Classificare, contare, misurare
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Classificare, contare, misurare
Classificare, contare, misurare Marco Chiuppesi L’uomo è misura di tutte le cose (Protagora) Introduzione ................................................................3 1 - Definizioni introduttive..........................................3 2 - Classificare.............................................................7 3 - Contare.................................................................11 4 - Misurare ...............................................................17 5 - Stevens e le scale di misurazione.........................18 6 - Critiche a Stevens ................................................24 7 - Variabili nominali: problemi di metodo ..............25 8 – Alcuni problemi epistemologici ..........................29 Conclusioni ...............................................................31 Bibliografia ...............................................................32 Introduzione Immaginiamo di essere in un mercato ortofrutticolo. Dobbiamo comprare delle mele; per la precisione, ce ne servono sette. Troviamo esposte diverse qualità: golden, renette, granny-smith… Decidiamo per le renette. Ne prendiamo sette, mettendole nel sacchetto di carta, e il fruttivendolo provvede a pesare il tutto per dirci quanto spenderemo. In pochi minuti abbiamo contato, per essere sicuri di avere preso proprio sette mele; abbiamo assistito al risultato di una classificazione, nel vedere come le mele erano state suddivise in diverse qualità; abbiamo assistito ad una misurazione, quando il fruttivendolo ha misurato con la bilancia il peso del nostro acquisto. Classificare, contare, misurare sono atti che compiamo ed osserviamo compiere quotidianamente, senza soffermarci sulle loro implicazioni profonde: tuttavia, la storia del pensiero scientifico è intrecciata indissolubilmente con questi atti. Lo scopo di questa trattazione è approfondire il ruolo svolto da queste operazioni nelle scienze sociali; indagare quali siano i presupposti, spesso dati per scontati, di queste operazioni, e quali le conseguenze che possono derivare dalle diverse maniere possibili di intenderle. 1 - Definizioni introduttive È bene cominciare con un poco di terminologia introduttiva. Ogni tanto, nel corso della trattazione, introdurrò altre definizioni utili nel proseguimento, evidenziate in neretto. Il concetto può essere definito “un ritaglio operato in un flusso di esperienze infinito in estensione e in profondità, e infinitamente mutevole”1: un costrutto mentale che isola alcuni aspetti del flusso di esperienze di un osservatore, come questo flusso si presenta alla sua attenzione. Difficilmente un concetto ha dei confini rigidi e dati una volta per tutte: anche quando mantiene la sua natura di pensiero interiore ad un singolo individuo, le varie esperienze di percezione e comunicazione cui questo individuo va incontro possono portarlo a modificare in qualche misura l’intensione e l’estensione del concetto2. Ad esempio, il costrutto mentale che posso avere di un involtino primavera prima di 1 2 A. Marradi, Concetti e metodo per la ricerca sociale, Firenze, La Giuntina, 1980, p. 9. Per una trattazione approfondita del rapporto tra concetto e sociologia, vedi L. Verniani, Il concetto in sociologia. Considerazioni sul metodo, Pisa, Edizioni Plus, 2004. averne mai mangiato uno è senz’altro differente da quello che mi si presenta dopo averne mangiato. L’intensione di un concetto è l’insieme delle proprietà tipiche dei refenti del concetto stesso: cioè, le proprietà delle ‘cose’ (reali o meno) cui il concetto si riferisce. Pensando al concetto designato dal termine ‘penna’, la sua intensione potrà ad esempio essere data dalle proprietà dell’essere un oggetto approssimativamente cilindrico, idoneo all’essere impugnato, in grado di lasciare tracce visibili su carta e altri materiali. Nel caso delle mele, potremo dare una definizione intensionale del concetto facendo riferimento ai frutti rotondeggianti dell’albero noto come ‘melo’. Chiaramente questa definizione di mela rimanda ad una serie di ulteriori definizioni che andrebbero fornite per permettere di identificare cosa sia una mela: ad esempio, cosa sia un frutto, come si riconosca un melo da altri tipi di albero. Così come in natura abbiamo una inestricabile rete di relazioni tra enti, così nel pensiero abbiamo una inestricabile rete di relazioni tra concetti… Una volta elencate le proprietà dell’intensione di un concetto, possiamo applicare il termine corrispondente a tutti i referenti che manifestino le proprietà elencate, in quanto sono referenti che la definizione collega al concetto. L’estensione di un concetto è l’insieme dei suoi referenti nel mondo; si tratti di referenti reali o immaginari, siano cioè essi parte del mondo come lo percepiamo, o del mondo dei nostri concetti, o di quello delle nostre attività comunicative. Così, l’estensione del concetto designato dal termine ‘penna’ è data, nel mondo reale, da tutte le penne che possa capitarci di incontrare, penne a sfera, penne stilografiche, e così via. Analogamente, l’estensione del concetto ‘mela’ è data da tutte le mele che troviamo nei frutteti, nelle bancarelle, ma anche quelle riprodotte nei dipinti sotto forma di ‘natura morta’, e così via. Il termine è l’etichetta del concetto, la sua designazione linguistica. Ad esempio, il termine che designa il concetto che ha l’intensione data dalle proprietà dell’essere un oggetto approssimativamente cilindrico, idoneo all’essere impugnato, in grado di lasciare tracce visibili su carta e altri materiali, in lingua italiana è ‘penna’, in lingua inglese ‘pen’, e così via. Un termine può riferirsi a diversi concetti: così in italiano ‘penna’ indica anche un elemento anatomico degli uccelli, o una tipologia di pasta alimentare. Ci sono relazioni di analogia tra le proprietà che compongono l’intensione di questi concetti che danno qualche indicazione sul come lo stesso termine sia finito per designarli tutti e tre. Altro esempio: ‘mela’ è il termine che in italiano designa il frutto del melo. Una definizione, ad esempio quella del periodo precedente, può mostrare il rapporto tra un concetto ed un termine, “come viene abitualmente inteso fra i membri di una certa comunità”3: in questo caso si parla di definizione descrittiva. Ma una definizione può servire ad una persona per precisare il senso in cui egli intende raccordare un concetto ed un termine, quando quest’ultimo sia di nuova introduzione o si allontani dal concetto a cui comunemente viene associato. In questo caso si parla di definizione stipulativa. Naturalmente, dato un termine, sono possibili più definizioni che lo colleghino a concetti anche solo parzialmente diversi. I criteri che devono guidare nella scelta di una definizione anziché di un’altra non sono mai dati una volta per tutte, e in gran parte dipendono dalla natura del ‘gioco linguistico’ nel cui contesto le definizioni stesse vengono formulate, oltre che dal proprio ruolo nell’interazione linguistica e da rilevanze esterne all’atto comunicativo. In queste pagine sono state già presentate una serie di definizioni stipulative, che associano i termini in neretto a dei concetti particolari. Definire il termine ‘definizione’ è una operazione apparentemente paradossale, un po’ come pensare al concetto di ‘concetto’ o presentare il termine ‘termine’. In realtà, distinguendo tra i segni e i loro significati, e distinguendo i diversi livelli di realtà a cui si riferiscono tutte queste parole, il paradosso risulta solo apparente. Il termine da definire viene solitamente detto definiendum, mentre la proposizione (o le proposizioni) che lo definisce è detta definiens. Se una definizione collega un termine ad un concetto facendo riferimento all’intensione di quest’ultimo, possiamo considerarla una definizione intensionale. Se invece la definizione collega un termine ad un concetto facendo riferimento alla sua estensione, possiamo parlare di definizione estensionale. Visto che nel caso di definizioni estensionali è spesso impossibile elencare tutti gli elementi di un insieme, sovente ad una elencazione di alcuni esemplari ‘tipici’ si fa seguire una espressione del tipo ‘eccetera’, ‘e così via’, ‘…’. Nel contesto di linguaggi formalizzati la definizione estensionale è spesso racchiusa tra parentesi graffe. Un esempio di definizione intensionale: i numeri pari sono tutti i multipli di 2 Un esempio di definizione estensionale: 3 i numeri pari sono {…, -8, -6, -4, -2, 0, 2, 4, 6, 8, …} A. Marradi, Concetti e metodo, op. cit., p. 18. Un tipo particolare di definizione estensionale è la definizione ostensiva, che consiste nel mostrare direttamente gli ‘enti’ a cui un determinato termine si riferisce, con un gesto di indicazione. Così, al bambino che ci chiede cosa sia un gufo, possiamo rispondere prendendo un volume d’enciclopedia e mostrandogli la fotografia di un gufo (o più probabilmente, visti i tempi, gli mostreremo sul computer delle foto di gufi trovate grazie alla funzione ‘ricerca immagini’ di qualche motore di ricerca web). Come ebbe modo di osservare Wittgenstein4, di per sé la definizione ostensiva non è più elementare degli altri tipi di definizione fin qui incontrati: essa, per venire intesa, presuppone infatti una serie di competenze comunicative da parte del destinatario di questo tipo di gesto. Ad esempio, il bambino deve capire il gesto dell’indicare o le parole (“ecco!”) con cui abbiamo accompagnato il gesto, deve comprendere che stiamo indicando il disegno o la fotografia di un animale in rappresentanza di un animale in carne e ossa (e penne), e non dei segni senza senso tracciati sulla carta o su un monitor di computer. Deve, in altre parole, sapere distinguere un atto di spiegazione e definizione da un atto di gioco, di comando, e così via; e queste sono competenze che vengono acquisite come parte della socializzazione primaria di un individuo. Questo tipo di problemi è presente anche quando la definizione ostensiva è riferita direttamente all’ente e non a una sua rappresentazione: così, mostrando un cavallo e pronunciando “Cavallo!” non è immediatamente chiaro se stiamo associando l’ente a un nome proprio o alla denominazione di un insieme cui appartiene; e nell’ultimo caso, in funzione di quali caratteristiche è data l’appartenenza. Col gesto di indicare l’equino avremmo potuto altrettanto bene pronunciare “Mammifero!” Senza una serie di altri atti non sarebbe stato chiaro a quale livello della scala di astrazione si posiziona il concetto indicato dal termine di cui abbiamo dato una definizione ostensiva. Torniamo ora alla prima definizione data in questo capitolo: dicendo con Marradi che “Il concetto è ‘un ritaglio operato in un flusso di esperienze infinito in estensione e in profondità, e infinitamente mutevole’ ” abbiamo dato una definizione stipulativa di ‘concetto’: abbiamo delimitato l’intensione del concetto di ‘concetto’, così come intendiamo usarlo nel proseguimento di questa trattazione. 4 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Blackwell, 1953. Ed. It. Ricerche Filosofiche, Torino, Einaudi, 1973. 2 - Classificare Consideriamo un concetto la cui intensione sia caratterizzata, come spesso avviene, da una pluralità di proprietà. Prendiamo ad esempio la definizione di un semplice oggetto di ferramenta come la vite: “piccola asta parzialmente filettata, cilindrica o conica, spec. di acciaio o di ottone, usata per stringere, per fissare, per collegare, ecc.” (dizionario De Mauro, Paravia). Accettando questa definizione intensionale, potremo definire ‘vite’ qualsiasi oggetto abbia le caratteristiche di forma e funzione in essa specificate. Ma avendo a che fare con una pluralità di viti, ci renderemo rapidamente conto che al di là delle caratteristiche accomunanti tutte le viti, possono esserci altre qualità che solo alcune di esse presentano, o che sono presenti in gradi e con modalità differenti. Così, potremo distinguere tra le viti in funzione del materiale di cui sono composte, basandoci proprio sulla definizione stessa: potremo distinguere le ‘viti di ottone’, le ‘viti di acciaio’, e le ‘viti di altro materiale’. Potremo anche distinguere tra le viti con innesto a taglio, a croce, o di altra forma. Ciascuna classificazione suddivide il concetto iniziale, ottenendo dei nuovi concetti con una intensione più specifica ed una estensione ridotta, a cui può essere associato per maggior chiarezza un nuovo termine, più specifico del semplice ‘vite’. Il criterio che viene individuato come base della classificazione viene chiamato fundamentum divisionis. Di solito, trattando questo argomento, vengono indicati alcuni requisiti come essenziali per la correttezza della classificazione: l’unicità del fundamentum divisionis, l’esaustività della divisione, la mutua esclusività delle categorie. L’unicità del fundamentum divisionis significa che il criterio base della classificazione deve essere uno solo, e sempre lo stesso per tutti i casi. Se decido di classificare le viti sulla base del materiale di cui sono composte, dovrò attenermi a questo criterio per tutta la procedura di classificazione; non posso, dopo avere suddiviso metà delle viti sulla base del materiale di cui sono composte, suddividere l’altra metà sulla base del tipo di innesto. Comportandomi così non otterrei, al termine delle mie operazioni, delle classi in senso proprio. L’esaustività della divisione significa che le classi non devono escludere nessun elemento facente parte dell’estensione del concetto di partenza. Immaginiamo di stare suddividendo mille viti sulla base del materiale di cui sono composte, e di ripartirle nelle classi ‘viti d’ottone’ e ‘viti d’acciaio’. A un certo punto potrei trovarmi con duecento viti che non rientrano né nell’una né nell’altra classe: è un segno di una divisione non esaustiva, e dovrò pertanto introdurre una nuova categoria residuale ‘viti di altro materiale’ oppure individuare il materiale specifico di cui sono fatte queste viti, né d’acciaio né d’ottone, e costruire delle classi ad hoc che sono poste allo stesso livello di astrazione delle due classi di partenza. Nel caso abbia introdotto nuove categorie avrò resa esaustiva la mia divisione se, al termine del processo di assegnazione dei casi alle classi, non avrò più casi residui non assegnabili. La mutua esclusività delle categorie: un elemento non deve appartenere a più di una categoria della stessa classificazione. Detto altrimenti, le estensioni delle classi non devono sovrapporsi. Riprendendo l’esempio delle viti classificate per materiale, non potrò avere una vite che appartenga sia all’insieme delle viti d’ottone sia a quello delle viti di acciaio; oppure, non potrò avere una vite che appartiene sia alla categoria delle viti di acciaio che a quella delle viti ‘di altro materiale’. In realtà, il criterio della mutua esclusività è reso necessario dal fatto che i processi classificatori vengono comunemente fondati sulla classica teoria degli insiemi, nella quale un elemento appartiene o non appartiene ad un insieme. Con la formalizzazione della teoria degli insiemi fuzzy5, e la realizzazione di algoritmi di clustering su di essa basati, si è mostrato come sia possibile basare il discorso scientifico su processi che gestiscono in maniera adeguata la vaghezza che è propria dei nostri processi mentali e linguistici, senza rinunciare al rigore scientifico. L’appartenenza sfumata permette ad un elemento di appartenere, in gradi diversi, ad un insieme ed al suo opposto; o a diversi insiemi dalle estensioni sovrapposte. Questa appartenenza sfumata permette formalizzazioni rigorose anche in presenza di categorie non mutuamente esclusive. Di primo acchito l’introduzione di insiemi ad appartenenza sfumata potrebbe sembrare una inutile sofisticazione: in fin dei conti, una vite potrà essere o di ottone o di acciaio; potrà avere un innesto a taglio o un innesto a croce. Ma è facile rendersi conto che molte categorizzazioni che poniamo in essere riguardano qualità distribuite in maniera continua, e pertanto possono esserci casi per i quali - usando la insiemistica tradizionale - l’attribuzione è incerta. Questa incertezza d’attribuzione può essere causata da diversi fattori: ad esempio, dalla nostra incapacità di percepire con sufficiente precisione l’ammontare della qualità su cui è basato il discrimine tra categorie nel singolo caso in esame, per i casi particolarmente vicini al ‘confine’. In questo caso si tratta di un problema di misurazione, che può teoricamente essere risolto facendo ricorso a strumenti di misurazione più precisi. Ma talvolta, pur con la massima precisione possibile, anche conoscendo in maniera perfetta l’ammontare della qualità, ci appare arbitrario posizionare in un punto piuttosto che in un altro il confine tra due categorie; entrano in 5 L. A. Zadeh, Fuzzy Sets, in “Information and Control”, 8 (1965), pp. 338-353. gioco problemi collegati con l’intersoggettività dei termini usati per designare i concetti, laddove persone diverse – e anche la stessa persona in contesti differenti - usano lo stesso termine per concetti dall’estensione differente. È sempre possibile operativizzare un concetto in maniera rigida, lontana dalla vaghezza dell’intensione dello stesso concetto nel senso comune; ma nella ricerca sociale questo tipo di formalizzazione può non essere consigliabile. Consideriamo l’esempio classico dell’età, e la categoria ‘giovane’. Anche laddove conoscessimo in maniera molto precisa l’età di un certo numero di persone, è chiaro che nel linguaggio comune non esiste una definizione del concetto sottostante il termine ‘giovane’ data una volta per tutte. Immaginiamo di trovarci in un contesto nel quale sia necessario dare una definizione operativa del concetto sottostante al termine ‘giovane’: ad esempio, nell’usarlo come etichetta per un gruppo di persone distinte per età nell’analisi di una distribuzione demografica. Se ai nostri fini apparisse ragionevole fissare la soglia alla quale smettere di usare il termine ‘giovane’ all’età di 25 anni, ci troveremmo nella situazione per cui due persone, nate con un giorno di distanza una dall’altra, potrebbero trovarsi una ad essere etichettata come ‘giovane’ e una no. In questo caso, non c’è nessun problema di misurazione; nessun problema di fundamentum divisionis; ci sono però le conseguenze dell’uso di una insiemistica rigida applicata a concetti intrinsecamente sfumati. È in casi come questi che ci rendiamo conto di come, avendo a che fare con una classificazione, l’impiego della teoria degli insiemi fuzzy possa rivelarsi oltremodo utile. Torniamo alla classificazione ‘classica’. Diverse classificazioni che suddividono l’estensione di un medesimo concetto possono essere anche incrociate ed applicate simultaneamente: tornando all’esempio delle viti e incrociando la distinzione basata sul materiale con quella basata sul tipo di innesto, otteniamo una nuova classificazione: avremo classi corrispondenti ai concetti delle ‘viti d’acciaio con innesto a taglio’, ‘viti d’acciaio con innesto a croce’, ‘viti d’acciaio con innesto d’altra forma’; avremo inoltre delle ‘viti d’ottone con innesto a taglio’, ‘viti d’ottone con innesto a croce’, ‘viti d’ottone con innesto d’altra forma’; ‘viti di altro materiale con innesto a taglio’, ‘viti di altro materiale con innesto a croce’, e infine ‘viti d’altro materiale con innesto d’altra forma’. Una classificazione che tenga conto di più di una proprietà può essere chiamata tipologia, e le classi ottenute con questo tipo di procedimento possono essere chiamati tipi. Una tipologia è quindi una classificazione multidimensionale. Anche per le tipologie vengono spesso elencati6 i già visti criteri delle classificazioni: unicità del fundamentum divisionis, esaustività e mutua esclusività delle categorie; valgono anche qui le osservazioni fatte a proposito. Una tipologia può anche essere derivata individuando le proprietà latenti rispetto alle quali è stato implicitamente ricavato un tipo, ed individuando gli ulteriori tipi che non erano stati inizialmente evidenziati. Questo procedimento, approfondito da Lazarsfeld7 e in seguito approfondito da lui stesso e da Allen Barton8, viene definito substruzione (dello spazio di attributi). La substruzione può essere applicata utilmente quando si costruisce una ricerca sociale basata su teorie sociali che indagano un tipo senza estrinsecare le dimensioni rispetto alle quali è stato identificato; approfondendo il costrutto teorico di partenza possiamo scoprire le dimensioni rilevanti e incrociarle, identificando così una più ampia tipologia di cui il tipo oggetto dell’analisi di partenza è solo un tassello. Procedimento inverso rispetto alla substruzione è la riduzione dello spazio di attributi, anche questo approfondito da Lazarsfeld9. Abbiamo visto che la tipologia deriva dall’incrocio di due o più classificazioni, e ne deriva che il numero di tipi è dato dal prodotto del numero delle categorie di ciascuna proprietà incrociata. Se le classificazioni incrociate sono due la tipologia può agevolmente essere rappresentata in una matrice rettangolare; ma al crescere del numero delle categorie la rappresentazione diventa disagevole, e incrociando più di due classificazioni il numero di classi cresce molto rapidamente. La riduzione dello spazio di attributi consiste nella cancellazione di determinate classi, che può essere condotta in diversi modi: ad esempio con la cancellazione delle classi vuote, prive di referenti nel mondo osservato; con la cancellazione di una classe considerata logicamente equivalente ad un’altra, anche se caratterizzata da diversi stati sulle proprietà studiate; o con l’accorpamento di classi dalla bassa numerosità e dalla vicinanza semantica. 6 Ad esempio K. Bailey nella voce Typologies della Encyclopedia of Sociology, New York, MacMillian , 2000 (2a ed.), p. 3180. 7 P. F. Lazarsfeld, Some Remarks on the Typological Procedures in Social Research, in “Zeitschrift fūr Sozialforschung”, 6 (1937), pp. 119–139. 8 P. F. Lazarsfeld e A. H. Barton, Qualitative Measurement in the Social Sciences: Classifications, Typologies, and Indices, in The Policy Sciences, a cura di D. Lerner e H.D. Lasswell, Stanford, Stanford University Press, 1951, pp. 155-192. Vedi anche A. H. Barton, The Concept of Property Space in Social Research, in The Language of Social Research, a cura di P. F. Lazarsfeld e M. Rosenberg, New York, Free Press, 1955. 9 P. F. Lazarsfeld, Some Remarks…, op. cit. 3 - Contare Il numero è un concetto; in particolare, è un concetto riferito ad una quantità. È facile immaginare che i primi numeri ad essere storicamente utilizzati siano stati i numeri naturali, oggi indicati solitamente col simbolo N. A seconda della convenzione utilizzata i numeri naturali corrispondono alla serie {1, 2, 3, 4, …} o a quella {0, 1, 2, 3, 4, …}; da un punto di vista storico, l’introduzione dello zero è sicuramente successiva all’utilizzo degli altri numeri naturali. Nella formalizzazione appena utilizzata, tra parentesi graffe abbiamo l’estensione del concetto ‘numeri naturali’; i matematici hanno però adottato diverse definizioni intensionali per questo insieme, in genere nel contesto di sistemi assiomatici. Ad esempio, B. Russell10 definisce i numeri naturali come “…la posterità di 0 rispetto alla relazione «immediato predecessore» (che è l’inverso di successore).” Adottando una definizione in termini insiemistici, possiamo dire che un numero naturale n corrisponde alla cardinalità di tutti gli insiemi di n elementi, ad esempio, il “3” accomuna a livello di quantità gli insiemi composti di 3 mele, di 3 penne, di 3 libri, ecc. Arabo Romano Sinogiapponese Maya Greco 1 I 一 α 2 II 二 β 3 III 三 γ 4 IV 四 δ 5 V 五 ε 6 VI 六 ς 7 VII 七 ζ 8 VIII 八 η 9 IX 九 θ 10 X 十 ι 11 XI 十一 ια 12 XII 十二 ιβ Tabella 1 - Alcuni sistemi di notazione numerica 10 B. Russell, Introduction to Mathematical Philosophy, London, George Allen and Unwin, 1919. Cit. da ed. it. Introduzione alla filosofia matematica, Roma, Newton Compton, 1970, p. 77. In Tabella 1 vediamo i numeri da 1 a 12 espressi con diversi sistemi di notazione numerica: alcuni comunemente in uso a tutt’oggi, come le cifre arabe o quelle sinogiapponesi; un sistema oggi utilizzato in ambiti ristretti, come le cifre romane; uno completamente in disuso e di interesse meramente storico, quello maya. Oltre a diversi sistemi di cifre, esistono anche diversi sistemi di numerazione: quelli posizionali si distinguono da quelli non posizionali perché in essi il valore di una cifra dipende appunto dalla sua posizione - come nel nostro sistema, nel quale a seconda della posizione una stessa cifra può indicare le unità, le decine e così via. Inoltre, i sistemi di numerazione si distinguono anche a seconda della base: quello che usiamo comunemente è decimale, ossia in base 10: è basato cioè sulle potenze del numero 10. Unità, decine, centinaia corrispondono a 10^0, 10^1, 10^2 e così via11. Nel mondo dell’informatica sono molto usati anche altri due sistemi di numerazione: quello binario, in base due, e quello esadecimale, in base 16. Chiaramente, in questi sistemi la posizione delle cifre corrisponde rispettivamente alle diverse potenze del numero 2 e del numero 16: così ad esempio, il numero 200 in esadecimale (possiamo formalizzarlo come 20016) corrisponde a 512 in decimale: 20016 = (2*16^2)+(0*16^1)+(0*16^0) = 2*256+0+0 = 512 Analogamente, possiamo convertire 10110 dal sistema binario al decimale: 101102 = (1*2^4)+(0*2^3)+(1*2^2)+(1*2^1)+(0*2^0) = 1*16+0*8+1*4+1*2+0*1 = 22 Il sistema binario è utilizzato dai computer per trattare le informazioni ad un livello elementare, ed è quello impiegato per memorizzarle nei supporti digitali: qualunque numero può essere espresso indifferentemente in qualsiasi base, ma i circuiti logici tradizionali su cui erano basati i primi elaboratori elettronici necessitavano di poter assumere i due stati 0/1 come espressione dei valori di verità vero/falso. Inoltre, visto che qualsiasi informazione venga trattata da un computer – rappresenti essa un testo, una canzone, una immagine, un filmato… in ultima istanza per essere elaborata è ridotta a numeri, è molto pratico poter immagazzinare dati ridotti in serie di due sole cifre: così facendo, per rappresentare qualsiasi numero si possono usare le proprietà binarie della polarizzazione magnetica positiva-negativa (come nel caso di floppy disk e dischi fissi) o del comportamento ottico di riflettere o non riflettere un raggio laser (nel caso di CD e DVD). Idem per le vecchie schede perforate, nelle quali la singola unità di informazione 11 Utilizzo la formalizzazione x^n per indicare x elevato alla ennesima potenza, invece del più comune xn, perché il numero in apice si confonderebbe con il rimando alla nota a piè di pagina. era collegata ai due stati perforato-non perforato del singolo punto. In linea di massima, è molto più semplice inventare sistemi di memorizzazione (quindi di rappresentazione) dei numeri che sfruttino stati binari della materia – acceso/spento, riflette/non riflette, positivo/negativo) piuttosto che trovare proprietà della materia che possano assumere dieci diverse configurazioni per rappresentare i numeri in base decimale. Il sistema esadecimale viene invece usato in molti linguaggi di programmazione perché permette una rapida e sintetica traduzione dei numeri decimali, preferiti per la facilità di ‘memorizzazione’, in un sistema che permetta maggiori velocità in fase di calcolo – visto che le sedici cifre del sistema esadecimale (oltre a quelle tradizionali dallo 0 al 9, in questo sistema si impiegano le lettere dalla A alla F) corrispondono a tutte le possibili combinazioni di 4 cifre binarie. Indipendentemente dal sistema di numerazione utilizzato, il conteggio (possiamo anche chiamarlo enumerazione) consiste astrattamente nello stabilire la cardinalità di un dato insieme finito. Prescindendo dalle operazioni materialmente poste in atto per raggiungere lo scopo, contando si stabilisce un isomorfismo tra gli elementi dell’insieme e i numeri naturali; si crea una corrispondenza uno-a-uno tra i due insiemi – quello che stiamo enumerando e quello dei numeri naturali. Indipendentemente dal numero di cifre diverse usate in un sistema di notazione numerica, stabilita la cardinalità dell’insieme possiamo impiegare il numero naturale di pari cardinalità per esprimerla. Consideriamo le operazioni materiali cui ricorriamo per contare: è stato osservato che per insiemi composti da pochi elementi (fino a 4-5) gli esseri umani usano una percezione ‘a colpo d’occhio’, mentre al crescere del numero degli elementi è necessario ricorrere ad artifici (tra cui il più elementare è l’uso delle dieci dita delle mani, che parrebbe spiegare l’ampia diffusione dei sistemi a base 10). Questa percezione immediata della quantità, che non richiede la concettualizzazione della cardinalità, viene definita in inglese subitizing12, termine introdotto da Kaufman13 et al. Osservando i sistemi di cifre in Tabella 1, vediamo che, con l’eccezione dei sistemi alfabetici, in genere il numero 1 è simboleggiato da un singolo segno elementare: il trattino orizzontale nel sistema cinese e giapponese, il trattino verticale per gli antichi romani, il pallino per i maya. Il numero 2 replica due volte il segno elementare, il segno 3 lo replica tre volte. Tuttavia, per ciascun sistema termina presto la corrispondenza tra la cardinalità del numero e il numero di tratti 12 13 Il termine si trova talvolta tradotto in italiano come subitizzazione. E.L. Kaufman, M.W. Lord, T.W.Reese e J. Volkmann, The discrimination number, in “American Journal of Psychology”, 62 (1949), pp. 498-525. Vedi anche E. von Glasersfeld, Subitizing: The Role of Figural Patterns in the Development of Numerical Concepts, in “Archives de Psychologie”, n.50 (1982), pp. 191–218. necessari per tracciarne la cifra corrispondenze: in effetti, il sistema di cifre che si limitasse a tracciare un numero di segni pari alla cardinalità del numero simboleggiato, si rivelerebbe poco pratico. A parte le ovvie difficoltà che ci sarebbero nel rappresentare in quella maniera numeri molto grandi, è sicuramente più semplice distinguere con un’occhiata la differenza tra II e III di quanto non sia, sempre con un’occhiata, dire a che numero corrisponda IIIIIIIII! Gli studi dei linguisti Edward Sapir e Benjamin Whorf sono alla base di una nota ipotesi, detta appunto ipotesi Sapir-Whorf. Questa afferma, in sintesi, che la relazione tra pensiero e linguaggio va interpretata nel senso che l’esperienza quotidiana degli individui influisce sulla struttura del loro linguaggio, e questa a sua volta influisce sulle rappresentazioni del mondo e sul pensiero dei singoli individui. L’influenza tra lingua e pensiero è mediata dalle rappresentazioni culturali, quindi non va considerata come meccanicisticamente determinata14. Alla luce di questo approccio, il caso della popolazione amazzonica Pirahã ha delle implicazioni interessanti rispetto al concetto di numero e al meccanismo di conteggio. La lingua Pirahã – una lingua solo parlata, in quanto questo gruppo etnico non usa alcuna forma di scrittura - ha delle caratteristiche che la rendono più unica che rara. Per esempio, il bassissimo numero di fonemi: otto consonanti e tre vocali (considerando inoltre che le donne usano una consonante in meno rispetto agli uomini). Il fatto che la lingua Pirahã sia traducibile in un linguaggio articolato mediante fischi, modalità usata ad esempio nei contesti di caccia, mostra come l’ambiente e le strutture materiali di sussistenza abbiano potuto influenzare lo sviluppo di questa lingua. Tornando al tema del conteggio, la lingua Pirahã è sprovvista di numerali precisi; ha solo tre termini vaghi per indicare ‘pochi’, ‘alcuni’, ‘molti’15. È stata osservata una certa difficoltà da parte degli adulti Pirahã ad apprendere operazioni matematiche anche semplici, come le addizioni. È stata anche riscontrata una difficoltà da parte dei Pirahã nel distinguere le quantità relative di due insiemi di oggetti, anche se composti da pochi elementi (rispettivamente quattro e cinque); queste evidenze, mostrando la difficoltà per adulti socializzati nel contesto della cultura Pirahã di contare al di là delle piccole capacità coperte dal subitizing, parrebbero confermare sul campo l’ipotesi Saphir-Whorf. 14 Vedi B. Whorf, Language, Thought, and Reality: Selected Writings of Benjamin Lee Whorf, a cura di J. B. Carroll, Cambridge, MIT Press, 1956. 15 Vedi D. Everett, On Metrical Constituent Structure in Piraha Phonology, in “Natural Language & Linguistic Theory”, 6 (1988), pp. 207-246; vedi anche P. Gordon, Numerical cognition without words: Evidence from Amazonia, in “Science”, 306 (2004), pp. 496-499. Fermo restando che il concetto di ‘lingua’ o ‘linguaggio’ è un’astrazione derivata dalle regole poste in atto e trasmesse nel corso dei singoli concreti atti linguistici, ed è cosa diversa dalla competenza linguistica delle singole persone; appare comunque rafforzata l’idea che le operazioni poste (individualmente e socialmente) in atto nella vita quotidiana abbiano le loro conseguenze nel tipo di matematica che un gruppo sociale sviluppa ed applica; e le idee matematiche di un gruppo sociale influenzano la maniera in cui i singoli membri del gruppo interpretano l’oggetto dei loro sensi, il mondo circostante, ed il proprio stesso flusso di coscienza. In una prospettiva che estremizza gli assunti dell’intuizionismo matematico e accoglie spunti di Piaget e Husserl, il costruttivismo radicale riconduce l’operazione di conteggio ad un precedente atto di ‘prassi pre-aritmetica’, ovvero la distinzione di un gruppo di oggetti dell’esperienza in un mucchio o ammasso: in termini più generici, la capacità di percepire un insieme16. Quindi, accettando questo punto di vista: prima viene la capacità di distinguere oggetti discreti nella nostra esperienza soggettiva; in secondo luogo viene la capacità di accomunare fra loro determinati oggetti della nostra esperienza soggettiva, sulla base di determinate caratteristiche che noi individuiamo in questi oggetti; quindi viene la capacità di contare il numero di oggetti discreti che abbiamo idealmente, o materialmente, messo insieme17. La procedura di conteggio viene eseguita in maniera pressoché automatica da parte di chi, a differenza dei Pirahã, abbia appreso a contare nell’infanzia e sia cresciuto in una società il cui linguaggio comprenda regole per costruire i corrispondenti linguistici della sequenza dei numeri reali. La nostra consuetudine con questo tipo di operazione porta a dare per scontati gli atti mentali che conducono ciascuno di noi a concettualizzare le astrazioni che chiamiamo unità, insieme e numero. Come afferma von Glasersfeld: The concept of unit is abstracted from the perceptual operation of combining various sense impressions to form a “thing”; the concept of set is derived by abstracting the plurality of abstract units from a collection of things (i.e. considering an experientially bounded plurality but not the sensory items that were used to generate it); the concept of number arises when number words or numerals have become symbols that tacitly point to a possible count that leads up to them18. 16 E. von Glasersfeld, A Constructivist Approach to Experiential Foundations of Mathematical Concepts Revisited, in “Constructivist Foundations”, I, 2 (2006), p.66. 17 Da notare che solitamente si insegna ai bambini a recitare la sequenza dei numeri prima che essi abbiano formato i corrispondenti concetti astratti di cardinalità; vedi J. Piaget, A. Szeminska, La genèse du nombre chez l’enfant, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1941. Ed. it. La genesi del numero nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1979. 18 E. von Glasersfeld, A Constructivist Approach, op. cit., p. 66. [Il concetto di unità è astratto dall’operazione percettiva di combinare varie impressioni sensoriali per formare una ‘cosa’; il concetto di insieme è derivato dall’astrazione della pluralità di unità astratte da una raccolta di cose (cioè considerando una pluralità esperienzialmente confinata, ma non gli oggetti sensoriali che sono stati usati per generarla); il concetto di numero sorge quando le parole per i numeri o i numerali sono divenuti simboli che tacitamente puntano a un possibile conteggio che conduca ad essi]. Torniamo alle operazioni concrete messe in atto nel conteggio. Quando possediamo la concettualizzazione della cardinalità e vogliamo distinguere la quantità di elementi di un insieme, innanzitutto è necessario essere sicuri di prendere in considerazione una sola volta ciascun elemento dell’insieme stesso. In secondo luogo è necessario stabilire una relazione biunivoca tra gli elementi dell’insieme ed i numeri naturali. Utilizzando un qualsiasi sistema di notazione numerica, stabiliremo una relazione biunivoca tra gli elementi dell’insieme e i simboli che stanno per i numeri naturali in quel particolare sistema. Gli artifici che ci aiutano nel conteggio servono come elemento intermedio tra gli elementi dell’insieme e i numeri naturali: contando ad esempio sulle dita di una mano, stabiliamo una corrispondenza biunivoca tra gli elementi dell’insieme e le dita stesse, ogni elemento un dito, forti del collegamento mentale già stabilito che pone in corrispondenza biunivoca le dita della mano coi numeri da 1 a 10. Da notare che il termine inglese per cifra, digit19, indica anche il dito, significato originario del termine latino digitus da cui deriva. Introduciamo ora alcune ulteriori definizioni, per passare all’operazione di misurazione. La variabile è un concetto (relativo a una qualche proprietà) di cui sia stata data una definizione operativa. Le categorie o modalità di una variabile sono i diversi stati che essa può assumere. La definizione operativa consiste in una serie di procedure volte a individuare i diversi possibili modi di presentarsi di una proprietà e a rilevare lo stato dei casi rispetto alla variabile così ottenuta. Lo stato di un caso rispetto alla variabile è il modo (o il grado) in cui in esso si manifesta la proprietà. 19 da cui il diffusissimo “digitale” per indicare l’informazione trasformata in cifre binarie così come viene gestita dai computer. 4 - Misurare L’atto del misurare consiste in sostanza nel rapportare una quantità incognita di una certa grandezza con una quantità conosciuta della stessa grandezza, convenzionalmente stabilita, definita unità di misura. Nell’accezione comune di ‘misura’ questo tipo di operazione è implicito già nella parola - che deriva dal latino mensura – misura, quantità, derivante da una radice indoeuropea collegata al campo semantico della luna20. In ambito scientifico ci sono almeno due maniere distinte di considerare la misurazione: una riconducibile alla cosiddetta teoria rappresentazionale della misurazione, ed una alla teoria assiomatica della misurazione. Per la teoria rappresentazionale della misurazione, questa consiste in sostanza nella correlazione di numeri con entità che non sono numeri21. In questa accezione è posta con chiarezza la natura relazionale della misura, che non è quindi considerata una proprietà in sé della cosa ma un rapporto tra la proprietà della cosa ed una entità numerica astratta. La teoria assiomatica della misurazione cerca di derivare da un sistema assiomatico l’isomorfismo della struttura empirica oggetto di misurazione con una struttura numerica formale22. In precedenza abbiamo accennato all’ipotesi Sapir-Whorf. Il metodologo di ispirazione fenomenologica Aaron Cicourel la utilizza per mettere in guardia i sociologi dagli eccessi di fiducia nel linguaggio formalizzato della misurazione: The Sapir-Whorf hypothesis suggests that we view the language of measurement as a derivation from our conception of the physical world and the nature of logical and mathematical systems. Thus, science and scientific method as means of viewing and obtaining knowledge about the world around us provide those who accept its tenets with a grammar that is not merely a reproducing instrument for describing what the world is all about, but also shapes our ideas of what the world is like, often to the exclusion of other ways of looking at the world23. [L’ipotesi Sapir-Whorf ci suggerisce di considerare il linguaggio della misurazione come derivato dalla nostra concezione del mondo fisico e dalla natura dei sistemi logici e matematici. Così, la scienza e il metodo scientifico, come mezzi di vedere il mondo attorno a noi ed ottenerne la conoscenza, forniscono a coloro che ne accettano i dogmi una grammatica che non è un mero strumento di riproduzione per descrivere cosa sia il mondo, ma dà forma alle nostre idee su come sia il mondo, spesso escludendo altre maniere di guardare al mondo]. 20 Vedi A. Marradi, Misurazione e scale: qualche riflessione e una proposta, in “Quaderni di sociologia”, XXIX, 4 (1981), pp. 595-639. 21 E. Nagel, Measurement, in “Erkenntnis”, 2 (1931), pp. 313-333. 22 R. D. Luce e L. Narens, Axiomatic Measurement Theory, in “SIAM-AMS Proceedings”, vol. 13 (1981). 23 A. V. Cicourel, Method and Measurement in Sociology, New York, The Free Press of Glencoe, 1964, p. 35. Incorporando il soggetto nell’operazione di misurazione non siamo in presenza, come un approccio positivista ingenuo potrebbe suggerire, ad un mero fattore di distorsione. Lapalissianamente, senza misuratore non ci sarebbe misurazione; la stessa decisione di procedere ad un atto di classificazione, conteggio, misurazione nelle scienze sociali presuppone una serie di ipotesi di partenza, spesso non esplicitate, sulla natura del rapporto tra l’osservatore ed il mondo sociale, e sulla natura delle interazioni che costituiscono il mondo sociale stesso. Stabilire l’esistenza di un isomorfismo tra una proprietà (di un soggetto, di una relazione tra soggetti) e un sistema numerico formale equivale - come verrà reso più evidente nelle sezioni dedicate agli esempi di classificazione, conteggio e misurazione – a postulare come dati quelli che in verità potrebbero essere una serie di costrutti, non problematizzati dall’osservatore che vive immerso nella stessa realtà sociale da cui trae le categorie concettuali che usa per osservarla e per interpretare il frutto delle sue osservazioni. 5 - Stevens e le scale di misurazione Punto di passaggio obbligato per una trattazione della misurazione nelle scienze sociali è il saggio del 1946 On the theory of scales of measurement24, dello psicologo Stanley Smith Stevens. Anche se è stata oggetto di fondate critiche e revisioni, la sua teoria delle scale rimane la sistematizzazione alla base della maggior parte delle trattazioni di statistica per le scienze sociali. Stevens25, riprendendo la definizione di misurazione data da Nagel ed esprimendosi nei termini di una teoria rappresentazionale, definisce la misurazione come “l’assegnazione di numerali ad oggetti o eventi secondo regole determinate”. Procede quindi a differenziare le scale di misurazione in base a diverse regole di assegnazione dei numerali; da queste regole discendono scale con differenti proprietà matematiche, rispetto a ciascuna delle quali è legittima l’applicazione di determinati metodi statistici. In particolare, Stevens presenta quattro scale di misurazione da lui considerate gerarchiche, differenziandole in base alla loro invarianza quando sottoposte a determinate classi di trasformazioni. Stevens distingue le scale: 24 25 S. S. Stevens, On the theory of scales of measurement, in “Science”, 103 (1946), pp. 677-680. S.S. Stevens, On the theory of scales of measurement, op. cit., p. 677. Nominali (nominal scales) Ordinali (ordinal scales) A intervalli (interval scales) Di rapporti (ratio scales). Le scale nominali sono, per Stevens, quelle che restano invarianti per qualsiasi trasformazione mantenga immutata la relazione tra le categorie della variabile e i loro identificatori. Questo significa che prendendo una variabile misurata su scala nominale e cambiando i nomi delle sue categorie (gli identificatori) otteniamo una nuova variabile esattamente corrispondente alla prima. Esempio: considerando la variabile avente a categorie destri/mancini/ambidestri, ferma restando la eventuale definizione operativa che indichi come attribuire i casi alle diverse categorie, possiamo rinominare le tre categorie a/b/c, 1/2/3, D/M/A e così via. La proprietà sottostante a una variabile di questo tipo ha stati discreti non ordinabili: cioè, gli stati della proprietà sono nettamente separati (discreto come opposto di continuo) e tra di essi non si possono stabilire gerarchie, rapporti di inferiore/superiore. Tra le diverse modalità di una variabile su scala nominale (più brevemente, variabile nominale) possono essere solo stabilite relazioni di ‘uguale’ e ‘diverso’. Possiamo dire che un mancino è diverso da un destro, ma non che un mancino sia ‘maggiore’ di un destro. Non è possibile ordinare le diverse modalità, né misurarne la ipotetica distanza; per questo motivo è stato giustamente contestato l’uso del termine ‘scale’ con riferimento a variabili che rientrino in questa categoria. Inoltre, anche se l’articolo di Stevens fa genericamente riferimento a ‘scale di misurazione’, nel caso delle variabili nominali non si pongono in essere vere e proprie misurazioni: piuttosto si effettua una classificazione e un conteggio – o, usando la terminologia introdotta da Marradi26, una ‘classificazione A’, l’individuazione delle categorie della variabile, seguita da una ‘classificazione C’, l’assegnazione dei singoli casi alle categorie individuate27. L’assegnazione dei casi alle categorie non comporta l’utilizzo di unità di misura né la presenza di una sottostante grandezza continua, come sottolineato sempre da Marradi28, pertanto appare incongruo e fuorviante l’uso del termine ‘misurazione’ riferito a questo 26 A. Marradi, Concetti e metodo, op. cit., p. 44. In aggiunta a questi due tipi di classificazione, Marradi introduce anche la “classificazione B”, che è l’elenco di categorie risultato della classificazione A. 28 A. Marradi, Misurazione e scale, op. cit. 27 tipo di variabili. Anche volendo usare cifre numeriche come etichette delle categorie, queste cifre non hanno nessuna proprietà algebrica dei numeri, e quindi non si effettua una misurazione neanche nel senso definito da Stevens stesso come “assegnazione di numerali ad oggetti o eventi secondo regole determinate”: la precisazione di Stevens secondo cui qui c’è la regola di “non assegnare lo stesso numerale a classi differenti, né diversi numerali alla stessa classe” non elimina il fatto che le cifre numeriche eventualmente utilizzate per designare le categorie non sono numerali veri e propri. Nel proseguimento non si farà quindi più riferimento a ‘scale nominali di misurazione’, né a ‘variabili misurate su scale nominali’, ma semplicemente a variabili nominali. Come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla classificazione, solitamente vengono indicati come requisiti fondamentali per una classificazione l’esaustività delle classi, ossia che nell’elencarle vengano presi in considerazione tutti gli stati rilevanti della proprietà sottostante; l’unicità del fundamentum divisionis, ossia del criterio alla base della classificazione; e la mutua esclusività delle classi, ossia che sia possibile attribuire ciascun caso ad una e una sola categoria sulla base del suo stato rispetto alla proprietà trasformata in variabile. Dal momento che le variabili nominali richiedono operazioni di classificazione, valgono anche qui le osservazioni fatte in precedenza sul fatto che la mutua esclusività delle classi non ha un valore assoluto, ma limitato all’ambito della teoria degli insiemi classica, e in molti casi può essere superata con l’utilizzo di formalizzazioni fuzzy. Una variabile nominale che assuma solo due modalità viene definita dicotomica. Una variabile nominale che assuma più di due modalità può essere definita (termine meno comune) politomica. Alcuni ulteriori esempi di variabile nominale: il luogo di nascita di un individuo, la religione professata, la nazionalità. Le scale ordinali restano invarianti per qualsiasi trasformazione mantenga immutato l’ordine dei valori numerici che corrispondono alle diverse modalità della variabile (funzioni isotoniche crescenti). Immaginiamo l’elenco di fermate di una linea della metropolitana: se non abbiamo nessuna altra informazione sulle stazioni (in particolare, se non sappiamo a che distanza esse si trovino l’una dall’altra, o quanto tempo ci metta il treno a raggiungerle) possiamo considerare l’elenco di fermate come una variabile ordinale. Sappiamo l’ordine nel quale il convoglio raggiungerà le diverse stazioni; se le raffiguriamo come i punti lungo un segmento, dando in ordine ad ogni punto il nome di una fermata, immaginando di allungare o accorciare il segmento manteniamo ancora le stesse informazioni che avevamo all’inizio. Così, l’elenco continuerà ad informarci dell’ordine in cui il convoglio incontrerà le varie stazioni anche se modifichiamo arbitrariamente la distanza tra diversi punti. Se siamo in metropolitana a Milano, ad esempio sulla linea verde, e prendiamo un convoglio in direzione Abbiategrasso, incontreremo in sequenza le stazioni: Gioia, Garibaldi, Moscova, Lanza, Cadorna… possiamo assegnare delle etichette numeriche a queste stazioni: 1 – Centrale, 2- Gioia, 3 – Moscova, 4 – Lanza, 5 – Cadorna. Sottoponiamo le etichette delle categorie a una trasformazione come aggiungere 4 a ciascun numero, o moltiplicarlo per 3; otterremo le seguenti serie che hanno lo stesso contenuto informativo di quella di partenza: 5 – Centrale, 6 – Gioia, 7 – Moscova, 8 – Lanza, 9 – Cadorna. 3 – Centrale, 6 – Gioia, 9 – Moscova, 12 – Lanza, 15 – Cadorna. Ma avremo una serie corrispondente a quella di partenza anche se addizioniamo o moltiplichiamo alle etichette valori non costanti, purchè almeno crescenti, ottenendo serie come la seguente: 1 – Centrale, 12 – Gioia, 35 – Moscova, 36 – Lanza, 89 – Cadorna. Chiaramente, nell’esempio la proprietà sottostante alla variabile è l’ordine in cui incontreremo le stazioni; se avessimo avuto come proprietà la loro distanza, la moltiplicazione non sarebbe più stata una operazione legittima, in quanto avrebbe generato una serie non più corrispondente a quella di partenza. Idem per l’uso di valori non costanti come addendi o fattori. E infatti, nel caso della distanza, non staremmo parlando di una variabile ordinale. Prendiamo un altro esempio di variabile ordinale: il “titolo di studio”, e ipotizziamo che questa variabile abbia le categorie “licenza elementare”, “licenza media inferiore” “licenza media superiore” “laurea” “laurea magistrale”. Possiamo attribuire le etichette numeriche 1, 2, 3, 4, 5 alle categorie; siamo in grado di stabilire una relazione gerarchica tra categorie del tipo 1<2<3<4<5. Sommando ai numerali la costante 3 otteniamo la categorizzazione 4, 5, 6, 7, 8, che mantiene invariata la relazione d’ordine: 4<5<6<7<8. La stessa cosa moltiplicando per 2 i numerali che identificano le categorie: otteniamo 2, 4, 6, 8, 10, con 2<4<6<8<10. Anche elevando al quadrato i valori continuiamo ad avere una scala ordinale corrispondente a quella di partenza, 1, 4, 9, 16, 25. La proprietà sottostante una varabile di questo tipo ha stati discreti ordinabili: cioè, gli stati della proprietà sono nettamente separati ed è possibile ordinarli gerarchicamente. Tra le modalità della variabile è quindi possibile stabilire, oltre a relazioni di identità – ‘uguale’ e ‘diverso’, anche relazioni d’ordine, ossia ‘minore’ e ‘maggiore’. Non si può però stabilire quale sia la distanza tra le categorie, solo la loro reciproca posizione: proprio perché è legittima qualsiasi operazione di somma o prodotto con una costante delle etichette numeriche corrispondenti alle categorie, la distanza tra esse non ha alcun contenuto informativo. Potremo quindi dire che una ‘licenza media inferiore’ è maggiore di una ‘licenza elementare’, e che quest’ultima è minore di una ‘laurea’; non avrebbe però alcun senso dire che una ‘laurea’ è il quintuplo di una ‘licenza elementare’, anche se nella nostra classificazione sono caratterizzate dalle etichette 5 ed 1. Una scala ordinale che abbia come categorie 1, 2, 3, 4, 5 corrisponde a una che abbia categorie 1, 4, 9, 16, 25, anche se la distanza tra categorie è costante nella prima scala e varia nella seconda: l’unica proprietà rilevante è la reciproca posizione, non la distanza tra categorie. Le scale a intervalli (o scale a intervalli equivalenti) restano invarianti per qualsiasi trasformazione lineare aggiunga o sottragga una costante ai valori numerici che corrispondono alle diverse modalità della variabile, e restano invarianti per le trasformazioni che moltiplichino o dividano i valori per una costante. In breve, l’invarianza è relativa alle operazioni che non modifichino i rapporti tra le distanze delle categorie. Se ad esempio i valori di una scala ad intervalli sono 3, 4, 5, 6 otterrò una scala equivalente moltiplicando ciascun valore per tre: 9, 12, 15, 18; oppure sommando 6 a ciascun valore, 9, 10, 11, 12. Infatti, per ciascuna delle tre serie esemplificate è costante il rapporto tra le differenze dei valori: (4-3) / (6-5) = 1/1 =1; (12-9) / (18-15) = 3/3 = 1; (10-9) / (12-11) = 1/1 = 1. Per Stevens a differenziare le grandezze che possono essere misurate su questa scala da quelle misurate su scala cardinale è l’assenza di uno zero assoluto, inteso come assenza della proprietà stessa. Stevens cita l’esempio della temperatura misurata su scala Centigradi (C°) e Fahrenheit (F°): dal momento che 0 gradi in queste scale non corrispondono ad un ‘punto zero’ assoluto, ossia all’assenza della proprietà temperatura29, ma solo ad un punto zero convenzionale, possiamo dire che la distanza tra 29 L’assenza di temperatura, stato che in presenza di materia è possibile solo in via teorica, si ha a −273,15 C°, pari a 0 gradi kelvin. Lo 0 della scala Celsius corrisponde, nella formulazione di Celsius stesso, al punto di congelamento dell’acqua alla pressione atmosferica standard; lo 0 della scala Fahrenheit corrisponde alla temperatura dello scioglimento di una mistura di acqua e sale. 20° e 30° è la medesima che passa tra 50° e 60°, ma non possiamo affermare che 60° sia una temperatura doppia di 30°. Tra le modalità di una variabile misurata su scala a intervallo è quindi possibile stabilire, oltre alle relazioni possibili tra valori di variabili nominali (relazioni di uguaglianza/differenza) e quelle possibili tra valori di variabili misurate su scale a intervalli (relazioni di ordine), anche relazioni di distanza tra categorie. In realtà, con l’eccezione del tempo cronologico, nelle scienze sociali è piuttosto raro avere variabili misurate su scala ad intervalli; tuttavia è frequente che scale ordinali vengano trattate come scale ad intervalli, il che consente il calcolo della media aritmetica dei valori (operazione non legittima per le variabili ordinali). Questa approssimazione ad una scala ad intervalli è particolarmente frequente per le scale Lickert, ampiamente usate nei sondaggi d’opinione. Per potere calcolare un punteggio medio, è necessario assumere che le categorie della scala siano equidistanti; tuttavia, talvolta questa assunzione è lungi dall’essere dimostrata e ciononostante si procede ugualmente al calcolo della media. Le scale di rapporti rimangono invarianti per qualsiasi trasformazione mantenga costanti i rapporti tra i valori numerici che corrispondono alle diverse modalità della variabile. In questo caso, possiamo esclusivamente moltiplicare i valori delle categorie per una costante, ma non addizionare (o sottrarre) loro una costante. Prendiamo ad esempio una scala di rapporti che abbia come categorie 1, 2, 3, 4. Moltiplicando i valori per 4 otteniamo la scala corrispondente 4, 8, 12, 16; i rapporti tra categorie sono invarianti, infatti 2/1 = 8/4 = 2, 4/2 = 16/8 = 2, e così via. Se avessimo invece addizionato una costante, ad esempio sommando 5 a tutti i valori ottenendo la scala 6, 7, 8, 9, i rapporti tra categorie non sarebbero stati costanti: 2/1 ≠ 7/6, 4/2 ≠ 9/7, e così via. Questo tipo di scale manifesta tutte le proprietà delle scale precedenti – uguaglianza, ordine tra categorie, uguaglianza tra intervalli, e in più possiede l’uguaglianza tra rapporti. Una grandezza continua, che abbia uno zero assoluto, può essere secondo Stevens misurata su scala di rapporti. Consideriamo l’esempio classico della lunghezza: nel sistema metrico decimale viene convenzionalmente misurata in metri, ma esistono sistemi di misurazione basati su differenti unità di misura. Così, per trasformare una lunghezza misurata in metri in una misurata in piedi (feet), bisogna moltiplicare la misura per circa 3,281. 1 metro = 1 * 3,281 = circa 3,281 piedi. Tipo di variabile Nominale Su scala ordinale Operazione empirica Uguaglianza Minore, base maggiore Tipi di trasformazione x'=f(x), con x'=f(x), con possibili f(x) qualsiasi f(x) quasiasi funzione di funzione sostituzione 1:1 monotona crescente Su scala a intervalli Uguaglianza di intervalli x'=ax+b Su scala di rapporti Uguaglianza di rapporti x'=ax Tabella 2 – Schema della teoria delle scale di Stevens30 Il metodologo italiano Luca Ricolfi ha introdotto una ulteriore distinzione nell’ambito delle variabili misurate su scala di rapporti, a seconda che la grandezza oggetto della misurazione sia o meno trasferibile. Nel caso di grandezze trasferibili (ad esempio quantità di beni, denaro), Ricolfi usa il termine scala di quantità. Nel caso di grandezze non trasferibili (ad esempio la statura), Ricolfi usa il termine di scala metrica. 6 - Critiche a Stevens La teoria delle scale di misurazione di Stevens è stata fatta oggetto di numerose critiche, alcune delle quali ho introdotto nel capitolo precedente. Alcuni metodologi31 contestano l’importanza data da Stevens alla presenza del ‘punto zero’ nella distinzione tra scale di rapporti e scale a intervalli, osservando che la linea temporale non è con certezza dotata di un punto zero e ciononostante il tempo viene comunemente considerato una variabile cardinale. Marradi predispone32 una suddivisione alternativa a quella proposta da Stevens, suddivisione che si basa sulle operazioni concrete di classificazione, conteggio, misurazione poste in essere in relazione ai diversi tipi di variabili, anziché sulle proprietà matematiche dei risultati delle operazioni stesse. In questa suddivisione abbiamo: 30 Tabella adattata da S.S. Stevens, On the theory of scales of measurement, op. cit., p. 678. Vedi ad es. A. Marradi, Misurazione e scale, cit.; C. Guala, Metodi della ricerca sociale, Roma, Carocci, 2000. 32 A. Marradi, Concetti e metodo, op. cit., pp. 47 e segg.; Misurazione e scale, op. cit. 31 Variabili nominali, che discendono da una classificazione; Variabili ordinali, che discendono da una classificazione e da un ordinamento; Variabili cardinali, che discendono da una misurazione (scale metriche) o da un conteggio (scale assolute). Mentre le variabili nominali e quelle ordinali della suddivisione di Marradi corrispondono alle variabili misurate su scala nominale ed ordinale secondo Stevens, è necessario soffermarsi sulle variabili cardinali, in quanto sono le uniche ad essere realmente oggetto di misurazione in senso proprio. Per le variabili nominali e quelle ordinali abbiamo in realtà un conteggio del numero di casi riconducibile a ciascuna modalità della variabile stessa; i tre requisiti che permettono una misurazione o un conteggio in senso proprio sono posseduti solo dalle variabili cardinali. Chiaramente, la proprietà sottostante una variabile cardinale su scala metrica ha uno stato continuo; quella sottostante una variabile cardinale su scala assoluta ha stati discreti enumerabili. Una specificazione ulteriore di Marradi introduce le variabili quasi-cardinali, che sono quelle variabili cardinali su scala assoluta per le quali si suppone una proprietà sottostante di tipo continuo, ma per la quale non si dispone degli strumenti adatti ad una misurazione vera e propria. Questo tipo di variabile rientra in quelle che per Stevens sono misurate su scala a intervalli; è legittimo applicare alle variabili quasi-cardinali gli strumenti statistici propri delle variabili cardinali vere e proprie solo assumendo l’equidistanza delle categorie. 7 - Variabili nominali: problemi di metodo Le variabili nominali sono le meno problematizzate, probabilmente per il ristretto numero di strumenti di analisi statistica che si può applicare loro. Ma questo non significa che non si debbano adottare cautele metodologiche quando si ha a che fare con variabili nominali; anzi, il fatto che spesso queste emergano da classificazioni proprie delle strutture culturali del ricercatore o degli attori sociali (o di entrambi, quando come spesso accade appartengono alla stessa cultura di riferimento) deve indurci a una attenzione particolare. A seguire un paio di esempi. Il sesso, inteso come dato sociometrico, viene in genere portato come esempio di variabile nominale dicotomica; viene quasi universalmente rilevato attraverso semplici domande a scelta duplice come la seguente: 1 - Sesso (barrare la casella corrispondente) M F La proprietà latente sottostante questa variabile, così come viene comunemente operativizzata e rilevata, è l’identità sessuale anagrafica. Il sesso, o identità sessuale, inteso come proprietà biologica non è in realtà una variabile dicotomica: basta considerare la presenza in natura dell’ermafroditismo anatomico - per quanto raro, possibile con diversi gradi e modalità - per cui un individuo presenta caratteristiche dell’uno e dell’altro sesso. O consideriamo la sindrome di Morris (sindrome dell’insensibilità periferica agli androgeni, AIS33), per cui determinati individui vengono concepiti come maschi, hanno un corredo genetico maschile (cromosomi XY) ma presentano una rara anomalia nell’assimilazione dell’ormone androgeno, che può determinare lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari e della conformazione fisica femminile pur in presenza di testicoli che rimangono interni all’addome. In questo senso è possibile da un punto di vista biologico distinguere l’identità sessuale fenotipica da quella genotipica: il fenotipo è la struttura fisica dell’organismo come materialmente si sviluppa, il genotipo è il corredo genetico dell’individuo. Parimenti, l’identità sessuale come costrutto sociale o vissuto soggettivo presenta sicuramente più articolazioni delle due scelte M/F: consideriamo oltre agli ovvi travestitismo, transessualismo, omosessualità anche la figura del castrato o eunuco, storicamente presente in Europa, nell’impero cinese fino agli inizi del ventesimo secolo, o – sempre con ruoli socialmente definiti - nell’impero ottomano; oppure consideriamo nella società indiana - anche contemporanea - la categoria degli hijra, gruppo sociale caratterizzato in maniera autonoma sulla base della differenza sia dagli uomini che dalle 33 J. M. Morris, The syndrome of testicular feminization in male pseudohermaphrodites, in “American Journal of Obstetrics and Gynecology”, 65 (1953), pp. 1192-1211. donne, composto da eunuchi e travestiti34. Quindi, il concetto sottostante al termine ‘sesso’ può essere operativizzato in maniera diversa dalla tradizionale variabile nominale dicotomica, se ad esempio dall’identità sessuale anagrafica si passa alla sua concreta determinazione biologica, o alla sua accezione culturale – il che può essere necessario, nel caso di studi sociali sull’identità di genere o nel contesto di studi di antropologia culturale. Prendiamo un altro esempio di variabile nominale, l’attribuzione etnica. Negli Stati Uniti d’America ogni 10 anni viene tenuto un censimento, il Decennial Census, previsto dalla stessa Costituzione statunitense (Art.1, sez.2). L’ultimo Decennial Census si è svolto nel 2000. Una serie ristretta di informazioni viene raccolta sotto forma di censimento effettivo, relativo alla totalità della popolazione; parallelamente si raccolgono con campionamento informazioni su un numero molto maggiore di variabili. Alle domande 7 ed 8 del questionario breve sottomesso all’intera popolazione, si chiede al rispondente35 (grassetti nel questionario originale): 7 – La persona 1 è Ispanica/latina36? Marcare con una x la casella “No” se non Ispanica/latina. Le possibili risposte sono: 34 - No, non Ispanico/Latino - Si, Messicano, Messicano Am., Chinano - Si, Portoricano - Si, Cubano - Si, altro Ispanico/Latino – scrivere il gruppo G. Reddy, With Respect to Sex: Negotiating Hijra Identity in South India, Chicago, University of Chicago Press, 2005. 35 Nel questionario, viene identificata come persona 1 il proprietario residente dell’immobile o della residenza semovente presso la quale si somministra il questionario stesso, oppure il residente che ne paghi l’affitto ed in assenza un adulto qualsiasi. 36 Il questionario in lingua inglese usa i termini Spanish/Hispanic/Latino. 8 - Qual è la razza37 della persona 1? Marcare con una x una o più razze per indicare cosa questa persona si consideri essere. Le possibili risposte sono: - - Bianco Nero, Afro-americano, Negro38 Indiano Americano o Nativo dell'Alaska scrivere il nome della tribù principale o di iscrizione Indiano d’Asia Cinese Filippino Giapponese Coreano Vietnamita Altri asiatici – scrivere la razza Nativo Hawaiano Guamaniano o Chamorro Samoano Altri del pacifico – scrivere la razza Altre razze – scrivere la razza. L’attribuzione etnica, in questo censimento ufficiale, viene effettuata dal rispondente stesso. Volendo procedere altrimenti, gli estensori del questionario (il Census Bureau del Dipartimento del Commercio) avrebbero dovuto stabilire un esplicito fundamentum divisionis, impresa quantomeno ardua. Le categorie ‘razziali’ sono infatti un classico esempio di quelli che Wittgenstein chiamava “insiemi a somiglianza di famiglia” 39: insiemi che non sono caratterizzati da un unico discernibile criterio di appartenenza, e che oltretutto presentano attribuzioni sfumate. Insiemi di questo tipo fanno l’effetto della fotografia di una famiglia, osservando la quale percepiamo un’aria appunto familiare tra le varie persone ritratte senza però poter identificare univocamente un singolo tratto comune – alcune persone potrebbero avere un simile taglio degli occhi, altri labbra dalla forma simile, e così via… Sicuramente il Census Bureau intende il termine race in un senso prossimo al nostro ‘etnia’, ciononostante bisognerebbe sapere cosa intendono i vari rispondenti per lo stesso termine, in quanto sono loro a indicare la propria ‘race’. Va osservato come nel questionario si distinguano differenti ‘races’ asiatiche – cinese, 37 Il termine inglese “race” non ha necessariamente le connotazioni negative assunte dall’italiano “razza” quando usato per distinguere gruppi umani. 38 Il questionario in lingua inglese usa i termini Black, African Am., or Negro. Quest’ultimo termine, come il corrispondente italiano, ha nell’inglese contemporaneo diverse connotazioni dispregiative. 39 In L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, op. cit. giapponese, filippina, coreana, vietnamita... – mentre si fa riferimento ai bianchi senza ulteriori differenziazioni pure possibili allo stesso livello di astrazione concettuale (slavi, mediterranei, baltici…). Da osservare anche come sia possibile al rispondente fornire risposte multiple, e vi siano diversi campi aperti: in fase di decodifica sono risultate 132 differenti tipologie di attribuzione razziale40, la maggior parte delle quale sono poi cumulate in una voce residuale nelle tabelle che presentano i risultati in forma sintetica. Il punto è che ci sono alcuni tratti esteriormente appariscenti che vengono abitualmente collegati con l’appartenenza etnica; questa però è un costrutto socioculturale che trascende il dato meramente biologico – gia di per sé oltremodo variegato e riducibile con difficoltà in categorie dai confini rigidi - ed ha molto a che fare con problematiche complesse come i meccanismi sociali e individuali di definizione del sé e dell’altro. 8 – Alcuni problemi epistemologici Abbiamo visto alcune differenti concezioni di cosa siano la misurazione, il conteggio, la classificazione; queste concezioni differiscono principalmente per la maniera di considerare le proprietà formali dei numeri in cui le grandezze vengono trasformate. C’è però un altro ambito di problemi da considerare: ed è quello del misuratore, del classificatore, di colui che conta. Spesso, nel contesto delle ricerche cosiddette quantitative, il soggetto che compie queste operazioni viene considerato solo come una fonte di possibili errori, ed è stato trattato appunto nel senso di controllare il più possibile gli errori e le distorsioni – di conteggio, di misurazione - da lui prodotti. Ma spostando la questione su un piano epistemologico, ci rendiamo conto che emerge un nuovo complesso ambito di problematiche da non sottovalutare: problematiche in parte comuni a qualsiasi atto conoscitivo, e che riguardano la natura stessa della cognizione. Ad esempio, cosa sono le grandezze che come osservatori procediamo a misurare? Sono proprietà degli oggetti, del ‘mondo esterno’, o sono proprietà della nostra relazione col mondo esterno? Ancora più radicalmente, come possiamo essere sicuri che gli atti cognitivi ci comunichino qualcosa su un mondo esterno? Da un punto di vista logico sarebbe stato più corretto affrontare questi problemi prima di introdurre quei tipi particolari di atti conoscitivi che sono la classificazione, il conteggio e la misurazione; ma così come impariamo a osservare e manipolare la ‘realtà’ ben prima di iniziare a domandarci quale ne sia la natura, così ho pensato fosse meglio 40 Oltre a 78 distinte tribù indiane americane o di nativi dell’Alaska e 39 gruppi etnici ispanico/latini; dati dell’U.S. Census Bureau. prima addentrarci un poco nello specifico delle operazioni concettuali e materiali poste in essere nel corso della ricerca sociale, e solo alla fine allargare il discorso ai diversi approcci epistemologici e alle possibili conseguenze che questi possono avere rispetto a questo ambito della ricerca sociale. Il metodologo Donald Thomas Campbell ha criticato l’approccio positivista41, chiamando ‘definitional operationism’ (operazionismo definizionale) l’atteggiamento, per l’appunto di derivazione positivista, secondo il quale in una teoria scientifica le operazioni di misurazione siano di per sé in grado di essere utilizzate come termini definitori del procedimento scientifico. Secondo il positivismo deteriore criticato da Campbell, un procedimento è scientifico se definisce le proprie grandezze nei termini di definizioni operative. Campbell evidenzia come sia in realtà impossibile tenere materialmente conto in sede di definizione operativa di tutte le caratteristiche del procedimento di rilevazione del dato. Questa impossibilità può impedire di identificare, in quanto non se ne è dato conto in definizione operativa, alcune variabili che sono state fondamentali nel determinare il risultato del processo stesso di misurazione e che sfuggono così al modello esplicativo o descrittivo del ricercatore. Campbell fa un esempio preso dalle scienze fisiche42: il galvanometro è uno strumento usato per misurare l’intensità di una corrente elettrica; in esso, una bobina e’ in grado di muoversi per effetto di un campo magnetico generato dalla corrente elettrica che si fa passare per lo strumento, e il movimento della bobina si trasmette ad un ago usato come indicatore su un apposito quadrante. Un approccio operazionista definirebbe quindi l’intensità della corrente come la grandezza rilevata dal galvanometro; eventualmente procederebbe a descrivere come dev’essere fatto un galvanometro standard, e a fornire protocolli per il suo utilizzo in ambito sperimentale. Ma, osserva Campbell, oltre alla corrente elettrica da misurare ci sono molte forze che agiscono sul galvanometro nel momento in cui lo impieghiamo: la frizione tra le parti meccaniche del dispositivo, l’inerzia operante per il loro stesso peso, le influenze da parte del campo elettromagnetico terrestre… quindi, lo scienziato tenta di minimizzare l’influenza delle influenze di cui sia consapevole riducendole (attraverso correzioni nel disegno dello strumento di misurazione) fino al punto in cui esse non siano in grado di interferire significativamente con la misurazione, e tuttavia possono ugualmente insorgere situazioni in cui l’interferenza supera le ‘barriere’ poste in definizione operativa. Non è quindi possibile considerare logicamente l’operazione del misurare come definitoria della grandezza 41 D. T. Campbell, Definitional versus multiple operationism, in Methodology and Epistemology for Social Science, a cura di E. S. Overman, Chicago, University of Chicago Press, 1988, pp. 31-36. 42 D. T. Campbell, Definitional versus multiple operationism , op. cit., p. 32. misurata, intesa come parametro teorico della struttura concettuale di partenza. Se dal campo degli strumenti usati nelle scienze naturali si passa a quelli impiegati nelle scienze sociali, le cautele cui Campbell invita appaiono pienamente motivate: impiegare in maniera definitoria un concetto sociometrico così come emerge da una definzione operativa porta a trascurare tutto quello che, pur non rientrando nella definizione operativa, può influenzare anche in modo determinante i risultati delle operazioni condotte in fase di rilevazione. Inoltre, spinge a non approfondire le premesse teoriche che hanno condotto a privilegiare un determinato tipo di operativizzazione rispetto alle altre possibili. Contro i rischi di un simile approccio, Campbell sostiene il ricorso ad un ‘operazionismo multiplo’, che indaghi ciascuna variabile facendo ricorso ad una pluralità di strumenti il più indipendenti possibile in modo da minimizzare il rischio di essere fuorviati da strumenti ‘calibrati male’, e ricorrendo a una pluralità di misurazioni, in modo da sfruttare l’eventuale convergenza di una serie di misure. Chiaramente, l’’operazionismo multiplo’ non può fondare sulle definizioni operative lo status delle grandezze da misurare: esse devono trarre fondamento da una esplicitazione delle premesse teoriche, metodologiche ed epistemologiche, del ricercatore. Conclusioni In queste pagine ho esposto sinteticamente alcuni concetti centrali in molte trattazioni di metodologia della ricerca sociale, cercando di introdurre spunti e stimoli interdisciplinari, senza tralasciare il mondo concreto della ricerca sociale così come viene praticata quotidianamente. Spesso, giustamente, il ricercatore sociale è invitato a problematizzare il mondo sociale, quello stesso mondo che nella vita di tutti i giorni viene dato per scontato. Qui si è tentato soprattutto di problematizzare alcuni aspetti della struttura concettuale attraverso la quale giungiamo a conoscere, o a credere di conoscere, il mondo. Le operazioni attraverso le quali arriviamo a costruire le rappresentazioni mentali della realtà da studiare sono altrettanto importanti degli strumenti con i quali indaghiamo, con pretese di scientificità, questa stessa realtà sociale. Affinché le pretese di scientificità siano ragionevolmente fondate serve un metodo, ma serve anche la visione del mondo sulla base della quale il metodo viene scelto o elaborato; e se la metodologia della ricerca, l’epistemologia, la sociologia della conoscenza, le scienze cognitive hanno detto molto sui meccanismi individuali e collettivi che concorrono a costruire le visioni del mondo, molto c’è ancora da dire. 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