Casa Paronetto, dove e` passata la Storia. Intervista a
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Casa Paronetto, dove e` passata la Storia. Intervista a
intervista Casa Paronetto, dove è passata la Storia Intervista a Marisetta Paronetto Valier Renato Balduzzi e Luca Rolandi L a nostra intervista a Marisetta Paronetto Valier traccia un profilo molto personale che inevitabilmente si interfaccia con la storia dell’Italia e della Chiesa del Novecento, ma non solo. Trova, infatti, spunti e approdi, nella lunga e operosa stagione del movimento cattolico innervato nell’itinerario della storia sociale del nostro Paese. In un intreccio di persone, vicende, storie e fatti raccontati da una testimone: Marisetta Valier è una persona che ha vissuto da protagonista oltre novant’anni di storia che accomuna generazioni e persone molto diverse tra loro: ci apre ad un mondo lontano, che è radice del nostro oggi, e fondamento sul quale costruire il futuro. Tutto ciò in ordine a prospettive e fatti che l’hanno coinvolta e di cui è stata diretta testimone. Professoressa Paronetto Valier, dove è nata e in quali città ha vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza? Sono nato a Milano nel 1918 e la mia famiglia per motivi di lavoro era nel capoluogo. Mio padre aveva fatto la carriera militare, una tradizione di famiglia. Ho registrato nella mia memoria questo fatto. Mio padre aveva fatto la scuola militare a Napoli. Doveva prendere servizio presso il principe Umberto ed era persona gradita al Re. Era stato inserito come militare gradito alla corona: capitano Carlo Valier. Ma in realtà mio padre, che si era sposato due volte, non aveva intenzione di seguire il Re, era giovane e aveva famiglia e non ammetteva di metterla in quel contesto, e quindi si è dimesso dalla carriere militare. Posso testimoniare che avendo vissuto il rapporto tra mia madre e mio padre, devo dire di non aver mai visto un rapporto così perfetto. Ricordo i primi anni dell’infanzia fino alla terza e quarta elementare a Milano, un ambiente sereno. Dopodiché sono andata a Venezia, quando la mia famiglia è stata trasferita nella mia casa di origine. Lì ci sono stata per tutti gli anni della formazione scolastica, tra Venezia e Mestre. Ero abbastanza brava, lo ammetto, e ho fatto le scuole primarie, le medie e secondarie con grande slancio. Addirittura arrivando con un anno di anticipo al liceo, per poi iscrivermi all’Università di Ca’ Foscari a Venezia. Quando conobbe la realtà degli universitari cattolici? Dato che non ero totalmente fagocitata dall’elemento scolastico, avendo fatto un ottimo liceo, ed avendo molti compagni e compagne dei due soli istituti che c’erano allora il “Toscanini” e il “Marco Polo” dove i professori erano veramente eccellenti. Io ero in classe con mio fratello, che per problemi di salute aveva posticipato l’ingresso alle scuole secondarie. Io avevo anticipato e ci siamo ritrovati in classe insieme. Io Il racconto di una testimone privilegiata della storia del movimento cattolico e del Paese nel Novecento. Dalla Fuci all’Unesco passando per Pax Romana C o s c i e n z a 53 1 ° 2 0 1 0 intervista C o s c i e n z a 54 1 ° 2 0 1 0 avevo dei compagni che erano plagiati o contagiati da Giorgio Cini, un nostro compagno di scuola, di famiglia ricca e famosa. Aveva tutto ciò che ognuno sognava: il motoscafo, i vestiti sempre nuovi. Lui era molto simpatico ma i giovanotti che aveva intorno a lui erano da prendere con le pinze. Ed io che avevo lo schermo di mio fratello, era ipercritica nei suoi confronti, soprattutto per i suoi atteggiamenti. Eravamo, io e mio fratello, in fondo, fuori da questo contesto. Com’era l’ambiente ecclesiale dell’epoca a Venezia? L’ambiente ecclesiale era dominato da don Urbani, che poi sarebbe diventato vescovo e cardinale; il quale, essendo molto bravo, molto santo ma anche molto furbo trovò anche il modo nel corso dei suoi insegnamenti, per esempio come professore di religione, di porci delle domande, dei casi, di farci ragione in fondo su temi complessi. Per esempio ci faceva il caso della cordata in montagna in cui essendo coinvolte più persone era difficile, in casi estremi decidere chi sacrificare (se e come tagliare la corda per salvare o salvarsi). E vedevo come Urbani, che era consigliere della Fuci di Venezia, molto ascoltato e partecipe, fosse sempre accerchiato dai giovani che gli facevano domande, sentivano il bisogno di un confronto con un prete speciale. Per me entrare nell’Università era entrare in un gruppo di élite, quello fucino, in cui non c’era conformismo, anche se eravamo immaturi. Ma anche gli altri erano immaturi. Ed in ogni caso nessuno pretendeva di fare la rivoluzione. Certo c’erano degli atteggiamenti di grande autonomia, un’atmosfera impegnata, nonostante il regime fascista. L’Università arriva nel 1935: quale facoltà scelse e come approdò in Fuci? Avevo 17 anni, andai nella Facoltà di Lettere, che non avrei voluto fare. Ma poi ho iniziato. Alla gioventù fascista ho mai aderito, anche perché non c’era una pressione come in altri contesti. Per me entrare all’Università era importante perché sarei entrata nella Fuci e avrei avuto l’opportunità di conoscere Urbani. Faceva delle lezioni per la Fuci molto interessanti e profonde. Io entrai in contatto, in quel periodo con Olga Montagner, una delle mie responsabili. futura sposa di Vittore Branca. C’era molto dibattito e molta libertà, tutto sommato. Mi sono rivista un testo di un mio intervento di quel tempo sulle missioni. E mi sono detta: ma come facevo io a scrivere queste cose... Effettivamente non avevo inventato nulla ma avevo succhiato mi ero ispirata, ero stata contagiata da questo senso di responsabilità, autonomia e libertà. Incontrato personalità notevoli. Ha partecipato ad incontri nazionali della Fuci? Sono stata al Congresso di Firenze e ricordo molto bene, una curiosa vicenda personale. Ero sempre senza biglietto e svicolavo, prendendo il tram, per non rischiare di prendermi la multa. E dopo la laurea? Dopo la laurea ho fatto un anno di Croce Rossa e dopo ho fatto il concorso nelle scuole superiori a Venezia, e l’ho vinto, giovanissima, a 22 anni. Ero andata prima a scuola, ho saltato con mio fratello la terza liceo e poi ancora prima all’Università e quindi quando sono entrata nel mondo dell’insegnamento ero veramente molto giovane. Ero risultata prima al concorso, mi sono ritrovata, senza falsa modestia, che avevo una marcia in più rispetto alle mie coetanee. Credo fosse dovuto al fatto di una virtuosa commistione di rigore e libertà presente in famiglia. Anche perché Venezia era una città cosmopolita. Noi avevamo amici di diversa estrazione. E giocando con loro, dialogando, sono cresciuta, siamo cresciuti in un ambiente veramente particolare. Giocavamo a cricket per esempio. Eravamo assolutamente non conformisti anche se molto rigorosi. Quando ha conosciuto Sergio Paronetto, suo marito? Ho conosciuto Sergio nel 1937 a Innsbruck durante un soggiorno in Austria dove mi ero recata per studiare il tedesco. Il tutto avvenne in modo casuale. La mia futura cognata, moglie di mio fratello, aveva studiato a Genova e aveva avuto come profes- paronetto sore di religione don Emilio Guano. Il prete genovese aveva dato il mio indirizzo alla mia futura cognata. E ci incontrammo in Austria. In quell’occasione conobbi Sergio e ne rimasi subito affascinata. Era il mio ideale. Lui però abitava a Roma e solo negli anni successivi ebbi la fortuna di frequentarlo e di innamorarmi di lui. Dopo la laurea infatti mi trasferii a Merano ad insegnare. Mio fratello si era sposato ed era andato ad abitare a Bolzano e io cercai in tutti modi, andando anche a Roma al Ministero, di farmi trasferire in quella zona. Vivevo con mia madre ed ero non distante da mio fratello. Nelle mie domande avevo richiesto Bolzano, ma poi mi avevano assegnato Merano. Erano gli anni difficili prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. In quel periodo avevo capito cosa significava l’Anschluss (marzo 1938) e forse già compreso la tragedia incombente. Nella Fuci quale era la vostra opinione sull’affermazione del nazismo in Germania? Direi molto chiara. Più compresa dal gruppo maschile, ma anche noi ragazze non eravamo avulse dal contesto della riflessione sociale e politica. Ricordo la nostra responsabile e amica Pasquali, molto intelligente e matura, che poi sposò Toniolo. Come non ricordare una delle persone più acute e coraggiose, Coatto, che fu impiccato nel corso della guerra dai tedeschi. Le opzioni fucine non erano mai state esibite, non ne parlavamo, ma eravamo contro tutti i totalitarismi. Per esempio quando era richiesta la divisa dei Guf non cercavamo di non partecipare alle manifestazioni. Senza eroismi avevamo un’altra idea rispetto al regime. Nel 1936 non esultammo per la guerra d’Etiopia, ci rendevamo conto di quanto eravamo fuori dal coro, grazie anche alle guide spirituali come Urbani a Venezia, o Guano e Costa a Roma. Quando vi si è sposata con suo marito? Il matrimonio si svolse a Merano il 26 luglio 1943, il giorno successivo ad un passaggio storico centrale nella vita dell’Italia contemporanea, la sfiducia di Mussolini al Gran consiglio e nella settimana dell’elaborazione del Codice di Camaldoli, alla quale mio marito non poté partecipare. Sergio era del 1911 e venne in Tirolo da Roma per la funzione. Non fu semplice la vita a Merano, nonostante la famiglia (mia «Senza eroismi avevamo un’altra idea rispetto al regime fascista. Nel 1936 non esultammo per la guerra d’Etiopia, ci rendevamo conto di quanto eravamo fuori dal coro, grazie anche alle guide spirituali come Urbani a Venezia, o Guano e Costa a Roma» madre e mio fratello): la città era nazista e i tirolesi erano nazisti convinti. Il clima era pesante, si poteva far finta di ignorarlo però c’era e risultava molto pesante per me. Durante la settimana nella cattedrale di Merano c’era un funerale nazista. Ma in ogni caso ci siamo sposati a Merano. Sergio lavorava all’Iri, era uomo di fiducia di Menichella. Fu curiosa la conoscenza che fece con Menichella, il giorno dopo l’8 settembre, vero? Menichella era venuto a cercare Sergio, ma aveva trovato me. Io, che ero da poco tempo a Roma e in un periodo molto complicato, indugiai nell’aprirgli la porta. Poi si presentò ma stentai a riconoscerlo. Menichella, in modo molto spiritoso, mi disse: «Lei mi avra scambiato per un poliziotto o peggio». La cosa importante da rilevare è, in ogni caso, come Menichella, il giorno dopo l’8 settembre, la prima persona che andò a cercare fu mio marito, di cui aveva una stima e una fiducia illimitata, per la capacità di analisi e di prospettiva. Nella casa di Via Reno, dove abitava la famiglia di Sergio, andammo a vivere tutti: io, mia madre, mia cognata, mia suocera. In quel periodo non si poteva fare in modo diverso. Mia madre, tra l’altro, era stata appena operata di un male gravissimo. Le avevano dato pochi mesi di vita. Invece visse ancora cinque anni, che passò con me e Sergio a Roma. Passiamo al rapporto con Camaldoli, i Laureati e la redazione del Codice. È difficile spiegare la cronologia di come sarebbe stato realizzati e in quale contesto il Codice di Camaldoli. Il Movimento laureati aveva scoperto la località dell’aretino negli anni Trenta. Fu Montini che era andato per qualche giorno C o s c i e n z a 55 1 ° 2 0 1 0 intervista C o s c i e n z a 56 1 ° 2 0 1 0 di vacanza spirituale dai monaci e aveva segnalato a Igino Righetti la sede. Da allora i laureati e poi la Fuci salivano a Camaldoli per le settimane di formazione religiosa. Il posto era tranquillo. Non c’era nulla, solo le celle dei monaci e poco altro. Sì, c’era sempre un poliziotto del regime a vigilare, ma solitamente stava zitto ed in disparte. Io ho dei bellissimi ricordi di come si mangiava e si dormiva, era tutto essenziale, spartano, oltre la minima soglia di una sobrietà monacale. Era già un’impresa potervi arrivare, come fucini o laureati da tutte le sedi italiane. Era stata scelta questa sede perché era fuori mano. Ma ciò che vorrei ricordare di Sergio è soprattutto il fatto che fu lui a redigere l’introduzione del Codice di Camaldoli, fu l’ultima sua fatica. C’è un famoso giudizio, forse di Giulio Andreotti, che diceva: «Che se non fosse morto, l’unico erede di Alcide De Gasperi avrebbe potuto essere Sergio Paronetto». L’unico che avesse il disegno politico e il tratto dello statista. Le carte di Sergio non le ho più e loro parlano e dicono molto. Tutti i documenti sono stati versati una parte al “Paolo VI” e una parte allo “Sturzo”. Mi riconosco in quel giudizio. De Gasperi ci teneva moltissimo al parere di Sergio. C’è una bella lettera di De Gasperi che scrive a Sergio di conti- «Se Paronetto non fosse morto, avrebbe potuto essere l’erede di De Gasperi? È un giudizio nel quale mi riconosco. De Gasperi ci teneva moltissimo al parere di Sergio, una volta gli scrisse una lettera per chiedergli di continuare a consigliarlo con lucidità e competenza» nuare a consigliarlo con la sua competenza e lucidità. De Gasperi si era affidato ai tre saggi, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno e Ezio Vanoni, questi ultimi portati proprio da Sergio nel gruppo ristretto di riflessione e progetto della nuova Italia democratica. Il senso di concretezza di questi economisti era veramente all’avanguardia. Chi frequentava casa Paronetto in quegli anni? Tanti erano coloro che venivano a casa nostra. In particolare De Sanctis, Saraceno, Vanoni. Ricordo anche la personalità particolare e umorale di Capograssi. Lui aveva partecipato alla stesura introduttiva del Codice, ma poi si era arrabbiato perché era entrato Nosengo per occuparsi dell’educazione e Capograssi era contrario ad un capitolo su questo tema. Capograssi non volle essere citato perché non si riconosceva negli scritti relativi alla famiglia e all’educazione. Sul tema della famiglia non lo so, ma certamente la sua posizione sul tema dell’educazione fu nettamente avversa al contenuto realizzato. Lo ricordo bene perché, appena sposata, giunta a Roma, mi sono ritrovata in un mondo più grande di quello che potessi immaginare. Fui io a recarmi da Capograssi per portargli i documenti sul tema. Ma ritengo che la parte introduttiva del Codice di Camaldoli possa essere quella che ci dona ancora oggi degli spunti interessanti per la riflessione. Quali erano i vostri rapporti con Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato? Ottimi direi, lui e Sergio erano amici. Di Montini mi colpivano soprattutto la sua semplicità e la profondità. Quando l’ho conosciuto, in momenti difficili, mi è stato sempre vicino. Ci trovavamo a casa sua dopo la messa, per un momento conviviale: caffellatte e molto dialogo. Egli era una presenza unica. Di Sergio aveva scritto: «Di giovani seri e bravi ne ho conosciuti, ma mai come lui». Ma non solo con monsignor Montini l’amicizia era profonda. Ricordo don Guano e soprattutto don Bernareggi. Con Guano l’amicizia fondava le sue radici negli anni della Fuci. Di lui ho un ricordo commovente. Mia madre era malata e sofferente. Con lei e mia cugina siamo stati in montagna. Ci ha raggiunto don Guano che è stato una decina di giorni con noi. È stato paronetto meraviglioso convivere nella semplicità, nell’immediatezza, nella profondità. Dio benedica Guano. Non ho conosciuto tanti uomini di fede come lui. Ricordo una confessione, nella casetta isolata tra i boschi, intensa e veramente particolare. Don Guano era di una semplicità e di una prudenza belle. Ho conosciuto anche Franco Costa, meno di Guano ma ne ho sempre apprezzato la sua intelligenza. Tra i personaggi più recenti penso a don Pino Scabini, del quale ho amato la vita e il legame con il suo paese d’origine, Pregola. Era un uomo di pensiero, ricco e profondo. Gli altri non erano capaci di capire la sua trasparenza. Nella Fuci con Aldo Moro, Giulio Andreotti e Bianca Penco, e ancora prima con Igino Righetti: quali ricordi? Ricordo soprattutto Bianca, che è una cara amica ancora oggi. Pochi sono i ricordi con i presidenti. Sergio conosceva Moro, ma solo superficialmente. Non ci sono stati contatti profondi. Per quanto riguarda Igino Righetti, morto nel 1939, i rapporti erano soprattutto legati a Maria Faina, la sua vedova, un’altra amica carissima. Quando morì suo marito, come proseguì la sua vita? Sergio è mancato nella primavera del 1945. Fu un vero trauma. Una prova di Dio. C’era ancora mia mamma viva e con noi vivevano anche mia cognata, la sorella di Sergio, e mia suocera. Tutti in casa. Ero rimasta sola. Io a Roma continuavo a insegnare. Avevo avuto il trasferimento a Foligno, ma non avevo potuto andare in Umbria, perché eravamo in piena guerra. Poi sono stata trasferita a Roma. Pur essendo passata di ruolo, non avevo intenzione di fare la professoressa. Avevo ottimi rapporti con gli studenti. Già ai tempi di Merano con i ragazzi mi trovavo bene, ma cercavo di realizzare qualcosa d’altro nella vita. Avrei dovuto rientrare nei ranghi dell’insegnamento, ma sono stata assorbita da Guido Gonella. Non sono entrata nel suo staff, ma dietro le quinte e senza nessun contratto o rimborso spese: facevo la sua “ghost-writer”. Non tanto sui temi politici, ma soprattutto sui temi sociali, culturali ed economici. La relazione alla Settimana Sociale “I cattolici e la Costituente” di Guido Gonella è anche opera mia. Quando incontro Flavia «Noi eravamo genericamente democristiani. Anzi, a volte, votavamo la Dc per mancanza di alternative. Non condividevamo la politica della clientela e dello scambio politico. Ma c’erano persone molto valide, autorevoli, con un orizzonte profetico oltre il contingente» Nardella dell’Istituto Sturzo di Roma, le ricordo che le carte e i documenti di Gonella sono stati, per molte parti frutti del mio lavoro. Guido Gonella era amico di Sergio. Anche se devo dire che lo aveva sfruttato e soprattutto si era ispirato non poco alle sue idee. C’è un episodio che voglio raccontare. Una volta Gonella mi chiede di fare un pezzo su san Benedetto a Montecassino. Io lo scrivo e poi Gonella non lo utilizza. Allora io decido di pubblicare il testo sulla rivista Studium. Gonella, incurante del fatto che fosse già edito, più avanti lo riprende come se fosse proprio. Quando Gonella lasciò il governo, non avevo più nessuna voglia di fare la sua ghost-writer. Lui me lo chiese nonostante non avesse più incarichi. Se devo essere sincera non andavo neppure molto d’accordo con il suo pensiero politico e anche con il suo modo di fare. In fondo mi sono sentita sfruttata da un uomo politico, capace ma troppo maschilista. Pensate che mi pagava con biglietti per i concerti all’Auditorium di Santa Cecilia. Qualche ricordo sulla sua attività pubblicistica ed editoriale a Studium e Coscienza? Per molti anni su Studium ho curato la rubrica “Sguardi del mondo”, siglata MPV. È stato un modo per rimanere legata al mondo della cultura cattolica. Di quei tempi lontani ho un ricordo particolare e originale: un articolo, che aveva colpito la sensibilità di qualcuno, in cui avevo parlato bene di Gramsci, facendo soprattutto l’apprezzamento di alcune pagine tratte dalle Lettera dal carcere. Che accadde quando si concluse il rapporto professionale con Gonella? Si aprì la possibilità di lavorare per la delegazio- C o s c i e n z a 57 1 ° 2 0 1 0 intervista C o s c i e n z a 58 1 ° 2 0 1 0 ne italiana all’Unesco. Senza stipendio, perché avevo già quello da insegnante. Devo dire che l’esperienza dell’Unesco è stata veramente importante. In quella sede ho avuto l’opportunità di collaborare con Vittorio Veronese, amico di Sergio, con il quale avevo avuto modo già di lavorare al tempo della Fuci. All’Unesco in ogni caso ho imparato molto, viaggiato, aperto i miei orizzonti di conoscenza. Forse l’unica esperienza migliore insieme a quella dell’Unesco è stata quella di Pax Romana. Ce ne parli. Ricordo gli esordi alla fine degli anni Trenta con Bianca Penco. Una riunione in Spagna: prima a Barcellona e poi a Madrid. Doveva venire anche Lucia De Gasperi, figlia di Alcide, ma poi per precauzione rimase in Italia. Andammo poco prima della guerra e fu un’esperienza indimenticabile Renzo De Sanctis stava in piedi fino a mezzanotte a parlare con gli spagnoli e discuteva sulle difficoltà della fragile Repubblica iberica. Di Pax Romana sono stata vice presidente mondiale della parte Laureati ed ho fatto delle esperienze in Africa molto interessanti. È stata un’avventura molto seria e formativa. All’epoca il movimento era sotto la guida di Ramon Sugranyes de Franch, una personalità forte, ecumenica e autorevole, aveva molto peso nella Chiesa e nel mondo culturale. Noi andammo nei paesi africani ad incontrare gli ambienti universitari di Ghana e Nigeria. Erano gli anni in cui il tema di fondo era la decolonizzazione, lo sviluppo, l’emancipazione dei popoli del Terzo mondo. Si viveva in situazioni paradossali ma anche molto divertenti. In Pax Romana ho apprezzato molto la vivacità degli olan- desi. Poi come spesso accade, con l’aggravarsi dell’impegno nella Commissione italiana dell’Unesco, ho dovuto chiudere questa esperienza così importante per la mia vita. E la politica? Noi eravamo genericamente democristiani. Anzi a volte ci turavamo il naso e votavamo la Dc per mancanza di alternative. Ma non eravamo così convinti. Non condividevamo la politica della clientela e dello scambio politico. C’erano persone molto valide, autorevoli, con un orizzonte profetico oltre il contingente. Mi viene in mente Vittorio Bachelet, che era stato in Fuci, poi nei Laureati e si era anche occupato di Pax Romana: per me rimane un personaggio straordinario. Io ho sempre rifiutato la politica attiva. Mi era stato anche offerto un incarico politico. Anche Scoppola si era arrabbiato con me, per la mia scelta. Negli anni più recenti una persona come Rosy Bindi, che ho conosciuto ancora come assistente di Bachelet, l’ho apprezzata e sostenuta. Il passaggio dai Laureati al Meic come l’ha vissuto? Non avevo incarichi di responsabilità. Ero molto concentrata sull’Unesco, e devo dire che non ho vissuto il cambiamento verso il Meic in modo speciale. Mi sono ritirata. Ho avuto l’impressione che ci fosse l’interesse a contattarmi, da parte alcuni, ma solo come una persona in grado di raccontare la storia, senza però esserne più parte attiva. C