Leggi la lettera di Vincenzo Russo a don Carlo

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Leggi la lettera di Vincenzo Russo a don Carlo
Grazie, don Carlo, un po’ sono anche figlio tuo!
Caro Don Carlo,
questa è una strana lettera che indirizzo a te, ma che non pensavo di scriverti.
Credevo, con le precedenti, di aver calato il sipario sulle vicende che la memoria mi restituiva man
mano che scrivevo. Invece mi accorgo che manca la parola fine. E allora faccio finta di essere
accanto al tuo lembo d’eternità, come ho fatto per anni e ancora oggi continuo a fare. E parlerò,
come al solito, con la temerarietà ingenua dei sognatori di ieri e la fragilità del disincanto di oggi.
Ricorderai le volte che mentre ti parlavo, ti avvertivo di come la mia fede fosse spesso incerta.
Però, garantivo che in te avevo sempre creduto. Io camminavo, stavo in piedi, studiavo, mangiavo,
vestivo grazie a te. Sono stato, per anni, persino amato, abbracciato, curato, aiutato. E tutto
questo, sempre, grazie a te. Non erano certo gli abbracci che, forse, desideravo, ma il calore lo
sentivo e mi ci accucciavo sicuro, nonostante le ansie non cessassero mai, sebbene difese da quel
cancello bianco e pesante.
È sempre lì. Bianco con le sue punte arzigogolate ma non cigola più. Non va più avanti e indietro e
neppure più ci si siedono i ragazzi. Attraverso quel cancello ci passano ora i pazienti. E non è una
differenza da poco. Le tonache nere dei preti sono state sostituite dai camici bianchi dei medici. Le
aule sono diventate studi e laboratori di analisi, le camerate sono diventate stanze di degenza e
non c’è più l’assistente che spegne la luce alle 22. Non c’è più la piscina e neppure il cinema dove
John Wayne vinceva sempre contro gli indiani. Il cortile dei mille dialetti poi è diventato un
parcheggio. So che sai già tutto di quello che dico. E se un po’ ti conosco, penso pure che anche a
te lascerebbe un po’ frastornato vedere tutti questi rivolgimenti che non sono solo facciata, bensì
sostanza.
Ma il punto, caro don Carlo, è che sono cambiato e invecchiato io. Non tanto il Centro che, in
fondo, non fa altro che adeguarsi ai tempi. Se così non facesse, non solo il tempo non tornerebbe
indietro, ma lo stesso Centro e la Fondazione non ci sarebbero più. E i tuoi sogni, caro don Carlo,
diventerebbero velleitarie promesse come buoni sconti sulla pelle di coloro ai quali la vita si
presenta senza sconti.
Guardandolo da via Capecelatro il Centro sembra ancora lo stesso, con l’albero di magnolia che
ancora oggi, placido, continua ad accogliere e proteggere quanti giungono con pene da curare e
sogni da coltivare. Ogni qual volta vi passo davanti, uno strano sentimento di addio misto a
tenerezza mi coglie l’anima che pare volersi afferrare alla cancellata, risucchiata da echi lontani ma
ancora amati. Ed è come se riuscissi ancora oggi a vedere nella loro nitidezza incontaminata le
orme di quanti hanno segnato il mio cammino e le tracce dei miei sogni immaginati. Ma subito mi
sento improvvisamente estraneo, addirittura straniero. E la magnolia, pare, non riconosca più il
mio volto.
Poi di nuovo il Vincenzo che sono. Sorrido, guardo il cielo e spesso mi capita di provare una
struggente poesia, perché quelle tracce neppure il tempo riesce a svilire scolpite come sono nella
freschezza di una fede che non si fa mai pena e compassione. È questo che mi hai lasciato come
sigillo di un’amicizia che non conosce le rughe del rimpianto, dove nascondere la viltà degli anni
che corrono via come fuscelli al vento. E allora non è difficile guardarti dritto negli occhi e
riascoltare le tue e le mie parole. Ed esse si liberano dal quel grumo muto che spesso attanaglia
l’anima come una camicia di forza che impedisce il volo che ho sognato, ma che non cessa, ancora,
di nutrire i miei desideri di bambino. Allora ti parlo come a un amico da troppo tempo lontano che
teneramente riappare con gli occhi felici di rivedermi e riabbracciarmi. E non è facile trattenere la
commozione di due braccia dove sono scolpiti, indelebili, i miei passi incerti, lo stupore
adolescenziale di ieri, gli orizzonti impossibili, le albe dolci di attese e i tramonti agri di brucianti
delusioni. Ma cosa importa, mi dico, e non mi fermo. Anche se il passo a volte è in affanno,
caparbio nella sua dignità e non si arresta.
«Mi hai insegnato
la dignità del dolore»
Oggi il “mio Centro” non esiste più. La tua “baracca” è diventata enorme e abbraccia il mondo
intero. E io fatico a riconoscerla. Ma è giusto così. Lo so, è giusto così. Non è solo una questione di
tempo che scorre inesorabile; ancor più è la memoria che affievolisce l’ansia del futuro. Non è
dignitoso indugiare nel vortice compiaciuto del proprio tempo passato, perché nega respiro al
presente, atrofizza il futuro e disconosce lo stesso passato che è memoria del proprio nome.
La vita continua, a volte ti abbraccia, altre volte ti sputa in faccia. Eppure io dei suoi buongiorno
non posso fare a meno, anche se a volte un po’ fa male.
Oggi la tua grande baracca continua ad accogliere gente di ogni razza, colore e fede come una
madre mai sazia di donare un po’ di futuro e respiro a chi la vita ha voluto saggiare, senza sconti,
con coraggio e lealtà.
A volte mi capita di passare in quei lunghi corridoi, entrare nelle stanze dei miei sogni, nelle aule
delle mie impazienze e nei cortili delle mie risate. Sì, mi sento spaesato e straniero. Nessun volto
da riconoscere, nessuna voce famigliare, nessuna cadenza da rammentare, nessun passo da
sussultare. Eppure mi coglie una strana sensazione di quiete e pace. Una strana pace che mi
accarezza lieve e calda. Mi soffermo stupito ogni volta che ciò capita. Poi mi accorgo del perché di
questo strano sentire. Il perché, sei tu. Sono cambiati i corridoi, le aule, le stanze, i cortili, i volti, le
voci, ma le ansie, le attese, le speranze, e risate sono le stesse e sospirano continuamente del tuo
nome.
Poi, come sempre, vengo un attimo a trovarti e come sempre è come sentirmi nuovamente a casa.
Sicuro che mi aspetti per un “ci vediamo” che è più di una promessa.
Un giorno, lo so, non potrò più venirti a trovare per fare quattro chiacchiere. Ma so che non me ne
vorrai. Per certi amici speciali non conta vedersi. Basta il ricordo che vive e respira incessante dalla
pelle come un’eco che mai tradisce e mai cessa di richiamare quella traccia densa di vita che tu mi
hai insegnato chiamarsi “dignità del dolore innocente”.
Il Centro e la Fondazione cambiano ma tu, per me, no. Perché tu abiti in me come una nota del
pentagramma della mia canzone che non smette mai di suonare.
Sebbene non sia frutto del tuo seme, un po’ sono anche figlio tuo.
Grazie, don Carlo!
Vincenzo Russo