Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Quando Mike Leigh si cimenta nel biopic lo fa, naturalmente, con il suo tocco. L'aria un po' sfilacciata della trama del film ne è in realtà un punto forte, poiché evita in questo modo di cedere troppo al 'romanzo' per concentrarsi sul tentativo di raccontare con verità quanto ricostruito attraverso lunghe e minuziose ricerche d'archivio. Punto debole è forse ciò che più accontenta il grande pubblico, l'indulgere al racconto della vita privata e dei suoi dettagli, nonché l'anacronismo che fa del più grande paesaggista romantico di tutti i tempi un precursore di tendenze artistiche moderne come l'espressionismo astratto. scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: sceneggiatura: fotografia: montaggio: musiche: scenografia: costumi: trucco: distribuzione: 149 MINUTI REGNO UNITO 2014 MIKE LEIGH MIKE LEIGH DICK POPE JON GREGORY GARY YERSHON SUZIE DAVIES JACQUELINE DURRAN CHRISTINE BLUNDELL BIM interpreti: TIMOTHY SPALL (William Turner), DOROTHY ATKINSON (Hannah Danby), MARION BAILEY (Sophia Booth), PAUL JESSON (William Turner Sr.), LESLEY MANVILLE (Mary Somerville). premi e nomination: 2015, Premio Oscar, Nomination Migliore fotografia, Migliore scenografia, Migliori costumi, Migliore colonna sonora; British Academy Film Awards, Nomination Migliore fotografia, Migliore scenografia, Migliori costumi, Miglior trucco; 2014, Festival di Cannes, selezione concorso Palma d'Oro, Miglior interpretazione maschile per Timothy Spall; New York Film Critics Circle Awards, Miglior attore protagonista; European Film Award, Migliore attore. Mike Leigh Regista britannico nato a Manchester nel 1943, Mike Leigh diviene popolare in tutto il mondo per il film Segreti e bugie, nel quale è evidente l'atteggiamento disilluso ma non pessimista dell'autore, sempre attento a descrivere l'umanità con i suoi numerosi piccoli e grandi difetti quotidiani, ma anche con una sorta di umanistica comprensione più che con giudizio o amarezza. Anche Leigh viene solitamente incluso nel cosiddetto “realismo sociale” insieme a Loach ed altri registi, per via della sua attenzione a non edulcorare il reale ma a raccontare con attenzione storie semplici e comuni di persone spesso appartenenti alla classe popolare, spesso ambientate a Londra in età contemporanea. Segreti e bugie vince la Palma d'oro a Cannes nel 1996 ed è in quel momento che anche in Italia si possono iniziare a vedere anche le opere precedenti di Leigh. Dopo studi di arte, teatro e cinema, Leigh si occupa dapprima di teatro, quindi trova lavoro presso la televisione. Al suo primo lungometraggio cinematografico, Bleak Moments, fanno seguito numerosi cortometraggi e lungometraggi per la tv. Nel 1988 fonda a Londra, insieme al produttore Simon Channing Williams, una società di produzione cinematografica che segna una svolta nella sua carriera. Tra i primi nuovi lavori per il cinema esce Belle speranze (1988), una storia corale ambientata a King's Cross, tra coppie borghesi, alcune delle quali segnate dall'egoismo dominante. Un affresco sociale di grande efficacia. In Italia si fa conoscere con Naked (1993), per poi conquistare anche un certo successo commerciale con Segreti e bugie. Segue un primo lavoro storico biografico, Topsy-Turvy (1999), sugli autori del teatro comico vittoriano Gilbert e Sullivan, e alcuni film molto attenti alle figure femminili, sempre portatrici di una certa emancipazione e senso di giustizia e libertà, come nell'acclamato Il segreto di Vera Drake (Leone d'oro a Venezia nel 2004) o nel film 'minore' ma a suo modo geniale La felicità porta fortuna - Happy Go Lucky (2008), con il quale si rituffa nella quotidianità contemporanea per raccontare un buffo personaggio, capace di tenere insieme i pezzi della vita propria e in parte altrui tra desideri e difficoltà. Con Another Year (2010) dipinge la vita di una coppia di pensionati, attraverso i quali ancora una volta fa emergere un ritratto disincantato della società inglese, dibattuta tra contraddizioni, cinismo e una speranza condita di affetti e di humour. La parola ai protagonisti Intervista a Mike Leigh Il suo film non è un classico biopic in cui si racconta la vita di un’artista, ma una riflessione sull’arte e sulla vita. Sì, a un certo livello sì, non è un biopic, non ha una costruzione narrativa causale, ma una serie di immagini che sommate fanno una vita, è sicuramente una riflessione sull’arte e su quello che vuol dire essere un’artista. Non si vede il moto creativo perché è impossibile rappresentarlo, ma comunque nel film rifletto sulla figura dell’artista, un’occupazione che è anche fisicità, il sublime che si accompagna alla fatica: un aspetto che mi affascina. Nel suo film non cerca di imbellire fatti e personaggi, una scelta in controtendenza rispetto ai biopic che vanno per la maggiore a Hollywood. Credo che il successo del film sia dovuto anche a questo: quando si realizza un film sulla vita di un artista del genere ci si confronta con immagini iconiche, con miti che si decide di sfidare. Non solo in Turner, ma anche in tutte le mie pellicole cerco sempre di mostrare persone e vite vere: il sesso, l’amore non sono belli come nei film, perfino a Los Angeles le persone non sono belle come nei film di Hollywood. Fin da piccolo ho cercato la vita vera e ho sempre cercato di rimanere fedele a questa idea: all’epoca di Turner non si facevano mai la doccia, il grande artista non è una figura angelica, non lo si può rappresentare come se i suoi quadri fossero una proiezione ectoplasmatica della sua testa. Gli artisti si sporcano le mani. Comunque potrei farci un film di fantascienza su questa idea: artisti che creano opere come se fossero ectoplasmi. Come mai ha deciso di mostrare nel film l’esperimento sul magnetismo? Turner era affascinato dalla scienza, ha compiuto studi sui negativi e la fotografia ed era affascinato dai treni, era curioso e intrigato dal progresso: credo che tutti i cambiamenti che ha vissuto lo abbiano formato come persona e abbiano contribuito alla sua sensibilità di artista. Tutti gli artisti si alimentano di quello che vedono. La scena della boa alla Royal Academy è accaduta davvero? Sì, è accaduta veramente, ci sono delle prove di questo episodio. Abbiamo costruito il suo ritratto a partire da tutte le fonti che avevamo e abbiamo scoperto che Turner era un uomo come tutti: amava bere, scopare e fare battute. Nel film il critico d’arte John Ruskin non è molto apprezzato da Turner: è un suo modo per esprimere l’opinione che ha dei critici? No, era la rappresentazione di quella persona, Turner in particolar modo lo riteneva un cazzone, apprezzava il suo entusiasmo e soprattutto la ricchezza di suo padre che comprò diversi suoi quadri, ma fondamentalmente lo considerava un fesso. Come mai ha deciso di raccontare la vita di Turner per episodi? Non avrei saputo raccontare la storia in un altro modo: per me non è frammentata, credo sia importantissimo dare a un film una fluidità, un movimento, come nella musica. In realtà il film ha una sua sinuosità, un’architettura ben precisa. L’azione si sviluppa in 26 anni quindi il modo di raccontare più adatto per me era questo. Il grugnito particolare che Timothy Spall fa per caratterizzare Turner è un fatto storicamente accertato? O è un aspetto che avete aggiunto per costruire il personaggio? Sono abituato a mostrare persone così come sono nella vita vera e all’interno del loro comportamento. Abbiamo trovato diverse testimonianze su Turner e pare che effettivamente grugnisse, facesse strani rumori, fosse caustico e a volte rispondesse con monosillabi. Ha sempre pensato a Timothy Spall come interprete ideale? Non ho chiesto a nessun altro di recitare la parte: ho sempre pensato che Spall fosse il più adatto. La sua preparazione è durata due anni e mezzo: ha imparato davvero a dipingere. Quando ha capito che quella di Turner era una storia che voleva raccontare? Anni fa mi trovavo alla National Gallery a osservare un suo quadro e ho pensato che poteva essere una bella storia. Poi mi sono documentato sul Turner privato, non il grande pittore, e sono rimasto colpito dal contrasto tra l’artista e l’uomo. Da narratore di storie la affascina il fatto che un pittore abbia a disposizione una sola immagine per raccontare una storia intera? In un certo senso sì: un regista racconta una storia ad ogni fotogramma e possiamo dire che la scelta dell’inquadratura è fondamentale, è come la prospettiva per un pittore, anche se, a differenza della pittura, il cinema ha il vantaggio del movimento e del tempo. Recensioni Gabriele Niola. Mymovies.it (…) C'è più d'un riferimento in Mr. Turner al fatto che il pittore protagonista della storia sia probabilmente uno dei più grandi paesaggisti di sempre, un artista determinante nello sviluppo di quel particolare tipo di pittura. Turner è in sostanza un colosso dell'arte visiva e della sua vita Mike Leigh decide di affrontare unicamente l'ultimo periodo, quello in cui era già sufficientemente affermato da vivere il proprio status di pittore noto (con tutti i favori e i problemi che questo comporta). Sebbene la scansione del film non si distacchi in nulla dai canoni del genere biografico (con poco riguardo per ciò che rendeva straordinario il lavoro del protagonista e molta attenzione alla sua vita privata), Mike Leigh cerca lo stesso di cesellare con finezza, di scena in scena, una visione del mestiere artistico. In Mr. Turner infatti ogni evento della vita privata sembra non essere capace di rimanere confinato in essa e getta più d'una luce riflessa sulla professione, si intavola così un discorso estremamente complicato, e purtroppo non sempre risolto con efficacia, sull'istinto vitale insito nell'arte. Inaffidabile, umorale, ombroso, orso ed egoista con Turner si empatizza non senza un certo grado di senso di colpa e principalmente attraverso quella postura da mr. Hyde messa in scena da Timothy Spall, immensa antenna catalizzatrice di tutto ciò che avviene, una spugna che tutto prende e pochissimo rilascia così che ad ogni suo grugnito scatti una piccola risata. In tal senso non manca di barare Mike Leigh, di passare cioè per un po' d'ironia così da donare simpatia ad un personaggio apertamente antipatico, riuscendo a non tradire la realtà storica e contemporaneamente guadagnare il consenso dello spettatore per giungere al suo obiettivo: la fascinazione della battaglia umana per la conquista dell'arte, vista senza sconti e senza eufemismi. Sono infatti quelle relative all'instancabile volontà di disegnare di Turner le parti migliori di un film altrimenti meno riuscito degli ultimi straordinari ritratti umani cui il regista inglese ci ha abituato. Ma se quella dell'artista come macchina affamata di creatività è una visione abbastanza abusata, Leigh cerca di comunicare con ancor più minuzia una forma particolare di bramosia del "vedere" come l'inizio di tutto. Il suo Turner è disposto ad ogni cosa per "vedere", in un'epoca in cui poter ammirare un paesaggio particolare o un evento raro erano occasioni imperdibili per un occhio raffinato. In delicatissimo equilibrio tra realismo ed espressionismo, tra rappresentazione del mondo per com'è e per come lo vede il Turner visto da Leigh, con facile parallelismo, diventa il primo (inconsapevole) cineasta della storia, non tanto per i suoi quadri ma per l'atteggiamento nei confronti del'arte. Attraverso le sue alterne fortune dunque Leigh cerca di mettere in tempesta le acque che solitamente vengono rappresentate come calme. Non esalta l'artista ma, specie nella doppia chiusa, ne sottolinea l'incoerenza e la colpevole mancanza di qualsiasi pianificazione, sostituita da un famelico desiderio di "fare" dopo aver "visto", senza logica (immancabili le beffe della critica) ma con solo istinto. Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa Fu afflitto in giovinezza da una madre pazza, visse trent’anni con l’amato padre, ex barbiere che gli faceva da assistente: la sua scomparsa lo gettò in una grave depressione e a quel punto, siamo nel 1829, J.M.W. Turner di anni ne aveva già 55. Si concentra sull’ultimo periodo di vita dell’artista il film (...) di Mike Leigh, che provvede a scrollare ogni polvere museale dall’immagine dell’immenso personaggio, restituendone un ritratto vivo e terragno. Mai sposato, padre di due figlie non particolarmente amate, Turner intrecciò un’unica durevole relazione (con la vedova Sophie Booth) solo dopo la morte del genitore. Il suo primo biografo George W. Thornbury (1862) lo descrive di aspetto ordinario, basso, claudicante, riservato, parlatore poco brillante, ma anche divertente e gentile. E un fantastico Timothy Spall (scandalosamente ignorato dall’Academy) lo incarna in tutte le sue umane contraddizioni, ruvido e sensibile, frugale e affettuoso, mentre si esprime in inarticolati accenti gutturali o mentre animalescamente copula. Ma nello stagliarsi contro i tattili paesaggi pittoricamente evocati dalla fotografia di Dick Pope - mutevoli regni di luce nei quali «il sole è dio» (le sue ultime parole) - il piccolo uomo assume la statura di un Titano, affascinato dal sublime della natura e in grado di coglierne gli stati d’animo (ovvero l’essenza divina) con più verità di chiunque altro. Il gesto ampio del pittore è buono per il cinema e da come Spall tiene il pennello in mano si intuisce quanto deve essersi esercitato. Dal canto suo, Leigh mette in mostra tutta la sua raffinatezza di uomo di spettacolo abilmente intrecciando i fili della vita e dell’arte: come quando spalanca le porte sulla radiosa opera del pittore con un teatrale passaggio dall’oscurità; o quando mette in scena il glorioso vascello Temeraire, protagonista della battaglia di Trafalgar, rimorchiato sul Tamigi da uno sbuffante battello a vapore, segnale di un’incombente modernità colta con profetica visionarietà da Turner in suo celebre quadro. Natalia Aspesi. Repubblica Mr. Turner, diretto dall'inglese Mike Leigh, racconta di un grande artista negli ultimi anni della sua vita. Un vecchio particolarmente brutto e scostante, circondato da donne altrettanto malandate, la cui sola ragione di vita è disegnare e dipingere tempeste, naufragi, incendi, nebbiosi paesaggi inglesi, cieli rossi veneziani, selvagge campagne olandesi. Il cinema inglese ha la fortuna di avere grandi attori per i ruoli minori e magnifici protagonisti come Timothy Spall, che qui ci riporta indietro di due secoli, negli abiti sgualciti di Joseph Mallord William Turner. Nel suo studio dipinge, sputa sulla tela per sfumare i gialli solari e i profondi blu con le dita. E nella mostra alla Royal Academy prende in giro l'altro celebre artista del paesaggio, Constable. Un film molto inglese, nella semplicità della storia e, pare, nel rispetto della verità di Turner: le immagini sono magnifiche, magnifica la ricostruzione di luoghi e costumi, rara la capacità di Leigh di farci vedere tempi e luoghi come li vedeva Turner. Roy Menarini. Mymovies.it C'è realismo e realismo. Di per sé, il termine non significa nulla. Basti pensare che nell'epoca del cinema classico il realismo veniva attribuito a Hollywood, quello che a noi oggi pare soprattutto produzione di immaginario fantasioso. Un'altra tappa miliare, il neorealismo, è stato ampiamente studiato ridimensionandone via via l'aspetto di più aperta improvvisazione e apertura al caso per metterne in luce la scrittura, la predisposizione teorica, la cura formale. E anche tutti gli altri realismi, più recenti, vanno sempre guardati nella giusta prospettiva: realismo dei contenuti o dei modi di messa in scena? Realismo in che senso? Per Mike Leigh si può parlare di un realismo della pratica creativa. Non ci sono chissà quali meditazioni teoriche dietro al suo atteggiamento nei confronti di quel che racconta. Il lavoro con gli attori è, in questo senso, decisivo. Leigh li raduna settimane prima dell'inizio delle riprese, prova con loro ogni scena, cerca di favorire l'interazione tra psicologie e personaggi, e lima, cuce, toglie, aggiunge, scava fino a che il risultato è di assoluta coesione e verosimiglianza. Grandissima cura, poi, nel cinema di Leigh è sempre stata data all'abbigliamento e agli oggetti, ben oltre la naturale credibilità dell'ambiente socioculturale di riferimento, ma veri e propri correlativi oggettivi del racconto. Avvicinato a Loach solamente per il milieu spesso preso in considerazione (...), Leigh è in verità meno interessato al dato politico e ideologico, e molto più a quello umano e psicologico. E così, quando si trova a governare un biopic in costume, nessuno si può aspettare un film in stile James Ivory. Turner, infatti, è un film dalle idee molto chiare. Un film sull'ultima relazione possibile di un artista con il mondo esperito. Turner rappresenta un pittore che prende lezioni dal vero, parafrasando il titolo del bell'episodio di Martin Scorsese contenuto in New York Stories e dedicato a tutt'altro tipo di artista (...). Anche se la sua arte, nell'ultima fase di carriera che viene raccontata dal film, diviene via via più radicale e astratta, per Turner decisivo è il rapporto con lo sguardo e con il paesaggio, tanto da andarlo a cercare con fatica e peregrinazioni. Solamente la fotografia, la cui comparsa ottocentesca viene evocata da Leigh, cambia per sempre la storia della pittura (interpretazione contestata ma sostanzialmente giusta). Da questa idea consegue tutto: la materica corporeità del protagonista, della sua servitrice e del padre; la concreta artigianalità del gesto artistico (fatto di tele, legno cigolante, pavimenti sporchi, stracci macchiati, colori da impastare, ecc.); e persino la credibilità dei bellissimi paesaggi naturali, marittimi o campestri, che perdono ogni sapore di citazione erudita per riprendere la semplice funzione di veduta mozzafiato e panorama spettacolare. Come a dire che senza un certo tipo di natura, né realismo né romanticismo avrebbero avuto luogo. Adriano De Grandis. Il Gazzettino.it Turner di Mike Leigh è senza dubbio un biopic rispettoso e coinvolgente: rispettoso ce ne possiamo anche fregare, visto che ormai in molti accettano qualsiasi divagazione e fantasia (...); ma coinvolgente no e qui pian piano, nonostante una prima parte forse un po’ lunga (il film dura due ore e mezza) e una “lentezza” perfettamente coerente, la storia di questo straordinario pittore e dei suoi incantevoli paesaggi sfumati fino all’impercettibilità, cattura lo sguardo più attento. Scritto nella consueta dinamica realistica del regista inglese e diretto senza alcun vezzo autoriale, altrettanto marchio di fabbrica, “Turner” (...) regala un uomo che distingue solitudine da isolamento, che si rifugia sempre più nel crepuscolo della sua pittura e che fatica a far comprendere la sua arte. (...) Leigh conferma la sua abilità a calare i personaggi in un contesto sociale (e qui anche storico, prima metà ’800), facendoli interagire più con le contrapposizioni, che non con le analogie. I suoi personaggi finiscono spesso in lotta contro il loro tempo, con motivazioni varie, ma destinati a cercare uno spazio vitale. Rispetto ai lavori precedenti, qui diventa determinante l’ovvio apporto dei panorami (...), ma gestiti da Leigh con le stessa sensibilità di Turner (la sensazione è che tra il regista e il pittore ci sia più di un’assonanza), quindi mai dominanti, uno sfondo più esistenziale che paesaggistico. Lo si nota anche nelle burbere esibizioni caratteriali del pittore (l’imbrattamento del quadro), che si condensano in rapporti a tratti ruvidi e anche brutali (la serva), ma segnati da una volontà affettiva (specie col padre) che non trova facilmente serenità. Leigh si concentra sulla seconda parte della vita artistica del pittore, quella della maturità, dove il mistero della luce è sempre più urgente, l’arte della fotografia incalza e il desiderio creativo diventa quasi ossessione (la scena della tempesta). Non privo del risaputo umorismo britannico, è cinema classico, che riserva particolari senza sorprese, ma profondamente sincero, partecipato e inattaccabile. Stefano Santoli. Ondacinema.it C'è una scena, in "Turner", in cui il padre del pittore chiede a un interlocutore se riesce a scorgere l'elefante nel dipinto in cui il figlio ha ritratto la tempesta che coglie Annibale sulle Alpi. Ma la sagoma dell'elefante è troppo piccola, e il padre di Turner la addita compiaciuto. Mike Leigh chiede al suo spettatore la medesima attenzione al dettaglio rivelatore. (...) Leigh ama celare in un personaggio secondario una specie di segreto, il solo a svelare pienamente il significato dei suoi film. In "Another Year" era Mary, l'amica di ceto inferiore, prima amata e poi respinta (salvo subdola pacificazione). In "Turner" analoga funzione è affidata alla domestica del pittore. Affetta da una forma sempre più cruenta di psoriasi, la domestica non profferisce quasi parola per tutto il film. Figura estremamente umile, remissiva, Leigh si sofferma sul suo sguardo in significativi primi piani: mentre Turner parla col padre, o con i mercanti d'arte, o con i colleghi dell'accademia reale. Non sappiamo quanto comprenda, dell'arte del suo padrone, ma di sicuro gli è incondizionatamente affezionata. Turner, invece, in una scena, la usa per sfogare una frustrazione sessuale, e non sembra mai curarsi troppo di lei. Sia chiaro: "Turner" non è una biografia al negativo, in cui il protagonista viene posto in cattiva luce; non lo è neanche al livello più sottile, quasi subliminale, cui lavora Leigh. Non sfuggirà comunque come Turner sia descritto in tutte le sue componenti più terragne: Leigh lo mostra nella sua umanità materiale e brutale, resa eccezionalmente da Timothy Spall, premiato per la miglior interpretazione a Cannes 2014. (...) A Leigh interessa l'uomo, con i suoi limiti e i suoi difetti, in rapporto a chi gli sta intorno. Ora, l'incapacità di Turner di ritrarre soggetti umani è indizio della sua difficile riducibilità al consesso sociale, delle sue fughe solitarie e della sua difficoltà ad amare nonostante non sia mai solo, né privo di affetto. Un doloroso e tormentato stare al mondo: che si traduce nell'orribile grugnito di fronte alla prostituta che cerca di ritrarre, o nell'impeto quasi disperato col quale scende in strada a piedi nudi, malato, per cercare di ritrarre il cadavere di un'annegata. Senza riuscirvi. Turner è pittore della luce. Considerato precursore degli impressionisti, il suo percorso verso la rarefazione della forma lo porta quasi alle soglie dell'arte informale del XX secolo. La straordinaria fotografia del film, curata da Dick Pope, restituisce magnificamente la gamma cromatica del giallo, prevalente nei suoi dipinti. La tecnica di Turner, che univa originalmente olio e acquarello (e saliva, come si vede nel film), era volta alla cattura della luce, dell'aria, dell'atmosfera. Pittore di tempeste e naufragi, un aneddoto messo in scena nel film racconta che arrivò a farsi legare in cima all'albero di una nave durante una tempesta per poter fare esperienza dell'inermità di fronte alla furia degli elementi. Arte e vita votate a una natura selvaggia, non distruttiva ma vitale. "Dio è il sole", dice un attimo prima di spegnersi: ed è chiaro che non si riferisce al dio cui si starebbe approssimando (poco prima, aveva rabbrividito di terrore: "sto per trasformarmi in un non essere"), ma piuttosto al sole che non vedrà più. La luce del sole era il suo dio: il buio della morte è la fine della luce. (…) Leigh ha ritratto un uomo che cercava l'assoluto nella luce e nella natura indomabile, solitario per vocazione. Un ritratto che non sarebbe completo - e torniamo così dove avevamo iniziato - se privo del fondamentale contrappunto fornito dallo sguardo vigile, anche se apparentemente inconsapevole e ottuso, dell'umile serva. E' lei che, sul finale, lo cerca amorevolmente, e arriva quasi sulla soglia della casa della compagna dove è agonizzante. Accortasi solo allora che vive con un'altra donna, torna malinconicamente sui suoi passi. Leigh nobilita straordinariamente questa figura: a lei, non per nulla, dedica l'ultima inquadratura. Come a Mary in "Another Year". In fondo, a Leigh sono sempre stati maggiormente a cuore i più umili. E forse è in lei che occorre scorgere la protagonista nascosta di "Turner", l'elefante africano travolto dalla tempesta di neve, senza il quale non sospetteresti l'esercito di Annibale. Paola Di Giuseppe. Indie-eye.it The Sun is God! È l’ultimo grido, soffocato dalla morte, di Joseph Mallord William Turner (1775-1851), il “pittore della luce”, protagonista di un film potente e tenero, affascinante e stratificato, policentrico per la molteplicità di sottotesti ma sempre sostenuto da una ferrea unità interiore. Con Turner Mike Leigh affronta la biografia d’artista, un genere nel quale spesso si registrano cadute anche eccellenti. L’oleografia è infatti dietro l’angolo, appiattire l’arte o esaltare la vita un rischio fin troppo immanente, pensare l’eterno, l’universale, e coniugarlo con il singolare, il divenire del reale proprio del cinema, un’operazione ardua. Leigh ne esce trionfante, la sua lotta con una materia opaca, spesso inerte, come può esserlo il retroterra biografico di un artista dal corpo sgraziato, dal carattere ribelle e ispido, dai legami parentali e relazionali ridotti al minimo, che vive tra settecento e ottocento in un’Inghilterra pre-vittoriana sporca e maleodorante, dove fertili prospettive di futuro si scontrano con chiusure retrive, fa pensare ad un tuffo del regista dentro uno di quei drammi umani e atmosferici tipici della pittura di Turner. Ma come nelle tele del suo pittore prediletto la tensione compositiva si placa nella pennellata sicura e nell’addensarsi dell’atmosfera in masse compatte e cromatismi vigorosi e densi, così lungo le due ore e ventinove minuti del racconto filmico Leigh compone con mano sicura lo scontro/incontro di una personalità fragile e bizzarra, solitaria, contraddittoria e a volte disarmata, con le forme sublimi della sua creazione artistica, guidandoci alla sua scoperta con l’amore del discepolo. Oggetto del racconto sono gli ultimi venticinque anni di vita dell’artista, interpretato da un performer eccezionale, Timothy Spall. Il protagonista entra in scena da subito. Corpo atticciato e ballonzolante, si muove fra carrozze e cavalli in una caotica strada di Londra, di ritorno dall’ennesima trasferta en plein air a scoprire l’enigma della natura. A casa l’aspettano il padre, semplice barbiere di Covent Garden ormai vecchio, ma sempre entusiasta supporter del celebre figlio, per cui miscela colori e inchioda tele per nuovi lavori, e Hanna, la serva umile e devota, amore ancillare per frettolosi e tristi incontri, che ama il suo padrone di un amore muto, mai ripagato. Gli episodi salienti, le figure importanti, il coro di fondo di collezionisti e artisti, nobili e borghesi, la Londra dei teatri, dei circoli esclusivi, dei ricevimenti a corte, fanno corona alla figura magnetica del pittore, quasi afasica nei suoi grugniti di approvazione o disapprovazione, eppure straordinariamente capace di “parole alate” quando l’amore o un moto profondo dell’animo prendono il sopravvento. Spiazzante come un orso selvatico che ama la fragranza del dolce miele, Turner è capace d’incantarsi davanti ad una spinetta che suona Beethoven, e se poi si tratta del suo amato Purcell non esita ad intonare con voce roca e incerta la disperazione dell’amor perduto di Didone, When I am laid in earth, lasciando senza parole la timida e graziosa musicista. Quel brano musicale, solo dieci note e un basso discendente che tocca i margini estremi del dolore, sembra scelto da Leigh come metafora del pittore e del suo mondo, tanto li avvicina il rapporto interno tra luci e ombre, l’equilibrio tra simmetria e asimmetria, materia e spirito, vitali pulsioni dionisiache e lacerazione della morte . Il ritratto cinematografico dell’artista che Leigh compone scandaglia le ragioni della sua arte e ne coglie il mistero, anche ricorrendo ad una certa libertà di ricostruzione biografica. L’intento didascalico è secondario, “il processo con cui le immagini e i momenti si accumulano – dichiara il regista – non è certamente narrativo, ma obbedisce ad una precisa struttura architettonica interna, per nulla casuale”. Avvertiamo in questo una consonanza piena con la poetica di Turner, teso, soprattutto nell’ultima fase della sua vita di artista, a relegare il racconto a puro pretesto. Organizzare l’incessante fenomenologia della luce liberandola da tutte le scorie terrene fu infatti obiettivo primario, e sempre più evidente divenne la carica innovatrice del suo linguaggio. Membro della Royal Academy, fama e denaro non gli mancarono, ma rimase sempre sostanzialmente estraneo al suo tempo, guardato spesso come un folle. (...) Dick Pope, direttore della fotografia, traduce magistralmente le indicazioni di regia in splendidi tableaux vivants, Gary Yershon, nomination all’Oscar per la colonna sonora originale, fa scelte lontane dal classico repertorio settecentesco, riempie il film di una musicalità tutta novecentesca che dà la misura più coerente con la portata rivoluzionaria dell’arte di Turner. E’ così che arriva a noi, guidata da una regia di straordinaria intuizione, questa contemplazione inesausta della bellezza, questa limpida e sofferta meditazione sulla luce e sullo spazio. Alessandro Uccelli. Cinematografo.it (…) Il film parte dai tardi anni Venti, quando l’artista rientra da uno dei propri viaggi in Europa, e si conclude con la fine della sua parabola terrena, nel 1851. Fin dalla sequenza iniziale, non priva di ironia, con due contadine olandesi che avanzano chiacchierando mentre la macchina da presa lentamente si muove a trovare il pittore intento a schizzare il cielo al tramonto sul proprio portfolio tascabile, Leigh fissa la principale ossessione turneriana, quella per il sole e per la luce, e il rifiuto di certi aspetti genericamente “pittoreschi”. Quello che sta a cuore a Leigh, ed è prestissimo evidente, è restituire un senso di sublime autenticamente radicato nella prima stagione romantica, attraverso il contrasto tra l’epica, l’afflato spirituale dell’arte turneriana e le bassezze, morali e corporali, i difetti dell’umanità: “Sharing an experience that goes beyond the surface”. “The surface”, la scorza di William Turner, ma anche quel che da quella scorza trapela, sono incarnati, in maniera affettuosamente caricata, da Timothy Spall che, insieme agli altri attori, insiste sull’implosione del pensiero, della parola e del gesto – è già leggenda il rantolo con cui reagisce a domande idiote o a situazioni scomode – ma anche sulla disfunzionalità o la semplice negazione dei sentimenti. È un cast, quello di Mr Turner, che, come di consueto, raccoglie amici fidati (Ruth Sheen, Marion Bailey, Lesley Manville, tra tutti), volti, corpi e voci irregolari, che trovano una giustezza di relazioni in un lavoro impostato su affettività bloccate (come lo sono i corpi), su una recitazione antipsicologica che sembra confrontarsi ancora con l’universo visivo e linguistico di Hogarth e di Thackeray. Il lavoro è anche un tema chiave del film, innanzitutto il lavoro dell’artista: Spall ha preso lezioni di pittura per replicare le sprezzature turneriane, il corpo a corpo con la tela e con la materia pittorica, gli interventi a mani nude, anche quello ai danni di John Constable alla Royal Academy. Si tratta infatti anche di evidenziare il rispetto (o la mancanza di rispetto) per l’operare altrui in un’epoca di mutazioni radicali: da questo punto di vista è esemplare la sequenza in cui il giovane Ruskin cerca di smontare la fama di Claude Lorrain; Turner e altri artisti trovano naturale difendere il maestro francese dalla saccente verve del giovane critico, che sarà poi il timone dell’estetica vittoriana. Lo stesso Turner, però, di fronte all’apparizione delle prime opere di Millais, davanti a quel ricomporre la forma e la tanto amata luce in una nuova maniera cerebrale e intellettualistica, non può che rantolare sarcastico. Diversamente la scoperta del mestiere del fotografo è accompagnata da un misto di resistenza e fascinazione, poiché il pittore sa che senza la tanto amata luce – “The sun is God”, dirà morendo – né la pittura né questa nuova strana arte sarebbero possibili. E tanto meno il cinema. Ma questo lo sa Mike Leigh, e noi insieme a lui.