequentato da nobili e borghesi, che in sostanza era una bisca. Era
presente anche un prete, don Ciro Vittozzi, cappellano del cimitero di Poggioreale, molto legato ai
camorristi.
Sul duplice omicidio si era affermata l’ipotesi di un chiarimento – tra ladri, basista e capicamorra –
finito tragicamente che aveva conseguentemente imposto l’eliminazione della donna in quanto
testimone. Il capitano dei Reali Carabinieri, Carlo Fabroni, però, impresse una inaspettata svolta:
accusò la Questura di aver fatto scarcerare i camorristi, per vecchie e nuove connivenze, pertanto
sollecitò nuove indagini, affidate già alla magistratura, peraltro spaccata al suo interno e sballottata
da molteplici pressioni. L’ufficiale prezzolò un collaboratore, Gennaro Abbatemaggio, che
vent’anni dopo avrebbe ritrattato tutto. Intanto forniva false dichiarazioni e prove artefatte che
partivano da una fantasiosa sentenza di un presunto Tribunale della camorra, riunito in una trattoria
di Bagnoli
I delitti erano accollati a un ristretto gruppo di camorristi eccellenti. Con l’invenzione, poi, di
riunioni, tribunali e sentenze si allargava l’applicazione del reato di associazione a delinquere. Così
si potevano colpire e togliere dalla circolazione alcuni soggetti di quel gruppo di guappi di
sciammeria che con i delitti non aveva colpe, ma che aveva avuto la spudoratezza di spartire (o
anche millantare) con la crema della società napoletana, angustamente rappresentata da Sua Altezza
Reale Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, residente nel palazzo reale di Capodimonte.
Protagonista di questa storia presumibilmente fu un certo Gennaro De Marinis, detto il mandriere,
camorrista che esercitava l’attività di usuraio e ricettatore nell’elegante quartiere San Ferdinando e
Chiaia, tra corse di cavalli e puntate nei casini da gioco.
Tuttavia la guerra scatenata dai carabinieri contro la camorra, pare per impulso del cugino del duca,
il re Vittorio Emanuele III, era condivisa dalle parti più diverse.
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Il processo Cuocolo contrappose la Questura ai carabinieri e sconquassò la magistratura napoletana.
La procura di Napoli rinviò a giudizio più di trenta imputati: alcuni per omicidio, la gran parte per
associazione a delinquere. Nel 1911 il processo, per legittima suspicione, approdò alla Corte
d’Assise di Viterbo. Nel 1912 i giurati emisero una sentenza di colpevolezza. Alfano, Rapi, De
Marinis e altri cinque furono condannati a 30 anni.
La camorra elegante si inabissò e scomparve la camorra propriamente detta, nella sua forma
ottocentesca.
Come si è potuto leggere tra Ottocento e primo Novecento la camorra rappresenta un fenomeno
urbano, espresso da un ceto sociale, la plebe, prodotto dalla storia di Napoli. Una massa di
diseredati, marginali e dipendenti dalle elargizioni di re, viceré, aristocratici e borghesi.
I più vocati alla delinquenza si organizzano e impegnano il loro ingegno per cercare strade diverse,
ancor più quando da Napoli scomparve la corte, le elargizioni e gli uffici.
Quando si procede verso il più liberale primo Novecento aumentano le occasioni d’incontro, di
collaborazione tra aggregati politici, economici, amministrativi, camorristici.
La relativa espansione economica provocherà l’allargamento dei circuiti economici illegali. Di
conseguenza una maggiore presenza dei delinquenti arricchitisi coi nuovi traffici.
I camorristi e i guappi napoletani si mostravano, si dichiaravano, si addobbavano con vesti
sgargianti. Vi era poi il tentativo, per il vero maldestro, di interloquire da vicino con l’alta società.
Tutto ciò produsse una reazione violenta e vincente, tale da distruggere un’associazione criminale.
Basterà dire che mentre la camorra tradizionale aveva resistito alle repressioni, quella moderna non
sopravviverà all’assalto dei reali Carabinieri. Il suo inabissamento, dopo il processo Cuocolo,
segnala la sua marginalità sociale e la subalternità politica ai poteri dominanti.
Dall’avvento del fascismo ai ‘magliari’
Le terre della Campania costiera erano ricoperte da orti irrigui, giardini di frutta, seminativi
erborati, le più ricche colture intensive. Un’area, quindi, fertilissima con pochi grandi proprietari e
molti di media e piccola consistenza. Che, per lo più, fittavano ai coloni. I contadini, molti dei quali
piccoli fittuari e coloni, vivevano in miseria, perché sfruttati sia dai proprietari che dagli
intermediari nelle compere e nel credito.
In questa pianura crescerà una delinquenza che eserciterà uno sfruttamento contadino ben oltre i
confini della legalità. Infatti, le campagne dell’Aversano del Nolano, dell’area vesuviana, del
confinante agro sarnese diventeranno una vasta area della intermediazione.
Qui, a differenza della Sicilia, non operano gabellotti, vi sono, numerosi, mediatori e guappi che
intervengono individualmente senza alcuna appartenenza ad associazioni. Esercitano forme di
intermediazione, anche ricorrendo alla violenza, sapendo bene che rappresentano l’unica strada che
permette ai contadini di relazionare con i mercati urbani e con l’industria di trasformazione. Solo
attraverso la cinica imposizione della mediazione viene assicurata la commercializzazione dei
prodotti agricoli, nella prima metà del Novecento.
Le aree particolarmente infestate da delinquenti e camorristi, di cui si hanno notizie fin dalla metà
dell’Ottocento, sono l’agro aversano e la zona dei Mazzoni, quest’ultima tra i Regi Lagni (canali di
bonifica) e il basso Volturno tra Cancello Arnone, Castelvolturno, Mondragone.
Occorre subito precisare che questa camorra, diversamente da quella napoletana, ha essenzialmente
caratteri rurali. Fin dall’Ottocento, comunque, non aveva niente da invidiare a quella urbana, sia per
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il numero degli adepti, sia per il rilievo dei capi, sia per la violenza. I camorristi casertani erano, per
lo più, sensali, mediatori, sedicenti guardiani e, soprattutto, come dice il più volte citato Barbagallo,
<<”tribù” di bufalari, selvaggi come le bestie che allevavano>>. Le sue origini sono molto antiche.
Questa criminalità, nonostante tutto, tra Ottocento e Novecento, si inserì rapidamente nei processi di
modernizzazione, instaurando rapporti con l’attività politica e amministrativa.
La descritta delinquenza non avrà remore ad inserirsi nella nuova vita politica, determinata
dall’avvento del fascismo, intrigando con podestà e segretari locali del Partito fascista, intervenendo
nei conflitti massonici, non trascurando il suo impegno professionale, tanto che tra il 1922 e il 1926
si segnalano centinaia di omicidi, migliaia di furti e rapine, centinaia di incendi e danneggiamenti.
A testimoniarlo, sul finire del 1926, un ispettore generale del ministero dell’Interno documentò
l’espansione di una “camorra a raggiera” che dal Napoletano si espandeva nel Casertano e
raggiungeva l’agro Sarnese-nocerino nel Salernitano.
Uno Stato conquistato e amministrato con la violenza non poteva permettersi concorrenza alcuna. E
così, mentre in Sicilia a occuparsi della mafia aveva spedito il prefetto Mori, nella Terra del Lavoro
inviò il maggiore dei carabinieri Vincenzo Anceschi, nato a Giuliano, quindi pratico della zona.
Non solo, nel 1927 abolì la provincia di Terra di Lavoro. La parte al di qua del Garigliano fu
assegnata alla provincia di Napoli; da Gaeta fin su a Sora una vasta area fu trasferita al Lazio, nella
nuova provincia di Frosinone, che in seguito dovette cederne parte alla neonata Littoria (divenuta
poi Latina). Poco dopo fu assunto un altro provvedimento di tipo demografico: i comuni di Casal di
Principe, Casapesenna e San Cipriano di Aversa vennero accorpati col nome di Albanova.
Intanto i carabinieri assolsero il loro compito. Arrestarono migliaia di delinquenti e di fatto
promossero una ventina di processi.
Con il processo Cuocolo e l’attacco alla delinquenza casertana i carabinieri raggiunsero l’obiettivo
di sconfiggere la camorra storica dalle aree controllate dalla delinquenza campana. Certo la guerra
fu condotta non certo con mezzi garantisti, tuttavia fu vinta.
Questo, naturalmente, non assicurava la scomparsa della criminalità, ma si esauriva il ciclo storico
dell’associazione di delinquenti dotata di propri riti e miti. Restavano i gruppi, sparsi nei quartieri,
che gestivano e controllavano la delinquenza diffusa.
Ci sembra qui opportuno puntualizzare un aspetto. La mafia siciliana, pur colpita dall’azione del
prefetto Mori, procede su una linea di continuità senza fratture e significativi cambiamenti. La
differenza con la delinquenza campana sta nel fatto che la camorra ottocentesca resta,
indubbiamente, un fenomeno marginale e subalterno rispetto ai poteri dominanti, mentre la mafia è
stata sempre in contatto e in concorrenza con le classi dominanti in Sicilia ed espande il suo spazio
operativo dentro il sistema di potere dell’isola.
<<Insieme alla fame – racconta Barbagallo – l’altro tratto distintivo della Napoli occupata dagli
eserciti alleati era il mercato nero. L’attiva collaborazione tra borsari neri, contrabbandieri e militari
alleati alimentava un enorme traffico clandestino dei prodotti sbarcati nel porto>>.
Il contrabbando delle sigarette americane e la borsa nera dei prodotti di prima necessità sono un
commercio che vedono impegnate masse popolari e mettono in luce i principali esponenti criminali,
non più legati a gruppi camorristici ma operatori individuali. Ritornano in uso, di conseguenza, altre
denominazioni: guappi, carte di tressette. A Napoli dettano legge tre gruppi di fratelli: Spavone,
Mormone, Giuliano.
Nel 1945 Carmine Spavone, ‘o malommo, viene ucciso da Giovanni Mormone, ‘o mpicciuso (il
litigioso), ammazzato, a sua volta, da Antonio Spavone, che subentra al fratello anche nel
soprannome. Ci racconta Barbagallo: <<Il nuovo malommo avrà una lunga carriera criminale,
soprattutto nel ramo del contrabbando e conseguirà un largo apprezzamento nel suo ambiente.
Incarcerato nello storico carcere delle Murate a Firenze, durante l’alluvione del 1966 salvò
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dall’annegamento più persone, tra cui due agenti e la figlia del direttore, per cui ottenne la grazia e
il condono della consistente pena residua>>.
Dominano, in quegli anni ’40 e ’50, la borsa nera, i falsi, le contraffazioni, gli scartiloffi (merci
costose vendute per tali ma sostituite da mattoni, segatura, cartapressata). Il controllo di questa zona
è assicurato dai fratelli Giuliano: Pio Vittorio, Guglielmo, Salvatore.
Sempre tra gli anni ’40 e ’50 guappi e “carte di tressette” si introducono nelle campagne e in una
specie di borsa merci all’aperto, a corso Novara vicino alla Stazione centrale di Napoli, sono i nuovi
mediatori che, come i vecchi, sfruttano il lavoro contadino. Assumono il ruolo centrale tra i
grossisti, che acquistano dai contadini, e i concessionari dei magazzini del mercato ortofrutticolo
all’ingrosso. Insomma, sono quelli che decidono i prezzi e quindi i profitti di tutti gli attori che
trasportano la frutta e gli ortaggi dal contadino all’acquirente finale.
Questi si chiamano presidente dei prezzi. Se poi sono bravi e riescono ad imporsi diventano
presidente unico. Nei primi anni ’50 si affermano tre presidenti dei prezzi: Alfredo Misto di
Giugliano, Pasquale Simonetti di Nola, Antonio Esposito di Pomigliano.
Tra questi tre guappi la convivenza è caratterizzata da conflitti con sparatorie sulle aree di rispettiva
competenza. Prevale Simonetti (Pascalone ‘e Nola) che diventa presidente unico dei prezzi.
Ma i contrasti non si fermarono. Nell’estate 1955 Pascalone ‘e Nola fu ammazzato proprio a corso
Novara da un sicario di Totonno ‘e Pomigliano (Antonio Esposito). Esposito, poi, fu ucciso dalla
giovane vedova di Simonetti, la diciottenne Pupetta Maresca, ch’era incinta e faceva parte della
famiglia criminale dei lampetielli di Castellamare di Stabia.
La vicenda ebbe risonanza internazionale perciò segnò la conclusione del predominio dei mediatori
criminali e l’emarginazione della camorra. Ciò non impediva a qualche gruppo di aggirarsi, come
don Vittorio Nappi, di stanza a Scafati nell’agro sarnese-nocerino, detto ‘o studente o anche ‘o
signurino. Di famiglia borghese, era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza a Napoli. Fu coinvolto in
un delitto “d’onore”, andò in carcere per un po’, tornò in paese <<col diploma di criminale>>.
Durante il fascismo fu mandato alle Tremiti in soggiorno obbligato.
La sua principale attività fu l’estorsione a danno degli industriali e dei commercianti della zona, in
cambio di protezione. Dirimeva, inoltre, questioni e dava consigli, a pagamento.
Vi erano altri gruppi nell’area vesuviana. A Castellamare di Stabia imperava Catello Di Somma. Il
leader democristiano Silvio Gava passeggiava insieme a lui, specie nelle campagne elettorali.
Sempre negli anni ’40 e ’50 “carte di tressette” gestivano come grossisti il settore dei magliari che,
in giro per l’Italia e l’Europa, vendevano, porta a porta, a basso prezzo, stoffe adulterate passandole
per cotone, lana, seta. Si trattava di truffe estese anche ai traffici di merce rubata e coinvolgevano,
per la vendita diretta, larghi strati popolari che vivevano di attività illegali.
Per concludere il capitolo, aggiungiamo che questa delinquenza urbana, negli anni ’50, come la
camorra ottocentesca, restava marginale e subalterna.
La guerra tra i clan dei marsigliesi e Cosa Nostra a Napoli
Agli inizi degli anni ’60 la timida espansione della società meridionale, promossa dallo sviluppo
economico in atto nel Paese, si accompagnò al più grande sviluppo della criminalità organizzata che
in Campania avrebbe trasformata la camorra storica, facendole assumere forme più consistenti, di
largo respiro molto lontane dai suoi primordiali appetiti.
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Qualche anno dopo il 1956, con l’indipendenza del Marocco, vi fu la chiusura del porto di Tangeri.
I depositi di tabacco, quindi, si spostarono nei porti jugoslavi e albanesi da dove, attraversando la
Puglia, le casse di sigarette arrivavano a Napoli.
I delinquenti napoletani inizialmente svolgono, per questo traffico illegale, ruoli secondari: lo
sbarco delle sigarette, la collocazione nei magazzini, la vendita al dettaglio. I marinai, imbarcati su
veloci scafi, sbarcano le casse in alto mare. I banchetti di vendita delle ‘stecche’ sono sparsi per
tutta Napoli.
Bisogna chiarire che, negli anni ’60, il contrabbando di tabacco è generalmente considerato
un’attività tra lecito e illecito, tanto che le sigarette vengono portate e vendute in tutti gli uffici di
Napoli, dalla Prefettura all’Intendenza di Finanza. Si può certo comprendere il tollerante
atteggiamento in una città che non dà posti di lavoro sufficienti, le sigarette illegali forniscono una
larga occupazione ben retribuita a larghi settori di emarginati e inquieti (oggi forse lo avremmo
chiamato un ‘ammortizzatore sociale’).
Sono per lo più i siciliani di Cosa Nostra e delinquenti corsi, marocchini, algerini che fanno capo a
Marsiglia e, perciò, vengono chiamati “marsigliesi”. Ma insieme a questi criminali, secondo un
rapporto della Guardia di Finanza italiana operano <<gruppi di avventurieri internazionali per la
maggior parte americani>> le banche svizzere, finanzieri di vari paesi europei, ditte import-export
di mezzo mondo.
Intanto la mafia siciliana si dibatte in una grave crisi. Dopo la prima guerra scoppiata tra i Greco e i
La Barbera, all’inizio degli anni ’60 e dopo la strage di Ciaculli del 1963, quando una Giulietta al
tritolo destinata ai Greco ammazza, invece, sette carabinieri, lo Stato repubblicano sferra un duro
attacco a Cosa Nostra.
Abbiamo già detto che negli anni ’60 è Marsiglia il centro internazionale dei traffici illeciti, specie
degli stupefacenti, tra i paesi produttori e quelli consumatori, soprattutto gli Stati Uniti. Le cose
cambieranno negli anni ’70 quando stabilitosi un accordo tra Stati Uniti e Francia, si svilupperà un
duro contrasto alla “French Connection” che ridurrà drasticamente il predominio corso-marsigliese.
Si aprirà così la strada alla affermazione di Cosa Nostra nel controllo delle reti di traffico degli
stupefacenti nell’area mediterranea.
La situazione cambierà, sempre negli anni ’70, anche per la delinquenza campana per due fattori. Il
soggiorno obbligato che porta nel Napoletano numerosi capimafia; la guerra tra Cosa Nostra e il
clan dei marsigliesi per il controllo del tabacco e della droga nell’area napoletana.
Si stabiliranno rapporti tra capimafia in soggiorno obbligato e gruppi criminali locali. Infatti, nei
dintorni di Napoli erano giunti, per obbligo di dimora, Stefano Bontate, Gaetano Riina, Salvatore
Bagarella ed altri. Per scelta volontaria arrivano Giuseppe Savoca, Tommaso Spadaro e Antonio
Salomone. Latitavano, tra l’altro, nel Napoletano Saro Riccobono, Gerlando Alberti e il capo dei
corleonesi Luciano Leggio (Liggio), legato ai Nuvoletta di Marano che, per suo conto,
amministrava una grande azienda ortofrutticola e investiva nei traffici di tabacco e di droga.
La guerra aperta tra clan marsigliesi e mafia siciliana per la conquista di Napoli gioverà ai criminali
campani che compiono, così, un salto di qualità, lasciando le retrovie per obiettivi più ambiziosi.
Addirittura le famiglie più solide e affidabili del Napoletano e del Casertano entrano, insieme ai
cugini della ‘ndrangheta calabrese, nel salotto buono, dell’associazione di orizzonte mondiale: Cosa
Nostra siciliana.
Intanto il soggiorno obbligato esporta mafiosi non solo a Napoli ma anche a Milano e nel Nord,
<<favorendo enormemente il processo di nazionalizzazione criminale>>.
In questa fase avviene l’ingresso della delinquenza campana <<dentro i giochi complessi del più
accreditato sviluppo del crimine mondiale>>.
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Tra il 1971 e il 1973 si svolgerà una vera e propria guerra tra mafiosi e marsigliesi, che sono per lo
più algerini e marocchini provenienti da Tangeri o Casablanca.
Da parte sua il clan dei marsigliesi, attaccato dal Narcotic Bureau, che gli distrugge le raffinerie di
eroina nei pressi di Marsiglia, cala su Napoli per provare a scalzare la presenza mafiosa. Arrivano
tutti i capi e si sistemano in alberghi e abitazioni del centro. Sono marocchini, francesi, inglesi,
spagnoli, greci, arabi, calabresi. Dalla Svizzera dirigono il traffico e forniscono i capitali il
finanziere rumeno Alexander Florescu, residente a Ginevra, e lo svizzero Serafino Meniconi,
rappresentante di una delle società svizzere che gestiscono una parte rilevante del contrabbando
internazionale di tabacco.
Cosa Nostra reagisce con forza, con tutte le armi, anche quelle delle ‘soffiate’, che consentono alle
forze dell’ordine di sequestrare ripetutamente grossi carichi di ‘bionde’. Tuttavia nell’autunno del
’72 vengono arrestati i capi del clan dei marsigliesi: può considerarsi quindi fallito il loro controllo
della piazza di Napoli già dal principio del 1973.
Cosa Nostra, diventata padrona del campo, toglierà dalla circolazione i contrabbandieri napoletani
vicini ai maghebrini di Marsiglia, eliminati da un killer venuto apposta da Bagheria. Poi affilierà
come “uomini d’onore” i maggiori e più affidabili criminali napoletani: Michele e Salvatore Zaza
che controllavano i traffici nell’area che andava da Santa Lucia a San Giovanni a Teduccio; Angelo
e Lorenzo Nuvoletta di Marano, già in ottimi rapporti, come abbiamo già letto, con il corleonese
Leggio (Liggio); il boss di Giugliano e Villaricca Raffaele Ferrara che affilierà a Cosa Nostra il
boss aversano Antonio Bardellino.
Secondo una deposizione del mafioso Gaspare Mutolo nel 1973 era stata costituita in Campania una
famiglia di Cosa Nostra. Il rappresentante era Salvatore Zaza, legato a Tano Badalamenti, sottocapo
era Lorenzo Nuvoletta, intimo dei corleonesi.
Nel 1974 si stipula un accordo strategico fra i trafficanti siciliani e napoletani uniti nel vincolo di
Cosa Nostra. Si concordano dettagliate regole di funzionamento, stabilendo quattro turni di scarico
nel mar Tirreno di una nave contrabbandiera per volta. Il primo turno sarà gestito da Spadaro per la
famiglia palermitana di Porta Nuova, il secondo da La Mattina per la famiglia di Santa Maria del
Gesù, il terzo da Michele Zaza col nipote Ciro Mazzarella per la famiglia di Napoli, il quarto da
Pino Savoca per la famiglia di Brancaccio e per la Commissione di Cosa Nostra.
E’ il periodo più ricco del traffico del tabacco. Dai libri contabili risulta che Michele Zaza gestisce
nel 1977 un movimento annuale di 5000 tonnellate di sigarette per un fatturato di 150 miliardi di
lire.
Nel 1979 questa forma di società si scioglie di comune accordo per due motivi. Da qualche tempo
l’interesse primario si è spostato sul narcotraffico. C’è poi l’abilità sia di Zaza che di Spadaro a
privilegiare troppo i propri affari.
A Napoli si era affermato, verso la metà degli anni ’70, un trafficante internazionale di cocaina:
Umberto Ammaturo. Questi si era prima legato a Luigi Grieco, ‘o sciecco (l’asino), presto eliminato
dai siciliani, e manteneva buoni rapporti con Spavone (‘o malommo) e anche con Zaza. Si era già
arricchito col contrabbando delle sigarette, quando diede una dimensione internazionale ai suoi
affari. Si trasferì in Perù, a Lima, e diventò un grosso produttore e mercante di cocaina.
Acquistava dai contadini la pasta di coca, che raffinava ed esportava nelle maggiori città europee e
italiane. Non aveva problemi con la polizia peruviana. Sarà arrestato più volte, ma grazie alle
perizie del criminologo Aldo Semerari, verrà considerato schizofrenico e detenuto in manicomi
criminali, sempre preferiti dai delinquenti alle carceri. La comune propensione verso il traffico della
cocaina e l’identico carattere impetuoso favorirono rapporti stabili con Antonio Bardellino. Proprio
per il carattere, invece, avrebbe contrapposto Ammaturo a Raffele Cutolo, anche lui impegnato
nello smercio di cocaina.
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Alla metà degli anni ’70 si sviluppa la dimensione internazionale dei traffici dei più intraprendenti
criminali napoletani e casertani. Il continente privilegiato è l’America latina, la merce preferita la
cocaina. La camorra, quindi, non opera più soltanto nei quartieri di Napoli, nelle città della costa,
nella campagne ma i nuovi boss – Ammaturo, Zaza, Nuvoletta, Bardellino, Cutolo – si muovono
alla conquista dei mercati mondiali più redditizi. La camorra non è soltanto locale, ma globale. Non
è più la camorra ottocentesca, è un’altra camorra che tratterà da pari con le affermate consorelle di
Sicilia e Calabria.
Sul finire degli anni ’70 si unificano il contrabbando dei tabacchi e quello della droga. Mafia
siciliana e criminalità campana procedono all’unisono. Hashish ed eroina raffinata a Palermo
giungono a Napoli fina dal 1977: al clan Di Biase, nei Quartieri spagnoli, e al clan Cozzolino di
Ercolano. In questo secondo caso è la famiglia Vernengo che spedisce da Palermo a quelli che
considera concessionari per la distribuzione della propria eroina in tutta l’Italia.
Napoli diventa rapidamente un grosso mercato di consumo di eroina e di cocaina.
I criminali campani sono diventati maggiorenni, hanno frequentato un’alta scuola, girano il mondo
e fanno affari sempre più diversificati e diffusi.
Poi arriveranno gli anni ’80 con le grandi occasioni di poderoso sviluppo criminale.
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Qui, però, noi li lasciamo perché ci eravamo assunto il solo compito di
raccontare le radici della camorra, quello che è accaduto in seguito, del resto, è
stato riferito diffusamente dalla cronaca quotidiana.
22
INDICE
Introduzione
pag.
2
Dai Borbone all’unità d’Italia
“
2
Una città moderna
“
11
Gli inizi del novecento – La lotta ai guappi di sciammeria
“
13
Dall’avvento del fascismo ai “magliari”
“
16
La guerra tra i clan dei marsigliesi e Cosa Nostra a Napoli
“
18