Il lavoro tra Costituzione e Jobs Act, ovvero quel che resta di un

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Il lavoro tra Costituzione e Jobs Act, ovvero quel che resta di un
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Dirittifondamentali.it - Fascicolo 2/2016
Data di pubblicazione: 6 luglio 2016
Il lavoro tra Costituzione e Jobs Act, ovvero quel che resta di un diritto
fondamentale (e del dibattito parlamentare)
di
Antonello Denuzzo*
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’utilizzo della fiducia da parte del Governo – 3. I possibili
profili di illegittimità costituzionale per eccesso di delega e per violazione del principio
di eguaglianza e del canone della ragionevolezza – 4. Conclusioni (una questione di
metodo per le riforme)
1. Premessa
A distanza di alcuni mesi dall’entrata in vigore degli ultimi decreti attuativi1 del
Jobs Act, questo lavoro ripercorre le fasi dell’approvazione della riforma,
contenuta soprattutto in due atti: il primo adottato con il d.l. n. 34/2014 (noto
come decreto Poletti), incentrato sulla liberalizzazione del contratto a termine,
ossia sull’aumento della flessibilità in entrata nel mercato del lavoro; il secondo
atto, approvato dal Parlamento nel dicembre 2014, consiste in un’ampia e per
molti versi indeterminata legge delega (l. n. 183/2014), il cui disegno di legge –
presentato dal Consiglio dei Ministri sempre nel marzo 2014, contestualmente
all’adozione del d.l. n. 34/2014 – delineava una riforma delle diverse tipologie di
contratti di lavoro subordinato (oltre al riordino della disciplina degli
* Ricercatore td-a di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche Università del Salento.
1 I 4 decreti legislativi pubblicati nella G.U. n. 221 del 23 settembre 2015 in attuazione del Jobs
Act riguardano in particolare: ammortizzatori sociali (d. lgs. 14 settembre 2015, n. 148); attività
ispettiva (d. lgs. 14 settembre 2015, n. 149); servizi per il lavoro e politiche attive (d. lgs. 14
settembre 2015, n. 150); rapporti di lavoro e pari opportunità (d. lgs. 14 settembre 2015, n. 151).
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ammortizzatori sociali e di quella in tema di semplificazione degli adempimenti
nella costituzione e nella gestione dei rapporti di lavoro, di revisione e di
aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e a conciliare i tempi di
vita e di lavoro)2.
Per quel che rileva in questa sede l’approvazione del Jobs Act è stata segnata
soprattutto da una reiterata forzatura delle regole costituzionali sulla
produzione di fonti di origine governativa, giustificata dal Governo nel nome
delle urgenze determinate dalla congiuntura economica negativa; ma sembrano
chiare le indicazioni che questa vicenda ha offerto – per il mercato del lavoro e
più in generale – rispetto all’individuazione di un metodo per le successive
riforme istituzionali e costituzionali.
D’altra parte l’incremento della flessibilità, sia in entrata che in uscita dal
mondo del lavoro, è stato presentato negli ultimi anni come il fattore decisivo
per risollevare le sorti dell’economia in recessione; ma l’idea che la flessibilità
favorisca la crescita occupazionale ha fatto perdere di vista la complessità del
progetto comunitario di costruzione della flexicurity, ossia della creazione di un
mercato comune del lavoro basato sull’adozione di politiche di flessibilità unite
a politiche di sicurezza3, con il conseguente affievolirsi delle normative di
In Italia gli interventi del Legislatore in questa materia devono essere inquadrati in una
prospettiva più generale di modifiche di natura strutturale che hanno avuto inizio con la l. n.
196/1997 (pacchetto Treu) e la. l. n. 30/2003 (riforma Biagi), emanate per dare seguito agli
impegni assunti a livello dell’Ue e formalizzati nei Consigli europei di Lussemburgo del 20
novembre 1997, di Cardiff del 15 giugno 1998 e di Colonia del 4 giugno 1999, finalizzati a
individuare una strategia comune fra i Paesi membri per la crescita economica e l’occupazione.
Si veda E. PAPARELLA, Il lavoro e la sua dimensione costituzionale, in F. Angelini - M. Benvenuti (a
cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Jovene, Napoli, 2012, 61 ss.
3 C. TRIPODINA, Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere
della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza, in
Costituzionalismo.it, fasc. 1/2015, 5; F. ANGELINI, Il governo, il lavoro e la Costituzione nel c.d. “Jobs
Act”, in Costituzionalismo.it, fasc. 1/2015, 11 ss. Per un primo bilancio degli effetti del Jobs Act si
vedano i dati contenuti nel rapporto OCSE del settembre 2014, in OECD Employment Outlook
2014, L’Italia a confronto con altri paesi, Settembre 2014, http://www.bollettinoadapt.it/litaliaconfronto-con-glialtri-paesi-settembre-2014/.
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protezione sociale e dei diritti nel mercato del lavoro interne ai singoli Paesi 4 e –
con particolare riferimento all’Italia – con il superamento dello statuto
costituzionale del diritto al lavoro5.
2. L’utilizzo della fiducia da parte del Governo
Il d.l. n. 34/2014 ha introdotto – in soli sei articoli – alcune misure a contenuto
regressivo delle tutele dei lavoratori, peraltro in assenza di ogni tipo di
valutazione delle possibili conseguenze dell’applicazione di tali disposizioni,
anche prescindendo dalle previsioni della l. n. 92/2012 (legge Fornero) che
hanno introdotto forme di controllo degli effetti degli interventi sul mercato del
lavoro attraverso l’ausilio di strutture specifiche e di dati forniti dall’Istat e da
altri soggetti del Sistema statistico nazionale (Sistan), tra i quali l’Isfol6.
Si veda F. BILANCIA, Il valore del lavoro come principio costituzionale di integrazione, in G.M.
Salerno (a cura di), I diritti dell’altro. Un’analisi comparata dei processi di integrazione nell’area
euromediterranea, EUM, Macerata, 2008, 16.
5 Si vedano G. FERRARA, I diritti del lavoro e la costituzione economica italiana ed in Europa, in
Costituzionalismo.it, fasc. 3/2015, 3 ss.; M. LUCIANI, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di
fondare la repubblica democratica sul lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, 2010, n. 3, 628 ss.; ID.,
La produzione della ricchezza nazionale, in M. Ruotolo (a cura di), La Costituzione ha 60 anni: la
qualità della vita sessant’anni dopo. Atti del convegno di Ascoli Piceno, 14-15 marzo 2008, Editoriale
Scientifica, Napoli, 2008, 248 ss.; ID., Il lavoro nella Costituzione, in B. Pezzini, M. Baronchelli (a
cura di), La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il cammino. Atti del convegno e del corso di
lezioni, Bergamo, ottobre-dicembre 2005, Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e
dell’Età Contemporanea, Bergamo, 2007, 139 ss.; G. LOY, Una Repubblica fondata sul lavoro, in E.
Ghera, A. Pace (a cura di), L’attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro,
Jovene, Napoli, 2009, 3 ss.; F. BILANCIA, Il lavoro come principio di una cittadinanza plurale, in Quale
Stato, 2008, n. 1/2, 127 ss.
6 Art. 1, comma 2, l. n. 92/2012: “Al fine di monitorare lo stato di attuazione degli interventi e
delle misure di cui alla presente legge e di valutarne gli effetti sull’efficienza del mercato del
lavoro, sull’occupabilità dei cittadini, sulle modalità di entrata e di uscita nell’impiego, è
istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in collaborazione con le altre
istituzioni competenti, un sistema permanente di monitoraggio e valutazione basato su dati
forniti dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e da altri soggetti del Sistema statistico
nazionale (Sistan). Al sistema concorrono altresì le parti sociali attraverso la partecipazione
delle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale dei datori di lavoro e
dei lavoratori”. Per un commento si veda S. SCIARRA, Monitoraggio e valutazione: la riforma nella
prospettiva delle politiche occupazionali europee, in P. Chieco (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro:
commentario della legge 28 giugno 2012 n. 92, Cacucci, Bari, 2013, 37 ss. Inoltre il disegno di legge
di conversione del d.l. n. 34/2014 non è stato corredato della relazione sull’analisi tecniconormativa (ATN), né della relazione sull’analisi di impatto della regolazione (AIR), come ha
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Proprio gli studi condotti dal Ministero del Lavoro e dall’Isfol successivamente
alla l. n. 92/2012, se presi in considerazione, avrebbero dovuto forse suggerire
interventi riformatori di segno diverso da quelli adottati, in quanto tali studi –
in coerenza con i dati rilevati dall’OCSE attraverso l’Employment Protection
Legislation Index (EPL)7 – mostrano come l’esperienza degli ultimi anni abbia
contraddetto quell’opinione assai diffusa in Europa secondo cui l’aumento della
flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro contribuisca alla crescita
del livello di occupazione8.
Al contrario la misura che qualifica il Jobs Act è la generale liberalizzazione della
tipologia del contratto a termine, in quanto il d.l. n. 34/2014 ne permette ai
datori l’utilizzo in piena libertà per rispondere a esigenze produttive anche a
carattere stabile dell’impresa. Il punto è che questa generale semplificazione del
contratto a tempo determinato pone una questione di compatibilità con il diritto
dell’Ue e anche di costituzionalità (per il tramite del primo comma dell’art. 117
Cost.).
La disciplina previgente, contenuta nel d.lgs. n. 368/2001, consentiva il ricorso al
contratto a termine soltanto per ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo, per tal via recependo la Direttiva europea
1999/70/CE, che per il rapporto di lavoro subordinato stabilisce la priorità del
contratto a tempo indeterminato e il confinamento nell’ambito dell’eccezione
del contratto a tempo determinato, prescrivendo per quest’ultima tipologia
l’indicazione delle cause che ne giustifichino l’adozione.
Persino l’altra epocale riforma del lavoro, introdotta appunto dalla legge
Fornero – pur attuando una parziale liberalizzazione del contratto a termine,
rilevato il Comitato per la legislazione nel parere sul decreto reso alla Commissione
parlamentare competente (consultabile nel sito della Camera dei Deputati).
7 Il database sulla flessibilità del mercato del lavoro elaborato dall’OCSE utilizza questo
Employment Protection Legislation Index (EPL), che misura il grado di protezione dell’occupazione
previsto dalla legislazione di un Paese.
8 T. TREU, Le istituzioni del lavoro nell’Europa della crisi, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni
industriali, 2013, 612.
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attraverso la previsione dell’acausalità soltanto per il primo contratto e
limitandone la durata massima a un anno –, aveva ribadito nel primo comma
dell’art. 1 che il contratto a tempo indeterminato avrebbe dovuto costituire la
forma di “contratto dominante”.
In un tale contesto normativo la novità introdotta dal Jobs Act è l’inversione dei
due modelli negoziali, per cui il contratto a termine diventa la regola –
contrariamente a quanto previsto nella Direttiva 1999/70/CE – e l’unico argine a
questa tendenza è rappresentato dalla previsione di una quota pari al 20% del
totale quale tetto massimo degli occupati con contratti a termine, posta forse nel
tentativo di evitare l’infrazione del diritto comunitario 9.
In realtà Camera e Senato hanno approvato numerosi emendamenti omogenei
tesi ad attenuare la liberalizzazione contenuta nella disciplina (già in
Commissione Lavoro alla Camera erano affiorate le parti più critiche della
riforma10), ma la discussione parlamentare è stata interrotta dall’apposizione
della fiducia su un emendamento unico presentato dal Governo per ben tre
volte durante l’approvazione del testo, per cui ogni fase dei lavori assembleari
si è conclusa con un voto di fiducia che ha impedito ogni ulteriore
approfondimento.
È pur vero che i dati statistici sulla delega legislativa rivelano come non siano
rari i casi in cui il Governo non abbia tenuto conto delle osservazioni del
Parlamento11, specialmente in vista di decisioni di impatto politico strategico e
magari già assunte altrove in modo riservato, che transitano nella sede
Peraltro nel settembre del 2014, quattro mesi dopo l’approvazione del d.l. n. 34/2014, i Ministri
dell’Eurogruppo e dalla BCE hanno richiamato il Governo italiano circa la necessità di
realizzare un programma dettagliato di riforme considerate necessarie per la ripresa economica,
quali la riforma della giustizia civile, della Pubblica Amministrazione, ma in particolare quella
del mercato del lavoro, certificando l’insufficienza non soltanto delle misure assunte dai
Governi precedenti, ma anche del decreto Poletti.
10 Se ne veda la sintesi del Presidente della XI Commissione Lavoro della Camera dei Deputati
in C. DAMIANO, Un decreto da correggere, in Lavoro Welfare, edizione online, n. 4/2014, 4 ss.
11 S. CECCANTI, I decreti del Jobs Act, nessun vulnus alla democrazia parlamentare, in Huffigton post,
del 24.02.2015, riporta dati statistici relativi al periodo 28 aprile 2006 - 22 dicembre 2012.
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parlamentare in forma obbligata e sostanzialmente integrale e lasciano alle
istituzioni dello Stato il ruolo di spettatrici passive del medesimo accordo.
Tanto più che, come aveva compreso Gaetano Silvestri, “nello stato fondato
sulla separazione dei poteri lo spostamento in sede extraistituzionale del potere
di assumere le decisioni essenziali non è solo l’ovvia conseguenza del fatto che
le forze dominanti dominano effettivamente”, quanto piuttosto il “riflesso
speculare dell’impossibilità, in un regime di questo tipo, di concepire un organo
dotato di poteri di supremazia”12.
L’iter di approvazione della legge di conversione del d.l. n. 34/2014 ha mostrato
però un Governo davvero poco interessato alla possibilità di un miglioramento
del testo del decreto attraverso il dibattito in Aula. Inoltre, in base alla
ripartizione dei lavori fra le due Assemblee, l’attività del Senato è stata molto
limitata, al punto da profilarsi un monocameralismo di fatto13. Quasi che i
problemi costituzionali della Repubblica derivino tutti dal bicameralismo
paritario e che, devitalizzando il Senato “come un dente malato” 14, sia possibile
recuperare l’efficienza del sistema15 e impiantare finalmente in Italia una
“democrazia decidente, che liberi l’azione dell’esecutivo dai veti incrociati di
partito”16.
G. SILVESTRI, La separazione dei poteri, II, Giuffrè, Milano, 1984, 198.
Del resto nell’immaginario collettivo e nel clima di dilagante antipolitica il bicameralismo
paritario appare “come la più odiosa causa della stagnazione riformista dell’ultimo trentennio”:
V. TONDI DELLA MURA, Il paradosso del “Patto del Nazareno”, se il revisore costituzionale resta
imbrigliato nella persistenza di un mito, in Rivista AIC, n. 2/2016, 8; si veda anche S. STAIANO, Le
leggi monocamerali (o più esattamente bicamerali asimmetriche), in Rivista AIC, n. 1/2016, 3 ss.
14 A. POLITO, Referendum, la risposta che manca, in Corriere della Sera del 9 maggio 2016.
15 In senso critico si vedano S. MANGIAMELI, Titolo V – Il nuovo art. 117, in www.issirfa.cnr.it,
aprile 2015, e R. BIN, L’elezione indiretta del Senato: la peggiore delle soluzioni possibili, in Astrid
Rassegna, 6/2015, 8.
16 “… ma connotata in modo evidente dalla forza del numero, dall’esaltazione della regola di
maggioranza come metodo di decisione mentre poco assecondato appare lo sviluppo del
discorso razionale attraverso il confronto pluralistico, necessario ad un’autentica democrazia
deliberativa”: V. BALDINI, Tutte le conseguenze della democrazia “decisionista” alla Renzi, in
www.ilsussidiario.net del 9 maggio 2016.
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Anche esaminando il percorso di approvazione della legge delega n. 183/2014
l’impressione è quella di un film già visto in occasione della riforma Fornero,
nel senso che i due provvedimenti sembrano sottendere la stessa “strategia
politica”17: analoghe le premesse giustificative, analoghe le modalità di proposta
e di discussione, con lo svilimento del dibattito parlamentare, soffocato
dall’incedere del Governo.
Come è accaduto per la conversione del decreto Poletti, anche l’approvazione
della l. n. 183/2014 ha registrato sistematicamente il ricorso alla fiducia al Senato
e l’avvertimento del ricorso alla fiducia alla Camera. Questa volta il Governo ha
agito in maniera colpevole, poiché il Parlamento avrebbe dovuto fornire
risposte alle domande aperte dal primo decreto del Jobs Act, quelle che
chiedevano l’istituzione di strumenti di maggiore tutela per i diritti dei
lavoratori in cambio della flessibilità introdotta con un provvedimento
d’urgenza.
Per
giustificare
la
scelta
di
porre
la
questione
di
fiducia
su
un
maxiemendamento18 presentato direttamente in Aula e comprensivo dell’intera
delega il Governo ha dichiarato l’obiettivo di ottenere l’approvazione del testo
di legge delega (almeno da un ramo del Parlamento) in una data simbolica,
ossia quella del vertice europeo sull’occupazione del 9 ottobre 2014 tenutosi a
Milano su iniziativa congiunta del Presidente francese François Hollande e del
nostro Presidente del Consiglio.
A. GUAZZAROTTI, Riforme del mercato del lavoro e prescrittività delle regole costituzionali sulle fonti,
in Costituzionalismo.it, fasc. 3/2014, 1-3, sottolinea come anche la legge Fornero sia stata
approvata “a tappe forzate, attraverso una compressione delle procedure” e ricorrendo a voti di
fiducia.
18 In generale sull’utilizzo dei maxiemendamenti da parte dei Governi “per limitare,
nell’approvazione delle leggi di finanza pubblica, l’incidenza dei micro-interessi, rappresentati
dai parlamentari di maggioranza e di opposizione”, si veda A. BARBERA, voce Costituzione della
Repubblica italiana, in Enc. dir., Annali, Milano, 2015, 307.
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In effetti i contenuti della legge delega svelano la ricerca di una legittimazione
esterna (che si potrebbe definire tecnocratica19), diretta a colmare le carenze del
processo democratico interno.
Nella pressoché totale assenza di definizione dei principi e dei criteri direttivi
sulla riforma delle tipologie contrattuali, la delega conteneva un rinvio esplicito
agli “obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in
materia
di occupabilità”.
Si tratta
degli orientamenti prodotti dalla
Commissione e dal Consiglio europeo all’interno del c.d. Metodo aperto di
coordinamento (MAC), al fine di sollecitare gli Stati membri a una competizione
virtuosa in ambiti sottratti all’hard law del diritto dell’Unione20.
Il maxiemendamento fatto approvare al Senato il 9 ottobre 2014 ha modificato
un poco il tiro, prevedendo che il “testo organico semplificato delle discipline
delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro” avrebbe dovuto essere
redatto “in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni
internazionali” e, nello specifico dell’intervento volto a “promuovere il
contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di
lavoro”, “in coerenza con le indicazioni europee”. Forse anche quest’ultima
formula – pur con tutta la sua genericità – rimanda al MAC, i cui orientamenti
sull’occupazione non recano però prescrizioni dettagliate 21, o almeno non
abbastanza per superare l’indeterminatezza della delega e il sospetto che per il
Jobs Act si sia violata la lettera dell’art. 76 Cost.
In altre parole è vero che da alcuni anni le deleghe fanno registrare rinvii
costanti a principi e criteri esterni, contenuti in una o più Direttive dell’UE, ma
Secondo G. FERRARA, La crisi del neoliberismo e della governabilità coatta, in Costituzionalismo.it, n.
1/2013, 4, dalle vicende che hanno portato alla nomina a senatore a vita di Mario Monti in poi la
“mistica” della governabilità si è tradotta in una “tecnica coattiva funzionale all’esecuzione di
imposizioni derivanti da esigenze altre rispetto a quelle dei propri sottoposti”.
20 Sul punto si veda S. SCIARRA, La costituzionalizzazione dell’Europa sociale. Diritti fondamentali e
procedure di “soft law”, in Quad. cost. 2/2004, 288 ss.
21 Per esempio si veda la Decisione del Consiglio UE del 21 ottobre 2010 (2010/707/UE) sugli
orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione.
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una Direttiva è il risultato di una decisione politica adottata con il contributo
necessario di un organo democratico quale il Parlamento europeo, mentre gli
atti di soft law della governance europea (quali appunto gli orientamenti del
MAC) non sono frutto di procedimenti democratici, neppure lato sensu22.
3. I possibili profili di illegittimità costituzionale per eccesso di delega
e per violazione del principio di eguaglianza e del canone della
ragionevolezza
L’approvazione con voto di fiducia della l. n. 183 del 2014 ha esasperato una
tendenza alla distorsione verticistica delle procedure parlamentari23, tanto più
evidente quando una delega indeterminata consegni al Governo la riscrittura a
tema libero della disciplina di un intero settore24 (nella vicenda del Jobs Act,
dell’intero diritto del lavoro italiano).
Cionondimeno la previsione di delega sul contratto a tutele crescenti mostrava
– grazie alle integrazioni apportate al testo assai ambiguo dell’originario
disegno governativo – un livello di determinatezza tale da consentire di fissare
alcuni confini sicuri, oltre i quali la decretazione delegata può dirsi illegittima
“per eccesso” ai sensi dell’art. 76 Cost.25.
G. GUARINO, Verso L’Europa, Mondadori, Milano, 1997, 68 ss.
Secondo G. AZZARITI, Diritto e conflitti, Laterza, Roma-Bari, 2010, 193, la riduzione del
Parlamento a “fabbrica delle leggi, ovvero a semplice produttore di decisioni di maggioranze,
determinerebbe una progressiva degenerazione del carattere costituzionale dell’ordinamento
complessivo”.
24 In senso critico A. PIZZORUSSO, Fonti del diritto, Art. 1 – 9, seconda ed., in Commentario del
codice civile Scialoja – Branca, Zanichelli, Bologna – Roma, 2011, 507, osserva come le
argomentazioni volte a legittimare certe torsioni in chiave “governo-centrica” si fondino tutte,
più o meno direttamente, su un retroterra culturale che individua nell’esigenza di
“governabilità del sistema” la propria principale giustificazione, in base a quella concezione
volta a riconoscere al Governo “un potere di disporre senza condizionamenti di sorta
dell’attività legislativa, ove esso lo ritenga opportuno”; anche P. CARETTI, Il ruolo della legge
statale, oggi, in M. Ruotolo (a cura di), La funzione legislativa, oggi, Editoriale Scientifica, Napoli,
2007, 49, si esprime in proposito in termini di una “torsione fortissima del modello
costituzionale”.
25 A.A. CERVATI, Legge di delegazione e legge delegata, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, 1973,
950, individua nei principi delle “norme programmatiche realmente utilizzabili con riferimento
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In base all’art. 1, comma 7, lettera c) della l. n. 183 del 2014 la disciplina del
contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti avrebbe dovuto riguardare le
“nuove assunzioni”, ma il campo di applicazione della nuova disciplina dei
licenziamenti, per come risulta definito dall’art. 1 del d. lgs. n. 23 del 2015,
travalica tale limite in almeno due direzioni diverse.
Il primo eccesso si riscontra nel comma 3 dell’art. 1, laddove il d. lgs. n. 23 del
2015 estende la nuova disciplina dei licenziamenti ai dipendenti già in forza
nelle piccole imprese che superino, mediante assunzioni con contratti a tutele
crescenti, la soglia occupazionale prevista per l’applicabilità dell’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori. Il travisamento della delega sta nel fatto che – sia pure
con l’intento di incentivare nuove assunzioni nelle piccole imprese, eliminando
per queste il deterrente rappresentato dall’ingresso (per i rapporti di lavoro già
in essere) nell’area di applicabilità dell’art. 18 – il decreto applica la nuova
disciplina del licenziamento anche ai lavoratori già assunti, quel che è impedito
dal criterio direttivo della delega.
Eccede la delega anche il secondo comma dell’art. 1 del d. lgs. n. 23 del 2015,
che estende la nuova disciplina del licenziamento anche ai casi di conversione,
pur successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratti a tempo determinato
o di apprendistato in contratti a tempo indeterminato. Questa volta la
violazione sta nel fatto che la “conversione” – come la definisce impropriamente
il decreto – è cosa diversa dalla nuova assunzione. La conversione implica
sempre l’accertamento della nullità parziale della clausola appositiva del
termine a un contratto già instaurato tra le parti, come condizione della
trasformazione del medesimo. Ciò che vale anche per la “conversione” (o
all’ambito degli oggetti definiti” e nei criteri direttivi delle “enunciazioni di finalità da
perseguire o di specifiche modalità idonee a guidare l’attività normativa del Governo”; A.
CELOTTO, E. FRONTONI, Legge di delega e decreto legislativo, in Enciclopedia del diritto, agg., vol. VI,
2002, 703 ss., osservano che nella prassi “le leggi di delega generalmente rispettano le
condizioni richieste dall’art. 76 Cost., anche se spesso con un tasso elevato di vaghezza ed
elasticità” tollerato dalla Corte costituzionale.
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riqualificazione) del contratto di apprendistato, che peraltro costituisce già un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, finalizzato alla formazione e
all’occupazione dei giovani (art. 1, comma 1, d. lgs. n. 167 del 2011).
Mostra una dubbia compatibilità con la delega – che espressamente esigeva
l’applicazione della tutela reintegratoria per “specifiche fattispecie di
licenziamento disciplinare ingiustificato” – anche la previsione di cui all’art. 3,
comma 2, del d. lgs. n. 23 del 2015 con cui il legislatore delegato consente la
tutela reale soltanto nelle ipotesi (non specificamente determinate) di recesso
del datore per ragioni soggettive nelle quali “sia direttamente dimostrata in
giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, senza
consentire al giudice alcuna valutazione circa la “sproporzione” della sanzione
estintiva del rapporto.
La manifesta irrazionalità ex se di questo espresso divieto di un controllo di
proporzionalità si pone in contraddizione insanabile con alcuni principi
costituzionali. Più esattamente l’irrazionalità della previsione normativa
determina – nei casi in cui un fatto materiale possa rivestire un’astratta valenza
disciplinare ai fini del licenziamento – la violazione del principio di eguaglianza
laddove impone al giudice, precludendogli il controllo di proporzionalità, di
trattare allo stesso modo (con l’esclusione del rimedio reintegratorio) situazioni
che possono essere sostanzialmente diverse (per i profili soggettivi e psicologici
che
connotano
la
condotta
dell’agente,
per
l’esistenza
di
cause
di
giustificazione, ecc.).
D’altra parte, impedendo qualunque valutazione sulla proporzionalità tra
infrazione e sanzione espulsiva – valutazione che è connaturata nel sistema
disciplinare (art. 2106 cod. civ.) e che per gli stessi lavoratori assunti con il
contratto a tutele crescenti dovrà quantomeno valere ai fini dell’applicazione
delle sanzioni conservative –, l’art. 3, comma 2, del d. lgs. n. 23 del 2015
ammette che si possa fondare il licenziamento su un fatto materiale certamente
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accaduto (per esempio un ritardo di un minuto), ma del tutto irrilevante sul
piano disciplinare e quindi lecito, perché non qualificabile in termini di grave
inadempimento degli obblighi contrattuali (art. 3, l. n. 604 del 1966) o di giusta
causa (art. 2119 cod. civ.).
In definitiva l’intero disegno concettuale del decreto sul contratto a tutele
crescenti è costruito sulla frattura dei principi di eguaglianza e di solidarietà nei
luoghi di lavoro26, con una divaricazione delle tutele contro il licenziamento
illegittimo a seconda della data di assunzione del lavoratore.
Estendendo poi la nuova disciplina sull’indennizzo correlato all’anzianità di
servizio anche ai licenziamenti collettivi (come pur astrattamente autorizzato a
fare dalla legge delega), il legislatore delegato permette che, a fronte dei
medesimi vizi procedurali o sostanziali di un licenziamento per riduzione di
personale che coinvolga contemporaneamente vecchi e nuovi assunti, soltanto i
primi possano avvalersi della tutela processuale e sostanziale garantita dall’art.
18 dello Statuto dei lavoratori, relegando i secondi alla ridotta tutela
indennitaria consentita in generale dal contratto a tutele crescenti, da attivare in
giudizio avvalendosi del rito ordinario.
Inoltre la scelta di commisurare automaticamente all’anzianità di servizio
l’ammontare dell’indennità risarcitoria comporta l’esclusione di tutti gli altri
criteri contemplati dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966 e dallo stesso art. 18 dello
Statuto
come
novellato
dalla
legge
Fornero,
che
richiedono
invece
apprezzamenti di carattere più o meno discrezionale (per esempio relative al
comportamento o alle condizioni delle parti).
In realtà il testo definitivo del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015, approvato dal
Consiglio dei Ministri il 20 febbraio 2015 senza tenere conto nella sostanza dei
Si vedano I. MASSA PINTO, Costituzione e fraternità. Una teoria della fraternità conflittuale: “come
se” fossimo fratelli, Jovene, Napoli, 2011, 129 ss.; G. LOY, Una Repubblica fondata sul lavoro, in E.
Ghera, A. Pace (a cura di), L’attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro,
Jovene, Napoli, 2009, 3 ss.
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rilievi formulati dalle Commissioni parlamentari competenti27, configura un
modello contrattuale di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti molto
diverso da quello che poteva immaginarsi alla luce delle prime discussioni sul
Jobs Act28.
Nella prima stesura del disegno di legge delega presentato dal Governo (AS n.
1428 del 2014), la lettera b) dell’art. 4 si limitava a prevedere, all’interno di un
testo organico semplificato, la possibilità di introdurre ulteriori tipologie
contrattuali “espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro,
con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”. Sul punto il testo definitivo della
delega approvata con la l. n. 183 del 2014 è significativamente diverso: l’art. 1,
comma 7, lettera c) autorizza la “previsione, per le nuove assunzioni, del
contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di
servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo
economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla
reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di
licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per
l’impugnazione del licenziamento”.
È evidente come la natura del contratto a tutele crescenti non sia più quella di
una nuova e distinta tipologia contrattuale, ma si tratti del comune contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato ex art. 2094 cod. civ., che ora si
caratterizza tuttavia – soltanto per i nuovi assunti da datori di lavoro privati –
per la radicale regressione nell’intensità dei rimedi apprestati contro il
licenziamento ingiustificato. E così il d. lgs. n. 23/2015 ha finito con il prevedere
per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore della riforma una tutela
Per la disamina di alcuni fatti politici extraparlamentari capaci di vincolare il Parlamento in
modo diretto e assoluto, ma incapaci di generare un risultato costituzionalmente adeguato ed
esauriente, si veda V. TONDI DELLA MURA, Il paradosso del “Patto del Nazareno”, cit., 7.
28 Si veda la ricostruzione di S. GIUBBONI, Il ridisegno delle tipologie contrattuali nel Jobs Act, in
Treccani – Libro dell’anno del diritto 2015, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, 368 ss.
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talmente soft in caso di licenziamento illegittimo da rappresentare una vera e
propria libertà di recesso per il datore29.
È vero che in questa materia esiste da sempre una distinzione dei regimi di
disciplina, ma la disparità di trattamento in relazione alla dimensione dell’unità
produttiva è la derivante di fattori oggettivi radicati nella realtà economica e
sociale. Al contrario la nuova disciplina discrimina i dipendenti di una stessa
impresa, semmai addetti alla medesima unità produttiva, e non prevede alcuna
successione da un regime all’altro per effetto del decorso del tempo,
ingenerando quindi seri dubbi sulla ragionevolezza della distinzione di
trattamento.
Dal canto suo la Corte costituzionale ha valutato sempre con sfavore le
differenze di trattamento relative al licenziamento fondate su distinzioni
soggettive30 e tali sono le differenze introdotte dal Jobs Act benché ammantate
dal criterio temporale (in sé ammissibile come criterio distintivo se applicato
indistintamente31).
D’altra parte bisogna chiedersi se l’arretramento delle tutele per i nuovi assunti
(con la loro conseguente discriminazione soggettiva) possa ritenersi giustificato
sul piano costituzionale come una misura di parificazione volta a incrementare
le possibilità occupazionali dei tanti svantaggiati che sono senza lavoro e se per
ciò stesso tale arretramento possa definirsi ragionevole (essendo questa la
motivazione della riforma, come risulta dalla legge delega).
Si veda C. SALAZAR, La Costituzione, i diritti fondamentali, la crisi: qualcosa di nuovo, anzi
d’antico?, in B. Caruso, G. Fontana (a cura di), Lavoro e diritti sociali nella crisi europea, il Mulino,
Bologna, 2015, 95 ss.
30 Si vedano le sentenze della Corte sugli apprendisti e sui pensionati, rispettivamente la n.
181/1989 e le nn. 174 e 176 del 1971.
31 La Corte costituzionale ha affermato che “gli eventi sui quali incide il fluire del tempo sono
caratterizzati da peculiarità, che li diversificano da situazioni analoghe, oggetto di
comparazione” (sentenza n. 6 del 1988) e da questa premessa ha dedotto che non contrasta con
il principio di eguaglianza un trattamento diverso applicato alla stessa categoria di soggetti in
momenti diversi nel tempo, giacché “il succedersi nel tempo di fatti ed atti può di per sé
rendere legittima l’applicazione di una determinata disciplina rispetto ad altra” e pertanto
“l’elemento temporale può essere legittimo criterio di discrimine” (sentenza n. 276 del 2005).
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In effetti il principio di eguaglianza può essere compatibile con distinzioni
incentrate su caratteri soggettivi come la posizione di svantaggio di alcuni
gruppi (cioè giustificandosi la differenza di trattamento come azione positiva),
ma deve trattarsi appunto di misure a favore di gruppi svantaggiati, laddove
nel contratto a tutele crescenti la differenza di trattamento implica il suo
opposto, ossia una diminuzione di tutela.
Questa è in definitiva la natura del contratto di lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti: una disciplina dei licenziamenti fortemente regressiva anche
rispetto a quella già depotenziata dalla l. n. 92 del 2012, applicabile soltanto ai
nuovi assunti e che soltanto per costoro comporta la sostanziale cancellazione
della tutela reale in caso di recesso datoriale illegittimo (posto che la tutela
ripristinatorio-reintegratoria è come tale applicabile soltanto ai rapporti di
lavoro instaurati anteriormente all’entrata in vigore del decreto attuativo)32.
4. Conclusioni (una questione di metodo per le riforme)
L’idea originaria del contratto a tutele crescenti intendeva promuovere
l’“inserimento stabile nel mercato del lavoro attraverso una temporanea
attenuazione della tutela contro i licenziamenti, in una prima fase (per quanto
lunga) del rapporto, salva comunque l’applicazione della ordinaria tutela ex art.
18 dello Statuto dei lavoratori al termine di essa”33. Questa versione della nuova
tipologia di contratto sarebbe risultata più coerente con il principio di
eguaglianza e avrebbe scongiurato quella contrapposizione generazionale fra
Cassazione, Sezioni Unite, 10 gennaio 2006, n. 141: “la tutela reintegratoria è più vicina alle
scelte di valore del legislatore in tema di responsabilità contrattuale”, onde vanno intese come
eccezionali rispetto a tali scelte le norme che escludono o limitano la tutela specifica offerta
dall’art. 18 dello Statuto, anche perché, diversamente, “il diritto del lavoratore al proprio posto,
protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di
regola al diritto ad una somma”.
33 S. GIUBBONI, Il contratto a tutele crescenti e la Costituzione, in Menabò di Etica ed Economia, n. 16
del 2015, 1.
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lavoratori che possono accedere al reintegro e lavoratori che possono ottenere
soltanto una tutela indennitaria.
Al contrario l’interpretazione trasfigurata del contratto a tempo indeterminato a
tutele crescenti da parte del Governo ha cancellato l’art. 18 dello Statuto e, per i
casi di licenziamento illegittimo, ha sostituito la tutela reale (ossia il reintegro)
con un indennizzo crescente con gli anni di lavoro.
La divaricazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo a seconda che si
tratti di vecchi o di nuovi assunti è una disparità di trattamento sproporzionata
e insuscettibile di soddisfare il più specifico test di bilanciamento imposto dal
giudizio di ragionevolezza34, poiché – diversamente dalle ipotesi iniziali di
contratto a tutele crescenti come sottotipo rivolto appunto a favorire
l’inserimento stabile nel lavoro subordinato, con una deroga transitoria alla
disciplina ordinaria dei licenziamenti – il Jobs Act ha introdotto una
differenziazione di statuto protettivo radicale e permanente, senza prevedere
un riallineamento delle tutele al raggiungimento di una certa anzianità di
servizio.
La tensione con i principi costituzionali non sta soltanto nel sostanziale
abbandono della tutela reintegratoria, che non è costituzionalmente necessitata;
il torto a quei principi è piuttosto procurato da una tutela che, anche ove possa
legittimamente esaurirsi tutta dentro una logica puramente monetaria, non è
idonea a garantire (non un’efficacia sanzionatoria e dissuasiva nei confronti del
recesso datoriale illegittimo, ma almeno) una minima effettività risarcitoria.
In particolare non soddisfa un requisito minimo di effettività l’indennità
prevista per le ipotesi di licenziamento ingiustificato (quantomeno per i
lavoratori con minore anzianità), di gran lunga al di sotto degli standard previsti
dalle fonti internazionali e sovranazionali. Al riguardo il parametro più
F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007,
30 ss.
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significativo – rilevante come norma interposta ai sensi dell’art. 117, comma 1,
Cost. – è quello offerto dall’art. 24 del nuovo testo della Carta sociale europea35.
È proprio questo il punto più critico della riforma, ponendosi essa in
contrapposizione con la visione costituzionale del lavoro come diritto connesso
a una “funzione eminente di emancipazione e socializzazione”36 del lavoratore,
funzione alla quale si collega la garanzia costituzionale (non solo di
un’occupazione, ma anche) della tendenziale stabilità dell’occupazione37.
Il Jobs Act rompe questo schema sostituendo la tutela reale, che mira a garantire
quella stabilità, con la tutela obbligatoria nella forma dell’indennizzo
monetario, che ha una finalità di mero sostegno al reddito e non rappresenta un
deterrente verso forme di precarizzazione dell’occupazione.
Consentendo la netta prevalenza delle ragioni dell’impresa su quelle del lavoro
subordinato, la disciplina attuale del licenziamento sembra riproporre quella
lettura secondo cui l’art. 35 Cost. coincide essenzialmente con l’art. 2060 cod.
civ.38, “che accomuna la disciplina del lavoro subordinato e autonomo con
G. ORLANDINI, La tutela contro il licenziamento ingiustificato nell’ordinamento dell’Unione europea,
in Giornale dir. lav. rel. ind., 2012, 625.
36 M. BENVENUTI, Lavoro (principio costituzionale del), in Enciclopedia giuridica, Aggiornamento
XVIII, 2009, 7.
37 Si veda C. MORTATI, Il diritto al lavoro secondo la Costituzione della Repubblica, (1953), in Id.,
Raccolta di scritti, III, Giuffrè, Milano, 1972, 147. A partire dalla sentenza (interpretativa di rigetto
di principio) n. 45 del 1965 la Corte costituzionale ha ricavato dalla Costituzione un principio in
forza del quale “se (…) è vero che l’indirizzo politico di progressiva garanzia del diritto al
lavoro, dettato nell’interesse di tutti i cittadini, non comporta la immediata e già operante
stabilità di quelli di essi che siano già occupati, ciò non esclude, ma al contrario esige che il
legislatore nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale adegui, sulla base
delle valutazioni di sua competenza, la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato
al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie (…) e
di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti”; si vedano
altresì sentt. nn. 81 del 1969, 194 del 1970, 174 del 1971, 2 del 1965, 152 del 1975, 189 del 1975,
129 del 1976, 420 del 1998, 541 del 2000.
38 C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, Relazione al XXVIII convegno annuale
dell’Aic, in Rivista Aic, fasc. 4/2013, 17, ha sottolineato già in riferimento alla l. n. 92 del 2012
come il licenziamento per motivi economici sottratto alla tutela reale abbia determinato “una
più forte protezione rispetto al passato agli interessi del datore di lavoro”; G. AZZARITI, Brevi
notazioni sulle trasformazioni del diritto costituzionale e sulle sorti del diritto del lavoro in Europa, in E.
Ghera, A. Pace (a cura di) L’attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro,
17
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quella dell’impresa”39. Si tratta di un’interpretazione che non tiene conto del
favor che il Costituente ha accordato ai lavoratori subordinati40 e ha posto alla
base di quella “funzione civilizzatrice del costituzionalismo democratico” 41 che
ricorre in tutte le disposizioni della prima parte della Costituzione che
qualificano i fini sociali o di utilità sociale come strumenti di contrasto a forme
tradizionali e inedite di privilegio42.
Quel che appare più evidente è l’allontanamento da quella concezione del
lavoro inteso come strumento di realizzazione della persona e della sua dignità
sulla quale si fonda la Costituzione in base all’art. 143 e, al contrario, l’emersione
di un’idea di lavori possibili ed eventuali, finalizzati soltanto al sostentamento
materiale dell’individuo, idea che i Costituenti respinsero44.
Una trasformazione così profonda, che investe gli stessi concetti costituzionali
di “dignità” sociale45 e di “libertà”46, avrebbe dovuto basarsi su una decisione
cit., 152, imputa la sostanziale equiparazione fra i diritti dei lavoratori e dei datori di lavoro al
diritto dell’Ue e, in particolare, alla Carta dei diritti dell’Ue, che considera il lavoro “un diritto
tra i tanti, da tutelare insieme a quelli dell’impresa”.
39 T. TREU, Art. 35, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli, BolognaRoma, 1979, 2.
40 A. DI GIOVINE, M. DOGLIANI, Dalla democrazia emancipante alla democrazia senza qualità?, in
Questione giustizia, n. 2/1993, p. 321 ss.
41 G. FERRARA, Il lavoro come fondamento della Repubblica e come connotazione della democrazia
italiana, in G. Casadio (a cura di), Diritti sociali e lavoro nella Costituzione italiana, Ediesse, Roma,
2006, 205.
42 I. MASSA PINTO, Costituzione e lavoro, totem e tabù, in Costituzionalismo.it, fasc. 3/2012, 8; per
ampie considerazioni sul concetto costituzionale di “non abbienza” si veda R.G. RODIO, Difesa
giudiziaria e ordinamento costituzionale, Cedam, Padova, 1990, 39 ss.
43 C. MORTATI, Art. 1, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, cit., 12: “nel lavoro
si realizza la sintesi fra principio personalistico (che implica la pretesa all’esercizio di un’attività
lavorativa) e quello solidarista (che conferisce a tale attività carattere doveroso)”. Secondo R.
NANIA, Riflessioni sulla “costituzione economica” in Italia: il “lavoro” come “fondamento”, come
“diritto”, come “dovere”, in E. Ghera, A. Pace (a cura di), L’attualità dei principi fondamentali della
Costituzione in materia di lavoro, cit., 68, la Costituzione accoglie una nozione ampia di lavoro
nella quale si compie “quella saldatura tra realizzazione individuale e riconoscibilità sociale su
cui si gioca la capacità di progresso di una comunità”.
44 M. LUCIANI, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul
lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, 2010, 629; ID., La produzione della ricchezza nazionale, in
Costituzionalismo.it, fasc. 2/2008, 6.
45 G. FERRARA, Il lavoro come fondamento della Repubblica e come connotazione della democrazia
italiana, cit., 200.
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consapevole e ponderata del Parlamento e non affermarsi attraverso le prove di
forza che passano per il voto di fiducia, che nella vicenda del Jobs Act è stato
utilizzato dal Governo soprattutto per rispettare il suo cronoprogramma.
È quanto accaduto anche in occasione della riforma costituzionale in corso, con
l’andamento del dibattito parlamentare nuovamente piegato alle contingenze
della politica47.
Il fil rouge che tiene insieme le diverse parti del testo del progetto della riforma
costituzionale e ne svela la concezione di fondo è la semplificazione del
processo decisionale attraverso una riduzione delle istanze coinvolte e una
concentrazione del potere di scelta finale in capo a Governo e Camera dei
Deputati, ma la mancata ricerca di soluzioni politicamente condivisibili ha
lasciato irrisolte questioni fondamentali per l’equilibrio dei poteri e la
sistematicità del testo di revisione48.
Nel segno della governabilità – la cui mistica aveva già ispirato la nuova legge
elettorale49 – il d.d.l. cost. Renzi-Boschi si propone di superare la “cronica
debolezza degli esecutivi nell’attuazione del programma di governo, la lentezza
Si veda M. LUCIANI, Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione
repubblicana, Relazione al Convegno annuale AIC 2011, in Diritto e Società, 2011, 679.
47 F. BILANCIA, Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del ddl Renzi. Sfidando il
divieto di una discussione pubblica, in Costituzionalismo.it, 2 aprile 2014.
48 Un progetto che ha come obiettivo la semplificazione, ma riesce ad applicarla a tutto tranne
che al drafting legislativo: l’art. 70 Cost. passa dalle 9 parole della formulazione attuale a oltre
300 (mentre nel dicembre 1947 l’Assemblea Costituente chiese al latinista Concetto Marchesi di
occuparsi di una revisione finale del testo della Costituzione, anche sotto il profilo della
coerenza sintattica e stilistica). Sul venir meno della stessa ragion d’essere del disegno
riformatore si vedano G. AZZARITI, Riforma del Senato. Questioni di metodo e di merito, in Astrid
Rassegna, 8/2014, 2; A. RUGGERI, Quali insegnamenti per la riforma costituzionale dagli sviluppi della
vicenda regionale?, in Rivista AIC, n. 4/2014, 7 ss.; M. LUCIANI, La riforma del bicameralismo, oggi, in
Percorsi costituzionali, 2/2014, 389.
49 Legge 6 maggio 2015, n. 52 recante “Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati”.
Sull’incerta relazione tra legge elettorale e governabilità si veda E. ROSSI, Storia di un “falso”?
L’Italicum e la “governabilità”, in Quad. cost., n. 3/2015, 748 ss., secondo cui “La governabilità è
infatti un concetto che richiede cultura istituzionale dei membri della maggioranza, capacità di
leadership reale, un dibattito democratico serio ed efficace all’interno dei gruppi di
maggioranza, e molto altro ancora: tutte cose che non si possono chiedere certo ad una legge
elettorale”.
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e la farraginosità dei procedimenti legislativi”50; ma questa debolezza non pare
imputabile al sistema costituzionale delle fonti, rispetto al quale il Governo
dispone già di una serie di strumenti utili all’attuazione del proprio indirizzo
politico51. In altre parole il problema non è la debolezza degli esecutivi, bensì la
progressiva penalizzazione del Parlamento nei processi decisionali, nei quali il
Governo prevale da tempo52.
In definitiva l’intoccabilità da parte del Parlamento di un d.d.l. cost. che
necessitava di adeguati bilanciamenti ha reso ancora più evidente il limite
metodologico del processo riformatore in itinere53; “limite consistito nella
sopravvalutazione delle condizioni politiche necessarie all’approvazione della
riforma e nella sottovalutazione dei profili costituzionali coinvolti, a riprova di
come il metodo incida sempre sul merito, viziandone i risultati ove esercitato in
maniera inadeguata”54.
Relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale, Atto Senato n. 1429, 2.
M. VOLPI, La natura della forma di governo dopo il 1994, in Associazione Italiana Dei
Costituzionalisti, Annuario 2001. Il Governo, Padova, 2002, 149 ss.
52 G. AZZARITI, A proposito della riforma costituzionale: questioni di legittimazione e merito, in Rivista
AIC, n. 2/2012, 2; A. PIZZORUSSO, Fonti del diritto, cit., 328, osserva come la tendenza del
Governo a svolgere un ruolo propulsivo nella produzione normativa abbia determinato “veri e
propri stravolgimenti del principio della competenza parlamentare all’esercizio della funzione
normativa primaria, che il controllo di costituzionalità delle leggi non è stato in grado di
contrastare efficacemente”. Più in generale si può affermare che risulti ancora attuale la
considerazione L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, il Mulino, Bologna, 1996, 213, secondo cui
“la divisione dei compiti adombrata dalla Costituzione, per cui spetterebbero alle Camere le
regole di base e al Governo le norme di attuazione è stata spesso alterata con esiti radicalmente
opposti”.
53 La Consulta ha rimarcato come l’art. 138 Cost., presentando una scansione temporale lunga e
partecipata, preveda uno stretto collegamento fra la fase propriamente parlamentare e quella
popolare, proprio per evitare “che il dibattito relativo alla modificazione delle norme più
importanti per la vita della comunità nazionale debba restare confinato nei luoghi istituzionali
della politica”; di conseguenza la rappresentanza politico-parlamentare è chiamata a rendere
ragione delle proprie scelte e a misurarsi con la realtà del corpo sociale al fine di fornire “alla
discussione parlamentare l’habitat culturale necessario ad affrontare un procedimento di
revisione” (C. cost., sent. n. 496/2000, § n. 4.2 del Considerato in diritto).
54 Per queste riflessioni si veda V. TONDI DELLA MURA, Il rischio di una «chiamata in sussidiarietà»
dei grandi partiti nazionali nel nuovo “Senato della Repubblica”, in www.osservatorioaic.it, 2/2015,
31.7.2015.
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Anche le riserve in termini di sostenibilità costituzionale espresse dai
parlamentari di minoranza sono state percepite come un ostacolo alla stabilità
governativa, prescindendo da ogni valutazione circa la relativa fondatezza e
opportunità, e in sostanza sono stati dibattuti e approvati solo emendamenti
“sostanzialmente del tutto marginali”55, che fossero (per così dire) aderenti
all’impianto della riforma.
In
questa
prospettiva
il
rischio
è
che
quel
principio
cardine
del
costituzionalismo che è la limitazione del potere si trasformi in un totem da
relativizzare e svuotare di portata prescrittiva, in nome del collegamento che si
pretende di instaurare tra rappresentanza e decisionismo.
C. FUSARO, Audizione nel corso dell’indagine conoscitiva sulla revisione della Parte II della
Costituzione, Senato della Repubblica, Commissione affari costituzionali, 3 agosto 2015, ripresa
da V. TONDI DELLA MURA, Il paradosso del “Patto del Nazareno”, cit., 2.
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