1 TRIBUNALE ORDINARIO DI NOLA Sezione Lavoro Il giudice del

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1 TRIBUNALE ORDINARIO DI NOLA Sezione Lavoro Il giudice del
TRIBUNALE ORDINARIO DI NOLA
Sezione Lavoro
Il giudice del lavoro, nel procedimento n. 2020/2015 del Ruolo affari contenziosi
civili, vertente
TRA
SCARPATO MARIA
(avv. E. Iossa)
ricorrente
E
COMUNE DI VOLLA, in persona del legale rapp.te
(avv. E. Furno)
resistente
a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 10.11.2015, ha pronunciato la
seguente
ORDINANZA
ai sensi dell’art. 1, commi 47 e ss. l.n. 92/2012
Con ricorso depositato il 27.03.2015 parte ricorrente deduceva di essere stata assunta
dal Comune di Volla in data 15.12.2009 a seguito dell’approvazione della graduatoria
finale di merito del concorso a due posti di assistente sociale, nella quale si era
posizionata al secondo posto, che dal 09.10.2014 al 15.02.2015 si trovava in malattia
per “fibrillazione atriale”, che nonostante ciò con determinazione n. 88 del 27.10.2014
le veniva intimato licenziamento a far data dal 08.11.2014.
Precisava che il provvedimento espulsivo era stato comminato in ragione della
necessità di adempiere al DPR del 28.03.2013 emesso all’esito del ricorso straordinario
al Capo dello Stato su iniziativa della terza classificata in graduatoria, ricorso che era
stato accolto con conseguente rideterminazione della graduatoria e retrocessione della
ricorrente al terzo posto; aggiungeva che il provvedimento di rideterminazione della
graduatoria era stato impugnato dinanzi al TAR e che pendeva giudizio.
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Tutto ciò premesso, ha agito per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento
intimatole nel periodo di malattia debitamente certificato e comunicato al datore di
lavoro e dunque in violazione dell’art. 2110 c.c., chiedendo ordinarsi per l’effetto la
reintegra nel suo posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18
comma 4 dello Statuto dei lavoratori come modificato dalla L. 92/2012. Con vittoria di
spese.
Il Comune convenuto si costitutiva, contestando l’ammissibilità del ricorso proposto
secondo il rito di cui alla L. 92/21012 inapplicabile ai rapporti di lavoro alle
dipendenze della p.a. e, nel merito, deducendo la piena legittimità del licenziamento
per giusta causa, trattandosi di atto necessitato e dovuto per ottemperare al giudicato
amministrativo. Ha dunque chiesto il rigetto della domanda con vittoria di spese.
Ritenuto superfluo qualsivoglia approfondimento istruttorio, il Giudice, sulle
contrapposte conclusioni delle parti, all’udienza del 10.11.2015 si riservava.
Va preliminarmente rilevato che come espressamente disposto dalla L. n. 92/2012, il
procedimento da essa previsto ex art. 1 commi 48 e ss., per l’impugnativa dei
licenziamenti con richiesta di applicazione dell’art. 18 St. Lav., si applica dalla data di
entrata in vigore della legge medesima, ossia dal 18.7.2012; la normativa sostanziale
contenuta nella legge si applica ai licenziamenti intimati dopo la data predetta, tra cui
rientra il presente - asserito - atto di licenziamento intimato il 27.10.2014.
Ciò posto la giurisprudenza di legittimità – pronunciando in materia di competenza, ma
elaborando
un
principio
senz’altro
applicabile,
in
via
estensiva,
ai
fini
dell’individuazione del rito - ha evidenziato che la competenza va individuata in base
alla prospettazione trasfusa nel ricorso “salvo che nei casi in cui la prospettazione ivi
contenuta appaia prima facie artificiosa e finalizzata soltanto a sottrarre la cognizione
della causa al giudice predeterminato per legge.” (cfr. Cassazione Civile, Sezione
Lavoro, Sent. n. 11415/2007; Ord. n. 7182/2014).
Nel caso di specie, la parte ricorrente ha dedotto la nullità/illegittimità/inefficacia del
licenziamento comunicatole dal Comune di Volla il 27.10.2014 con conseguente
domanda, in via principale, di reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente
occupato, oltre al risarcimento del danno ex art. 18 comma 1 L. 300/1970, sicché la
scelta del rito speciale deve ritenersi corretta, in base al principio della prospettazione,
in relazione al (prospettato) atto di licenziamento, essendo una questione di merito
quella che può condurre ad una differente qualificazione giuridica dell’atto impugnato
con le relative conseguenze in punto di diritto.
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Altra, diversa ed assai più complessa questione è quella dell’applicabilità anche al
lavoro pubblico della disciplina sanzionatoria contenuta nel nuovo testo dell’art. 18.
In proposito, è nota a questo Giudice la diversità di opinioni in dottrina e le divisioni
della giurisprudenza (per l’applicabilità della novella la prevalente giurisprudenza, per
tutte Trib. di Palermo, 17.3.2014; in contrario Trib. di Roma, 23.1.2013, Trib. di
Venezia, 2.12.2014) tutte determinate dalla particolare equivocità del testo normativo.
E’ noto, infatti, come l’art. 51 comma 2 del D.Lgs. 165/2001 disponga che “La legge
20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle
pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”, così la legge
certamente prevedendo un rinvio mobile al testo dell’art. 18, idoneo a consentire in via
generale la diretta applicazione nel lavoro pubblico di modifiche normative incidenti
immediatamente sulla disciplina dello Statuto, quali quelle introdotte dalla L. 92/2012.
D’altro canto è un dato di fatto che i commi 7 e 8 dell’art. 1 della L. 92/2012
prevedano rispettivamente che “le disposizioni della presente legge, per quanto da
esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei
rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in
coerenza con quanto disposto dall'articolo 2, comma 2, del medesimo decreto
legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all'articolo 3 del medesimo decreto
legislativo.
8. Al fine dell'applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e
la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative
dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante
iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della
disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Ora, così ricostruita la normativa, deve in primo luogo rilevarsi come, a fronte della
chiara previsione dell’art. 51 del D.Lvo 165/2001, la L. 92/2012 non contenga alcuna
espressa esclusione dell’impiego pubblico ex se dall’area di applicazione della riforma,
diversamente da quanto avvenuto per altri interventi normativi, quali tipicamente l’art.
1 comma 2 del D.Lvo 276/2003 (primo di una serie di riforme avente l’effetto di
accrescere le differenze regolative tra lavoro pubblico e privato dopo le prime due
stagioni della contrattualizzazione).
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In contrario, del tutto condivisibilmente si è osservato da parte dei primi commentatori
come proprio un’espressa norma di eccezione sarebbe stata necessaria al fine di
escludere l’estensione al lavoro pubblico di modifiche normative di istituti già ad esso
applicabili.
Ed ancora, depone nel senso dell’immediata applicabilità del nuovo testo dell’art. 18
anche al lavoro pubblico contrattualizzato la circostanza che la L. 92/2012 contenga
delle previsioni di espressa esclusione dei pubblici dipendenti dal novero dei
destinatari di alcune disposizioni (così l’art. 2 comma 2 o l’art. 2 comma 29 lett. d),
disposizioni che sarebbero prive di qualsiasi contenuto normativo per il caso di
generalizzata esclusione del lavoro pubblico dall’area di normazione della riforma.
Così che non pare irragionevole ritenere che l’espressione usata nel comma 7 (“le
disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto,
costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165”) contenga il riferimento anche alle disposizioni della novella
che incidono su istituti già applicabili al lavoro pubblico, anche quanto ad esse la legge
pertanto avendo “disposto espressamente”.
Ne segue, ad avviso del Giudice, l’applicabilità anche al rapporto di pubblico impiego
della disciplina limitativa dei licenziamenti quale da ultimo introdotta dalla L. 92/2012,
come di recente affermato dalla Corte di Cassazione, sez. L., nella sentenza n. 24157
del 26.11.2015.
Va a questo punto valutata l’ascrivibilità dell’atto di recesso datoriale, concretizzatosi
nella determina n. 88 del 27.10.2014, alla categoria dei licenziamenti, secondo la
prospettazione di cui in ricorso.
E’ preliminare, ai fini di una migliore comprensione della vicenda, ripercorrere i
passaggi salienti della stessa:
-
a seguito di approvazione della graduatoria finale di merito del concorso
bandito con determinazione dirigenziale n. 783 del 22.10.2008 per due posti di
assistente sociale, la ricorrente risultava seconda vincitrice e, pertanto, con
contratto del 15.12.2009 la stessa veniva assunta alle dipendenze del Comune
convenuto;
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-
con DPR del 28.02.3014, veniva accolto il ricorso straordinario al Capo dello
Stato della terza classificata, tale De Gennaro Antonella, con obbligo a carico
dell’ente di adeguarsi alla relativa decisione;
-
con determinazione n. 210 del 08.05.2014 veniva ripercorso l’iter concorsuale,
con nuova nomina della Commissione esaminatrice, che all’esito attribuiva alla
De Gennaro l’ulteriore punteggio, che le consentiva di collocarsi al secondo
posto della graduatoria;
-
a conclusione dei lavori, la Commissione trasmetteva i verbali al responsabile
competente per i provvedimenti consequenziali, che provvedeva alla
rimodulazione della graduatoria, che veniva approvata con determinazione n.
150 del 09.10.2014, collocando al secondo posto la De Gennaro ed al terzo
posto la ricorrente;
-
in data 16.10.2014, la p.a.
notificava alla Scarpato la nuova graduatoria,
demandando ad un successivo provvedimento la cessazione del rapporto
lavorativo della stessa, che di fatto avveniva con determinazione n. 88 del
27.10.2014 .
Occorre muovere dalla natura del licenziamento, quale negozio unilaterale recettizio, la
cui causa giuridica, da individuare nella risoluzione del contratto di lavoro, e’, per
dettato legislativo, specificamente connotata o da una situazione tale da rendere
impossibile la prosecuzione, ancorchè provvisoria, del rapporto (giusta causa), oppure
da una situazione di inadempimento che consenta una prosecuzione provvisoria
(giustificato motivo soggettivo) o, infine, da una situazione, che esula dalla colpa del
lavoratore, inerente all’organizzazione del lavoro e all’attività produttiva (giustificato
motivo oggettivo); su tali situazioni giustificative del licenziamento
è poi
necessariamente proiettata la volontà del datore di lavoro che lo pone in essere.
Tanto premesso in astratto, va rilevato che, nel caso di specie, è pacifico tra le parti che
la determinazione datoriale di risoluzione del rapporto di lavoro della ricorrente
avveniva in ottemperanza al decisum amministrativo in sede di ricorso straordinario al
Capo dello Stato, che aveva accolto la domanda della candidata collocatasi terza
all’esito del concorso per due posti di assistente sociale.
D’altraparte, tale intento della p.a. emerge in maniera cristallina dalla lettura della
determina n. 88 del 27.10.2014, in cui il responsabile del servizio dava atto
espressamente della volontà “di dare ottemperanza al decreto decisorio adottato dal
Presidente della Repubblica in data 28.03.2013…”.
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Ebbene, alla luce della circostanza, pacifica tra le parti, che il recesso trovava la
propria
ragione
giustificativa
nell’annullamento
della
graduatoria
in
sede
amministrativa, come risulta dall’interpretazione dell’intento datoriale estrinsecatosi
nella determinazione n. 88 del 27.10.2014, è da escludere, nel caso di specie, la
configurabilità di un negozio giuridico, per carenza di uno degli elementi essenziali di
cui all’art. 1326 c.c., applicabile giusto richiamo dell’art. 1324 c.c. anche ai negozi
unilaterali, e segnatamente la volontà, sub specie di volontà risolutiva del rapporto
lavorativo, avendo inteso la p.a. limitarsi a prendere atto della nullità del rapporto, in
quanto fondato su di un’assunzione in assenza dei presupposti e delle procedure di
legge.
Ciò posto, si osserva che, come affermato dalla Corte di Cassazione in fattispecie
analoghe, in tema di lavoro pubblico privatizzato, nel cui ambito gli atti di gestione del
rapporto di lavoro sono adottati con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro,
l’atto con cui l’Amministrazione, come nella specie, vada ad incidere direttamente sul
rapporto di lavoro con il dipendente determinandone la risoluzione sul presupposto
della nullità dello stesso in quanto costituito in violazione di legge, “non costituisce
esercizio di un potere amministrativo di autotutela, inconcepibile rispetto ad atti di
diritto privato, ma atto avente mera natura conformativa rispetto all’ordinamento dei
pubblici dipendenti contrattualizzati” (cfr. Cass. 25761/2008).
Più specificamente, tale atto equivale alla condotta del contraente che non osservi il
contratto stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità e, pertanto, non si
tratta di scioglimento unilaterale dal contratto, bensì di comportamento con il quale si
fa, concludentemente, valere l'assenza di un vincolo contrattuale (Cass. 8328/2010).
In termini, anche altro precedente della Cassazione, che, in una fattispecie di contratto
di lavoro nullo, in quanto stipulato in violazione delle norme regolanti l’assunzione dei
pubblici dipendenti, ha affermato che in ipotesi di contratto affetto da nullità (fatta
salva la tutela per il lavoratore dettata dall'art. 2126 c.c.), “deve escludersi che
l'amministrazione abbia esercitato un potere di recesso, essendosi limitata, secondo la
corretta qualificazione giuridica, a farne cessare l'esecuzione” (cfr. Cass. 6851/2010).
Tanto premesso, la questione si sposta, quindi, sull'esistenza o meno del vincolo
contrattuale, dovendosi valutare se l’assunto, posto dal Comune a base della determina
più volte citata, secondo cui l’annullamento della graduatoria, in sede amministrativa,
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determinerebbe la nullità dell’assunzione avvenuta sulla base della stessa, sia o meno
condivisibile.
Sul punto, va richiamato il principio di cui all’art. 97 ult. co. della Costituzione
secondo cui “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante
concorso”, principio l'osservanza del quale è garantita solo dalla circostanza che l'
avente diritto risulti vincitore del concorso, e non dal mero espletamento della
procedura concorsuale in sé, che, qualora avvenisse senza il rispetto di corrette
valutazioni anche comparative, frustrerebbe la ratio di garanzia ad esso sottesa.
Appare evidente, allora, che, a seguito dell’accertamento operato in sede
amministrativa del diritto della terza classificata a vedersi riconoscere un punteggio
aggiuntivo, della conseguente rinnovazione della procedura concorsuale e della
ridefinizione della graduatoria finale con collocamento al secondo posto dell’aspirante
De Gennaro in luogo della Scarpato, il contratto lavorativo concluso con quest’ultima
veniva ad essere palesemente affetto da un vizio di nullità, in quanto stipulato in
violazione di norma imperativa, l’art. 97 cit., che ha individuato nel concorso, quale
mezzo di selezione del personale, lo strumento più idoneo a garantire, in linea di
principio, l'imparzialità e l'efficienza della pubblica amministrazione.
Va, ad abundantiam, rilevato che tale conclusione non stride con il c.d. principio di
tipicità delle cause di estinzione del rapporto di lavoro, secondo cui, nel contratto di
lavoro a tempo indeterminato, la volontà delle parti di realizzare l'interesse alla
cessazione dei suoi effetti può essere attuata soltanto mediante il negozio unilaterale di
recesso (licenziamento e dimissioni), di recente affermato anche con specifico riguardo
al pubblico impiego privatizzato (“In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il
recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi unicamente nella
duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni
rassegnate dal lavoratore, sicché in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore
(nella specie, dipendente del Ministero della Giustizia) allo svolgimento delle mansioni
assegnate - che costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento ove lo stesso
non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse - non si determina una
risoluzione automatica del rapporto di lavoro, dovendo pur sempre l'amministrazione,
per provocarne la cessazione, esercitare il potere di recesso, in conformità, del resto, a
quanto previsto dall'art. 21, comma 4, c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio
1995”: Cass. Sez. L, Sentenza n. 18196 del 29/07/2013).
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Deve, invero, osservarsi che tale principio presuppone pur sempre, a monte, l’esistenza
di un contratto di lavoro valido ed efficace, di contro, il contratto nullo è inidoneo sin
dall’inizio a porsi come fonte di diritti ed obblighi, essendo improduttivo di effetti, e,
pertanto, rispetto ad un contratto di lavoro nullo non è configurabile un atto di recesso,
bensì un atto ricognitivo della inefficacia del contratto per nullità dovuta a violazione
di norme imperative.
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene che nella fattispecie in esame la deliberazione
n. 88 del 27.10.2014 debba essere qualificata non come atto di recesso dal contratto di
lavoro (e quindi come licenziamento), bensì quale atto con cui l’Amministrazione ha
fatto valere l’assenza di un vincolo contrattuale o, in altri termini, come presa d’atto
della originaria inefficacia del contratto (affetto da nullità).
Da tale conclusione deriva la sottrazione dell’atto in questione dalla disciplina
limitativa dei licenziamenti e, conseguentemente, il rigetto della domanda attorea
integralmente fondata su tale disciplina nella specie inapplicabile.
Il ricorso va pertanto rigettato.
La qualità delle parti e la controvertibilità della complessa questione di diritto posta a
base della decisione inducono a compensare integralmente le spese di lite.
PQM
rigetta il ricorso;
compensa le spese.
Si Comunichi
Nola,
IL GIUDICE
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