un frutto che non matura

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un frutto che non matura
UCIIM ADRANO – PALAZZO BIANCHI - INCONTRO DEL 30 MAGGIO 2012
UN FRUTTO CHE NON MATURA…
Educare i giovani alla vita buona del Vangelo nell’epoca postmoderna
Don Giuseppe Buccellato SdB
Se l’educatore fermasse la sua fatica soltanto ad un paziente, meticoloso, e, se volete, scientifico rilievo dell’ambiente, in cui oggi il ragazzo svolge la sua vita, fa la sua esperienza e plasma la sua
personalità, non farebbe opera completa... L’educatore non è un osservatore passivo dei fenomeni
della vita giovanile; deve essere un amico, un maestro, un allenatore, un medico, un padre, a cui
non tanto interessa notare il comportamento del suo pupillo in determinate circostanze, quanto
preservarlo da inutili offese e allenarlo a capire, a volere, a godere, a sublimare la sua esperienza»1.
L’immagine che abbiamo scelto come titolo per questo nostro intervento scaturisce da una
riflessione sul tema della maturità, in relazione alla crisi sempre più diffusa, nel nostro contesto
culturale, di scelte che abbiano il carattere della definitività. Un frutto è maturo quando è «buono per essere mangiato»; questo punto di arrivo del percorso di crescita umana che ogni uomo è
chiamato a fare sembra essere divenuto irraggiungibile2, in una società individualistica e caratterizzata, come diremo, da una sorta di ipertrofia dell’io.
Il nostro intervento di questa sera prende le mosse da una analisi, per quanto possibile
realistica e concreta, e per certi versi dolorosa, dell’universo in cui vivono e crescono i nostri
giovani, contesto che è alla base della attuale emergenza educativa3.
Fa da sottofondo alla nostra relazione la consapevolezza di alcune responsabilità sociali che
sono all’origine di questa adolescenza prolungata4. «Vogliono il posto fisso vicino a mamma e papà, ma il mondo è cambiato. Serve un salto», ha detto poco tempo fa il Ministro degli Interni,
Anna Maria Cancellieri. Dopo essere stati definiti bamboccioni (Padoa Schioppa) e sfigati (Martone), i precari under 35 devono anche «beccarsi» l’epiteto di mammoni5.
Non si tratta, qui, di essere colpevolisti o garantisti, ma di osservare con attenzione il contesto sociale in cui vivono e crescono i nostri giovani, e di assumerci anche le responsabilità che
ci competono come adulti, prima ancora di «giudicare con distacco» il mondo dei nostri «destinatari». Lo stesso documento che traccia gli orientamenti per la Chiesa italiana nel prossimo decennio, Educare alla vita buona del Vangelo, al n. 12 afferma: «I giovani si trovano spesso a conPAOLO VI, Discorso per il 40° anniversario del Movimento Aspiranti della GIAC, 21 marzo 1964.
Cf. G. BUCCELLATO, Quale maturità umana e spirituale oggi per una scelta definitiva. Criteri di orientamento e possibili itinerari di formazione, in E. PALUMBO – V. ROCCA (edd.), Definitività delle scelte nella Chiesa, oggi, Catania 2009, 33-56.
3 L’espressione compare per la prima volta in un documento ecclesiale nella Lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008. «Cari fedeli di Roma – esordisce
Benedetto XVI - ho pensato di rivolgermi a voi con questa lettera per parlarvi di un problema che voi stessi sentite
e sul quale le varie componenti della nostra Chiesa si stanno impegnando: il problema dell'educazione. Abbiamo
tutti a cuore il bene delle persone che amiamo, in particolare dei nostri bambini, adolescenti e giovani. Sappiamo
infatti che da loro dipende il futuro di questa nostra città [...]. Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra
diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette
responsabilità educative. Si parla perciò di una grande "emergenza educativa", confermata dagli insuccessi a cui
troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare
un senso alla propria vita».
4 Ha scritto Andrea Salvucci: «L’adolescenza prolungata è una statica conservazione della condizione adolescenziale, caratterizzata da strategie per evitare il conflitto e per rimandare senza un limite temporale scelte e compiti evolutivi attraverso espedienti ingegnosi che combinano gratificazioni infantili e prerogative adulte». Per l’intero articolo si veda: http://www.imago-srpc.net/site/generale/l-adolescenza-prolungata.html
5 Cf. E. CAPORALE, La Cancellieri e i "mammoni". Su Internet esplode la rivolta, in La stampa del 17/2/2012.
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fronto con figure adulte demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita
che suscitino amore e dedizione».
L’obiettivo che ci proponiamo, innanzi tutto, è quello di costruire un quadro fenomenologico
di riferimento che ci permetta di essere educatori più consapevoli e creativi, capaci di inventare
nuove «strategie» e nuove risposte e, soprattutto, di essere appassionati amministratori della
«premura di Dio per il suo popolo» 6.
CONSIDERAZIONI ANTROPOLOGICHE IN TEMPO DI POSTMODERNITÀ7
Prima di entrare nel vivo di un’analisi della realtà giovanile odierna, può essere utile avere
alcuni indicatori di riferimento e formulare alcune «ipotesi antropologiche» che ci consentano di
interpretare l’universo giovanile, come inevitabile riflesso o, potremmo dire, riflusso della cultura odierna.
Un’utile ipotesi di lavoro emerge da un editoriale de La Civiltà Cattolica di qualche anno fa,
dal titolo Un nuovo modello di uomo interpella la Chiesa. Proviamo a sintetizzarne, in modo schematico, le conclusioni8.
– Il primo carattere dell’uomo «postmoderno» messo in evidenza è il suo soggettivismo radicale, individualista e liberatorio. Per questo egli è «schiacciato sul presente», tende a ignorare il
passato, così come fugge ogni struttura che sembra ingabbiarlo «per sempre»;
– il secondo carattere è il secolarismo, che assume oggi la forma non dell’avversione, ma
dell’ignoranza di Dio, del disinteresse, o, anche nel caso di una pratica religiosa, della sua scarsa
«rilevanza», del suo «confinamento» ai margine dell’esistenza;
– il terzo carattere dell’uomo di questi ultimi decenni può essere definito nomadismo e si
esprime nella ricerca di esperienze sempre nuove. Il capitale delle proprie «risorse» (anche in
termini di ricerca di soddisfazione) viene «ripartito» prudentemente su diversi «investimenti»;
– il quarto carattere può essere definito come naturalismo materialista. C’è la tendenza ad
ignorare ogni «legge di natura», accettando che l’essere umano è manipolabile e trasformabile
con gli strumenti della scienza e della tecnica;
– il quinto carattere dell’«uomo nuovo» è la sua dipendenza dai media, che non favoriscono i processi di interiorizzazione, in particolare quelli della fede, e contribuiscono a mutare la
percezione dei grandi e immutabili valori della vita 9.
Aggiungiamo a questo quadro di riferimento un’altra personale considerazione. La società
e gli uomini di oggi presentano una forte dose di narcisismo, un «patologico» ripiegamento su
se stessi. Il fenomeno acquista dei livelli preoccupanti nella misura in cui costituisce un motivo
di costante verifica e insicurezza, uno stato di più o meno esplicita competizione, anche o soprattutto sul terreno della «immagine di sè»; un’immagine spesso artificiosa, mantenuta con grande
fatica e impegno nella cura del proprio aspetto fisico, a dispetto di un'identità reale che passa
Cf. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali per la Chiesa italiana 2010-2020, n. 19.
Sul concetto di postmodernità i riferimenti bibliografici possono essere numerosissimi; segnaliamo, tra gli altri, un
intervento di Padre Innocenzo Gargano alla 50a assemblea nazionale dell’USMI, pubblicata con il titolo Postmodernità e vita spirituale, in Il Regno Documenti, 13 (2003) 416- 430; G. VATTIMO, La fine della modernità, Milano 1999;
K. KUMAR, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società postmoderna, Torino 2000;
G. CHIURAZZI, Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Milano 2002.
8 Cf. Un nuovo modello di uomo interpella la Chiesa. Fede cristiana e realtà italiana, in La Civiltà Cattolica, 2002, II, 523-533.
9 Altrettanto interessanti sono le esemplificazioni di Innocenzo Gargano, nell’articolo già citato Post-modernità e vita
spirituale, alle pagine 425-426. L’autore, a proposito delle caratteristiche dell’uomo «postmoderno», parla di: idolatria del denaro, perdita dell’interiorità, disgusto dell’essere, fuga nel soggettivismo, angoscia, rifugio nell’indifferenza, sperimentalismo ad oltranza.
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spesso in secondo piano. Alla base del narcisismo c'è una profonda ferita legata al non riconoscimento della propria identità: i nostri giovani sono spesso fragili perché «non si piacciono», si
confrontano inutilmente e acriticamente con gli stereotipi che i media propongono.
Questa eccessiva attenzione al sé, o ipertrofia dell’io, contiene dunque un carattere di «ambivalenza», perché è spesso accompagnata da una profonda insicurezza; tutto questo non risparmia neanche il mondo degli adulti10.
Uno dei paradossi della realtà esistenziale dei nostri giovani, poi, è che finiscono con il
perdere la loro libertà nel medesimo «luogo» in cui cercano di celebrare la propria autonomia.
Accade così che la libertà di essere se stessi si trasforma nella incapacità di trovare una autentica
vita interiore e in una insufficiente stima di sé, quella di vivere senza censure morali la propria
sessualità si trasforma in dipendenza a volte patologica; quella di esprimere la propria opinione
in conformismo mediatico; quella di rivendicare la propria autodeterminazione in una inguaribile incapacità di scegliere e in una variegata dipendenza dai media…
LA PERDITA DELLE CERTEZZE
Un altro elemento «destabilizzante» dell’odierno contesto sociale in cui vivono i nostri
giovani è la perdita di riferimenti «sicuri», anche in ambito scientifico e filosofico.
Viviamo in un contesto in cui la scienza ha rinunciato alle sue certezze11, l’etica alle sue verità e la metafisica ai suoi fondamenti12. La vera sconfitta della metafisica classica, infatti, non è
il ritorno del materialismo storico, o delle tradizionali posizioni dell’ateismo e dell’agnosticismo, ma la perdita di rilevanza della stessa ricerca di «significato»; si tratta di quella condizione generalizzata della storia del pensiero odierno che il filosofo Gianni Vattimo ha ben caratterizzato con l’espressione: pensiero debole.
L’epoca in cui viviamo oggi – ha scritto Gianni Vattimo –, che a giusta ragione si chiama postmoderna, è
l’epoca in cui non si può più pensare alla realtà come ad una struttura saldamente ancorata ad un unico fondamento, che la filosofia avrebbe il compito di conoscere e, forse, la religione avrebbe il compito di adorare
[…]. Il pluralismo postmoderno permette (a me, ma credo anche in generale) di ritrovare la fede cristiana…:
proprio perché il Dio-fondamento ultimo, e cioè la struttura metafisica assoluta del reale, non è più sostenibile, per ciò stesso è di nuovo possibile credere in Dio. Certo non nel Dio della metafisica e della scolastica medioevale, che comunque non è il Dio della Bibbia, cioè del libro che proprio la metafisica razionalistica e assolutistica moderna aveva a poco a poco dissolto e negato13.
Pur senza entrare nel merito della questione, dobbiamo riconoscere la «fatica» che l’uomo
di oggi sperimenta, quella di dover vivere senza certezze; è per questo che i nostri giovani vengono lasciati ad un «presente» che spesso li narcotizza, rendendoli immuni dalle grandi questioni esistenziali14.
Ha scritto Enzo Bianchi, il priore di Bose: « Non si può tacere che l'attenzione oggi prestata all' «io» e alle istanze
della soggettività presenta molte ambiguità: il narcisismo culturale…, la pornografia dell'anima (l'esibizione dell'intimo, la scomparsa del pudore nel dare in pasto a milioni di telespettatori le confessioni personali o i problemi familiari), la compressione dell'individualità da parte della cultura tecnologica (a cui interessa un esecutore funzionale di un lavoro già programmato) che provoca l'ipertrofia dell'io negli altri ambiti esistenziali, sono tutti elementi
che rendono, da un lato, prudente, dall' altro, urgente, un discorso sulla conoscenza di sé (E. BIANCHI, Lessico della
vita interiore, Milano 2004, 89).
11 Si fa qui riferimento, in particolare, alla «crisi» derivante dalla «perdita della certezza», soprattutto nell’ambito
della fisica e della matematica, legata ad alcuni enunciati epistemologici come il teorema di Goëdel.
12 Cf. D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, Soneria Mannelli 2003, 7.
13 G. VATTIMO, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Milano 2002, 8-9.
14 Cf. G. DE ROSA, «I giovani lasciati al presente». A proposito di un’inchiesta sui giovani italiani, in La Civiltà Cattolica,
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La vera «sconfitta», a parer nostro, quella più gravida di conseguenze non è quella del
«pensiero forte» nei confronti del «pensiero debole», ma è quella che deriva dalla (conseguente?) perdita di rilevanza di ogni questione sul significato dell’esistenza. Abbandonando, infatti,
le pretese di raggiungere grandi visioni metafisiche, l’uomo di oggi può finire con il giustificare
una prassi dove non ha più importanza l’essere «a favore» o l’essere «contro» sul piano teorico
o concettuale e che legittima la posizione tiepida del mezzo credente; in campo morale, questo
può trasformarsi nella apologia di una vita dove non ha più rilevanza il preoccuparsi di accettare o di rifiutare una qualsiasi etica prescrittiva.
È un tempo in cui il ruolo dell’educatore è quello di suscitare delle domande di significato, più
che quello di dispensare risposte che, spesso, sono distanti milioni di anni luce dagli interessi dei
nostri giovani.
IL «PROBLEMA» RELIGIOSO
In questo particolare contesto, infatti, il problema religioso…non è più un problema. Leggiamo, in un editoriale de La Civiltà Cattolica, dedicato al tema dell’indifferenza religiosa:
«In realtà non è in questione la sua esistenza o la sua inesistenza, ma il suo “valore”, cioè la sua rilevanza per
la vita dell’uomo. Dio potrebbe anche esistere, ma non significa niente per l’esistenza dell’uomo, il quale può
tranquillamente e senza traumi fare a meno di lui e vivere come se egli non esistesse. L’indifferenza religiosa
comporta perciò un triplice atteggiamento: un atteggiamento «mentale» di disinteresse e di disattenzione al
problema di Dio e alla religione; un atteggiamento «affettivo» di disaffezione e di distacco da Dio e dalla religione; un atteggiamento «pratico» né religioso né antireligioso, ma semplicemente a-religioso, «vuoto» di
Dio, nel senso che ogni problematica religiosa è assente, perché priva di valore per l’esistenza»15.
Molti giovani, ancora oggi, come testimoniano molte indagini 16, pur continuandosi a dire
credenti, hanno, di fatto, messo in standby la loro esperienza religiosa; questa non incide più in
alcun modo sul loro vissuto e sulle loro scelte morali.
In relazione alla rilevanza della religione/religiosità nell’universo giovani, comunque, molti
dei risultati statistici appaiono incerti e di difficile interpretazione; il modo con cui si applicano i
questionari e il contenuto delle domande rischia, a volte, di condizionare notevolmente il risultato dell’indagine. La medesima perplessità circonda anche le ottimistiche osservazioni, spesso
semplicistiche, di alcune nostre realtà locali.
Da un’indagine del CENSIS17 effettuata su un campione di 1500 «giovani» di età compresa
tra i 15 e i 30 anni, i cui risultati sono stati pubblicati alcuni anni fa con il titolo I giovani lasciati al
presente, emerge che il 66% dei ragazzi intervistati non coltiva interessi spirituali, non manifesta
nessun «bisogno di trascendente». I meno interessati ai problemi spirituali sembrano essere gli
adolescenti dai 15 ai 17 anni18.
Già qualche anno or sono la 51a Assemblea Generale della CEI, dedicata al tema della iniziazione cristiana, aveva constatato il fatto che, nella nostra penisola, è «finito lo stato di cristianità»; l’allora presidente della CEI, Mons Camillo Ruini, aveva osservato che «è continuato a diminuire il numero dei ragazzi, e poi degli adolescenti e dei giovani, che riescono a stabilire con
2002, III, 492.
15 L’indifferenza religiosa, in La Civiltà Cattolica, 2003, IV, 313-314.
16 Si veda, a titolo di esempio, A. CASTEGNARO, Religione in standby. Indagine sulla religiosità dei giovani, Trieste 2008.
17 Cf. CENSIS, Giovani lasciati al presente, Milano 2002.
18 G. DE ROSA, «I giovani lasciati al presente». A proposito di un’inchiesta sui giovani italiani, in La Civiltà Cattolica, 2002,
III, 492.
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la fede e con la Chiesa un rapporto duraturo e profondo». Oltre alla «debolezza cognitiva» dei
non praticanti, occorre riconoscere la medesima debolezza anche tra molti di coloro che frequentano dei gruppi ecclesiali e una sorta di «marginalità» rispetto alle esigenze del Vangelo e
alle indicazioni della Chiesa. In molti casi «l’attuale prassi ordinaria di iniziazione cristiana, invece che iniziare, sembra “concludere” il processo di iniziazione cristiana» 19.
Può essere interessante notare che, in relazione al vissuto della sessualità nell’ambiente
degli adolescenti e dei giovani, secondo una recente indagine condotta da Mario Pollo, non
compaiono significative differenze tra la maggioranza degli appartenenti e i non appartenenti20.
Infatti – afferma l’autore – c’ è solo una minoranza di adolescenti appartenenti, specialmente femmine, che si
muovono in una direzione diversa da quella da quella indicata dall’attuale cultura dominante. I rapporti sessuali sono vissuti concretamente dalla maggioranza degli intervistati e non sembrano creare loro alcun senso
di colpa, anche se hanno una appartenenza ecclesiale stabile e forte […]. Nel caso degli appartenenti spesso
c’è una vera e propria dichiarazione di rifiuto di sottomettere la propria sessualità ai principi morali indicati
dalla Chiesa […]. Anche tra i giovani si osserva una scarsissima differenza tra gli appartenenti e i non appartenenti21.
Ha scritto il sociologo Giuseppe De Rosa: «In conclusione in due terzi dei giovani di oggi
non c’è nessun bisogno di Dio, nell’altro terzo c’è una grande varietà di atteggiamenti […]. In
questa varietà di atteggiamenti è difficile dire quanto ci sia di autenticamente «religioso» e
quanto di vago spiritualismo. Ad ogni modo, è notevole il fatto che il coltivare o il non coltivare
interessi spirituali non incida in maniera forte sull’atteggiamento che si assume dinanzi ai problemi esistenziali, come quello della morte, e ai problemi etici, nonché alle scelte di fondo della
vita»22.
LA INSOSTENIBILE FATICA DI SCEGLIERE
Il «fenomeno» della crisi delle scelte definitive può essere considerato, in senso sociale, una
delle caratteristiche più rilevanti del nostro contesto culturale; è un fenomeno che riguarda il
mondo dei giovani, ma non soltanto.
Scegliere è preferire, pre-diligere, amare una prospettiva più che un’altra, ma è anche, nella maggior parte dei casi, rinunziare a delle altre prospettive. La stessa etimologia del termine
decisione dice proprio questo: de-caedere, recidere, troncare. La rinuncia è una componente ineliminabile della scelta.
«Di fatto – scrive a questo proposito Giuseppe Colombero – l’essere umano fin dalla nascita e a ogni tappa
della sua crescita viene messo di fronte a delle scelte che si possono dire oggettive. Scelte necessarie per passare da una tappa ad un’altra. Ma scegliere ha il suo rovescio che si chiama rinunciare. Non vi è maturazione, vita feconda, felice e creatrice, che non passi attraverso delle scelte e dunque attraverso delle perdite, degli abbandoni, delle rotture, delle morti, cioè quello che gli psicanalisti chiamano castrazioni simboliche» 23.
Nel mondo di oggi la fatica di scegliere è diventata quasi patologica, non soltanto in riferimento alle scelte fondamentali e allo stato di vita, ma anche in relazione alla enorme quantità di
Cf. G. MARCHESI, Un grido d’allarme sulla fede in Italia. 51a Assemblea generale della CEI, in La Civiltà Cattolica, 2003,
II, 585-594.
20 Cf. M. POLLO, L’esperienza religiosa dei giovani e degli adolescenti, in Note di Pastorale Giovanile 38 (2004) IV, 37.
21 M. POLLO, L’esperienza religiosa dei giovani e degli adolescenti, cit., 37-38.
22 G. DE ROSA, «I giovani lasciati al presente», cit., 493.
23 J. P. MENSIOR, Percorsi di crescita umana…, cit., 71-72.
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opportunità che si presentano al «consumatore» in ogni campo, opportunità rese allettanti dalla
globalizzazione e dall’eccesso di informazione mediatica. È evidente che questo ha il suo influsso
anche sul permanere, a volte oltre ogni ragionevole limite, della fase adolescenziale e al cronicizzarsi di una vera e propria incapacità di compiere scelte stabili e definitive.
Scrive in modo molto efficace Federico Pace, raccogliendo i risultati emersi da un’indagine
realizzata dal dipartimento di Scienze Relazionali dell’Università di Napoli «Federico II»:
«Non sono più giovani. E neppure adulti. I protagonisti della "generazione perduta" anche se passano attraverso la tempesta di diverse esperienze, spesso caratterizzate dal disagio, non riescono con il tempo a trasformare se stessi in qualcosa che li porti oltre le possibilità inespresse e li faccia uscire dall'ombra di un'identità indefinita. Per colpa del lavoro che non c'è, di una società sempre più "instabile" che gli sottrae opportunità, ma anche per caratteristiche proprie. E per la responsabilità di chi non gli offre gli strumenti di
supporto che sembrano sempre più necessari»24.
«I giovani – continua egli stesso più avanti –, seppure chiamati a operare in un contesto
molto complesso, o forse proprio per questo, solo in piccola parte mostrano di "muoversi a partire da spinte profonde, di avere capacità di controllo sulla realtà interna ed esterna e di percepire se stessi come protagonisti rispetto all'esperienze di adattamento alla realtà lavorativa».
Una vita eccessivamente facile, che non si è misurata con il superamento di nessun serio
«ostacolo», non permette alla struttura della personalità di divenire più robusta.
«Colpisce il gran numero di persone – scrive a questo proposito Giacomo Rossi – che sembrano incapaci di
affrontare il rischio di impegnarsi in scelte di vita definitive, lo spontaneismo di quanti sembrano lasciarsi
guidare dal solo sentimento, incapaci di riconoscere e accettare i limiti del reale […]. Chi è stato abituato fin
da bambino a veder realizzato ogni suo desiderio sarà poco preparato ad affrontare gli inevitabili conflitti
dell’esistenza, a cogliere il valore della rinuncia, delle cosiddette «virtù negative» di fatto necessarie per saper riconoscere ciò che a lungo termine può dar senso alla vita. Ne deriva una fragilità affettiva che può avere gravi conseguenze: lo confermano alcuni fatti di cronaca dove vediamo che motivi in sé relativamente futili, come il fallimento ad un esame o una delusione affettiva, possono essere sufficienti per indurre a gesti
disperati e violenti»25.
LA GENERAZIONE DEI «DIGITAL NATIVES»
Per completare la nostra analisi non poteva mancare un riferimento ad una sfera così coinvolgente dell’universo giovanile.
«Nativo digitale» (dalla lingua inglese digital native) è una espressione che viene applicata
ad una persona che è nata e cresciuta insieme alle tecnologie digitali ai computer, a internet, ai
telefoni cellulari e agli MP3. Per contro l’espressione «immigrato digitale» (digital immigrant) si
applica ad una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. Una terza figura è invece quella del «tardivo digitale», colui che guarda tutt'oggi
con diffidenza al complesso delle novità tecnologiche26.
I sociologi discutono sulle possibili conseguenze di questa situazione che si è venuta a
creare per le nuove generazioni. Il tema di maggiore interesse per un educatore è certamente
quello della dipendenza, in alcuni casi patologica, da internet e dai nuovi mezzi di comunicazione, i cosiddetti social network; senza parlare della dipendenza patologica dal gioco d’azzardo
F. PACE, Psicologia della generazione perduta. I giovani dell’età indefinita, in Repubblica del 20 luglio 2010.
G. ROSSI, La teologia morale in un mondo che cambia, in La Civiltà Cattolica, 2001, III, 214.
26 Per fare un esempio, o un semplice test di riferimento, basterà osservare il linguaggio: un nativo digitale parlerà
della sua nuova macchina fotografica mentre un immigrato digitale parlerà della nuova macchina fotografica digitale.
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(GAP) che sempre più spesso trova nel mondo di internet il suo terreno più fecondo e raggiunge un numero crescente di adolescenti.
Anche qui proviamo a dare un’occhiata a qualche autorevole statistica. Nell’indagine Infanzia e vita quotidiana del 2011 leggiamo:
«Le nuove tecnologie sono il terreno rispetto al quale cambia più velocemente il comportamento di bambini
e ragazzi. Cresce l'uso del cellulare, che quasi raddoppia tra gli 11-17enni (dal 55,6% del 2000 al 92,7% del
2011), e si trasforma in strumento multimediale: diminuisce dal 20,3% al 3,9% la percentuale di 11-17enni che
usano il cellulare solo per telefonare. Aumenta notevolmente l'utilizzo di internet: per la classe di età 6-17
anni si passa dal 34,3% nel 2001 al 64,3% nel 2011; per gli 11-17enni si passa addirittura dal 47,0% al 82,7%»27.
Pochi anni or sono un rapporto sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia,
curato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociale, sottolineava:
«I ricercatori hanno individuato una serie di sintomi nel comportamento degli adolescenti che sembrano caratterizzare la dipendenza da Internet: stanchezza (perdita di sonno); difficoltà ad alzarsi la mattina; calo del
rendimento scolastico; modificazione delle abitudini di vita; lento, ma progressivo allontanamento dagli
amici; abbandono di altre forme di intrattenimento (tv, letture, gioco, musica, ecc…); irascibilità; disobbedienza e ribellione; stato di apparente benessere e serenità quando è al PC»28.
I contesti che maggiormente rischiano di far scivolare verso la dipendenza sono quelli nei
quali si attivano processi di interazione e comunicazione con altre persone: social networks (comunità virtuali nelle quali si può entrare anche «costruendosi» un personaggio e interagendo
con gli altri) e chat lines.
La chat line può arrivare a rappresentare un vero e proprio rifugio: una sorta di «liquido
amniotico» che protegge dalle difficoltà che si possono incontrare nelle relazioni reali. «Il rischio
maggiore – si sottolinea nel medesimo studio – è quello di operare una vera e propria inversione reale/virtuale, considerando l’ambiente virtuale quello “vero”, gli amici di chat quelli “veri”,
confondendo la rappresentazione del proprio io “vero” e relegando la “realtà” ad ambiente accessorio se non addirittura sgradito»29.
Diventare dipendenti dal mondo virtuale è un rischio, in particolare, per i soggetti con
maggiori criticità relazionali e con difficoltà di comunicazione, che risultano essere i soggetti
più esposti. Ai rischi della dipendenza vanno poi aggiunti i rischi che derivano dal tipo di fruizione che ne viene fatto: pedofilia, pornografia, apologia del razzismo, ecc.
CONCLUSIONE: CONTINUARE A SCOMMETTERE SULL’EDUCAZIONE
L’opera educativa, per sua natura, è l’accompagnamento delle persone storiche concrete che camminano verso la scelta e l’adesione a determinati ideali di vita. Proprio per questo l’opera educativa
deve saper armonicamente conciliare la proposta chiara della meta da raggiungere, la richiesta di
camminare con serietà verso la meta stessa, l’attenzione al «viandante», ossia al soggetto concreto
impegnato in questa avventura, e dunque ad una serie di situazioni, di problemi, di difficoltà, di
ritmi diversificati di cammino e di crescita. Ciò esige una sapiente elasticità, che non significa affatto compromesso, né sui valori né sull’impegno cosciente e libero, ma amore vero e sincero (Pastores
dabo vobis n. 61).
La citazione è tratta dal sito ufficiale dell’ISTAT: http://www.istat.it/it/archivio/45646
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI. OSSERVATORIO NAZIONALE PER L’INFANZIA, La vita in rete. Fenomeni di internet-dipendenza nella prima adolescenza. Rapporto sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, in
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www.sarabreschi.it/FENOMENI%20DI%20INTERNET-DIPENDENZA%20NELLA%20PRIMA%20ADOLESCENZA.pdf
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Ogni formatore deve prendere le mosse da una reale attenzione al viandante; questo non soltanto a partire dalla necessità soggettiva di prendersi cura di…, ma anche a partire dalla realtà
oggettiva della persona che abbiamo la responsabilità di accompagnare. Solo una attenta diagnosi può suggerire, in modo creativo, le risorse più adeguate. Ogni intervento va misurato e incarnato in una concreta situazione storica.
In sintonia con gli Orientamenti della CEI per il prossimo decennio direi che il nostro compito di educatori e di credenti è innanzi tutto quello di «mettere a disposizione di tutti la buona
notizia dell’amore paterno di Dio…testimoniando con gioia la bellezza del dono ricevuto» (n.4).
«Un’autentica educazione deve essere in grado di parlare al bisogno di felicità delle persone… Il
compito dell’educatore cristiano è diffondere la buona notizia che il Vangelo può trasformare il
cuore dell’uomo… Siamo nel mondo con la consapevolezza di essere portatori di una visione
della persona che è…alternativa al sentire comune» (n. 8).
Non si è tratta, in tempi come questi, di camminare davanti a coloro che ci sono stati affidati, ma, piuttosto, di fare strada insieme con loro, di rinunziare ad ogni conquista già fatta per
ripartire ogni volta; perché una certezza che non viene da un amore paziente esaspera, mentre
l’arte di educare impara a coniugare insieme la libertà con la verità.
In un tempo di esasperato soggettivismo dobbiamo imparare a testimoniare che l’unica vera
speranza di felicità è quella di trasportare fuori di noi il centro del nostro «sistema solare». Fin
quando questo non avviene, il «linguaggio» della affettività, dell’amicizia, dell’amore matrimoniale, in tutte le sue espressioni, rischia di non essere autentico Non c’è nulla di più ego-centrato
di alcuni «gesti» che vengono compiuti dai nostri giovani, a volte, proprio in nome dell’amore
ma che mascherano, in realtà, una ricerca di sé, la soddisfazione dei propri bisogni.
L’ampiezza dell’orizzonte della vita di un uomo, di una donna è proporzionato alla loro
capacità di autotrascendenza; affermiamo questo non in nome di un rinnovato moralismo e
nemmeno in una prospettiva specificamente cristiana. L’umano, direbbe Levinas, è costituito
dalla possibilità di essere-per-l’altro: è questa l’unica ragionevole speranza di realizzazione.
Certamente la nostra esperienza di educatori ci ha insegnato che, nonostante tutto, è ancora possibile condurre qualunque giovane uomo o donna a divenire autore del proprio bene. A
volte si è trattato di aiutarli a smascherare le false certezze, di denunziare come ingannevoli le
proposte della società dei consumi, di proclamare l’importanza di vincere se stessi di fronte alla
paura di essere vinti dagli altri. Altre volte abbiamo dovuto lasciare intravedere la bellezza di
poter essere un frutto «buono da mangiare», della necessità di compiere una «rivoluzione copernicana» che metta gli altri al centro del nostro mondo; ma ogni volta abbiamo dovuto costatare che soltanto l’amore rende ancora possibile il miracolo dell’educazione.
La sfida che ci aspetta come educatori, in questa epoca del pensiero debole, è quella di continuare a proporre, «senza sconti», le esigenze del Vangelo, mettendo a disposizione di tutti la
buona notizia dell’amore paterno di Dio, e la bellezza del dono della vita che abbiamo ricevuto.
La nostra scienza più eminente è conoscere Gesù Cristo, e la gioia più profonda è rivelare
ai nostri giovani le insondabili ricchezze del suo mistero.
È di questa scienza che dobbiamo ritornare ad essere maestri competenti e testimoni credibili.
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