Pdf Opera - Penne Matte
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IL TIRANNO D'ORIENTE Giovanni Giuseppe Pintore Il Tiranno d'Oriente Lodd Fantasy Factory Caro lettore, Questo racconto segue ed amplia le vicende narrate nel racconto “L'Erede di Eracle”. Serse è un personaggio interessante, e non posso negare che la realizzazione di quest'opera sia stata ispirata dalla celebre Graphic Novel "300" di Frank Miller, dall'omonimo film e dal romanzo di Andrea Frediani "300 GUERRIERI". Con questa storia non voglio narrare ancora di fatti che tutti conosciamo, ma offrire una versione differente ed inaspettata delle vicende, per quanto profondamente distaccata dalla realtà. Voglio che sia semplicemente una leggenda, così come i veri eroi erano descritti nella mitologia. Giovanni Giuseppe Pintore I Tiranni sanno farsi amare, in un modo o nell'altro. - Capitolo I - Khsassa Il sonoro schiocco della frusta ruppe nuovamente il silenzio, riecheggiando fra le immense sale. Soffocò il pesante respiro del malcapitato emissario, che strozzò in gola un rantolo di sofferenza. La schiena d'ebano del suddito si era trasformata in una mappa di sottili rigagnoli imbevuti di sangue. Era addirittura impossibile riconoscere i motivi ricamati sul pregiato tappeto che aveva sotto di sé. Per ben quindici volte le lingue di cuoio avevano offeso le sue carni, pareggiando il quantitativo di parole che egli aveva proferito, riferite tali e quali a quelle pronunciate dallo stesso re di Lacedemone, in risposta alla generosa offerta inviatagli dal Tiranno d'Oriente – così il greco l'aveva definito. Il delegato egiziano, uno dei pochi rimasti al servizio del sovrano, aveva coraggiosamente accettato la punizione infertagli dal proprio monarca, consapevole che ciò che aveva rivelato fosse quanto mai indegno della presenza del Shahansha. Nella lingua degli egizi significava “Re dei Re”. Il castigo era atto a punire l'offesa, piuttosto che la persona in questione. Al termine di quel rituale, il malcapitato sarebbe stato beffardamente premiato per la sua formidabile fedeltà nei confronti dell'Impero persiano. Donne, riposo e prelibatezze provenienti da ogni angolo del mondo: gli sarebbero stati offerti come pegno per l'incarico portato a termine. Ma il premio più gradito sarebbe stato il rispetto imperituro del sovrano. Sacrificare anima e corpo per la causa: era tutto ciò che il Shahansha esigeva dai suoi uomini. L'Ellade si rifiutava di piegarsi diplomaticamente all'assoluta autorità dell'unico, vero signore del mondo conosciuto. Figlio del deceduto Re Dario I di Persia – morto proprio mentre organizzava un secondo esercito per invadere la Grecia – Serse aveva ereditato l'immenso regno; e con esso anche l'ambizioso compito di sottomettere e punire gli Elleni per l'offesa che avevano arrecato all'Impero. La loro scellerata intrusione nei conflitti persiani sarebbe stata pagata a caro prezzo, se non si fossero arresi al suo legittimo dominio. Con quell'assurda ed arrogante risposta, però, i rivali avevano sancito l'inizio della guerra. Mentre scrutava di sottecchi il suo devoto seguace piegarsi sotto le sferzate della frusta, il Re dei Re ripensò al gravoso e doloroso percorso che egli stesso aveva dovuto intraprendere per radunare sotto la sua lungimirante guida i popoli dell'intera Asia. Vi erano state delle rivolte, tutte sedate nel sangue, oltre a vari ammutinamenti stroncati sul nascere alla morte del padre. Ma, l'irrefrenabile volontà di far perdurare la dinastia, impose a Serse di richiamare all'ordine l'intero Impero. Aveva utilizzato la forza per far valere le proprie ragioni, ed il popolo si era sottomesso al suo intramontabile potere. Ora, era amato e rispettato per le sue scelte e per la grandezza a cui aveva condotto le genti sotto la sua austera guida. Non vi erano più oppositori, o ribelli: il suo immenso Paese era finalmente unito. Non vi era essere umano che sapesse resistere all'aura di carisma che lo avvolgeva. Rivide nello sguardo afflitto dell'ambasciatore lo stesso del fratello maggiore, Achemene, dopo che egli l'ebbe sconfitto. I due avevano decretato con un duello chi avrebbe preso il posto di Re Dario I sul trono di Persia – benché lo stesso, prima della sua dipartita, avesse già designato a chi sarebbe spettato tale onore. Gli aveva risparmiato la vita, poiché conscio del fatto che il fratellastro l'avrebbe affiancato in eterno. Fu la scelta più giusta: insieme avevano piegato l'Egitto, sopprimendo le rovinose rivolte che rischiavano di destabilizzare l'intero Impero. Lo premiò affidandogli una parte dell'esercito, e l'amministrazione di quelle terre. In quella circostanza aveva anche ereditato il nome di 'Khsassa': il Sovrano. «Basta», sentenziò all'improvviso, richiamando a sé l'attenzione degli astanti. La mano di Orachis si fermò giusto un secondo prima di vibrare il colpo. La guardia del corpo si esibì in un mezzo inchino, quindi si fece da parte, indietreggiando senza voltarsi. I suoi passi erano silenziosi come le ombre. «Hai saldato il tuo debito, Edomene. Va' e trova ristoro in questa fredda notte. Che le stelle possano essere più generose con te, in futuro. Fra tre giorni ripartirai per l'Ellade: porterai agli Elleni un dono. Sarà l'ultimo che riceveranno... prima di essere cancellati dalle pagine della storia». L'emissario ringraziò, prostrandosi sin a toccare il pavimento con la fronte. Poi, dopo essersi rivestito, si defilò oltre un allestimento di tende multicolore che univano le cento colonne, a base di fiore di loto capovolto, che sorreggevano il tetto del lussuoso palazzo. Grazie alle calde luci dei bracieri ed ai rossi dardi di un sole ormai moribondo, all'interno della Sala del Trono e dell'Apadana1 poteva ammirarsi un sofisticato gioco di luci. Ogni prezioso elemento decorativo sembrava risplendere di luce propria. «I Lacedemoni non sono soliti piegarsi alle offese, e tanto meno alle pressioni politiche, Khsassa. Avrete forse fortuna con gli Ateniesi, per quanto siano cocciuti, ma nel meridione hanno poca considerazione delle pratiche diplomatiche», esordì Demarato. «Qua1 Era il palazzo più prestigioso dell'antica città di Persepoli. le dono avete intenzione di offrire, per scongiurare la guerra?». Levò poi alta una coppa di vino, come in segno di buon auspicio. «Un dio è ben consapevole che talvolta la guerra sia indispensabile per far comprendere ai propri figli i tremendi errori che hanno commesso. Scongiurarla... questo è un onore che debbono meritarsi con la fedeltà», puntualizzò freddamente. Si levò il caldo turbante, caratterizzato da un grosso smeraldo sostenuto da fili d'argento. Lasciò liberi i lunghi capelli corvini, tagliati poco sopra le spalle. «Le teste dei re delle terre che ho conquistato – un prezioso cimelio, cui sono assai legato – saranno offerte in dono al signore di Lacedemone. Potrà accettarle, ed io accoglierò le sue scuse, quando si prostrerà ai miei piedi, mettendosi al mio servizio. Punirò solo una parte del popolo. Il sangue istruirà i loro figli», spiegò. Poi, si sistemò meglio sul proprio trono dorato, ordinando alle sensuali serve dagli abiti multicolore, che allietavano la sua persona ed i suoi ospiti, di allontanarsi. Una volta che furono liberi da distrazioni, riprese con maggior vigore: «Altrimenti si piegheranno alla paura, quando udranno il terreno tremare sotto l'avanzata del mio immenso esercito. La dimensione del Peloponneso è insignificante, rispetto alla grandezza del mio Impero. Potrei addiruttura riempire l'intera Ellade con le mie sole truppe! Con quali numeri osano e pretendono di opporsi, contrastando la mia autorità?», tuonò sprezzante. All'interno della sala gli occhi erano tutti per il greco. Se ne stava comodamente seduto su un regale assortimento di soffici cuscini, delimitati da un basso ma ampio tavolino circolare, imbandito di ogni sorta di prelibatezza proveniente dall'intero reame. Nessuno osava mai rivolgersi in quel modo al Re dei Re, temendo la sua furia. Eppure, egli pareva godere della totale fiducia del persiano. In fin dei conti, non era un segreto che lui stesso l'avesse aiutato a sedere su quell'immenso trono dorato. «Questa tattica potrà intimidire ed influenzare il resto dell'Ellade, forse. Ma i Lacedemoni sono uomini a cui la paura vien strappata via ancor prima di venire al mondo. Sono nati sullo scudo imbevuto di sangue, ed hanno imparato a camminare sorreggendosi alla lancia. Pur se riuscissi a sottomettere il resto degli Elleni, essi si opporranno a te in battaglia. Per loro il numero non conta: affidagli un nemico, e che siano mille, pronti a combattere, o anche meno, scenderanno fieramente sul campo di battaglia, orgogliosi di morire per la propria patria!», spiegò pacatamente. Pareva star rimarcando l'ovvio. «Certo che, se riuscissi ad annettere l'intero Peloponneso al tuo impero, potresti sfruttare le truppe lacedemoni per rafforzare l'avanguardia del tuo esercito. Sarebbe il più grande ed implacabile che il mondo potrà mai conoscere». Le sue parole erano ora più colloquiali, quasi confidenziali. Indubbiamente cariche di ammirazione. Dopotutto, egli aveva militato negli stessi ranghi spartiati, assaporando l'incredibile euforia che il suono dei flauti ed il ritmo dei tamburi era in grado di scatenare nel fulgido animo di truppe addestrate unicamente ad eseguire un mestiere tanto arduo: uccidere. Erano guerrieri, prima ancora di essere uomini. «E tu, Demarato? Ti opporrai allo stesso modo, con tale orgoglio?», lo incalzò il Re dei Re. Un ghigno divertito spuntò sotto la folta barba. Aveva il vizio di lasciar scorrere le dita ghermite di anelli sino alla sua estremità, mentre valutava il coraggio di un uomo. Più di uno era stato fustigato, per non esser stato abbastanza rapido nel rispondere. «Non posso fare altrimenti, sommo Khsassa. Rimango pur sempre un uomo fedele alla patria», si pronunciò. I severi sguardi accusatori degli astanti lo avrebbero folgorato, se capaci di sprigionare fulmini come Zeus. Ma il greco riprese dopo una lunga pausa, sostenendo il contatto visivo, senza scomporsi: «Se il nemico dovesse giunger sino alle porte dell'Impero Persiano, combatterò fintanto che avrò fiato. Trovo che la patria, al contrario di quanto molti filosofi greci asseriscano, risieda dove un uomo sceglie di vivere per il resto della propria vita». Demarato si lasciò sfuggire una breve risata. I lunghi capelli scuri erano raccolti da una fascia rossa che gli avvolgeva la fronte, lasciando cadere un ciuffo riccioluto davanti all'occhio sinistro. Il celeste intenso delle sue iridi ne esaltava il carattere imperscrutabile. «La paura è una sensazione che i tuoi conterranei non hanno ancora assaporato pienamente. Seppellirò il loro orgoglio sotto un nugolo di frecce. E, quando giaceranno al suolo, ormai inermi e trafitti, dissotterrerò i cadaveri per ammirare il terrore impresso nei loro volti!», ruggì Serse, ergendosi dal proprio trono. Era uno degli uomini più alti che Demarato avesse mai avuto il piacere d'incontrare. Il suo fisico non poteva dirsi esattamente quello di un guerriero, eppure la sua statura riusciva ad incutere un'incredibile senso di disagio in chiunque fosse al suo cospetto. Era anche per quel motivo che i suoi seguaci lo veneravano come un dio. Lo sguardo infuocato di Serse indugiò aspramente sulla figura del greco. L'intera scorta privata si mise sull'attenti, mentre i pochi membri del consiglio s'inchinavano, implorando clemenza. Orachis, invece, aveva accarezzato con la mano sinistra l'elsa della scimitarra dal fodero dorato, che custodiva gelosamente al suo fianco. Aveva provato un brivido di piacere all'idea di potersi confrontare con lo spartano. Lo scuro e largo abito che avvolgeva interamente la sua figura, insieme al turbante ed al trucco nero che gli segnava il viso, facendo risaltare i suoi occhi castani, lo facevano apparire simile ad un'ombra. Demarato, però, non aveva accennato ancora a muoversi. Odiava le formalità: le trovava sciocche. Inutili. Inoltre, non reputava né venerava quell'uomo come una divinità. Era un regnante, sì scaltro, ma ne aveva scorti altri come lui, ed egli stesso lo era stato a sua volta. «Sottovalutare il proprio nemico genera un rapido preludio alla sconfitta», disse alzandosi, ma unicamente per riempire nuovamente la propria coppa, sorretta dalle tremolanti mani di uno dei pochi servi presenti, completamente rasati. «Rammenta la disfatta di Maratona, l'incendio di Sardi. Apprendi dalle stesse offese che ti sono state arrecate – e che vuoi vendicare – il modo più consono per abbattere il tuo nemico. L'Ellade è una terra in perenne contrasto; ma prova pure a stuzzicarla, e mostrerà gli artigli!», lo mise in guardia. Poi levò alto il calice in suo onore, prima di bere. «I tuoi sono sempre preziosi interventi, mio consigliere. Ognuno dei soldati della mia scorta, che ho scelto personalmente, in questo momento freme dal desiderio di tagliarti la testa, Demarato. Ma non ho deciso di circondarmi di identità illustri vanamente, per il solo gusto di vedere le loro teste rotolare sui miei pregiati tappeti...», rivelò mentre scendeva la scalinata che lo innalzava di un paio di metri dal resto della sala. «Ma perché ho intenzione di elevare questo Impero sopra ogni altro sia mai esistito». Poi, arrivato davanti al suo interlocutore, bevette dalla sua coppa. «La fortuna – la dea Tiche per quelli come voi, se non vado errato – vuole che io adori il tuo punto di vista. Non temi alcuna mia reazione, per- mettendoti addirittura di pronunciare qualsiasi pensiero baleni nella tua mente. Il tuo consiglio è apprezzato. Sei un uomo che sarebbe piaciuto a mio padre. Ripongo grande fiducia in te. Forse, ciò che dici sul conto dei tuoi conterranei non è poi così falso». «Mi onori con le tue parole, Khsassa». «Ripagami: offrimi maggiori informazioni sul tuo popolo. Seguimi...», disse poi, donandogli le spalle. Raggiunse l'esterno dell'Apadana, discendendo le regali scalinate, illuminate a giorno da grosse lucerne, che conducevano a sontuosi giardini. I soldati non li seguirono, fatta eccezione per Orachis, che a debita distanza si assicurava che nessuno disturbasse il Re dei Re. Gli occhi della guardia del corpo ponderavano la figura del greco, desiderosi di poter esplorare le sue interiora con il filo della scimitarra. Fra i due non correva buon sangue, benché fosse stato proprio lo stesso figlio di Lacedemone a consigliarlo a Serse. Orachis lo riteneva un doppiogiochista, una sporca spia greca. Ed avrebbe volentieri eseguito l'estremo ordine, se pronunciato dalle labbra del Sovrano. Demarato non poté fare a meno d'indugiare con lo sguardo sugli illustri rilievi che adornavano il palazzo. Diversi raffiguravano Serse impegnato in scontri con creature mitologiche; in altri, egli era ripreso mentre amministrava il potere, ed ancora in alcuni veniva tributato dai rappresentanti delle ventitré nazioni soggette alla dinastia Achemenide. Dall'apice della scalinata che consentiva di raggiungere il palazzo, al quale si accedeva tramite la celebre “Porta delle Nazioni”, era possibile ammirare nella sua interezza la magnificenza e l'estremo splendore di Persepoli. Era una città piuttosto vasta, in perenne costruzione, simbolo della grandezza dell'Impero. Era abitata da pochi prescelti, e fungeva più da spauracchio per i visitatori, piuttosto che svolgere pienamente la funzione di capitale, per quanto in essa fossero custodite le immense ricchezze di tutta la Persia. Il largo sentiero che proseguiva dalla base del complesso discendeva l'alto monte, proseguendo prima verso nord, per poi perdersi ad est. Enormi bracieri illuminavano a giorno le vie della città, sorvegliate costantemente dalla rigida e rinomata élite di soldati assemblata da Serse. Erano cinquemila. «Ho ragione di credere che questa guerra renderà eterno il mio nome nelle pagine della storia. Mi aspetto che i greci rifiutino di arrendersi, e che lotteranno. È per questo che ho radunato ogni uomo in grado di combattere da ogni angolo remoto dell'Asia. Vengono addestrati, nel frattempo che raggiungono l'Ellesponto. I miei migliori ingegneri stanno costruendo un ponte che consentirà alle mie truppe di passare indisturbate. Avanzeremo col favore della primavera. Niente potrà fermarci!». «Servono ben altro che cadaveri da mandare in pasto alla possente falange greca, se vogliamo prevalere. La guerra è un gioco di strategia che non può essere vinto unicamente con i numeri. Stiamo marciando contro un nemico che prepara da secoli le proprie truppe per la battaglia». «Gli Elleni dovranno proteggersi da una cascata di frecce, nel frattempo che proveranno ad avanzare. Non sottovalutare i miei arcieri: sono i migliori al mondo. Hanno un'ottima mira, e non è stato messo in conto che le frecce possano esaurirsi nel momento dell'attacco. Ma anche i meno abili, nel gruppo, faranno la differenza. Potrebbero scoccare dardi per un giorno intero, oscurando il sole stesso, sino a piegare le loro difese con il peso del legno. Se non moriranno trafitti, lo faranno schiacciati!», dichiarò esaltato dall'immagine creatasi nella sua mente. Egli stesso, ritrovandosi nella medesima situazione dei greci, forse si sarebbe arreso di fronte ad un esercito tanto ben fornito. «Ed una volta che il nemico sarà a portata di lama, tireremo sui nostri compagni?», commentò poco convinto. «Non proprio. Ma, fintanto che saremo impegnati in uno scontro in campo aperto, terremo occupate le retrovie, impedendogli di agire. Poi li circonderemo, ed assesteremo l'attacco decisivo. Potranno pure nascondersi dietro i loro scudi; ma, non appena si aprirà un varco nel muro, sfonderemo le loro difese. Inoltre, arriveremo nelle loro città via mare, affondando le loro navi. Il grosso delle truppe ostili cadrà sotto assedio, senza aver neanche il tempo di brandire la lancia. Morirà di stenti. Razzieremo ogni campo, bloccheremo il corso di ogni fiume, ci prenderemo i loro schiavi, e li renderemo liberi di ribellarsi contro il nemico. Una dopo l'altra le città dell'intera Ellade si arrenderanno, inchinandosi al mio cospetto. I miei ambasciatori hanno già stretto alleanze segrete, ed esse ci forniranno supporto una volta sbarcati, nel momento più propizio». Demarato contemplò in silenzio l'espressione estasiata di Serse. Sembrava non aver voluto esplorare al meglio il piano di guerra, quasi cercasse di nascondergli qualcosa. Nonostante fosse stato alquanto vago, quel progetto d'invasione mostrava d'includere parecchi fronti d'attacco, così da sparpagliare le difese greche e rendere il loro numero ancor più esiguo. A primo impatto sarebbe parsa una sciocchezza, ma Serse pareva aver chiaro il modo in cui intendesse piegare il proprio nemico. «È solo una questione di tempo... la Grecia cadrà!». Ti è piaciuto il racconto? 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