SULLA RIVA DEL MARE DI TIBERIADE (Gv 21) Mi ami? Pasci

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SULLA RIVA DEL MARE DI TIBERIADE (Gv 21) Mi ami? Pasci
SULLA RIVA DEL MARE DI TIBERIADE (Gv 21)
Mi ami? Pasci ! Seguimi !
LETTURA
Il terzo incontro del Risorto con i discepoli è ambientato non più a Gerusalemme a porte chiuse ma
sulle rive del mare di Tiberiade. Tutto è fortemente allusivo in questo racconto: il numero simbolico di
“sette” discepoli pescatori, l’iniziativa di Pietro, la notte e la pesca fallita, Gesù che all’alba sta sulla riva, la
pesca sovrabbondante, la rete che non si spezza, il fuoco di brace, il pasto preparato dal Risorto...
Come è tipico di Giovanni, anche questo racconto può essere interpretato su un doppio livello,
letterale e simbolico. Da un lato i discepoli ritornano alla loro vita di pescatori, d’altro lato quel mare evoca
la parola del Maestro: “Vi farò diventare pescatori di uomini” (Mc 1,17).
Non basta però l’iniziativa di andare a “pescare” (verbo che simboleggia la missione), non basta
uscire e salire sulla barca. Quella notte, infatti, non presero nulla. Dunque, un racconto decisamente allusivo,
dalla notte faticosa e deludente a un’albeggiare che si fa rivelativo di Colui che invita a gettare nuovamente
la rete.
• Epilogo in stile giovanneo
Gli esegeti discutono sull’autenticità di Gv 21 che mostra notevoli collegamenti con l’intero vangelo,
ma anche diversi elementi di tensione e discontinuità. Come considerarlo: appendice o epilogo? Esso è
incorniciato da due conclusioni: si colloca dopo la chiusa solenne di Gv 20, dove appare chiaramente
l’intento cristologico dell’evangelista («perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché,
credendo, abbiate la vita nel suo nome») e a sua volta presenta un’altra conclusione, di tono minore rispetto
alla precedente: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una,
penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25).
Per alcuni studiosi si tratta di un’appendice aggiunta al vangelo in un secondo tempo, che
riprenderebbe diversi elementi della tradizione sinottica. Altri invece preferiscono parlare di “epilogo” in
corrispondenza con il “prologo”. A me sembra preferibile questa designazione. Infatti, mentre il “prologo”
getta per così dire lo sguardo sulla preistoria di Gesù (il Verbo eterno che si fa carne), “l’epilogo” getta lo
sguardo sull’esperienza post-pasquale, sulla missione della Chiesa e sul mandato pastorale che il Risorto
conferisce a Pietro.
La narrazione è introdotta da una formula temporale «Dopo questi fatti» (21,1), cioè dopo gli eventi
di cui si parla nel capitolo precedente. Il narratore precisa poi che si tratta della “terza” manifestazione di
Gesù ai discepoli «dopo essere risuscitato dai morti» (21,14).
Nella nostra lectio ci soffermiamo sulle prime cinque scene:
1. L’iniziativa di Pietro, la notte e la pesca fallita
vv. 1-3
2. L’iniziativa di Gesù, l’alba e la grande pesca
vv. 4-6
3. Il discepolo amato, Pietro e gli altri cinque
vv. 7-8
4. Dal fuoco di brace al pasto con il Risorto
vv. 9-14
5. Il dialogo di Gesù con Pietro
vv. 15-19
Osserviamo i personaggi che entrano in scena e il loro comportamento. Notiamo in particolare i verbi
evidenziati in maiuscoletto, le parole sottolineate e quelle in corsivo. Entriamo anche noi nella scena
interagendo attivamente con il testo.
1
INTERPRETAZIONE
• L’iniziativa di Pietro, la notte e la pesca fallita
I discepoli di Gesù ritornano alla loro vita di un tempo, tornano a fare i pescatori. Simon Pietro è
introdotto per primo in compagnia di altri sei: Tommaso chiamato Didimo, che significa “gemello”,
Natanaele di cui è specificata la provenienza (Cana di Galilea), i due figli di Zebedeo (Giacomo e Giovanni)
e altri due discepoli di cui si tace il nome. In tutto “sette”, numero simbolico di totalità e pienezza: essi
rappresentano l’intero gruppo dei discepoli.
L’iniziativa di andare a pescare è presa da Simon Pietro, gli altri lo seguono: «veniamo con te». Il
narratore precisa: «Allora uscirono e salirono Sulla barca» (21,3). A prima vista nulla di eccezionale, ma
sullo sfondo della Bibbia i verbi utilizzati suonano evocativi. In effetti, “uscire” e “salire/entrare” sono i
verbi caratteristici dell’esodo: si esce dall’Egitto per salire/entrare nella terra promessa. La decisione di
Pietro condivisa dal gruppo dei discepoli si pone dunque, a livello simbolico, nell’orizzonte biblico
dell’esodo. Si tratta di uscire, di fare esodo per compiere la missione ricevuta, per “andare a pescare”.
E però non basta il voler pescare, non basta uscire insieme (“veniamo con te”) e salire sulla barca. La
sequenza si chiude infatti drammaticamente in negativo: NON PRESERO NULLA.
Senza Gesù si può lavorare tutta la notte ma si fatica invano, non si pesca niente. “Senza di me non
potete far nulla”, aveva detto il Maestro nei discorsi dell’ultima cena (Gv 15,5). Ora i discepoli ne fanno
diretta esperienza.
Il pensiero corre a un’altra notte di cui parla l’evangelista Luca all’inizio del ministero di Gesù in
Galilea (Lc 5,1-11). Simon Pietro con i suoi soci aveva faticato tutta la notte (tempo ideale per la pesca)
senza pescare nulla, ed ecco che al mattino Gesù gli dice: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la
pesca». Simone non aveva esitato ad avanzare le sue perplessità: «Maestro abbiamo faticato tutta la notte e
non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». E la pesca fu talmente abbondante che
«riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare». Simon Pietro allora, sconvolto dell’accaduto,
si era gettato ai piedi di Gesù esclamando: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». Di
rimando il Maestro gli aveva risposto: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).
Quella pesca miracolosa anticipa simbolicamente l’azione di Pietro e della Chiesa che nel tempo
successivo alla Pasqua attirerà gli uomini a Cristo per mezzo della predicazione e della testimonianza. Non a
caso dunque Giovanni parla della pesca soltanto in questo epilogo che rinvia chiaramente alla missione della
Chiesa.
• L’iniziativa di Gesù, l’alba e la grande pesca
Il Signore si presenta sulla riva del lago nell’ora in cui la notte sta sul punto di arrendersi alla luce che
avanza. Anche Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, «quando era ancora buio» (20,1). Le
prime luci dell’alba avvolgono il Risorto che attende sulla riva, ma i discepoli ancora non si accorgono della
sua presenza. È lui che prende l’iniziativa, che stabilisce il dialogo con una domanda chiamandoli “figlioli,
ragazzi” (paidίa): «non avete nulla da mangiare?» (21,5).
Anche al pozzo di Sicar Gesù stabilisce il dialogo con la donna di Samaria attraverso una domanda,
facendosi mendicante di un sorso d’acqua. In quel caso la domanda aveva suscitato sorpresa e imbarazzo,
qui invece provoca una risposta secca e deludente: «No».
Essi non hanno proprio niente da mangiare, non hanno pescato nulla. Lo Sconosciuto ha intercettato
dunque la situazione fallimentare dei discepoli e incoraggia a gettare nuovamente le reti, ma dal lato
opposto: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (21,6).
2

Perché “dalla parte destra”?
Perché il Risorto precisa di gettare le reti “dalla parte destra”? Questo dettaglio può essere interpretato
come un invito a gettare le reti sul lato opposto, non ancora esplorato. Qui non c’entra la politica, non si
tratta di “destra” contrapposta allo schieramento di “sinistra”. Il senso va ricercato piuttosto sullo sfondo
simbolico della Bibbia, dove la parte o la mano “destra” riveste significati carichi di simbolismo teologico.
La matriarca Rachele al figlio che partorisce mentre sta per morire dà il nome di “Ben-Oni”, che significa
“figlio del mio dolore”, ma suo padre lo chiamò “Beniamino”, cioè “figlio della destra”, che significa “figlio
di benedizione”, “figlio della salvezza” (Gen 35,18). La mano destra di Dio (dextera Dei), è metafora di
forza e di sovranità, è la mano con la quale Dio opera la salvezza sperimentata da Israele nell’esodo
dall’Egitto: “La tua destra, Signore, è gloriosa per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico” (Es
15,6).
Nella mentalità degli antichi, fortuna e salvezza vengono dal lato destro. Chi confida in Dio ha sempre
il Signore alla sua destra, come afferma il Salmista: “Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia
destra, non potrò vacillare” (Sal 16,8).
La destra indica inoltre il posto d’onore; si dà la destra alle persone di riguardo e di rispetto. Al re
spetta un posto d’onore alla destra di Dio (Sal 110,1), per cui Gesù siede «alla destra del Padre», ha il posto
d’onore, la gloria regale del Figlio. Anche i giusti nel giudizio finale saranno posti alla destra del Cristo che
quale re pastore «metterà le pecore alla sua destra» (Mt 25,33). Su tale sfondo, l’ordine del Risorto di
«gettare la rete dalla parte destra» lascia intuire la situazione salvifica che si apre anche per i popoli pagani
indicati (come vedremo) dal numero simbolico dei 153 pesci.
Sant’Agostino riflette sul duplice racconto della pesca miracolosa (rispettivamente in Lc 5 e Gv 21) e
osserva che soltanto dopo la risurrezione Gesù specifica di gettare le reti dalla parte destra: «Nella pesca
precedente non aveva detto: Dalla parte destra, perché non fossero indicati soltanto i buoni; e nemmeno:
Dalla parte sinistra, per non indicare soltanto i cattivi. In diverse direzioni furono gettate le reti, perché
dovevano raccogliere e i buoni e i cattivi. Lasciamo dunque nuotare per ora i pesci buoni insieme con i
cattivi e i cattivi insieme con i buoni. Basta che nuotino dentro la rete e non la rompano! Ma dopo la
risurrezione Gesù dice: “Gettate la rete dalla parte destra”. Che significa: Dalla parte destra? Gettandola
dalla parte destra prenderete coloro che alla fine saranno alla destra. E a quelli che staranno alla destra dirà:
“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno”. A questi si riferiva quando ordinava di gettare le reti
dalla parte destra. Le reti furono calate e presero molti grandi pesci. Se ne precisa anche il numero. Nella
pesca antecedente, che sta a indicare i buoni e i cattivi, non ci si dice il numero (…) C’era, allora, un numero
di santi, ma ce n’erano molti fuori di quel numero; adesso al contrario non c’è nessuno che non rientri in
quel numero» (Discorso 252/A).
• Il discepolo amato, Pietro e gli altri cinque
Ed ecco che “il segno” della pesca porta al riconoscimento del Risorto. Come già al sepolcro, anche
qui è il discepolo amato che intuisce per primo: «È il Signore!». È lui che riconosce per primo il Risorto, ma
chi si butta prontamente in mare è Simon Pietro. Bellissimo! Non c’è concorrenza tra i due, ma piuttosto
sinergia, complementarietà.
C’è però un dettaglio intrigante su cui l’evangelista sembra chiamare volutamente l’attenzione: perché
Pietro “si veste” prima di gettarsi in mare? Secondo alcuni interpreti egli indossava una sottoveste succinta,
adatta per il lavoro della pesca, e prima di gettarsi in mare l’avrebbe legata con una cintura in modo da poter
nuotare più agevolmente. Altri ritengono invece che il vestirsi di Pietro esprima rispetto nei confronti del
Signore. Comunque si interpreti questo dettaglio, non può sfuggire il gioco tra nudità e vestito, rafforzato
dall’espressione “si cinse i fianchi”, usata precedentemente per Gesù nel contesto della lavanda dei piedi
(Gv 13,4-5). Pietro sente il bisogno di cingersi la veste, di prepararsi per incontrare il Signore.
Sul piano simbolico si può cogliere un’ulteriore valenza: Pietro è “nudo” perché non ha assunto
l’atteggiamento di Gesù, il suo servizio fino alla morte. Per questo la missione (pesca) non ha portato alcun
3
frutto. Ora però comprende, si allaccia la veste come Gesù si era allacciato il panno per servire. E si getta
nell’acqua, mostrando così la sua disponibilità al servizio fino a sacrificare la vita. 1
Mentre Pietro si getta a mare, gli altri discepoli trascinano a terra la rete piena di pesci. Il loro ruolo
sembra secondario, ma non è per niente irrilevante: non si può abbandonare ciò che si è pescato, occorre
portare a riva la barca piena di pesci. Nella comunità ciascuno ha il suo ruolo, ma tutti siamo chiamati alla
missione. Al riguardo notiamo che dopo la domanda iniziale, il modo di parlare di Gesù è l’imperativo:
GETTATE – PORTATE – VENITE – MANGIATE.
Questi imperativi, formulati alla seconda persona plurale, sono rivolti all’intero gruppo dei discepoli.
E tutti obbediscono. C’è però un caso in cui l’ordine di Gesù, pur essendo formulato al plurale (“portate”) è
eseguito direttamente dal solo Pietro: “SALÌ nella barca e TRASSE a terra la rete piena di centocinquantatré
grossi pesci” (v. 11). È Pietro che maneggia la rete in modo tale che, pur colma di un’enorme quantità di
pesci, non si spezza.

La rete che non si squarcia
L’evangelista indugia, quasi a rendere visiva la scena: sembra di vedere la gioia con cui si contano i
pesci catturati nella rete, ben centocinquantatré! Perché riferisce questo dettaglio? Nasce il sospetto che oltre
il dato reale voglia dire di più, che questo numero abbia un valore simbolico. A cosa alludono i 153 pesci?
Le ipotesi si moltiplicano, ma quella a mio avviso più convincente è che tale numero indichi i popoli di tutte
le razze e culture. La rete di Pietro accoglie tutti con le loro specificità.
Non è Pietro da solo ad attirare i pesci nella rete (la pesca è opera collettiva), ma tocca a Pietro fare in
modo che la straordinaria pesca non laceri la rete. L’evangelista usa qui il verbo schίzō che significa
“squarciare”, “lacerare”, “spezzare”; è il medesimo verbo usato a proposito della tunica di Gesù, tessuta in
un solo pezzo da cima a fondo, che i soldati decidono di non strappare. La rete che non si lacera è simbolo
della Chiesa che pur raccogliendo in sé persone di tutti i generi, uomini e donne di tutte le razze e culture,
insomma tutti i popoli e nazioni, è destinata a non lacerarsi, a restare una, indivisa. E compito specifico di
Pietro è proprio quello di maneggiare la rete in modo che non si spezzi, di salvaguardare l’unità della
Chiesa.
• Dal fuoco di brace al pasto con il Risorto
Sulla riva del lago c’è un fuoco di brace. Interessante questo dettaglio, non si tratta di un grande falò
che i discepoli avrebbero potuto vedere anche da lontano stando nella barca, ma un fuoco di brace, che si
vede soltanto quando si approda: «Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del
pane” (21,9).
Quei carboni ardenti sono magnifici per cuocere il pesce! Conoscendo però lo stile di Giovanni,
s’intuisce subito che quel fuoco è carico di valenza simbolica. Allude allo Spirito attraverso il quale, come
afferma l’autore della lettera agli Ebrei, Cristo ha offerto se stesso per purificarci da ogni peccato (Eb 9,14).
Il profeta Isaia, nella grande scena teofanica della sua vocazione ambientata nel tempio, vede un carbone
ardente con il quale il Serafino gli tocca le labbra purificandolo dal peccato, in modo che possa adempiere la
missione di annunciare la parola del Signore (Is 6,6-8). Anche la Chiesa coinvolta nella missione, chiamata a
gettare la rete, ha bisogno di essere purificata dal fuoco dello Spirito.
Secondo sant’Agostino il pesce arrostito sul fuoco rappresenta Cristo nella sua passione (Piscis assus
Christus est passus). Proprio perché si è donato fino al sacrificio di sé, Gesù è cibo per tutti e dona il suo
Spirito anche a noi perché possiamo donarci come ha fatto lui. I discepoli vedono Gesù nei segni
sacramentali. Sul piano simbolico “pane e pesce” parlano di eucaristia, evocano il segno compiuto da Gesù
sulle rive di quel medesimo lago in prossimità della Pasqua, quella moltiplicazione dei pani e dei pesci che
1
Cf. MATEOS - BARRETO, Il Vangelo di Giovanni, p. 845-846.
4
aveva fatto esclamare alla folla: “Questi è davvero il Profeta che deve venire nel mondo!” (Gv 6,14).
L’eucaristia è il grande segno dell’accoglienza di Gesù, della sua vita donata per tutti.

Il simbolismo cristologico del pesce
Il simbolismo del pesce quale apportatore di salvezza è antichissimo. Già nel culto della dea
sirofenicia Atargatis erano presenti dei pasti sacri a base di pesce. Al medesimo simbolismo di salvezza e
immortalità s’ispirano le raffigurazioni di pesci sui monumenti funebri egiziani. Il pasto di pesce arrostito
sul fuoco che il Signore prepara per i suoi discepoli parla dunque di salvezza e risurrezione.
Per i primi cristiani la parola ichthýs, che in greco significa “pesce”, costituiva una sorta di
compendio della fede cristologica perché le lettere che la compongono corrispondono alle iniziali della
frase: “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore” (Jesous Christos Theou Hyios Sotēr). Durante le persecuzioni
dei cristiani, l’immagine del pesce era il loro segno segreto di riconoscimento. Attraverso l’immagine del
pesce Tertulliano illustra il mistero del battesimo: “A somiglianza del nostro ichthys Gesù Cristo, noi
nasciamo nell’acqua e solo restando nell’acqua troviamo salvezza” (De baptismo).

Portate dei pesci che avete preso
Il dono del Signore non esclude la nostra collaborazione, anzi è lui stesso che la richiede: «portate un
po’ di pesce che avete preso or ora» (21,10). Il pesce preparato da Gesù è pronto, ma egli vuole che
nell’unico pasto ci sia anche il pesce pescato da noi! Vuole aggiungere al suo dono il frutto del nostro
lavoro, della nostra missione. La comunità cristiana vive di Gesù, del suo amore gratuito, e nondimeno vive
della missione che testimonia l’amore per Gesù. Due forme dell’unico amore che si esprime nella fatica
della pesca (missione) e nella gioia del pasto.
Durante quel pasto mattutino attorno al fuoco di brace nessuno domanda a Gesù chi egli sia, perché
«sapevano bene che era il Signore» (21,12). I discepoli sono tentati dal porre domande, ma non osano farlo.
Nelle prime due apparizioni non era accaduto così, non vi era stata alcuna esitazione nel riconoscere
l’identità di Gesù quale Risorto. Qui invece i discepoli sentono insinuarsi un quesito che rimane inespresso.
È la situazione tipica dell’Eucaristia, è l’esperienza credente della Chiesa post-pasquale nella quale il
Signore non è riconoscibile in modo così immediato. È presente in altro modo, nella comunità adunata nel
suo nome, nei segni sacramentali.
• Il dialogo di Gesù con Pietro
Finita la colazione, Gesù si rivolge a Pietro con una domanda sorprendente anche per la solennità con
cui è espressa, mediante la formula patronimica: «Simone (figlio) di Giovanni».
Questa formula rinvia all’inizio del vangelo, ricorda il primo incontro di Simone con il Maestro
quando, fissando lo sguardo su di lui, Gesù gli aveva detto: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai
chiamato Cefa», che significa Pietro (Gv 1,42). Gli aveva cambiato in certo senso identità, imponendogli un
nome nuovo. Qui invece lo interpella nella sua concretissima identità umana, quale “Simone figlio di
Giovanni”, come se il nome di “Pietro” dovesse essere nuovamente confermato. Perché?

Domanda imbarazzante
Gesù interpella Simone di fronte agli altri (incluso il discepolo amato): «Mi ami più di costoro?».
Perché questa domanda comparativa? Perché questo netto confronto con tutti gli altri discepoli? Si coglie
una sottile allusione alla pretesa di Pietro che si era voluto distinguere dagli altri discepoli, ritenendosi
capace di amare Gesù più di loro: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai!» (Mt
26,33). Come potrà dire di avere un amore maggiore, lui che ha rinnegato il Maestro? Infatti, nella sua
risposta, lascia cadere il confronto con gli altri discepoli, non risponde al «più di costoro». L’esperienza del
rinnegamento ha ridimensionato la sua pretesa di essere migliore.
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E tuttavia Gesù gli chiede un surplus di amore, un «di più» rispetto a coloro che non lo hanno
rinnegato. Questo «di più» richiama la parola del Signore a Simone il fariseo a proposito della peccatrice:
«Chi dunque lo amerà di più?». La risposta è immediata: «Colui al quale è stato perdonato di più» (Lc 7,4243). Soltanto la misericordia di Gesù (più grande di ogni tradimento) renderà “Simone di Giovanni” capace
di amare “di più” e dunque di essere all’altezza del compito pastorale che il Risorto gli affida. Infatti, il
primato di Pietro può poggiare unicamente sul primato dell’amore.

Intrigante variazione lessicale
Notiamo un altro aspetto, una curiosa variazione lessicale tra la domanda di Gesù e la risposta di
Pietro. 2 Il Risorto formula la domanda con il verbo agapaō che nel quarto vangelo indica l’amore gratuito
con il quale Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio (3,16), l’amore estremo con il quale Gesù ci ha
amato (13,1), un amore totale, assoluto, fino a dare la vita. Immagino che se Gesù durante l’ultima cena
avesse chiesto a Pietro: «Mi AMI più di costoro?», egli non avrebbe esitato a rispondere con lo stesso verbo
poiché si era dichiarato pronto a sacrificare la vita per lui (Gv 13,37). Ora però non osa rispondere al
Maestro con verbo agapaō. L’esperienza del tradimento gli ha dato consapevolezza della fragilità del suo
amore e dunque risponde in tono minore (anziché agapaō usa il verbo fileō): «Certo, Signore, tu lo sai che TI
VOGLIO BENE» (21,15). Fa leva sulla conoscenza che Gesù ha di lui.
Gesù però insiste, e per la seconda volta gli chiede un amore di agapē: «Simone, figlio di Giovanni,
mi AMI?». E Pietro risponde nuovamente con il verbo fileō, dichiarando il suo essere amico: «Certo, Signore,
tu lo sai che TI VOGLIO BENE». Chi cederà alla terza volta? Sorprendentemente è Gesù che cambia verbo
(sostituisce agapáō con fileō) ponendosi così sul medesimo piano: «Simone, figlio di Giovanni, MI VUOI
BENE?». Come a dire: accetto il bene che mi vuoi, accetto la tua amicizia in una dimensione di reciprocità.
Gesù riabilita dunque Pietro dal triplice rinnegamento sulla base dell’amore (ricevuto e donato) e gli
affida la cosa più preziosa, il suo gregge: «Pasci i miei agnelli», «pascola le mie pecore». Notiamo anche qui
delle varianti sia nei verbi (pascere/pascolare), che nei sostantivi (agnelli/pecore). 3 È puramente un gioco
stilistico? Direi proprio di no. Siamo invece di fronte a un accumulo di sfumature che indicano la totalità del
gregge composto sia da pecore sia da agnelli. E significativamente i primi a essere affidati alla cura pastorale
di Pietro sono proprio “gli agnelli”, cioè la parte più fragile del gregge, gli ultimi nati, i più piccoli e deboli.

Il primato di Pietro: questione di amore
Il Risorto riabilita Pietro e il suo ruolo nella comunità ecclesiale, fondato sull’amore e sulla sequela. In
effetti, alla triplice confessione di amore, corrisponde la pienezza del mandato pastorale. E qui ritorna però
la questione: cosa in definitiva rende Simone di Giovanni capace di amare in modo pieno e definitivo il suo
Signore? L’esperienza di essere amato e perdonato!
Simone di Giovanni per diventare “Pietro” (la roccia) deve lasciarsi rigenerare dalla misericordia,
dall’amore di Gesù per lui. Deve uscire dall’ostinata autosufficienza nella quale si era rinchiuso. Soltanto
lasciandosi guardare da Gesù nella sua verità più profonda (nell’esperienza del suo fallimento) egli può
rinascere. E così accade. Pietro si lascia guardare da Gesù fino in fondo all’anima. Il Signore sa tutto di lui:
vede la sua presunzione e vigliaccheria, ma anche la sua schiettezza e il suo appassionato volergli bene.
Simone di Giovanni si sente penetrato dallo sguardo di Gesù, amato e perdonato. E si affida totalmente
al suo Signore che amandolo lo rende capace a sua volta di amare davvero, di prendersi cura dei suoi agnelli
2
Come è noto, la lingua greca ha tre parole per esprimere l’amore: eros (desiderio, attrazione erotica), filía
(amicizia, benevolenza), agapē (amore intenso e profondo, carità). Per Giovanni la parola agapē qualifica Dio stesso,
la sua intima natura, poiché «Dio è amore (agapē)» (1Gv 4,8). Si veda la prima enciclica di BENEDETTO XVI, Deus
caritas est (Dio è amore), 2005.
3
L’evangelista usa due verbi diversi per indicare il “pascere” (boskō e poimainō) e due sostantivi per indicare
i membri del gregge, “agnelli” (arnia) e “pecore” (probata).
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e delle sue pecore. Pietro pascerà il gregge che appartiene al “Pastore bello” (Gv 10,11). Esso è proprietà del
Risorto il quale trasferisce a Pietro il mandato di pascere, ma tutela l’unicità del legame esclusivo con i suoi
agnelli e le sue pecore. 4
Infine Gesù annuncia a Pietro che ora sarà in grado di “andare” dove lui stesso è andato (Gv 13,36).
Ora diventa possibile anche per lui tendere le mani e lasciarsi portare dove non vuole. In forma metaforica
gli predice il martirio e aggiunge: “Seguimi!” (21,19). Come a dire: non fermarti al tuo volermi bene, ma
continua a seguirmi prendendoti cura dei miei agnelli e delle mie pecore. In tal modo arriverai anche tu
all’amore estremo, fino a dare la vita per me e per la mia Chiesa.
ATTUALIZZAZIONE
Nonostante la notte sia passata senza dare alcun frutto, ecco che l’alba riserva magnifiche sorprese. Il
nuovo giorno comincia con la presenza di Gesù e quando ci si fida di lui, il risultato è meraviglioso, la rete
vuota si riempie. E ancora c’è pesce buono e pane per tutti e un fuoco di brace che riscalda il cuore.
Effettivamente l’epilogo del vangelo di Giovanni getta un fascio di luce sulla missione che il Risorto affida
alla sua Chiesa. Come lasciarci dunque provocare nel nostro oggi dai “segni” attraverso i quali il Signore ci
viene incontro e si fa riconoscere? Come e cosa significa per noi oggi gettare le reti nel suo nome? Che cosa
comporta partecipare al suo banchetto e lasciarci riscaldare il cuore dal suo fuoco di brace?
• Gettate la rete!
L’imperativo del Risorto interpella la Chiesa di ogni tempo, è rivolto alle nostre comunità, a ciascuno
di noi. La Chiesa non può tirare le reti in barca, deve sempre di nuovo gettarle in mare, magari dalla parte
non ancora esplorata. Gettare la rete significa annunciare la bella notizia dell’amore di Dio, testimoniare la
sua misericordia e infinita tenerezza. Una rete che accoglie ogni genere di pesci e non si spezza mai.
La rete è fatta di “relazioni”. Quali e come sono le nostre relazioni nella rete della famiglia, del
territorio e della città, della comunità ecclesiale e universale? Ognuno ha il suo ruolo e il suo compito, ma è
la collaborazione di tutti che permette alla barca di giungere a riva con la rete piena di pesci. Non tutti hanno
lo sguardo intuitivo di Giovanni, ma ciò che in definitiva conta è che la barca possa approdare a riva carica
della pesca che il Signore ci dona.
Gesù ci accompagna e ci guida nelle fatiche della missione. A volte anche noi abbiamo l’impressione
di lavorare inutilmente, di investire tante energie senza ottenere i risultati sperati. Come viviamo i momenti
d’insuccesso e delusione, quando ci si trova per così dire ad aver faticato tutta la notte senza aver preso
nulla? E, d’altro lato, che cosa può impedire la missione o rendere infruttuoso il nostro ministero?
Presunzione, voglia di protagonismo, mancanza di fiducia nella presenza del Signore? Ci comportiamo forse
come se tutto dipendesse da noi, come se fossimo liberi imprenditori?
Nei tempi difficili in cui la Chiesa è chiamata a gettare la rete nel nome del Signore, occorrono forti
motivazioni di fede e soprattutto rafforzati vincoli di fraternità. Gettare la rete è sempre un’avventura piena
di speranza. Papa Francesco lo ricordava fin dal suo primo discorso: «non cediamo al pessimismo, doniamo
ai giovani la speranza della vita». E non si stanca di esortare: «per favore non lasciatevi rubare la
speranza!». Non lasciamoci rubare la gioia della fede e con essa l’entusiasmo della missione. Pur nella
stretta clausura, santa Teresa di Lisieux ha vissuto in pienezza la missione, ha gettato una rete vasta come il
mondo, traboccante di amore. Lei, giovane monaca, si è sentita un “pescatore di uomini” (notevole questa
espressione al maschile sulla bocca di una donna). «Gesù fece di me – scrive Teresa – un pescatore di
4
Cf. M. MARCHESELLI, “Pietro pescatore e pastore in obbedienza al risorto (Gv 21)” in Il Pastore tra Antico e
Nuovo Testamento, a cura di G. Violi, Cittadella Editrice, Assisi 2010, pp. 85-102.
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uomini: sentii un desiderio grande di lavorare alla conversione dei peccatori. Sentii che la carità mi entrava
nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri; e da allora fui felice».
• Venite a mangiare!
È degno di nota anche ciò che l’evangelista tace. Ci si attenderebbe, ad esempio, che i discepoli
approdati a terra “vedano” Gesù. L’evangelista invece questo non lo dice. Ci dice che videro un fuoco di
brace con sopra del pesce. Videro un “segno” che indicava la presenza del Risorto. Un segno che riscalda il
cuore, il fuoco acceso da Gesù. Non è forse ciò che ancora sperimentiamo noi? Il Signore ci viene incontro
attraverso “segni” che indicano la sua misteriosa presenza, mistica perché legata al mistero, all’ineffabile. I
discepoli non hanno bisogno di chiedere chi sia colui che invita a mangiare, lo intuiscono con il sensus fidei,
con l’intuito e il senso della fede.
Come la Sapienza che invita gratuitamente al suo banchetto – «Venite, mangiate il mio pane, bevete
il vino che io ho preparato» (Pro 9,5) – così Gesù convoca i credenti alla sua mensa dove egli stesso si fa
nutrimento della nostra vita e ci comunica il suo Spirito, fuoco che accende il mondo, fuoco che brucia e
trasforma tutto in amore.
Come sarà stato il volto dei discepoli dopo aver mangiato con il Signore? Immagino raggiante di
gioia. Gioia contagiosa che trasmette amore. Chi si è nutrito al banchetto del Risorto non può tenere per sé
tanta gioia, è interiormente spinto a comunicare ciò che ha ricevuto, a invitare tutti al banchetto dell’Amore.
Si rende sensibile come Gesù alla fame di chi non ha niente da mangiare, di chi manca di amore. Anzi,
diventa egli stesso nutrimento per gli altri. Non è forse di questo che il mondo ha bisogno?
• Dall’amore al prendersi cura
I paragoni sono sempre inopportuni, talvolta feriscono. Ancor più se vertono sull’amore. Si può
dunque intuire lo sconcerto di Pietro (e degli altri) quando il Maestro gli chiede di fronte a tutti: Mi ami «di
più»? Essere il primo nell’amore Pietro lo voleva certamente, ci aveva anche provato, ma che fallimento!
Non poteva perdonarsi di avere rinnegato il suo Signore. C’era un’infinita amarezza dentro di lui, una ferita
più bruciante di quel fuoco di brace sulla riva. Ed è proprio, per così dire, con un tizzone ardente che Gesù lo
guarisce, con il suo sguardo amante che penetra fino in fondo all’anima. Egli guarisce la ferita di Pietro (e le
nostre) come nessun altro terapeuta potrebbe fare, con il fuoco ardente del suo perdono. Con la fiducia che
rigenera e rende capaci di amare di più. Perché il più dell’amore si intreccia con il più dell’umiltà e il più
della fiducia.
Ma quel “più” chiesto a Pietro a noi cosa dice? Noi forse non abbiamo alcuna pretesa di amare di più.
Ci accontentiamo di amare il Signore come possiamo, magari senza aperti tradimenti, ma anche senza
slancio e passione. E questo è davvero il guaio. Perché il “di più” fa parte della natura stessa dell’amore, se
non diventa “di più” (donandosi) diminuisce.
Occorre sempre un “più”, un surplus di amore (anche se povero e fragile) per prendersi cura degli
altri. Un amore umile, che riconosce e assume i propri limiti, che non si lascia abbattere dalle contrarietà e
neppure dai tradimenti (né da quelli degli altri né dai propri). L’amore umile consente sempre di ripartire.
L’evangelico “pascere”, il prendersi cura, richiede certo un amore gratuito ma che si nutre anche di
reciprocità, nella convivialità delle differenze, nella gioia di ricevere e dare, nella paziente sequela del Cristo
che per primo ci ha amato.
ma il cuore vibra
È il Signore!
È il Signore!
Lo sente chi ama che sei Tu.
E ancora c’è fuoco di brace
Tu che sempre attendi
E profumo del pesce
Tu che ancora stai sulla riva
che Lui ha preparato
Tu che rendi gravida la pesca fallita
per noi
Tu il Vivente!
L’occhio mio non vede
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