Scarica - Diocesi Suburbicaria Velletri

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Scarica - Diocesi Suburbicaria Velletri
Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 12, n. 9 (122) - Settembre 2015
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Ecclesia in cammino
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
- La condivisione del poco,
+ Vincenzo Apicella
p. 3
- Papa Francesco torna in America Latina,
Stanislao Fioramonti
p. 4
- Ma come posso io mangiare e bere,
quando quel che mangio...?,
Sara Gilotta
p. 5
- Affettività e sessualità,
Marta Pietroni
p. 6
- Teoria gender e omosessualità:
una riflessione fra scienza e ideologie, chiesa
e costumi della società,
Massimiliano Postorino
p. 8
- Il vento dello Spirito. Sinodo: rinnovamento
della pastorale della famiglia,
p. Vincenzo Molinaro
- Ragazzi e giovani di Lariano al campo
estivo all’Acero, p. V. Molinaro
- IRC: Condividere le ansie e le speranze
degli uomini d’oggi,
Nicolino Tartaglione
- Un cammino di vita, L. Abatini
- 30 anni di IRC. Crescere nella coscienza
della ministerialità dell’idr per un nuovo
umanesimo, Nicolino Tartaglione
- L’isegnamento della religione cattolica
come testimonianza, P. Graziani
- 30 anni di IRC..., B. Paluzzi
p. 20
Direttore Responsabile
p. 21
Mons. Angelo Mancini
Collaboratori
p. 22
p. 22
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Mihaela Lupu
p. 23
Proprietà
p. 23
p. 24
Registrazione del Tribunale di Velletri
Diocesi di Velletri-Segni
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Tipolitografia Graphicplate Sr.l.
- Profughi ed Europa. Le parole di
Jean-Claude Junker,
Sara Bianchini
- Viaggio nell’Expo “Edicola Caritas” e
Padiglione Santa Sede,
Giovanni Zicarelli
p. 10
p. 12
- Le opere di misericordia / 2,
Carlo Fatuzzo
p.14
- La medicina della misericordia nel matrimonio,
Chiara Molinari
p. 15
- Fonte trinitaria della Vita consacrata,
don Antonio Galati
- Anno della Vita consacrata e professioni al
Carmelo, Monache Carmelitane
- Guardare a Cristo e alla Chiesa:
la preghiera incessante per le vocazioni,
mons. Franco Risi
- Per chi ha voglia di credere. Elisa,
don Gaetano Zaralli
p.16
p. 17
- Dalla Comunità di Segni:
Attività estive a Palazzo Conti
p. 24
- Mons. Domenico Pompili nuovo
vescovo di Rieti, n.d.r.
p. 25
- Ordinazione Presbiterale di
don Gabriele Ardente, G. Zicarelli
p. 26
- Mons. Leonardo D’Ascenzo nuovo rettore
del Seminario Regionale, n.d.r.
p. 27
- Lunghi giorni a don Dante. LXX° di
ordinazione sacerdotale del vescovo
Dante Bernini,S. Fioramonti
p. 28
- Segni. Grande scoperta nell’Archivio Storico
Innocenzo III: nuova datazione per il
ritrovamento del Laocoonte da un incunabolo
ivi conservato, Alfredo Serangeli
p. 30
- In ricordo di fr. Federico Scascitelli
(Fumone 1922 - Roma 2015),
fr. Luigi Recchia
p. 32
Redazione
Corso della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, mons. Franco Risi, don
Antonio Galati, Suore Apostoline Velletri, don Marco Nemesi,
don Gaetano Zaralli, Monache Carmelitane di Carpineto
Romano, p. Vincenzo Molinaro, fr. Luigi Recchia, Carlo
Fatuzzo, Massimiliano Postorino, Antonio Venditti, Sara
Gilotta, Marta Pietroni, Sara Bianchini, Alfredo Serangeli,
Chiara Molinari, Giovanni Zicarelli, Nicolino Tartaglione,
Loredana Abatini, Barbara Paluzzi, Paola Graziani,
Paola Lenci.
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesi.velletri-segni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA
- Velletri, Parrocchia S. Maria in Trivio:
Festa della Madonna della Salute tra passato
e presente,Tonino Parmeggiani e
don Antonio Galati
p. 33
- Il Sacro intorno a noi / 16:
Santuario del Crocifisso a Bassiano (LT),
Stanislao Fioramonti
p. 34
- Presentazione del libro: Educare Oggi,
Antonio Venditti
p. 36
- Cappella Brancacci, Basilica di Santa
Maria del Carmine, Firenze / 1,
don M. Nemesi
p. 38
p. 18
p. 19
- Decreto di incardinazione
p. 37
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E’ vietato ogni tipo di riproduzione di testi, fotografie, disegni, marchi, ecc. senza esplicita autorizzazione del direttore.
In copertina:
Il cammino dei profughi siriani
lungo il confine serbo-ungherese
a Roszke.
(Foto Reuters)
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Vincenzo Apicella, vescovo
L
’estate che sta passando è stata, finora, veramente torrida, non
solo per le temperature elevate e la calura asfissiante, ma anche
per alcuni vivaci scambi di “battute” tra il Segretario della Conferenza
episcopale italiana, mons. Nunzio Galantino e alcuni personaggi del
nostro mondo politico, che gli organi di informazione non hanno mancato di raccogliere e alimentare.
Il tema che ha provocato le accese reazioni di chi si è sentito toccato
dalle parole del vescovo è anch’esso quanto mai scottante: il dramma,
anzi la tragedia umana dell’immigrazione, che non riguarda soltanto il
nostro Paese e neanche la sola Europa, ma è diventata un fenomeno
ormai planetario, che non risparmia alcun continente.
Si è parlato di “invasione”, termine che ricorda a noi il passaggio dalla stabilità dell’impero romano al caos da cui è nata la nostra “civiltà”
occidentale, ma quelle erano orde agguerrite e conquistatrici; non siamo ancora a questo, anche se la cinica speculazione di alcuni forti poteri finanziari sta armando la mano di nuovi e più temibili barbari.
Quello che è sotto i nostri occhi, invece, è la disperazione di centinaia
di migliaia di persone, di cui molte pagano quotidianamente con la vita
l’inevitabile scelta di fuggire dalla violenza, dalla fame, da situazioni di
fronte alle quali anche la morte è preferibile.
Il 5 agosto si poteva leggere su Avvenire: “il Mar Mediterraneo è diventato negli ultimi mesi un cimitero di migranti: nella prima metà dell’anno circa 2000 persone, secondo i dati diffusi dalla Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno perso la vita durante le traversate.
E’ già stato superato il numero dei morti registrato in tutto il 2014, mentre le persone salvate durante gli sbarchi sono state 188mila”.
Dietro questi numeri da ragioniere ci sono i volti di tanti giovani, donne, bambini, sulla cui pelle qualcuno si è arricchito e a cui non è stata
risparmiato alcun tipo di violenza.
La tragedia continua sulla terraferma, con i campi profughi sovraffollati, con i tentativi di raggiungere Paesi che possano offrire maggiori opportunità, con il lavoro da schiavi nelle campagne italiane, dove si muore
raccogliendo pomodori.
Di fronte a tutto questo, qualcuno osa parlare di “respingimento”, cosa
che Papa Francesco ha bollato come vero e proprio atto di guerra, ma
la vera tentazione è quella della politica “dello struzzo”, di chi si gira
dall’altra parte, lasciando che la faccenda sia sbrogliata da chi si trova “in prima linea”.
Certamente, non esistono ricette semplici e a buon mercato, è necessario esigere il coinvolgimento di tutti, a livello europeo e internazio-
nale, occorre fare i conti con le limitate risorse disponibili, ma, da cristiani, non possiamo non vedere, dietro i volti di queste persone disperate il Volto stesso di Cristo.
In queste settimane abbiamo ascoltato il discorso di Gesù sulla moltiplicazione dei pani e dovremmo aver capito che il vero miracolo inizia
con la condivisione del poco che si ha, abbiamo celebrato la solennità dell’Assunta e proprio mons. Galantino, su Avvenire, così commentava: “Maria, assunta in cielo in anima e corpo, ci ricorda che, per vivere pienamente la nostra umanità, il nostro sguardo deve essere rivolto a Dio e ai beni del cielo; e anche che, per essere a Lui graditi, non
abbiamo altra via che chinarci sulle necessità dei fratelli”.
Papa Francesco continua, con il suo esempio e col suo insegnamento, in particolare con l’ultima Enciclica Laudato si’, a richiamare l’attenzione
dei cristiani sul nostro dovere di prenderci “cura della casa comune”,
di preoccuparci di avviare una “ecologia umana”, promuovendo il bene
comune, la giustizia, la solidarietà, come indispensabile premessa alla
ecologia del creato.
Per questo, rilanciando una iniziativa del Patriarcato Ortodosso già condivisa dai vescovi italiani, è stata indetta per il 1° settembre una Giornata
di preghiera per tutte le chiese, che avrà come tema: “Un umano rinnovato, per abitare la terra”.
E’ ormai chiaro che in un periodo di radicali trasformazioni umane, sociali, culturali, perfino ambientali, i vecchi schemi e le vecchie logiche non
bastano più e siamo chiamati ad una vera “conversione”, nel nostro stesso stile di vita, se vogliamo evitare una graduale autodistruzione, che
inizia dal disprezzo del valore assoluto della persona umana.
Qual è, allora, il ruolo che i cristiani sono chiamati a svolgere in questo contesto storico, quale contributo possono dare e quali impegni debbono assumere perché possa germogliare un nuovo umanesimo?
A queste domande la Chiesa italiana cercherà di dare risposta nella
prossima Assemblea ecclesiale del mese di novembre a Firenze, ma
la nostra diocesi ha pensato di avviare fin da ora una riflessione su questi temi, con un incontro che si terrà a Velletri il 10 settembre dal titolo: “Per abitare la città da cristiani”.
L’iniziativa è promossa dalla Commissione diocesana per la Pastorale
sociale e il lavoro, Giustizia e Pace, Custodia del creato ed è indirizzata prioritariamente ai rappresentanti delle parrocchie, delle Associazioni
e dei Movimenti ecclesiali, ai cristiani impegnati in politica e nel sociale, ma è rivolta anche a tutte le persone di buona volontà, che sentono l’esigenza di non essere solo spettatori di un’avventura in cui tutti
siamo coinvolti e in cui ciascuno ha la sua parte di responsabilità.
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tristezza, la depressione, il suicidio - non si
pubblicano integralmente le statistiche sui
suicidi giovanili - o arruolarsi in progetti di
follia sociale, che almeno presentino loro un
ideale? Oggi ci è chiesto di curare, in modo
speciale, con solidarietà, questo terzo settore di esclusione della cultura dello scarto. Il primo sono i bambini, perché o non li
si vuole - ci sono paesi sviluppati che hanno una natalità quasi dello zero per cento
-, o li si uccide prima che nascano. Poi gli
anziani, che si abbandonano e li si lascia e
si dimentica che sono la saggezza e la memoria del loro popolo. Li si scarta. E adesso è
venuto il turno dei giovani. A chi hanno lasciato il posto? Ai servitori dell’egoismo, del dio
denaro che sta al centro di un sistema che
ci schiaccia tutti.
a cura di Stanislao Fioramonti
Dal 5 al 13 luglio 2015 papa Francesco ha compiuto un lungo e festoso viaggio apostolico
nella sua America Latina, continente del quale ha voluto scegliere tre nazioni tra le più povere e in difficoltà, l’Ecuador, la Bolivia e il Paraguay.
Ricordiamo quei giorni di fede e di entusiasmo
di popoli sudamericani attorno al primo pontefice sudamericano proponendo un ampio stralcio del discorso pronunciato da Francesco martedì 7 luglio 2015 nella chiesa di S. Francesco
a Quito, capitale dell’Ecuador, nella quale ha
incontrato la società civile ecuadoriana.
“ La gratuità è requisito necessario per la giustizia.
Quello che siamo e abbiamo ci è stato donato per
metterlo al servizio degli altri - gratis lo abbiamo
ricevuto, gratis lo diamo -; il nostro compito consiste nel farlo fruttificare in opere buone. I beni
sono destinati a tutti, e per quanto uno ostenti la
sua proprietà - che è legittimo - pesa su di essi
un’ipoteca sociale. Sempre. Così si supera il concetto economico di giustizia, basato sul principio
di compravendita, con il concetto di giustizia sociale, che difende il diritto fondamentale dell’individuo a una vita degna.
E, sempre a proposito della giustizia, lo sfruttamento delle risorse naturali, così abbondanti in
Ecuador, non deve ricercare il guadagno immediato. Essere custodi di questa ricchezza che abbiamo ricevuto ci impegna con la società nel suo insieme e con le generazioni future, alle quali non potremo lasciare in eredità questo patrimonio senza
una cura adeguata dell’ambiente, senza una coscienza di gratuità che scaturisce dalla contemplazione del creato. Ci accompagnano oggi qui fratelli di popoli indigeni provenienti dall’Amazzonia ecuadoriana. Quella zona è una delle «più ricche di
varietà di specie, di specie endemiche, poco frequenti o con minor grado di protezione efficace.
Ci sono luoghi che richiedono una cura particolare a motivo della loro enorme importanza per
l’ecosistema mondiale [poiché ha] una biodiversità di grande complessità, quasi impossibile da
conoscere completamente, ma quando quella zona
viene bruciata o distrutta per aumentare le colti-
vazioni, in pochi anni si perdono innumerevoli specie, o tali aree si trasformano in aridi deserti»
(Enc. Laudato si’, 37-38).
E là l’Ecuador – insieme ad altri Paesi della fascia
amazzonica – ha l’opportunità di praticare la pedagogia di una ecologia integrale. Noi abbiamo ricevuto il mondo in eredità dai nostri genitori, ma ricordiamo anche che lo abbiamo ricevuto come un
prestito dai nostri figli e dalle generazioni future
alle quali lo dobbiamo consegnare. E migliorato!
E questo è gratuità!
Dalla fraternità vissuta in famiglia, nasce il
secondo valore: la solidarietà nella società, che
non consiste solo nel dare ai bisognosi, ma nell’essere responsabili l’uno dell’altro. Se vediamo
nell’altro un fratello, nessuno può rimanere
escluso, nessuno può rimanere separato.
L’Ecuador, come molte nazioni latinoamericane,
sperimenta oggi profondi cambiamenti sociali e
culturali, nuove sfide che richiedono la partecipazione
di tutti i soggetti interessati. La migrazione, la concentrazione urbana, il consumismo, la crisi della
famiglia, la disoccupazione, le sacche di povertà producono incertezze e tensioni che costituiscono una minaccia per la convivenza sociale.
Le norme e le leggi, così come i progetti della comunità civile, devono cercare l’inclusione, per favorire spazi di dialogo, spazi di incontro e quindi lasciare al ricordo doloroso qualunque tipo di repressione, il controllo illimitato e la sottrazione di libertà. La speranza di un futuro migliore richiede di
offrire reali opportunità ai cittadini, soprattutto ai
giovani, creando occupazione, con una crescita
economica che arrivi a tutti, e non rimanga nelle statistiche macroeconomiche, creando uno sviluppo sostenibile che generi un tessuto sociale
forte e ben coeso. Se non c’è solidarietà questo
è impossibile.
Ho accennato ai giovani e alla mancanza di lavoro. A livello mondiale è allarmante. Paesi europei che erano ad alto livello alcuni decenni fa, adesso stanno subendo nella popolazione giovanile dai 25 anni in giù - un 40/50% di disoccupazione. Se non c’è solidarietà questo non si risolve.
(...) A questi giovani disoccupati, che sono quelli che chiamiamo i “né né”: né studiano né lavorano, che prospettiva rimane? Le dipendenze, la
Infine, il rispetto per l’altro che si apprende
in famiglia, si traduce in ambito sociale nella sussidiarietà. Dunque: gratuità, solidarietà, sussidiarietà.
Accettare che la nostra scelta non è necessariamente l’unica legittima è un sano esercizio di umiltà. Riconoscendo ciò che c’è di buono negli altri,
anche con i loro limiti, vediamo la ricchezza che
caratterizza la diversità e il valore di complementarietà.
Gli uomini, i gruppi hanno il diritto di compiere il
loro cammino, anche se questo a volte porta a
commettere errori. Nel rispetto della libertà, la società civile è chiamata a promuovere ogni persona
e agente sociale così che possa assumere il proprio ruolo e contribuire con la propria specificità
al bene comune. Il dialogo è necessario, essenziale per arrivare alla verità, che non può essere imposta, ma cercata con sincerità e spirito critico. In una democrazia partecipativa, ciascuna
delle forze sociali, i gruppi indigeni, gli afro-ecuadoriani, le donne, le aggregazioni civili e quanti
lavorano per la collettività nei servizi pubblici, sono
protagonisti essenziali in tale dialogo, non sono
spettatori. Le pareti, i cortili e i chiostri di questo
luogo lo dicono con maggiore eloquenza: appoggiato su elementi della cultura Inca e Caranqui,
la bellezza delle loro forme e proporzioni, l’audacia
dei loro stili diversi combinati in maniera mirabile, le opere d’arte che vengono chiamate “scuola di Quito”, riassumono un ampio dialogo, con
successi ed errori, della storia ecuadoriana. L’oggi
è pieno di bellezza, e se è vero che in passato
ci sono stati sbagli e soprusi, come negarlo?, anche
nelle nostre storie personali, come negarlo?, possiamo dire che l’amalgama irradia tanta esuberanza che ci permette di guardare al futuro con
grande speranza.
Anche la Chiesa vuole collaborare nella ricerca
del bene comune, con le sue attività sociali, educative, promuovendo i valori etici e spirituali, essendo segno profetico che porta un raggio di luce e
di speranza a tutti, specialmente ai più bisognosi. Molti mi chiederanno: Padre, perché parla tanto dei bisognosi, delle persone bisognose, delle
persone escluse, delle persone ai margini della
strada? Semplicemente perché questa realtà e
la risposta a questa realtà sta nel cuore del Vangelo.
E proprio perché l’atteggiamento che prendiamo
di fronte a questa realtà è inscritto nel protocollo sul quale saremo giudicati, in Matteo 25.
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Sara Gilotta
“Ma come posso io mangiare e bere,
quando quel che mangio, a chi ha fame lo
strappo, e manca a chi ha sete il mio
bicchiere d’acqua? Eppure mangio e bevo.”
S
embrano queste parole scritte oggi a descrivere le drammatiche condizioni di vita di
troppa parte del nostro pianeta , in verità si tratta di versi composti dal poeta Brecht
ed appartenenti ad una raccolta di poesie e canzoni, composte nella prima metà del XX sec..
Da esse si comprende quanto drammaticamente
sia avvertita la vita, quanto, soprattutto, gli uomini, per salvare se stessi e la terra in cui vivono
abbiano bisogno di chiedersi quale sia il loro reale rapporto con gli altri e se, appunto, bevendo
e mangiando, non si impossessino di ciò che
appartiene a tutti per volontà divina, oltre che
per una legge di natura . E’ questo un discorso antico e mai risolto, perché mai veramente
affrontato, immersi come siamo in egoismi ciechi ed autoreferenziali.
Eppure già San Francesco, come sta ripetendo Papa Francesco, aveva espresso la necessità, tutta nuova per il medioevo, di guardare in
modo diverso alla natura e ai rapporti dell’uomo con essa. Lo aveva fatto, anticipando tante teorie moderne e contemporanee, che però
purtroppo hanno dato vita più ad un ecologismo
formale, che ad un sentimento ecologico profondo capace di portare con sé risultati seri e
concreti. E la situazione non potrà cambiare davvero, se, come opportunamente dice Papa Francesco,
non si comprenderà da parte di tutti, che è necessario sanare la frattura tra l’uomo e il suo ambiente. A cominciare da quello più piccolo e più prossimo, per arrivare a curare l’intero orbe terracqueo. E se non a caso l’attuale pontefice ha assunto il nome di Francesco, allora è necessario ricon-
siderare la povertà del Santo come desiderio di
spogliarsi della cultura dell’avere, per poter ricercare liberamente il proprio essere.
Cominciando con il rispettare tutte le creature
e tutte le cose anche inanimate. Perché la scoperta di San Francesco risiede, innanzitutto, nel
riconoscimento della positività del mondo, che,
essendo opera di Dio, non può essere malvagio, ma anzi reca in sé l’ impronta del suo amore. Di qui nasce per Lui il desiderio di lodare
tutte le creature, accostandosi ad esse guidato dalla filiale fiducia nella bontà di Dio.
La religiosità francescana vede, dunque, nella
natura una manifestazione del bene, che non
può che rendere tutte le creature buone. E tutte insieme, perciò, devono essere legate tra loro
da amore fraterno, così come fratelli e sorelle
dell’uomo sono tutte le cose, compresa la morte del corpo anch’essa manifestazione della bontà divina. Leggere il Cantico di San Francesco,
significa guardare al mondo con occhi nuovi ,
significa liberarlo per liberarsi dalle barriere dell’egoismo che genera solo paure e trasformarle in un atteggiamento di rinnovata serenità, con
la quale guardare al prossimo con umiltà e rispetto prima ancora che con amore. E in questi tempi intrisi spesso di cupo pessimismo, che avvolge nel suo buio tanta parte dell’umanità incerta più che mai sul suo destino in terra, sarebbe bello oltre che utile rileggere le pagine più
belle de’ “i fioretti di San Francesco” sì, proprio quelli che narrano dei miracoli del santo e,
soprattutto, quelli che ci presentano Francesco
che convertì il ferocissimo lupo di Gubbio.
E senza dubbio piace anche ai bambini il lupo
cui il santo si rivolge con le parole che ognuno
di noi dovrebbe saper usare almeno nei confronti dei nostri simili e che dicono: “vieni qua
frate lupo io ti comando nel nome di Cristo che
tu non facci male né a me, né a persona”. Sarebbe
bellissimo se gli uomini volessero e sapessero
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rivolgersi agli altri, a tutti gli altri chiamandoli e
considerandoli fratelli. Già perché è assai facile scorgere nel lupo non solo un vero animale
feroce, ma, altresì, chiunque appaia ai nostri
occhi nemico e pericoloso. Perché solo così si
riuscirebbe a non vedere nell’altro colui che
vuole portarci via qualcosa o vuole danneggiarci
e persino ucciderci.
E’ fin troppo chiaro che oggi forse più che mai
un tale discorso può apparire solo utopistico o
espressione di qualcuno che vuole illudersi sulle condizioni del mondo e sul vero volto dell’umanità , ma è anche vero che, se non si ricomincia a considerare nella natura e nell’uomo
la presenza di Dio, allora è e sarà ben difficile
sperare in un progresso non basato solo su successi economici e mondani. Ma, e senza rinunciare alla speranza per cui la realtà del mondo possa migliorare, è necessario che tutti noi
si diventi o si torni ad essere capaci davvero di
essere liberi, liberi interiormente, consapevoli delle nostre debolezze e della nostra forza, ma convinti che è giunto il tempo di uscire dalla finta
libertà che deriva dai mass-media e dai social
- network, troppo spesso veicoli di trasmissione solo di messaggi negativi, cui per pigrizia o
per falsa sicurezza affidiamo, anzi svendiamo
il nostro libero pensiero.
Dimenticando che il mondo ha bisogno di cuori e di menti desiderosi di andare oltre le apparenze e, persino oltre la scienza e la filosofia,
per guardare alle creature, ciascuna e tutte insieme, quale, come diceva padre Balducci modulazione della libertà amorosa che le ha fatte esistere. Che altro non è che Dio.
Nell’immagine del titolo: Aceh, Indonesia.
Un contadino tenta di lavorare la terra arida.
La siccità in Indonesia oltre alla perdita dei raccolti è
anche causa di incendi boschivi. Epa/Hotli Simanjuntak
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Marta Pietroni
entre continuano le discussioni in Senato per stabilire quale sia
la “maniera italiana” per regolamentare la convivenza tra persone dello stesso sesso, mentre in molti si preoccupano per una
temuta equiparazione di tali unioni alla famiglia con conseguente accesso, per le persone omosessuali, all’adozione e alla pratica dell’utero in
affitto, stanno per riaprirsi i cancelli delle scuole italiane. Zaini pieni, libri
e quaderni pronti all’uso e una novità che i genitori di figli in età scolare potrebbero trovare nel POF (piano di offerta formativa) di ogni scuola di ordine e grado.
Nel maxiemendamento della Buona Scuola infatti, al comma 16, si introduce l’attuazione di principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole l’educazione alla parità dei sessi, la prevenzione della violenza di genere e di ogni forma di discriminazione. Dopo l’approvazione della riforma si sono susseguite in merito settimane di intense polemiche da parte di chi vedeva e vede nel suddetto comma un tentativo o il rischio di
introdurre nelle scuole l’ideologia gender, che, semplificando qui estremamente, sostiene che il sentirsi uomo o donna non ha nulla a che fare
con il nascere maschio o femmina (per un’ interessante e acuta analisi in merito, estremamente interessante è l’articolo di Chiara Giaccardi
“Gender, non solo ideologia. Riappropriamoci del genere” pubblicato su
Avvenire del 31 luglio). Di fronte alle preoccupazioni e alla richiesta di
chiarimenti, il Ministero dell’Istruzione ha inviato una Circolare a tutti i
Dirigenti Scolastici, ricordando che la riforma non modifica in alcun modo
M
il patto esistente tra famiglie e piano di
offerta formativa, pertanto permane come
prioritaria la centralità delle decisioni
genitoriali circa l’educazione dei figli e
circa il consenso informato per i minorenni per tutte quelle attività e insegnamenti
extracurricolari che esulano dagli insegnamenti obbligatori.
Un documento quello firmato dal
Ministro Giannini che richiama l’articolo 30 della Costituzione, il quale sancisce il potere decisionale del genitore
circa l’educazione del proprio figlio e che
sembra chiarire inoltre un concetto molto importante e che ognuno dovrebbe
avere ben chiaro: l’educazione al
rispetto per l’altro, alla non violenza, l’uguaglianza tra i sessi e la parità di genere sono valori culturali che doverosamente devono far parte dell’educazione dei nostri figli, ma far questo non significa assolutamente dover adottare
quella particolare idea di gender di cui
sopra. Questa la preoccupazione di molte famiglie che vedono un rischio di educazione ideologica, mascherata da
educazione al rispetto dell’altro. Quindi
ben venga il comma 16 della riforma,
scuola e famiglia devono seriamente collaborare all’educazione al rispetto dell’altro, al rigetto della discriminazione ma
questo non vuol dire condividere o far
propria la visione gender.
Per sottolineare proprio questo fondamentale dettaglio e per non cadere in
un inutile allarmismo, il Forum delle Famiglie
a luglio ha sottolineato la necessità di
passare dalla protesta alla proposta, promuovendo il progetto “Il filo e la rete”
che mira a divulgare le buone pratiche
di insegnamento all’affettività e alla sessualità. Infatti proprio la teoria gender e le polemiche scoppiate intorno
ad essa possono essere l’occasione per riporre al centro l’educazione
all’affettività e alla sessualità, in maniera davvero laica, aperta al confronto costruttivo e lontano da ogni ideologia. Questo è possibile, come
mostrano le tante esperienze promosse proprio da “Il filo e la rete”, che
hanno visto collaborare tra loro associazioni estremamente diverse, ma
che di fronte alla centralità e all’importanza del discorso educativo hanno saputo trovare un linguaggio condiviso, studiato e diversificato anche
in base all’età dei bambini e dei ragazzi.
Un altro interessante progetto ed ottimo esempio, adottato dal 2010 nell’Università
Cattolica di Milano, è il “Teen star” (Sexuality Teaching in the contest of
Adult Responsability), ideato negli anni ottanta negli Stati Uniti da Hanna
Klaus e Pilar Vigil, medici e docenti universitari che, stando a stretto contatto con i loro alunni, hanno constatato la necessità di un serio impegno educazionale della sfera affettivo/sessuale nei ragazzi.
Oggi assistiamo ad un vero e proprio bombardamento sessuale nei confronti delle nuove generazioni e le famiglie, che purtroppo non dimostrano di avere la capacità o il “coraggio” di affrontare tematiche affettive e sessuali con i propri figli, delegano all’esterno.
Quello che manca innanzitutto è proprio una seria informazione e formazione su tematiche tanto delicate ed importanti, anche per gli insegnanti. Da parte dei giovani assistiamo ad un uso sempre maggiore di
farmaci quali la pillola del giorno dopo, la promozione dell’uso del contraccettivo si associa nella maggior parte dei casi ad una visione limitata alla sfera fisica della sessualità e i modelli di riferimento, dai media
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segue da pag. 6
e non solo, stanno educando le nuove generazioni
ad una visione estremamente superficiale degli affetti e della sessualità. Ma con i modi e le possibilità relazionali che i ragazzi hanno oggi a disposizione, è come
dare un mezzo estremamente potente a chi non è
in grado di gestirlo.
Per questo il “Teen star” mira alla formazione di una
profonda consapevolezza nei ragazzi del senso profondo della sessualità, promuovendo scelte consapevoli, legate a quel bellissimo desiderio che appartiene ad ognuno di noi di amare ed essere amati.
Dall’insegnare i ritmi biologici legati alla sfera sessuale
e comportamentale, e dalla consapevolezza delle relazioni esistenti tra sentimenti e desideri si arriva alla
coscienza della propria identità e al valore dell’autostima, fino ad analizzare le implicazioni e le conseguenze dei comportamenti sessuali, sviluppando
una capacità critica circa le mode del momento e rivalutando l’importanza del dialogo e della relazione. “Il
filo e la rete”, così come il “Teen star” ed altri, sono
prospettive educazionali che dimostrano come non
sia assolutamente necessario annullare la differenza tra uomo e donna e la loro corrispondenza con
maschile e femminile, per promuovere un’educazione al rispetto e alla differenza di genere.
Bellissime e profonde le parole del prof. Mari (ordinario di pedagogia generale alla Cattolica di Milano)
riportate su Avvenire del 7 luglio: “non siamo liberi
se non quando ci decidiamo per un’opportunità che
ci merita, che è in sintonia con il valore intrinseco della persona”. L’antropologia cristiana sa declinarsi nei
tanti e più diversificati linguaggi, la sua ricchezza, così
profonda da sorprendere sempre, è in grado di rispondere pienamente alle grandi sfide culturali dei nostri
giorni, ma per far questo richiede vero impegno; l’educazione è una sfera non delegabile e noi genitori
per primi dobbiamo assumerci questa grande responsabilità, lavorando innanzitutto su noi stessi e sul modello che vogliamo rappresentare per i nostri figli.
Femmina sulla carta d’identità anche se
restano gli attributi maschili.
Fino ad oggi, come stabilito nel 1982 dalla legge num. 164, la rettificazione del sesso (cioè la possibilità che ad una persona sia attribuito un
sesso diverso da quello registrato alla nascita) era possibile soltanto a
seguito delle modificazioni dei caratteri sessuali, alla modificazione quindi oggettiva degli elementi che indicano a quale sesso si appartiene.
Adesso invece, dopo una sentenza della Prima Sezione della Corte di
Cassazione, l’attestazione di sesso a cui ci si sente di appartenere prescinde da tali interventi chirurgici. La sentenza è arrivata dopo il ricorso presentato da una persona transessuale che richiedeva il cambio sulla carta d’identità da maschio a femmina, pur senza dover giungere alla
modificazione dei caratteri genitali. Non si comprendono ancora le modalità precise in base alle quali sarà possibile effettuare questi cambiamenti di identità, intanto potrà farlo questa persona, nata maschio 45
anni fa, che da circa 25 anni vive e si presenta come una donna.
Socialmente riconosciuta come tale, aveva intrapreso l’iter per il cambiamento chirurgico del sesso ma dopo aver seguito la terapia ormonale come da protocollo, non se l’è sentita di sottoporsi all’intervento
finale, molto delicato e costoso, soprattutto perché, ha dichiarato, in piena integrità psicofisica e in piena armonia con sé stessa.
La Cassazione, dopo i no del Tribunale di Piacenza e di Bologna, ha
accettato il ricorso della persona in questione, presentato dall’Avvocatura
per i diritti di lesbo, gay, bisex e trans (Rete Lenford). Quello che in pas-
sato era considerato un disturbo identitario di genere, oggi viene definito disforia e nel 2017 verrà indicato come incongruenza.
Chi cresce (o nasce, come alcuni sostengono) trans vive una difficoltà
profonda nell’appartenenza di genere, ha un corpo maschile e si sente donna (questi i casi più numerosi) oppure ha un corpo femminile e
si sente uomo. Questa mancata identificazione con il sesso di nascita
prevede a livello statale un lungo percorso, fatto di interventi medicochirurgici e assistenza psicologica che si “conclude” con la rettifica del
sesso di appartenenza. Tale rettifica però avveniva solo qualora fossero stati modificati i caratteri sessuali primari e secondari e quindi solo
dopo che la persona richiedente aveva perso la capacità di generare
propria del sesso attribuito alla nascita. Ora è sufficiente la modifica dei
i caratteri sessuali secondari, come il timbro della voce, gli atteggiamenti,
la conformazione del corpo.
La sentenza della Cassazione ha sollevato molti dubbi e perplessità ma
non stupisce, essendo in linea con la cultura dell’autodeterminazione e
dell’individualismo oggi dilagante, anche in alcune istituzioni. Ma la situazione resta ai limiti dell’assurdo perché, come ha sottolineato su Repubblica
del 21 luglio il deputato Eugenia Roccella, questa donna nata maschio
ora potrà generare un figlio, potrà diventare biologicamente padre, ma
non sentendosi padre, genererà sì un figlio da maschio ma sentendosi madre!
Nell’immagine del titolo: Amore e Psiche, Antonio Canova,
1788-1793, Museo del Louvre a Parigi;
nell’immagine sopra: opera di Bill Vuksanovic.
Settembre
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8
prof. Massimiliano Postorino*
L
’aria appena fresca di un temporale estivo soffiava sulle bandiere
multicolore raccolte in piazza San Giovanni per la manifestazione
a favore della famiglia e contro l’ideologia gender. Persone di tutte le regioni, alcuni stranieri ma soprattutto uomini di fede diversa si sono
date appuntamento sabato 20 Giugno per protestare contro il disegno
di legge e di riforma scolastica, che prevedrebbe l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole secondo la teoria gender a partire
dalle classi elementari. Sotto un cielo cupo e minaccioso di pioggia si
ascoltavano le più disparate opinioni, talora con toni accesi di giusto impegno sociale, ma troppo spesso intrise di sentimenti ostili, rabbiosi e non
basate su criteri biologici né tanto meno caritatevoli. Toni di astio e di
disprezzo rivolti verso fratelli e sorelle di orientamenti sessuali diversi
scavalcavano in ogni discorso le oneste e doverose barricate erette a
difesa dell’ educazione familiare e della sessualità dei propri figli.
Quello che doveva essere una manifestazione per comprendere e fornire valide motivazioni per ostacolare il disegno di legge, si era trasformata in una retorica critica accusatoria, in una marcia contro la anormalità. Notai subito che gli organi ufficiali della Chiesa non avevano molto sponsorizzato l’evento, né tanto meno si erano presentati eccelsi prelati inviati dal Vaticano. Inizialmente tale scelta mi sembrò un controsenso,
ma alla luce di quello che vedevo tra la folla, papa Francesco aveva intuito i toni e le argomentazioni strumentalizzate politicamente, prendendone
le distanze.
Quelle parole dure, che poco avevano a che fare con il tema legislativo erano ben lontane dall’amorevole frase pronunciata da Francesco in
merito agli omosessuali: ‘’Chi sono io per giudicare l’amore tra due persone?’’. Per fortuna un diluvio colpiva la capitale in quel pomeriggio, sommergendo tutte le animosità in un silenzio che lasciava spazio solo alla
meditazione. La folla ben presto si riversò sul metrò e così feci anche
io. Seduto davanti a me riconobbi un ragazzo ventenne figlio di una collega, che conoscevo fin da piccolo. Lo sguardo un po’ tenero da bambino, i suoi modi sempre gentili e delicati e quasi femminei avevano da
anni appalesato la sua consapevole natura omosessuale. Mi riconobbe, si avvicinò e dopo un caloroso saluto notò il gadget della manifestazione che avevo sulla maglia e mi disse: << Prof anche lei è contro
di noi? Anche lei ci manderebbe al rogo?...da, lei medico e libero credente, non mi aspettavo che ci considerasse figli di un Dio minore... >>.
Provai molta pena per lui e compresi d’un tratto quanto male può provocare la voluta disinformazione, la mancanza di chiarezza su tematiche come l’omosessualità.
Non c’è quindi da stupirsi se la confusione sociale su queste tematiche
ha creato poi l’oltranzistica opposizione delle lobby gay e lesbo, partorendo quindi lo scellerato disegno di legge sull’educazione sessuale secondo le teorie gender in approvazione in parlamento. Ammiro profondamente le parole del Papa e credo che sia ora di fare scientifica chiarezza su argomenti che con falsi pudori e sdegnosi atteggiamenti sono
stati a lungo sottaciuti. La conoscenza, scevra da ideologia sociali o religiose, è l’unica via per comprendere e per creare una coscienza personale e poi sociale.
La prima domanda a cui rispondere è: l’omosessualità è una malattia
con disturbo del comportamento? È una condizione di normalità o anormalità? Fino agli anni ‘80 l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo considerava un disturbo del comportamento, equiparandolo ad una condizione psichiatrica e pertanto uno stato patologico. Numerosi studi sono
stati condotti sull’argomento partendo dall’ antropologia animale (studio
del comportamento animale) ed è emerso che tali atteggiamenti omosessuali sono presenti in molte specie e nella quasi totalità dei mammiferi. Come è dunque possibile che una patologia psichiatrica, che per
definizione si basa su elaborazioni critiche di una mente superiore, possa rintracciarsi in animali semplici, come il topo, il cane, la scimmia?
Scartata dunque l’ipotesi di una patologia della ‘’psiche umana’’ (sebbene personalmente ritengo che condizionamenti sociali e di vita possano influire sull’orientamento sessuale), la medicina ha indagato quali diversità potessero essere presenti fra le popolazioni animali (non in
cattività) eterosessuali ed omosessuali.
Dobbiamo prima di tutto chiarire il concetto di ‘’normalità’’ che in medicontinua nella pag. accanto
Settembre
2015
cina prende il nome di fisiologico. Nella scienza medica si definisce fisiologico quell’atteggiamento, quella funzione o quel valore che rientra in
un range (minimo e massimo), stabilito in base alla distribuzione di quella variabile nella popolazione. In pratica se in un grafico mettiamo sull’asse delle ascisse il valore in questione e su quello delle ordinate la
percentuale di persone che lo presentano, osserviamo la formazione di
un grafico a campana detto “distribuzione gaussiana”.
Si nota che per qualsiasi dato in medicina abbiamo una tale distribuzione,
in genere simmetrica rispetto ad un valore mediano . Per fare un esempio consideriamo il colesterolo: il valore mediano è di circa 130 mg/dl e
nella popolazione osserviamo che nel range fra 70 mgdl a 180mg/dl rientra circa il 95% delle persone.
Oltre tale range vi sono porzioni estreme di popolazione con valori superiori od inferiori; in entrambi i casi le persone possiedono un valore di
colesterolo non fisiologico ma soltanto per valori superiori a 180 mg/dl
il dato è anche patologico, mentre chi possiede un valore inferiore al minimo è non fisiologico ma non patologico (vedi grafico sopra) .
Tenendo presente queste definizione sono state studiate le suddette popolazioni animali etero ed omosessuali in base al valore degli ormoni, poiché è noto che il comportamento
sessuale è determinato dall’azione degli ormoni su specifiche
aree cerebrali.
Contrariamente a come si pensava, la produzione degli ormoni sessuali nelle due popolazioni
è esattamente sovrapponibile e
dunque la diversità del comportamento non è legata alla quantità degli ormoni prodotti dalle ghiandole.
Si è poi verificata la quantità di
ormoni che attraversa la membrana avvolgente il cervello
(meningi) e si è evidenziato che
nella popolazione omosessuale una quantità minore di ormone raggiunge il cervello nelle aree
destinate al controllo del comportamento o si lega meno
tenacemente al recettore specifico sulle cellule nervose che
regolano l’atteggiamento sessuale.
Rappresentando in una curva
Gaussiana la distribuzione della popolazione in base alla
“quantità di ormone sessuale attivo nelle aree cerebrali specifiche”, la popolazione animale con
valore inferiore al minimo corrisponde sperimentalmente al grup-
9
po di animali omosessuali.
Nell’essere umano per motivi etici non è
stato condotto uno studio conclusivo, ma
verosimilmente possiamo assimilarlo agli
altri mammiferi. Da ciò deriva che l’omosessualità è una limitata variabilità e diversità della specie e come tale va accettata e rispettata; tuttavia considerando che
appartiene ad una quota ridotta della curva gaussiana, non può essere considerato
un atteggiamento prevalente in natura. Essa
stessa ha, per il mantenimento della specie, costituito due sessi e quindi è scientificamente corretto affermare che esistono soltanto due sessi ed un ridotto numero di atteggiamenti varianti. Non possiamo quindi allontanarci dalle leggi naturali , accettando filosofiche teorie
come l’ideologia Gender, che annullano la verità biologica dell’azione ormonale alla base della costituzione dei due sessi .
Tale teoria parte dal presupposto che educando il bambino fin da piccolo al fatto di non avere un’entità sessuale “biologicamente definita dai
suoi ormoni”, accetterà meglio le persone in tal senso varianti e magari se stesso qualora si scoprisse omosessuale.
Io credo che non solo questa teoria è una forzatura elucubrante sulla
verità naturale, ma soprattutto pedagogicamente indurrebbe una perdita di identità del bambino, con gravi danni sulla sua personalità ed il suo
equilibrio psicologico.
Molte persone omosessuali, non a caso, non accettano questa teoria ,
perché snatura anche la loro diversità , accettata come tale; allo stesso modo trovo inaccettabile che per soddisfare l’egoistico desiderio di
divenire genitori, si voglia concedere l’adozione a coppie omosessuali,
basandosi sull’assurdo annullamento dei sessi.
Pur convinto che tali genitori potrebbero fornire un analogo amore ai figli,
non si può annullare il Diritto che possiede un bambino alla nascita di
riconoscersi all’interno di una naturale condizione familiare.
Ritenendo assolutamente priva
di fondamento scientifico la teoria gender, rimane il fatto che la
nostra società e la Chiesa in primis dovrebbe accettare la limitata ma pur esistente variabilità
e diversità sessuale della specie
umana, dal momento che tutti, fratelli e sorelle, sono degni di essere amati e di amare a loro volta. A quel ragazzo sul Metrò risposi con la frase di Papa Francesco
<< chi sono io per giudicare l’amore di due persone?>> ed aggiunsi << come la terra non rinnega
mai i propri alberi ed i suoi frutti, così la vera Chiesa, quella fatta di amore e accettazione,
accoglie, ama e protegge tutti i
suoi figli>>. Alla fine mi sorrise
e scese al volo; “Dio abbia cura
di te”…pensai da solo.
*Cattedra di Malattie del Sangue
Università degli studi
di Tor Vergata, Roma.
Nell’immagine del titolo:
una foto di Elizabeth Gadd;
a sinistra, opera di Guillermo Lorca.
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Sara Bianchini*
R
elativamente alla situazione assai complessa dell’immigrazione
che coinvolge ormai da tempo l’Italia ed il resto di Europa, o meglio
dei profughi in fuga dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, molteplici sono state le informazioni e le considerazioni (nonché le immagini che spesso più che al realismo mirano – inconsapevolmente o meno
– all’assuefazione). Una realtà difficilissima da continuare ad approfondire ed affrontare praticamente, mirando cioè a coordinare:
1) l’accoglienza immediata nei paesi di arrivo (affinché essa sia dignitosa, efficiente, sostenibile);
2) l’accoglienza remota intendendo in questo senso un’azione che possa svolgersi nei paesi di partenza (ed ovviamente si tratta di qui di qualcosa di assai complesso, a lungo termine, e forse anche impossibile,
perché lo slogan “aiutiamoli nel loro paese”, quando il paese è in guerra, potrebbe facilmente diventare “aiutiamoli a fare la guerra” o “aiutiamoli a scavarsi la fossa”, come si aiuta cioè una persona che vive in uno
stato di guerra? Capiamo bene che qui l’intervento umanitario è troppo
strettamente ammantato di questioni geo-politiche);
3) l’accoglienza profonda, ossia quella che cerca di farsi vicino all’altro
che soffre per aiutarlo a ristabilire – se e come possibile – il suo equilibrio interno, il vissuto psichico, spirituale, religioso (ed è chiaro che se
si fatica ad attivare percorsi di accoglienza immediata, come potremmo
pensare di attivarne di questi, i quali richiedono tempi lunghi, luoghi e
condizioni stabili, notevoli specialisti). E nel parlare di accoglienza, dovremmo sempre tenere conto l’altra sponda del mare, ossia come costruire
insieme l’accoglienza, cioè come tenere significativamente in conto le
resistenze, culturali o meno, che quotidianamente, a livello di persone
comuni ma non solo, sentiamo.
Una realtà però che mentre viene affrontata praticamente, richiede altresì una riflessione teorica ed azione conoscitiva. Da diversi punti di vista.
Relativamente all’informazione, per esempio potremmo domandarci perché all’aumento dei servizi nei telegiornali, i quali ci informano sul numero degli sbarchi e delle vittime, non sia corrisposto un aumento dei servizi sulle condizioni specifiche dei singoli paesi di partenza dei profughi.
Solo alcuni mesi fa, tutti i telegiornali mandavano in onda quotidianamente reportage sulla Siria, perché oggi più nulla (o quasi)? O un esempio a latere, volto a precisare la dinamica della informazione, piuttosto
che non la situazione specifica: sappiamo che l’epidemia di Ebola in Africa
è quasi del tutto rientrata?
Cioè che solo in Nuova Guinea restano alcuni focolai, ma che tutti i casi
degli altri paesi coinvolti, sono guariti (guariti – non morti). Eppure anche
l’Ebola era stata un allarme significativo che aveva tenuto occupata la
nostra informazione nel mostrare i rischi per l’Europa, nonché i centri
(quanto saranno costati? E quanto avranno operato?) attrezzati in Italia
per eventuali casi di Ebola. Ma allora perché neanche un servizio sulle
guarigioni in Africa?
Questa lunga introduzione
vuole, riassumendo, dire
due cose: è necessariamente incompleta perché
gli aspetti da tenere in conto sono moltissimi; vuole tararsi su un piccolo punto delle obiezioni quotidiane che all’accoglienza si presentano, ossia
quello del ruolo dell’Europa
in merito.
“Perché dobbiamo prenderceli tutti noi? Perché
la Germania non li vuole? Perché l’Europa non
fa niente per aiutarci?”. Anche in questo caso ovviamente, ciò che io scrivo è solo una minima parte della questione, la quale – fra l’altro – andrebbe anche verificata, per comprendere se c’è una traduzione in atto delle intenzioni dichiarate. Riporto in merito perciò una parte del testo di
una lunga intervista a Jean-Claude Junker è presidente della
Commissione dell’Unione Europea, in merito a quanto presentato finora. Il testo completo è rintracciabile in: http://dirittiumani1.blogspot.it/2015/08/juncker-immigrazione-leuropa-in-cui.html.
«Mi preoccupa il fatto che l’accoglienza sia sempre meno radicata nei
nostri animi. Quando parliamo di migrazioni parliamo di esseri umani,
come noi, solo che queste persone non possono vivere come noi perché non hanno avuto la fortuna di essere nati in una delle regioni più
ricche e più stabili del mondo.
Parliamo di persone costrette a fuggire dalla guerra in Siria, dal terrore
dell’Isis in Libia, o dalla dittatura in Eritrea. Mi preoccupa vedere che una
parte della popolazione le respinge. Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente
l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Mi preoccupa quando i
politici di estrema destra e di estrema sinistra alimentano un populismo
che produce astio soltanto e nessuna soluzione.
Discorsi pieni di odio e esternazioni avventate che mettono a rischio una
delle nostre maggiori conquiste - la libertà di circolazione nell’area Schengen
e il superamento delle frontiere al suo interno. Non è questa l’Europa.
C’è però fortunatamente anche l’Europa dei pensionati di Calais che mettono a disposizione i generatori così che i profughi possano ascoltare
un po’ di musica e ricaricare i cellulari.
L’Europa degli studenti di Sigen che hanno aperto il campus della loro
università ai richiedenti asilo. L’Europa del fornaio di Kos che ha distribuito pane alla gente affamata e spossata. Questa è l’Europa in cui voglio
vivere. Naturalmente non esiste una risposta unica e tantomeno semplice al problema dei flussi migratori. Come sarebbe poco realistico pensare di aprire semplicemente i confini dell’Europa a tutti i vicini, è altrettanto fuori dalla realtà credere di poter chiudere le frontiere di fronte al
bisogno, alla paura e alla miseria. È però chiara una cosa: non esistono soluzioni nazionali efficaci.
Nessuno stato membro può regolare le migrazioni efficacemente per suo
conto. L’approccio deve essere più europeo e non c’è tempo da perdere. Per questo la Commissione Europea sotto la mia presidenza ha avanzato, già nel maggio scorso, proposte dettagliate per una politica comune nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo. Abbiamo triplicato la
nostra presenza nel Mediterraneo per contribuire a salvare vite e a catturare gli scafisti.
Sosteniamo gli stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne) dell’Easo (Ufficio europeo
di sostegno per l’asilo) e della Polizia europea. Le nostre squadre aiutano le autorità locali, spesso oberate, a stabilire l’identità dei profughi,
continua a pag.11
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a registrarli e prelevarne le impronte digitali, nonché
ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste
di asilo.
Interveniamo contro le reti dei trafficanti stroncando poco a poco la loro spietata attività commerciale. Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la
Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi da paesi extraeuropei. Collaboriamo con i paesi di provenienza o attraversati dai profu-
ghi In questo modo intendiamo aprire vie legali, sicure e controllabili per
i migranti. Concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al
paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa. E insistiamo perché sia posto in atto il sistema comune di
asilo europeo deliberato recentemente da tutti gli stati membri - a
partire dalle condizioni di accoglienza
e dalla procedura di asilo fino all’obbligo di prelevare le impronte
digitali dei profughi al loro arrivo
in Europa. […]
In maggio la Commissione ha proposto un sistema per distribuire equamente in seno all’Ue una parte delle persone che arrivano in Italia e
in Grecia e necessitano di tutela.
[…] Vogliamo essere ancor più incisivi creando un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza
possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità.
L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare
al loro destino i paesi membri che
si trovano in prima linea, bensì di
affrontare le sfide delle migrazioni con spirito di solidarietà.
Alcune delle misure proposte dalla Commissione hanno già trovato sostegno.
11
Tutte le altre devono essere affrontate con
urgenza dai 28 stati membri, anche da quelli che
finora si sono rifiutati. I drammatici avvenimenti
di quest’estate ci hanno dimostrato che ormai dobbiamo mettere in atto senza indugio la politica comune europea nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo. Non servono solo i vertici straordinari dei capi di Stato e di
governo. Si è già tenuto un vertice sulle migrazioni, a novembre ci rincontreremo a Malta.
Dobbiamo far si che tutti gli
stati dell’Ue approvino subito le norme europee necessarie, dando loro immediata attuazione. […]
Ciò di cui abbiamo bisogno
e ancora ci manca è il
coraggio collettivo di adempiere alle norme del diritto
europeo e ai nostri obblighi
nei confronti degli individui
anche se farlo non è semplice e certo spesso impopolare.
Invece vedo che si punta il
dito contro gli altri in un gioco a scaricabarile che può
forse servire a guadagnare
attenzione e voti ma non risolve i problemi. […]
L’Europa fallisce se la paura prende il sopravvento.
L’Europa fallisce quando
gli egoismi hanno più voce
della solidarietà presente in ampie porzioni della nostra società. L’Europa
ha successo quando superiamo in maniera pragmatica e non burocratica le sfide del nostro tempo».
*Caritas Diocesana
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12
Giovanni Zicarelli
N
ell’EXPO 2015, l’area vaticana si
distingue per essere particolarmente
in linea con la tematica che
dovrebbe essere alla base di tutto ciò che
è rappresentato nella fiera ovvero: “Nutrire
il Pianeta“.
In altri padiglioni dell’esposizione, vuoi per
il fasto, vuoi per i prezzi, vuoi per gli sponsor, la tematica percepibile pare spesso essere “Saziare oltremodo alcune zone del Pianeta
a scapito di tutto il resto in nome del profitto“. Sarà anche per via di questo raffronto
se risulta suggestivo già solo l’aspetto esterno del padiglione della Città del Vaticano,
sobrio e con a campeggiare, in varie lingue,
le frasi: “Non di solo pane vive l’uomo”,
“Dacci oggi il nostro pane”. Come a dare
un senso di “punto sulla situazione”, di concretezza di base che fa piombare nel frivolo e nella pura mercificazione altri padiglioni. Il cibo considerato per quel che è:
come valore esistenziale e non come merce, come bene che la Terra generosamente offre a tutti e a cui tutti hanno diritto.
Suggestione nella suggestione è l’“Edicola
Caritas”, spazio interno al padiglione, in
cui il visitatore che varca la soglia è accolto dal cartello “Dividere per moltiplicare
– spezzare il pane”.
In una tematica volta a sottolineare,
ambiente per ambiente, la disuguaglianza
nutrizionale tra le varie aree del Pianeta,
si giunge in uno spazio che si ritiene di dover
particolarmente segnalare all’attenzione del
visitatore, quello che ospita “Energia”, opera del 1973 dell’artista tedesco Wolf
Vostell (1932-1998) proveniente dal Museo
Vostell Malpartida di Cáceres (Spagna), la
quale non si sottrae al tipico impatto eccentrico dell’arte di quegli anni: è una scultura per assemblaggio in cui una Cadillac, ridotta ad un rottame, con all’interno alcune armi
(così l’artista l’aveva trovata a Roma, in via
Nomentana, subito dopo la guerra) è circondata da muretti di pane in forma di diverse centinaia di baguette, ognuna avvolta in
pagine di quotidiano.
Ma se la riflessione accompagnerà l’osservazione,
allora il messaggio che ne deriverà sarà potente come solo ciò che è alla base della vita
può essere:
all’epoca dell’uscita sul mercato, quella Cadillac,
aveva un prezzo comparabile al costo di un
appartamento medio. Ma alla fine non è stato ciò di cui aveva realmente bisogno il Mondo,
tant’è che oggi, ormai rottame, non se ne
sente la mancanza, anzi è di chiaro impaccio, mentre ciò che non ha mai perso il proprio valore, con la certezza che mai lo perderà, è il pane quotidiano che la circonda,
visto come nutrimento sia del corpo, nell’alimentarsene, che della dignità nel portarlo a casa.
Nutrire il Pianeta dunque, ma tutto, e non
solo nel corpo.
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l’esperienza cristiana e della riflessione culturale e spirituale che ha
generato dentro la storia.
Da non perdere:
le attrazioni del Padiglione
Giovanni Zicarelli
“Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni
parola che esce dalla bocca di Dio”, è da
questa frase del Vangelo che si sviluppa il messaggio che la Santa Sede vuole trasmettere attraverso la sua partecipazione a Expo Milano 2015.
Il cibo come valore primario nella vita degli uomini, da sempre oggetto di riti, simboli, racconti,
calendari e regole ma anche strumento per conoscere la propria identità e costruire relazioni con
il mondo, il creato, il tempo e la storia.
La Santa Sede vuole concentrare l’attenzione
dei visitatori sulla forte rilevanza simbolica dell’operazione del nutrire e sulle potenzialità di
sviluppo antropologico che essa racchiude.
Potenzialità che sono profondamente sociali e
collettive e di cui spesso purtroppo dobbiamo
prendere atto per via negativa, come denun-
cia di inadempienze e di ingiustizie.
Il cibo si raffigura quindi non solo come nutrimento per il corpo, ma come gesto del nutrire
che diventa pasto e convivium, momento di incontro e di comunione, di educazione e di crescita. Tutto ciò in netta contrapposizione con quella “cultura dello scarto”, che sempre di più oggi
influenza la nostra società generando iniquità
e situazioni di povertà che rappresentano delle vere e proprie piaghe.
Attraverso il suo Padiglione, che si sviluppa su
un’area complessiva di 747 metri quadrati, la
Santa Sede vuole offrire ai visitatori uno spazio di riflessione attorno alle problematiche che ancora oggi sono
connesse all’alimentazione e
all’accesso al cibo, mettendo in
luce come l’operazione antropologica del nutrire sia al cuore del-
XXXI GMG 2016
“BEATI I MISERICORDIOSI
PERCHE’ TROVERANNO MISERICORDIA”
a GMG è una esperienza straordinaria per tutti i giovani che desiderano fare un profondo incontro con Cristo, con la Chiesa e con
tanti altri giovani. Perchè la GMG non rimanga semplicemente un
evento è necessario prepararsi e “camminare” insieme come Diocesi VelletriSegni verso Cracovia.
Per questo motivo, come Servizio diocesano per la Pastorale Giovanile
invitiamo tutti i giovani, in particolare quelli che pensano di venire a Cracovia
al primo appuntamento, che sarà domenica 4 ottobre alle ore 19.30 presso il Centro di Spiritualità S. Maria dell’Acero. Il resto... sarà tutto da scoprire!!! Per una migliore organizzazione vi chiediamo di confermare la vostra
partecipazione. Vi aspettiamo numerosi!
L
P.S.: Ognuno è invitato a portare qualcosa da mangiare da condividere
con gli altri. A Cracovia potranno partecipare giovani compresi tra i 18 e
35 anni (tutti coloro che compiranno 18 anni nel 2016).
Per maggiori info contattare le Suore Apostoline: 06.963.33.24.
Fin dalle pareti esterne, il Padiglione
propone due spunti di riflessione: “Non
di solo pane vive l’uomo” e “Dacci
oggi il nostro pane”. La visita inizia
prima dell’ingresso, perché i visitatori sono accolti personalmente dai
volontari.
Il percorso espositivo procede illustrando in cinque scene le dimensioni ecologica, economico/solidale, educativa e religioso-teologica del
tema. Nella quarta scena (“Educarsi
all’umanità”), è proposta una tavola in legno sulla quale sono proiettati tutti gli ambiti della vita quotidiana
in cui si può agire responsabilmente
per cambiare il mondo. Anche il congedo è a
cura dei volontari.
Nel Padiglione saranno esposte grandi opere
d’arte: si inizia dal Tintoretto. Sulla parete opposta all’ingresso era esposta la tela originale dell’Ultima
Cena del Tintoretto, portata al Padiglione per
Expo Milano 2015 dalla Chiesa di San Trovaso
a Venezia. Quest’opera è stata già sostituita con
un arazzo di Pieter Paul Rubens, raffigurante
l’istituzione dell’Eucarestia, proveniente dal Museo
Diocesano di Ancona, altre sostituzioni ci saranno nel coso del periodo dell’esposizione.
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Carlo Fatuzzo
«Ho avuto sete e mi avete dato da bere»
(Matteo 25, 35).
S
i dice che morire di sete comporti un’agonia più dolorosa e
straziante rispetto alla morte per fame. La civiltà biblica, a
diretto contatto con il disagio della scarsità d’acqua nelle terre desertiche mediorientali, conosce bene ed esprime spesso la spasmodica ricerca di quel bene prezioso, e la paragona persino all’anelito dell’assoluto che è tipico dell’uomo che cerca Dio: «O Dio, tu
sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Salmo
63 [62], 2); «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia
anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente» (Salmo
42 [41], 2-3).
La recentissima enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco,
richiamando tutti all’imperativo della morale sociale cristiana di collaborare affinché sia garantita all’umanità aria pulita da respirare e
acqua pura da bere, ci fa comprendere meglio quella parola di Gesù
– così solenne pur nel suo apparente minimalismo – che dice: «Chiunque
infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché
siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa»
(Marco 9, 41).
Emblematico è, sin dagli inizi della storia della salvezza, l’episodio
in cui il popolo d’Israele, in cammino nel deserto, si dissetò alla fonte di Massa e Meriba fatta sgorgare da Dio grazie all’intercessione
di Mosè (vd. Esodo 17, 1-7): Dio provvede, sin dal principio della
creazione, non solo al cibo per l’uomo, ma anche all’acqua per dissetarlo. Se ciascuna opera di misericordia è imitazione dell’agire misericordioso di Dio stesso, mosso a pietà nelle sue viscere per il bene
di tutte le creature, non
possiamo dimenticare
che abbiamo dapprima
ricevuto da Lui ciò che
Egli chiede che doniamo
ai fratelli.
Ma è bene ricordare
che ogni opera di misericordia, anche corporale,
contiene e rinvia sempre
a una imprescindibile componente spirituale, che trascende l’aspetto puramente materiale. In
tutto simile a noi (cfr. Ebrei 2, 17), nel suo dialogo con la donna samaritana Gesù accusa di avvertire la sete, ma subito coglie l’occasione per annunciare che Egli fa scaturire in noi «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4, 14).
Dar da bere agli assetati significa anche rispondere alla richiesta
di Gesù Crocifisso, il Divino Assetato del Golgota, che sin da quel
primo Venerdì Santo della storia fino ad oggi ripete «Ho sete» (Giovanni
19, 28): Egli ha sete di anime che corrispondano al Suo amore infinito per l’umanità, per quell’umanità che sulla croce rifiutò dapprima il Suo richiamo e addirittura reagì tappandogli la bocca con una
spugna imbevuta di acida asprezza. E il Suo cuore infinitamente misericordioso non si vendicò, anzi donò Egli stesso l’acqua che gli era
stata negata, facendola scaturire dal proprio costato insieme alle
ultime gocce del suo sangue redentore e vivificante.
Nell’immagine sotto: Particolare del fregio,
Opere di misericordia: Dar da mangiare agli affamati,
opera realizzata da Giovanni Della Robbia e
Santi Buglioni e Filippo Paladini,
sec XVI, Ospedale del Ceppo, Pistoia.
Settembre
2015
dott.ssa Chiara Molinari
“Gesù Cristo è il volto della misericordia
del Padre. Abbiamo sempre bisogno di
contemplare il mistero della misericordia.
E’ fonte di gioia, serenità e pace,
è condizione della nostra salvezza”.
ueste, le parole tratte dalla Bolla di Indizione
del Giubileo straordinario della misericordia, “Misericordiae vultus”, indetto da Papa Francesco.
La Chiesa deve rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia di
Dio, perché Lui è misericordioso e giusto e trattandosi di un sacramento, nel legame
coniugale c’è una
parte che appartiene
a Dio ed una all’uomo. La coppia cristiana
deve essere una sorta di immagine della
misericordia di Dio,
ricordiamo sempre
che “i due diventeranno una sola carne”,
raggiungendo quella
pienezza, quella carità coniugale che è il
modo per vivere la carità di Cristo, in un amore pieno e indissolubile, fatto di misericordia
e che li trasforma nel
modo di vivere, facendoli impegnare a sfidare tutti gli ostacoli
che si incontrano sulla strada.
Un amore coniugale,
arricchito e qualificato dal sacramento
del matrimonio, è un mistero di comunione e di
vita: due che si incontrano, che si fondono insieme, possono dar vita ad una nuova presenza
personale, che poi dovrà esser accompagnata
fino ad una propria autonomia.
Amare è aderire al volere di Dio, se non si ama
un marito perché non si scopre in lui il volto del
Signore e l’adempimento del Suo volere, è difficile dare al rapporto coniugale quella fedeltà,
quell’amore misericordioso che sa sperare e confidare anche laddove si respira la disperazione.
Ma il tutto, scegliendo la via dell’abbassamento, dell’umiliazione, dello svuotamento, della miseria, perché la misericordia è la ricchezza dell’amore divino davanti alla piccolezza umana.
Ed ecco che gli sposi, devono seguire il messaggio di Gesù, rispettando la persona, l’interiorità, la coscienza, accogliendo e valorizzando il proprio coniuge con un atto profondo di fede,
di beatitudine reciproca, col convincimento di crescere, maturare, amare e donare.
Misericordia è perdono, è il vertice del dono di
Q
15
amore a cui viene offerta la possibilità di oltrepassare il peccato e rigenerarsi a vita nuova, così cresce la condivisione, l’entusiasmo e cambia davvero l’esistenza. L’amore misericordioso
è una medicina, indispensabile agli sposi, è uno “smalto brillante che rivernicia la facciata spenta del matrimonio” e fa vivere in maniera più intensa, più totale, insegnando alla coppia
la spiritualità, del resto, a noi non sembra aver bisogno di misericordia, ma
poi nel tempo ci accorgiamo che l’amore umano senza misericordia non
potrebbe resistere a lungo.
E’ bello usare misericordia nel matrimonio, ci si
sente più dolci, più aiutati, si esalta l’indissolu-
cina, del perdono delle offese e dei
torti ricevuti, eppure tante volte, come
sembra difficile perdonare!
Lasciar cadere il rancore, la rabbia,
la violenza, sono condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo la
parola di Gesù che ha posto la misericordia come un ideale di vita e come
criterio di credibilità per la nostra fede:
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Matteo 5,7).
Lui ci vuole sereni, colmi di gioia, desidera sempre il nostro bene, insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata.
“L’architrave che sorregge la vita della Chiesa
è la misericordia”, ecco, impariamo a portare il
bilità e l’insegnamento di Dio, un Dio compassionevole, che cammina con chi è ferito, chi è
malato e che vuole che tutti si convertano e vivano. Un amore coniugale colmo di misericordia,
è un amore che sa perdonare, che arricchisce,
che piace e con cui ci si sta bene, è anche benevolenza che si dirige non a soddisfare i propri
bisogni, ma a dare. Così, l’amore diventa senza macchia, vero, perfetto e completa i coniugi nella loro totalità, è condivisione di tutto e insegna loro, a coltivare e sviluppare la misericordia giorno per giorno, dirigendola sempre al bene
dell’altro.
Per questo motivo è importante che gli sposi poi
nel tempo si rendano conto dell’elemento da cui
dipende la forza e la vigorosità del loro amore,
la stabilità e la felicità della loro comunità di vita.
Non dimentichiamo che le cose preziose non
si acquistano a poco prezzo, e che, per
costruire una vera comunione d’amore ci vuole sforzo continuo e generoso, gioia e pace.
Nel matrimonio c’è necessità di questa medi-
matrimonio verso la via del perdono, abbandonando
la tentazione, altrimenti rimarrebbe un legame
coniugale infecondo e sterile, un deserto desolato. Lasciamo raggiungere il cuore del nostro
sposo usando misericordia, generando quel sentimento di compassione, di pietà e non facciamo trascorrere un giorno senza pregare il rosario, senza invocare aiuto, questa è la chiave di
salvezza!
Giorno dopo giorno, toccati dalla sua compassione, non solo verso la persona amata, ma verso tutti, vivremo sicuramente più sereni e misericordiosi, non lasciandoci mai indifferenti.
Scopriamo il volto della misericordia del Signore
nel matrimonio, sperimentiamo l’amore, fondiamo
un “santuario domestico”, perché quando in una
famiglia si crea un luogo di preghiera, conversione, riconciliazione, ci si offre alla misericordia di Dio e si apre il cielo. Dio è fedele e porta sicuramente a termine l’opera iniziata!Quanto
è potente il sacramento del matrimonio, se lo
si lascia lavorare…
Settembre
2015
16
A Patre ad Patrem:
l’iniziativa di Dio.
Il Padre è quindi l’origine della vita religiosa e, al tempo stesso,
il suo fine. Tutto ha origine dalla libera volontà e iniziativa di Dio
e, in questo, non fa eccezione la chiamata degli uomini e delle
donne alla vita religiosa. Non è iniziativa dei singoli, ma risposta
e adesione alla vocazione divina. E a questa risposta il religioso
risponde con tutta la sua vita.
I consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza si comprendono,
allora, come il modo “pratico” attraverso cui la persona consacrata
si dona totalmente a Colui che la chiama. Essere povero, per il
religioso, significa affidarsi in tutto e per tutto alla sola provvidenza
del Padre, «come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 130,2);
essere casto significa vivere solo per Dio, senza preoccuparsi delle cose del mondo (cfr. 1Cor 7,32-34); essere obbediente vuol dire
lasciarsi condurre solo dal Signore (cfr. Sal 22,1-4).
Quest’adesione a Dio e alla sua chiamata diventa, allora, anche
il fine della vita del religioso e la conclusione del dinamismo circolare, e quindi l’andare incontro al Padre.
Questo è un donarsi totalmente a Lui al modo del sacrificio di olocausto in cui tutto il sacrificio, senza parti escluse, è donato a Dio.
Lo spiega bene Giovanni Paolo II nella sua esortazione: «la persona avverte di dover rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue
mani. Proprio per questo […] si può comprendere l’identità della
persona consacrata a partire dalla totalità della sua offerta, paragonabile ad un autentico olocausto» (Vita consecrata, 17).
Per Filium: sulle orme di Cristo.
don Antonio Galati
S
ollecitati dalla coincidenza tra i 50 anni dalla pubblicazione dei documenti conciliari Lumen gentium (1964) e Perfectae caritatis (1965)
con l’anno indetto da papa Francesco per la vita religiosa, in tutti questi mesi precedenti ci si è soffermati a riflettere sulla vita consacrata nella Chiesa attraverso i testi dei due documenti appena citati.
Quasi a conclusione di questo percorso ci si vuole ora concentrare, anche
se non in maniera esaustiva, su un altro documento del magistero ecclesiale che rappresenta un altro punto di vista atto a illuminare il senso e
il ruolo dei religiosi nella Chiesa e che si inserisce nel solco tracciato dal
Concilio Vaticano II. Si tratta dell’esortazione post-sinodale Vita consecrata di Giovanni Paolo II, data alla Chiesa nel 1996 a seguito del sinodo dei vescovi del 1994 sulla vita consacrata e la sua missione nella Chiesa
e nel mondo.
L’intento è quello di concentrarsi su appena tre numeri del documento
(nn. 17-19) che aprono il primo capitolo intitolato A lode della Trinità. L’idea
di fondo, infatti, è che lo stato di vita dei religiosi non può comprendersi fino in fondo finché non si chiarisce l’origine e il fine della sua esistenza,
che è esattamente il Dio uni-trino e la sua lode.
I numeri presi in esame portano con loro un titolo in latino che, se presi insieme offrono questa affermazione: A Patre ad Patrem (n. 17) per
Filium (n. 18) in Spiritu (n. 19), che, se si vuole tradurre in italiano, afferma: «dal Padre al Padre per il Figlio nello Spirito». Si descrive, quindi,
un dinamismo che, si può dire, è circolare, il quale, avendo la sua origine dal Padre ritorna a Lui, attraverso il Figlio, e che è possibile solo
se avvolto dallo Spirito Santo.
Se il fine, quindi, della vita religiosa è il più totale abbandono nelle mani del Padre, si comprende anche la necessità di farlo imitando la vita e l’atteggiamento del Signore Gesù. Egli solo è l’uomo perfetto, Colui che non si comprende se non in relazione totale e perfetta con il Padre. Colui il quale la propria volontà è quella del Padre. La radicalità dei consigli evangelici ha origine e viene vissuta in pienezza dal Signore e quindi è Lui che i religiosi devono imitare per rispondere alla chiamata del Padre: «i consigli evangelici, con i
quali Cristo invita alcuni a condividere la sua esperienza di vergine, povero e obbediente, richiedono e manifestano, in chi li accoglie, il desiderio esplicito di totale conformazione a Lui. Vivendo “in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità”, i consacrati confessano che Gesù è il
Modello in cui ogni virtù raggiunge la perfezione. La sua forma di vita
casta, povera e obbediente, appare infatti il modo più radicale di vivere
il Vangelo su questa terra, un modo - si può dire - divino, perché abbracciato da Lui, Uomo-Dio, quale espressione della sua relazione di Figlio
Unigenito col Padre e con lo Spirito Santo» (Vita consecrata, 18).
In Spiritu: consacrati dallo Spirito Santo.
Se origine e fine della vita consacrata è il Padre e il modello di vita è il
Figlio incarnato, lo Spirito Santo si può raffigurare come “l’ambiente”, o
“l’atmosfera”, nel quale questo dinamismo vive. Infatti: «è Lui [lo Spirito
Santo] che forma e plasma l’animo dei chiamati, configurandoli a Cristo
casto, povero e obbediente e spingendoli a far propria la sua missione.
Lasciandosi guidare dallo Spirito in un incessante cammino di purificazione, essi diventano, giorno dopo giorno, persone cristiformi, prolungamento
nella storia di una speciale presenza del Signore risorto. […]
La persona [consacrata] che dalla potenza dello Spirito Santo è condotta
progressivamente alla piena configurazione a Cristo, riflette in sé un raggio della luce inaccessibile e nel suo peregrinare terreno cammina fino
alla Fonte inesauribile della luce [cioè il Padre]» (Vita consecrata, 19).
Settembre
2015
17
Monache Carmelitane di
Carpineto Romano
I
n questo anno della vita consacrata molto si è fatto e molto ancora rimane da approfondire e soprattutto da
vivere. Che cosa spinge ancora alla sequela del Signore che chiama è sempre un
mistero, per chi è chiamato ma anche per
il contesto familiare e sociale odierno.
Cosa spinge professionisti e professioniste
a lasciare tutto per seguire il Signore è
di certo un punto interrogativo per molti.
Non per chi “sente” la chiamata.
In questo anno nel nostro Monastero in
re proprio “controcorrente” e
contro natura in
quanto è il contrario di ciò che
appaga e si vive
oggi: carriera,
lavoro, soldi, viaggi, divertimento.
Ma ciò è a dimostrazione che
solo il Signore può
e ha questo potere nella vita delle persone.
Iniziare un cam-
Nella foto sopra:
sr. Maria Noemi,
Priora del Carmelo di Carpineto;
nella foto a destra:
suor Maria Mihaela.
Carpineto Romano abbiamo avuto la gioia
di una novizia che è arrivata ai voti temporanei sr. Maria Teresa; la professione
solenne di sr. Maria Valentina, infine la professione solenne di sr. Maria Mihaela.
Tre storie diverse, tre vite diverse ma ciascuna nella sua strada faceva altro.
Di certo osservando loro - come tanti altri
chiamati e chiamate - si vede l’opera e l’agire misterioso - ma reale - del Signore
che spinge a lasciare lavoro, carriera, casa,
beni… per un “centuplo” diverso in beni
invisibili, in servizio fraterno, in comunità.
La risposta alla chiamata sembra anda-
mino di sequela dopo aver seguito in tutto le
“mode” del mondo è oggi da coraggiosi, è da
persone amate che sanno e scoprono in se stesse cosa vuol dire “seguire” il Signore.
Il perché della scelta della vita contemplativa
sembra un paradosso… con l’urgente necessità di fare e fare… “offrite i vostri corpi come
sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, è questo il vostro culto spirituale”, dice san Paolo (Rom
12, 1). Forse vale la pena ricordare a noi stesse e agli altri che la nostra vita contemplativa,
come afferma il punto 91 delle nostre Costituzioni,
“influisce misteriosamente nella costruzione del
Regno di Dio con la stessa ricerca diretta e immediata di lui, con l’unione a Cristo, la nostra immolazione ed orazione (can. 674).
Nella sua peculiarità il nostro apostolato si esercita prevalentemente nella linea dell’“essere” più
che del “fare” e fluisce dalla nostra stessa vita
come irradiazione di ciò che lo Spirito compie
in noi”.
Ecco forse la spiegazione della scelta contemplativa
più sull’’essere che sul fare’ nella costruzione
del Regno. La vita contemplativa è un modo per
raggiungere e colmare - attraverso la preghiera di intercessione - gli aneliti e le necessità di
tutta l’umanità, cosa che più difficilmente si potrebbe ottenere con una vita apostolica prettamente
attiva, orientata a coprire un bisogno specifico.
La vita contemplativa è in altri termini una sfida ai nostri tempi dove l’uomo cerca inconsapevolmente nell’attivismo quotidiano quello
che non riesce a trovare nella relazione con Dio
per una sorta di voluta indipendenza e autonomia
dal Suo Signore e Creatore.
Settembre
2015
18
mons. Franco Risi
I
l Concilio Vaticano II ha portato a un progressivo approfondimento
della figura di Cristo e di conseguenza a un nuovo modo di comunicarlo e, quindi, a un rinnovamento della pastorale. Nasce così l’auspicato aggiornamento, tanto caro a san Giovanni XXIII, di guardare la
chiesa e quanti ne fanno parte con occhi nuovi: la figura del sacerdote,
il religioso o la religiosa; viene anche aggiornato il modo di rapportarsi
con la gente da parte della chiesa stessa: come non pensare all’attenzione che si inizia ad avere per i laici a cui il Concilio ha dedicato un
documento!
È di fondamentale importanza, oltre che urgenza, soffermarsi per un attimo a rileggere le linee fondamentali che sono state delineate nel documento per la cura della formazione dei sacerdoti. Esso richiama tutti i
credenti ad impegnarsi con costanza per favorire nei propri ambienti una
proficua pastorale vocazionale che abbia a cuore l’incremento di vocazioni sacerdotali e alla vita religiosa. Promotori principali di ciò sono i
vescovi ai quali «tocca stimolare il proprio gregge a favorire le vocazioni
e curare a questo scopo lo stretto collegamento di tutte le energie e di
tutte le iniziative ed è loro dovere di comportarsi come padri nell’aiutare senza risparmio di sacrifici coloro che essi avranno giudicato chiamati all’eredità del Signore» (OT 2). Da qui nasce l’esigenza da parte
delle diocesi di dedicare tempo ed energie ad una pastorale vocazionale che sia attenta alla persona nella sua integralità; è quanto ci ha chiesto Gesù: «pregate il signore della messe, perché mandi operai nella
sua messe!» (Mt 9,38).
La preghiera è il mezzo essenziale perché il Signore continui a mandare nuovi operai nella sua vigna; è il mezzo necessario per trovare risposte alle tante domande che albergano nel cuore di ogni credente che,
sensibile alla chiamata di Gesù, decide di lasciare tutto per seguirlo.
La preghiera è il momento solenne in cui ogni uomo o donna, dal
cuore orante, si abbandona totalmente a Dio per digli: «Ecco la
mia vita è nelle tue mani, fa’ di me ciò che vuoi!».
Con la preghiera incessante si educa l’uomo all’ascolto interiore, ad assumere un atteggiamento di silenzio, di condivisione, di
fraternità e soprattutto con la preghiera incessante e discreta si
aiutano quanti sono nel discernimento e nella ricerca a non avere paura e a donarsi totalmente a Cristo. Tale preghiera è sia individuale, ma anche comunitaria: è bello pensare che ogni comunità diocesana dedica dei tempi di adorazione eucaristica per le
vocazioni sacerdotali e religiose, è bello sapere che in ogni comunità ci sono dei momenti particolari in cui si moltiplicano le richieste a Dio di inviare santi sacerdoti e ferventi religiosi alla sua chiesa, è bello constatare nelle varie realtà la ricchezza di uomini e
donne chiamati alla vita sacerdotale o consacrata. È la chiesa che
prega in ogni parte del mondo, in ogni diocesi, in ogni comunità
parrocchiale: da questa preghiera nascono figli e figlie che, affascinati da Cristo, gli hanno detto sì. La preghiera sincera e costante ci fa guardare a Cristo e alla Chiesa.
Guardare a Cristo significa guardare a Gesù di Nazareth, Figlio
di Dio che, «assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7-8), ha donato la sua vita per l’umanità mettendosi al servizio di ogni uomo e
donna. Da Cristo proviene il sacerdozio della nuova alleanza sia
quello comune dei battezzati che quello ministeriale in forza del
sacramento dell’Ordine.
Da Cristo proviene il dono dei consigli evangelici della castità, povertà e obbedienza. Da Cristo proviene il mandato missionario di
andare ad ammaestrare tutte le gente battezzandole nel nome
della santissima Trinità. Solo guardando a Cristo nasce e cresce
nel cuore di ogni persona in ricerca vocazionale il desiderio di donarsi irrevocabilmente, senza cedimenti, senza compromessi.
Guardare a Cristo è pertanto instaurare con Lui un rapporto privilegiato e fedele.
Guardare alla chiesa, invece, significa sentirsi parte della famiglia di Dio, sentirsi figli in ogni tempo o nazione, sentirsi protagonisti e corresponsabili di una eredità tramandataci da Cristo stesso: porsi nel mondo in atteggiamento di servizio e dare testimonianza
alla Verità. È per la chiesa che Gesù la sera dell’Ultima Cena ha istituito i sacerdoti, è per la Chiesa che Cristo continua a chiamare uomini e
donne che, attraverso una vita casta, povera e obbediente, si donano
ad una vita consacrata; è alla chiesa che Gesù ha affidato il suo mandato missionario: siate testimoni e andate in tutto il mondo.
Guardare a Cristo, guardare alla Chiesa è il cammino che oggi ogni tipo
di pastorale ha intrapreso, basti pensare alla pastorale familiare, giovanile,
missionaria, liturgica, vocazionale, al servizio che in modo silenzioso svolge la Caritas. In ognuna vi è la dimensione vocazionale che è l’anima
di tutto il servizio di evangelizzazione. Ecco perché è importante formare
operatori pastorali che, a livello diocesano, donano il loro tempo per la
nostra chiesa locale; è urgente la loro formazione umana, spirituale e
culturale attraverso una sana e regolare vita spirituale scandita dalla Celebrazione
Eucaristica domenicale, dalla Confessione sacramentale, dalla direzione spirituale e dalla preghiera personale. Solo così chi è in ricerca sente la necessità di uscire allo scoperto e con coraggio donarsi pienamente
a Cristo e alla chiesa: solo incontrando testimoni autentici e innamorati di Cristo e della sua chiesa si aiutano altri a compiere scelte definitive per il Regno di Dio, chiedendo in questo modo al Signore, con le parole del beato Paolo VI, la grazia di «infondere l’ansia della perfezione evangelica, la dedizione al servizio della chiesa e dei fratelli bisognosi di assistenza e di carità». A noi, battezzati, il compito di portare avanti la missione affidataci da Cristo: andare in tutto il mondo per esserne luce e
far sì che anche altri, come noi, rimangano affascinati da Cristo e dalla
sua chiesa. Perciò è importante continuare a pregare il signore della messe perché mandi nuovi operai nella sua messe (cfr. Mt 9,38).
Nell’immagine del titolo: Il Miracolo dei pani e dei pesci,
Giovanni Francesco Guerrieri, sec. XVII, Pinacoteca San Domenico - Fano.
Settembre
2015
don Gaetano Zaralli
E
lisa (nome di fantasia) è piccola e leggera, e si muove volentieri tra la gente, lasciandosi coinvolgere tranquillamente
dalle chiacchiere degli altri, senza cadere, però,
nel pettegolezzo, senza scivolare nella stupida perdita di tempo cui si intruppa, quando non
si hanno pensieri validi da introdurre nella conversazione.
Elisa come estetista sa benissimo che la bellezza del corpo risente della bellezza dell’anima, per questo lascia che il suo essere donna rispecchi la semplicità delle cose essenziali,
la generosità nel dedicarsi agli altri, l’umiltà che
non mortifica chi certe qualità non ha. E’ un piacere incontrare Elisa, perché la sua sincerità
non crea problemi, come non crea problemi al
viandante il gorgoglio chiaro e fresco della sorgente che lo disseta.
In realtà, talvolta, è davvero un problema essere sinceri… Non sempre, infatti, la sincerità è
schietta, se si lascia pervadere troppo dalla passione. In certi casi, per esempio, quando si vuole essere sinceri per forza, come se non esserlo fosse la mancanza ad un impegno assunto
per contratto, la sincerità diventa provocazione e può fare dei danni. Quante volte ci si chiede fin dove e quando è opportuno essere sinceri… e come è facile in queste circostanze far
prevalere il silenzio alle parole per il bene dell’altro, si dice; o quanto è difficile, al contrario,
fare violenza alla propria e all’altrui riservatezza
per fare esplodere il bubbone che sta massacrando un rapporto.
Ho incontrato Elisa e, prima ancora di subire
il fascino della sua sincerità, mi sono innamorato della sua semplicità. La sincerità, infatti,
trova alimento nella semplicità e spesso, pur-
troppo, è la complessità dei pensieri, di cui magari si è orgogliosi, a non permettere un’apertura autentica dell’anima. Fintantoché non si ha
il coraggio di demolire il vecchio, ricostruendo
attorno alle cose buone che non mancano un
modo nuovo di vedere e di sentire la realtà, i
pensieri, anche i più nobili, possono avvizzire
nel chiuso dei castelli dorati…
Elisa alla vigilia del suo matrimonio mi affidò
degli scritti che conservo gelosamente tra le cose
importanti.
“Per me il matrimonio altro non è che il consolidamento di un grande amore, poiché noi siamo già una famiglia in quanto conviviamo da
due anni e abbiamo un figlio. Devo dire però
che sposarsi in chiesa è una cosa importantissima e mi piace pensarla così: il matrimonio
è la nascita di un nucleo familiare in cui due
persone mediante un atto civile e spirituale si
impegnano a condividere la vita nel tempo, nel
rispetto reciproco e nelle difficoltà a cui la stessa ci sottopone.
Per me il matrimonio è amore, maternità, paternità, fiducia, energia, sopportazione, volontà,
coraggio… Mi piace paragonare il matrimonio
ad una pianta delicata a cui bisogna essere devoti, a cui bisogna prestare attenzione affinché cresca e non muoia… o perlomeno questo è quello che mi hanno insegnato e fatto vivere le mie
nonne, persone speciali che hanno lottato e lottano per la famiglia.”
Il riferimento alle nonne evidenzia una realtà
che Elisa vuole sublimare ora con il suo matrimonio. A 13 anni ha sofferto per il divorzio dei
suoi genitori, divorzio “tranquillo per fortuna”…
divorzio che è servito a maturala:
“Per questo ho ponderato bene la mia scelta
con la consapevolezza che la vita di coppia non
è tutta rose e fiori… L’importante è tendere la
19
mano verso l’altro e aiutarsi a vicenda e soprattutto essere coscienti che non ci siamo solo noi,
ma c’è anche un figlio a cui di tutto dobbiamo
rendere conto.”.
Parlai con la mamma di Elisa e, ponendola dinanzi alla schiettezza della figlia, la provocai chiedendole ragione del suo divorzio. Con altrettanta schiettezza mi rispose: “Ho preferito far
soffrire i miei figli, pur di non farli vivere nell’ipocrisia.”.
Non mi azzardo a tranciare giudizi su scelte che
coinvolgono famiglie intere e suppongono per
questo la conoscenza di una molteplicità di elementi, difficili spesso da valutare; preferisco in
questo momento godere di un quadruccio che
raccoglie e mostra sorridenti ai miei occhi una
nonna, una mamma e un figlio. Se nel giardino della vita, dove è stato scaricato del letame o per errore o per convenienza di qualcuno, si getta del seme e da questo, maciullato
dal marciume maleodorante, dovessero nascere delle splendide creature o delle situazioni gioiose e serene, perché non prenderne atto, perché intristire il presente con il ricordo avvilente del passato, perché il passato deve essere
considerato “letame” e non più semplicemente “concime”?!
Elisa e il figlio sono quelle splendide creature
che insieme crescono nel caldo concime dell’esperienza. Elisa, lo sposo e il loro figlio sono
una realtà da invidiare, anche se il buon parroco, scrupoloso e un po’ all’antica, pretende
dai due genitori, prima di sposarli, una buona
e sana riflessione.
Nell’immagine del titolo:
opera dell’artista camerunense
Pascale Marthine Tayou
dal titolo Plastic Tree.
Settembre
2015
20
tenero, avvolgente, fiducioso,
uno stile che annuncia non per
convincere quanto per dare,
per condividere, come quando si alleva un figlio e non ci
si aspetta ritorni interessati ma
solo una vita nuova, bella, ricca, significativa che da noi ha
preso il suo essere. Gli stimoli
che l’Instrumentum Laboris suscita sono da un lato molto semplici. Forse per questo motivo contengono una forza
notevole di convinzione. Non
è la prima volta che si leggono parole simili, ora sembra
che ogni parola abbia una virtù intrinseca di coinvolgimento.
La gioia della comunione
tra famiglie
p. Vincenzo Molinaro
S
iamo ormai alle porte del Sinodo dei Vescovi
sulla Vocazione e la missione della famiglia nella chiesa e nel mondo contemporaneo.
Il quattro ottobre ci sarà l’apertura ufficiale. La
sera del tre ottobre contiamo di essere anche
noi a Piazza San Pietro con tante famiglie della diocesi a pregare per il Sinodo.
L’aspettativa è grande e cresce di giorno in giorno, man mano che si conoscono alcune posizioni teologiche e soprattutto da quando è stato pubblicato l’Instrumentum Laboris della
solenne assise. A questo testo ufficiale faccio
riferimento per un invito ulteriore alla comunità
diocesana a partecipare al cammino della Chiesa.
Essa ha riflettuto a lungo e ha preso atto delle
sfide che la società contemporanea lancia alla
chiesa.
Ora vuole considerare la vocazione e la missione della famiglia proprie della Chiesa. Né si
può dimenticare che tante comunità cristiane sono
protese verso l’imminente Giubileo della misericordia e spontaneamente si collega Sinodo e
Giubileo, come se il secondo dovesse influenzare il primo.
Mi soffermerò sulla Missione della famiglia (I.L.
69 ss.), in quanto credo valido l’ atteggiamento di apertura con cui il Sinodo si prepara alla
riflessione. Dalla Relatio Synodi risulta con chiarezza che il compito primario della Chiesa è quello di annunciare il Vangelo della famiglia.
La Chiesa si propone di farlo con la tenerezza
di una madre e la chiarezza di una maestra. Parole
queste che riecheggiamo il pensiero e il vissuto del Papa che ha reintrodotto la tenerezza nel
vocabolario ufficiale e ha dato esempi di
materna attenzione alle ferite delle persone concrete. E’ il punto di partenza per un messaggio
che per essere accolto non può far leva sulla
scienza o sulle statistiche ma su un rapporto umano segnato dalla tenerezza.
Famiglia, soggetto della pastorale
Ritorna qui un tema che nessuna comunità cristiana può ignorare. Chi apre l’annuncio del vangelo della famiglia? Chi è in prima fila, preparato e desideroso di comunicare? E’ la famiglia
cristiana, sono i coniugi credenti i primi a darne testimonianza forte e gioiosa (71-72).
Soggetti attivi della pastorale familiare sono dunque le famiglie. Lo dice esplicitamente la Relatio
Synodi: è in forza della grazia del sacramento
nuziale. Come è evidente non si invoca l’opportunità
o la difficoltà legata al numero dei sacerdoti o
altre ragioni esterne. La motivazione che spinge la Chiesa a considerare la famiglia stessa
“soggetto attivo” della pastorale familiare è il sacramento del matrimonio.
Da questo sacramento deriva naturalmente la
responsabilità della testimonianza e della
comunione del proprio vissuto. Come a dire: chi
meglio dei coniugi che vivono questo rapporto
di tenerezza potrebbe raccontarlo? Dunque le
famiglie si organizzano, fanno dei gruppi, si uniscono, fanno dei progetti.
Tutto volto ad annunciare quanto loro vivono nel
quotidiano con uno stile proprio: quello familiare,
Concretamente, l’annuncio
prende forma nel momento in
cui la famiglia cristiana si rende conto della propria ricchezza,
dei doni che le sono stati affidati e del dinamismo che possono attivare. La famiglia che scopre la gioia della comunione con altre famiglie, varca quel limite che spesso segna tante buone intenzioni.
Questo limite è l’individualismo, invalicabile confine del benessere da assicurare a ogni costo
ai propri figli.
Quando la famiglia supera questa barriera le si
apre l’orizzonte dell’umanità. Il Sinodo non pensa ai piccoli problemi di sopravvivenza cui possono rispondere i vicini di casa. L’obbiettivo è
grande, come sono grandi le possibilità delle famiglie in comunione. Si tratta di politica, di economia, di cultura, con l’utilizzo dei mezzi
moderni della comunicazione (72).
Non è forse una illusione o un sogno credere
sia possibile realizzare queste piccole comunità? E’ proprio questo sogno che indica l’ambizione dell’Assemblea Sinodale. Se susciterà tali
gruppi di famiglie, se le famiglie cristiane si sentiranno interpellate da tale proposta, se la riflessione si aprirà a partire dallo sguardo sul mondo e sulle esigenze che l’umanità manifesta, si
potrà sperare nella nuova stagione del vangelo della famiglia, dove pastorale familiare coincide con la vita della famiglia stessa. C’è sempre la tentazione dei numeri e dei tempi, delle
statistiche. Meglio cominciare da inviti fatti in fraternità e raccolti semplicemente, senza l’obbligo di ricambiare (75), con un linguaggio rinnovato, comprensibile come quello di Papa
Francesco (78).
Intanto, tutti coloro che si sentono chiamati in
causa dalle parole dei Vescovi, si preparino con
l’ascolto, la lettura, la condivisione e soprattutto con la preghiera allo Spirito. E’ lui che apre
i cuori alla novità.
Settembre
2015
21
- il secondo passo si è realizzato
a Lariano, dove gli aspiranti animatori
hanno proposto ai più piccoli
(Testo per i ragazzi) la medesima
esperienza in un campo estivo diurno vissuto sempre nel verde,
presso Albero Bello, a Colle
Paccione.
p. Vincenzo Molinaro
N
el verde di S. Maria dell’Acero, ai primi di luglio, ha fatto una
interessante esperienza un gruppo di preadolescenti di S. Maria
Intemerata, Lariano. Si tratta di 30 ragazze/i dai 15/17 anni che
durante nei mesi passati avevano seguito il corso di preparazione come
animatori, con due incontri mensili a partire da novembre 2014. A loro
è stata data una doppia possibilità:
Nelle foto:
del titolo - il ballo dell’inno del campo con cui si apre la giornata;
il gruppo dell’Acero con i propri animatori, adulti, e le cuoche;
un momento di ascolto della Parola di Dio in chiesa.
- il primo passo: vivere la proposta del campo preparato dall’equipe nazionale di Pastorale vocazionale, dal titolo: E’ bello con Te. Testo come sempre carico di suggestioni secondo la fascia di età corrispondente.
Con i preadolescenti abbiamo scoperto, identificato e vissuto il valore
delle emozioni. Con un coinvolgimento personale notevole.
L’Ufficio Catechistico Diocesano propone un incontro rivolto a tutti i ragazzi che hanno ricevuto il sacramento della Cresima in questo anno 2015.
E’ l’opportunità per ritrovarci insieme e fare festa!
L’appuntamento è per sabato 26 settembre ore 17.00 ad Artena presso il
Centro Parrocchiale piazza Padre Genocchi.
Il pomeriggio prevede stand con attività e testimonianze, preghiera,
cena e serata in musica!
Vi aspettiamo! Non potete mancare!
Per info:
[email protected]
tel.06.963.33.24 (suore Apostoline).
Settembre
2015
22
Nicolino Tartaglione*
uesta espressione
tratta dalla “Gaudium
et Spes” sintetizza
il vissuto dell’esperienza di
docente di religione iniziata nel 1986. Un’ esperienza piena di molte ricchezze ricevute e di scoperta
di limiti personali.
La scuola mi ha aiutato a
sperimentare la visione
del “mondo”, come luogo
teologico che il cristiano è
chiamato a servire, vedendo nascere e sviluppare la
complessità socio-culturale, accogliendo le fragilità dell’uomo contemporaneo, a qualunque età e che
riguardano anche noi stessi. Nello stesso tempo
attraverso la scuola ho vissuto anche la Chiesa, soprattutto la dimensione della popolarità, una chiesa che incontra l’uomo senza le false
sicurezza del “campanile”. La fatica e la bellezza di vivere e confrontarsi con una maggioranza che si definisce non credente, preferirei affermare che non ha conosciuto l’amore di Dio, ma mi attengo ad un linguaggio più consono al mondo della scuola, ha stimolato, come diceva il Cardinal Martini, a educare la mia fede; le storie di vita di moltissimi ragazzi, 350 alunni circa in 18 classi, sono state più formative di
tanti libri e sarebbe state molto difficile incontrarli in parrocchia.
Come docente di un professionale, pensando alle parole di Alessandro
D’Avenia,“insegnare religione in un professionale è come fare il medico in un reparto d’oncologia”, devo ritenermi un privilegiato, visto che
la dimensione escatologica è importante a livello antropologico e di fede.
Riflettendo proprio sulla specificità del percorso formativo dell’istituto
alberghiero, finalizzato all’ospitalità attraverso discipline specifiche come
cucina sala e ricevimento pasticceria, ho avuto la possibilità di coglie-
Q
ella mia storia di insegnante di religione cattolica ho capito che il
docente di religione non svolge il solo ruolo di docente che trasmette
N
i contenuti di una disciplina poichè questo insegnamento va oltre. La storia dell‘uomo è religione perché l’essere umano ha sempre cercato nell’infinito del Creato un Dio da ringraziare da venerare. Il cristiano ringrazia
il suo Dio, quel Dio che si è sacrificato per amore, un Dio che ci ha lasciato poche semplici regole che insegnano a vivere e che potrebbero renderci davvero felici se le rispettassimo ...
Insegnare religione non significa discriminare chi fa la scelta di non avvalersi di detto insegnamento o sceglie di non credere o professa altre religioni ma implica un confronto di opinioni diverse che aiuta gli allievi o
in generale gli uomini e le donne a formarsi nel pieno rispetto delle dif-
re l’importanza sotto il profilo socioantropologico del
banchetto, del pane,
del vino, della strada, (Il Buon
Samaritano…) con
il contributo fondamentale che la
Bibbia offre su questi temi.
Tali temi vanno
anche interiorizzati
e pertanto l’insegnamento ha
aumentato l’impegno nella cura
della vita spirituale, integrandosi
con il cammino
comunitario.
La circostanza che
negli ultimi anni
abbia svolto il servizio di responsabile IRC mi ha fatto cogliere più profondamente la delicatezza del ruolo del docente di religione.
Il suo compito principale attuale è quella di aiutare gli studenti a confrontare il sistema di significato del cattolicesimo con altri sistemi di significato e questo richiede un’identità chiara e autentica, di cui la comunità ecclesiale deve farsi carico. I rapporti con studenti, colleghi, alcuni divenuti amici, e famiglie hanno relativizzato le difficoltà strutturali di
questa materia: un’ora sola settimanale, una valutazione diversa dalle altre discipline, i boicottaggi sulla collocazione oraria, una scarsa considerazione della disciplina, anche se tale fenomeno si è attenuato nella scuola mentre forse permane un po’nel mondo ecclesiale.
Concludo facendo memoria dell’inizio di questa avventura: non pensavo di insegnare, tantomeno religione, ma il mio padre spirituale prma
propose, poi impose e sostenne…
*Direttore Uff. per l’IRC
ferenze che non dividono ma integrano le persone tra loro e arricchiscono i ragazzi di un
bagaglio culturale che senza confronto
sarebbe sterile. Nella mia esperienza di insegnante di religione cattolica ho avuto la soddisfazione di poter dire sempre con orgoglio:
“ Insegno religione cattolica “ per rispondere ai molti che criticano questa disciplina reputandola inferiore alle altre senza fermarsi a
riflettere per considerare che la religione implica ragionamento come la matematica ... fantasia come l’italiano ... o musica o arte, basti
pensare alle opere dei grandi artisti ....e con
ciò non intendo dire che la religione sia la materia più importante ma
intendo sottolineare che tutte le discipline formano l’uomo cioè quell’essere
che creato da un Padre pieno d’amore deve vivere nel rispetto di sé e
degli altri seppur di cultura non uguale alla propria sapendo accogliere
la diversità come opportunità di crescita e donando la sua diversità come
accoglienza per condividere, collaborare, amarci gli uni gli altri come Cristo
ci insegna.
Questo ho imparato ... questo ho insegnato e mi sono arricchita delle
esperienze differenti da cui ho tratto ciò che mi è servito e mi è ancora
utile a crescere sempre di più come persona e come insegnante di religione cattolica.
Loredana Abatini
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2015
23
Nicolino Tartaglione
el 1985 in seguito alla revisione del Concordato del 1929 cominciava un tempo nuovo anche per
l’insegnamento della religione cattolica
nella scuola italiana. Dopo trent’ anni
è necessario condividere un momento di riflessione con la comunità ecclesiale.
La nostra diocesi ha un gruppo di 70
docenti ed una popolazione di circa
20000 studenti, con una percentuale di
avvalentisi superiore al 90%.
Prima di tutto vorrei ringraziare le persone che mi hanno preceduto e che hanno aiutato i pastori a curare questo particolare ambito che è l’IRC; Mons. Paolo
Picca, Mons. Dario Vitali, cav. Fausto
Ercolani, Mons. Luigi Vari, che ancora
oggi a diverso titolo, accompagna questo servizio. Il nostro Vescovo, che ringrazio
per l’attenzione pastorale all’irc mostrata sin dall’inizio del suo ministero, ha vissuto incontri
significativi con il mondo della scuola durante
la visita pastorale, segno del buon lavoro dei
docenti, nonostante le molte difficoltà interne
ed esterne.
Per molti anni il cambiamento dell’irc avvenuto
nel 1985 è stato letto quasi esclusivamente
in prospettiva giuridica, favorendo un atteggiamento
di difesa, centrato sulle rivendicazioni, sia pur
legittime, dei diritti della disciplina e dei docenti, facendo però passare in secondo piano la
dimensione pastorale e spirituale dell’insegnamento.
L’IRC fa incontrare quotidianamente la società civile e la Chiesa nell’ambito della formazione
della persona. Non è educazione alla fede, ma
è educazione della dimensione spirituale dell’uomo secondo le caratteristiche del sistema
di significato del cattolicesimo.
N
La comunità ecclesiale nella persona del
Vescovo assume la responsabilità di mandare un suo membro che esercita un ministero
ecclesiale attraverso la professione docente. Non
a caso lo Stato affida ai Vescovi, l’indicazione
della sede di servizio dell’insegnante,la cui scelta non è impersonale, basata esclusivamente su criteri oggettivi, ma richiede quel discernimento tipico dei pastori.
In questi 30 anni di profonde trasformazioni socioculturali che hanno investito anche il rapporto
con la fede, il docente di religione è diventato
l’unica figura di rapporto con la chiesa, non
solo degli studenti, ma di tutta la comunità scolastica, con una responsabilità che non può essere solo affidata al docente.
Nell’ospedale da campo che è il mondo come
dice Papa Francesco, da soli si può fare poco,
ecco perché è necessario l’impegno ed il sostegno di tutta la comunità a cominciare dalla pre-
ghiera. Nella prospettiva del cammino verso
il Convegno di Firenze , l’IRC può aiutare ad
Uscire, essendo la scuola un contesto diverso dalla parrocchia, ad Annunciare, l’Irc è un
modello di annuncio in uno spazio pubblico; ad
Abitare, l’IRC valorizza la coesistenza pacifica; ad Educare nella misura in cui l’IRC sia
contemporaneamente materia scolastica che
esperienza pastorale; a Trasfigurare, facendo
scoprire la possibilità di vedere la vita con altri
occhi.
L ’esperienza di Emmaus è l’icona di questo
cammino e in questa prospettiva la riflessione
su questi 30 anni avviene con la testimonianza
di alcuni colleghi.
Come attuale responsabile ringrazio tutti i colleghi per la condivisione ed il confronto e anche
chi offre una collaborazione minima aiuta a
far crescere la pazienza e l’umiltà.
I
o insegno religione cattolica nella scuola primaria dall’1982 con grandissima passione, entusiasmo e impegno. Il mio lavoro lo definirei
una missione perché sono tantissimi i problemi che quotidianamente si
presentano nelle 11 classi di alunni che mi vengono assegnate.
Insegnare religione cattolica in una società multietnica vuol dire trasmettere
i valori cristiani suscitando interesse e curiosità nell’alunno. Quando entro
in classe davanti ai miei occhi mi trovo 20 o 25 alunni desiderosi d’imparare l’argomento che mi sono proposta di spiegare; alcune volte capita che sono loro a pormi delle domande su avvenimenti o fatti accaduti e allora la lezione verte su ciò che loro desiderano sapere.
In alcune classi ci sono bambini con problemi di apprendimento o con
una iperattività notevole e accade di trovarsi in classe senza l’insegnante
di sostegno o l’educatrice e allora la situazione diventa molto difficile
da gestire ma con la tenacia, l’esperienza, la professionalità e l’aiuto
dello Spirito Santo si riescono a superare queste situazioni critiche e
difficilissime.
Paola Graziani
Settembre
2015
24
Paluzzi Barbara
È
difficile descrivere in poche parole questo nostro “Lavoro”.
Tra virgolette, perché non è un semplice lavoro, ma una vera e propria
missione; una sfida quotidiana per
carpire l’interesse dei ragazzi, che
non sono solo alunni ai quali veicolare
dei contenuti, ma dei tesori da conquistare ogni giorno.
Come descrivere le sensazioni che
si provano quando alcuni di loro ti
fanno capire, attraverso gli sguardi, a volte le parole, che quello che
stai dicendo li colpisce, li riguarda,
li tocca da vicino …
Come raccontare, invece, il senso
di fallimento che si percepisce
quando non li interessi. Non è come
un’ interrogazione andata male e allora pensi: “Va beh!! Poi lo/a faccio recuperare”. Insomma è un continuo
mettersi in discussione. E’ vero questo lo dovrebbe fare ogni buon inse-
gnante, ma a maggior ragione noi
IRC che non abbiamo il tanto temuto voto numerico che fa media, ma
la nostra fede e la nostra credibilità. E’ sull’esempio di S. Ignazio
di Antiochia, il quale diceva “Si educa con ciò che si dice, più ancora con ciò che si fa e ancor di più
con ciò che si è…”, che io ogni
giorno cerco di entrare in classe,
ed è con tanta umiltà che prima
di farlo chiedo a nostro Signore:
“Illumina la mia mente, fammi pronunciare sempre le parole giuste
e poni il mio cuore a loro disposizione”.
Voglio concludere dicendo che sono
i ragazzi, soprattutto quelli più difficili, che stanno insegnando a me
tante cose, senza contare tutti i
colleghi che ho avuto l’opportunità di sostituire e conoscere in
questi anni. Li ringrazio infinitamente tutti per le perle di saggezza che
mi hanno offerto e per l’amicizia che con alcuni di loro si è instaurata.
state impegnate nei giochi più classici, dal salto con la corda e l’elastico, ai giochi da tavolo, e ai tanti disegni realizzati con le tecniche
più varie. Particolare successo hanno avuto
i Memory biblici, giochi per far conoscere ai
ragazzi i personaggi della Bibbia e così approfondire la conoscenza delle Sacre Scritture
Inoltre, non si possono dimenticare gli
immancabili “gavettoni” durante i quali “nessuno resta all’asciutto”!
Un grazie a quanti, educatori ed educatrici,
mamme e volontari, hanno collaborato rendendo possibile l’ottima riuscita di questa iniziativa: una bella opportunità per stare insieme e crescere nel segno dell’amicizia.
Comunità di Segni
nche questa estate si sono svolte le Attività estive a Palazzo Conti: una bella esperienza riproposta dalla nostra Parrocchia per il terzo anno consecutivo, che ha coinvolto ragazzi e adolescenti di tutte
le età con tanta voglia di stare insieme, pregare, giocare e divertirsi in compagnia.
A
Dal 13 giugno al 14 agosto, nei locali parrocchiali, oltre
alle tante attività creative e ricreative proposte dagli educatori, i ragazzi hanno potuto vivere esperienze di aggregazione e momenti di puro divertimento: contemporaneamente
ai tornei di calcio, calcio-balilla e ping-pong, attività predilette dai ragazzi, le bambine e le ragazze più grandi sono
Settembre
2015
25
n.d.r.
M
onsignor Domenico
Pompili, attuale responsabile dell’Ufficio
Comunicazioni sociali della Cei,
è il nuovo vescovo di Rieti. Lo
ha nominato Papa Francesco,
in sostituzione di monsignor Delio
Lucarelli, che lascia per ragioni di età. Ed è stato consacrato il 5 settembre u.s.. È nato a
Roma 52 anni fa ed è stato parroco e poi vicario episcopale nella diocesi di Anagni-Alatri.
Licenziato in teologia e massmediologo, è alla
Cei dal 2005, prima come responsabile delle trasmissioni liturgiche di Tv2000, poi, dal 2007, come
direttore dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni
Sociali e portavoce dell’Episcopato Italiano. Come
sottosegretario ha affiancato per 5 anni il segretario generale della CEI. Per molti sacerdoti della diocesi di Velletri-Segni mons. Pompili è un
volto conosciuto: essendo le nostre diocesi legate al Seminario Maggiore di Anagni, lì il neo vescovo si è formato e ha studiato, alcuni lo hanno
avuto come compagno di corso, altri in seguito lo hanno avuto come vicerettore e docente
nello stesso seminario. Altri lo hanno conosciuto
per i vari impegni nella sua diocesi non solo accanto ai vescovi Belloli e Lambiasi, ma anche per
l’attività nell’azione cattolica e in qualità di parroco di Vallepietra. Quindi sono in tanti a formulare preghiere e auguri al nuovo vescovo.
Tre stelle
e un albero nello
stemma episcopale di Pompili:
«perché portiate frutto»
Sono le parole «Ut fructum afferatis» - quelle
dell’addio di Gesù ai suoi discepoli alla vigilia
della Passione - a comporre il motto scelto da
monsignor Domenico Pompili a corredo del suo
stemma episcopale: «perché portiate frutto» parole che si ispirano al capitolo 15 del Vangelo di
Giovanni. In esso il legame tra la vite e i tralci
descrive la profonda e vitale intimità del rapporto
tra il Maestro e i suoi discepoli. Il motto risulta
dunque come invito per tutti i discepoli di Gesù,
perché ognuno svolga la propria parte per il bene
comune.
Quanto all’araldica, don Domenico ha si è ispirato a quella ereditata dalla sua famiglia. Lo stemma presenta «un albero in florida fogliazione
sormontato da tre stelle d’oro.
Nella simbologia araldica, l’albero è da sempre simbolo di concordia e, quando viene rappresentato con i rami coperti di foglie e non sec-
SETTENARIO MADONNA ADDOLORATA
2015
DOMENICA 6 SETTEMBRE
Ore 17.00 Chiesa del Gesù. Raduno delle
Confraternite della Diocesi.
TRASPORTO DELL’IMMAGINE DELL’ADDOLORATA dalla
Chiesa del Gesù alla Concattedrale con il seguente itinerario: Via Umberto I, P.za C. Battisti, Corso
Vittorio Emanuele II (parte), Piazza Risorgimento,
Corso Vittorio Emanuele II, Via S. Vitaliano, Piazza
S. Maria, Concattedrale.
Partecipa la Banda cittadina.
ORE 18.00 S. MESSA CELEBRATA DAL VESCOVO.
DA LUNEDÌ 7 A SABATO 12 SETTEMBRE
SS. Messe Ore 7.00 - 8.30 - 9.30.
Per le confessioni il sacerdote è disponibile mezz’ora prima della Messa.
DA LUNEDÌ 7 A GIOVEDÌ 10 SETTEMBRE
Ore 17.30 Rosario e S. Messa. Catechesi sul tema:
“SULLE ORME DI MARIA” con MONS. LUIGI VARI, Parroco
e Direttore Ist. Teol. eoniano di Anagni.
LUNEDÌ 7 SETTEMBRE Ore 19.00
Incontro con i Ragazzi della Cresima.
chi, è anche segno di vitalità.
Nello specifico, il verde dell’albero richiama la
terra reatina caratterizzata da una sequela di floride catene montuose dove scorrono innumerevoli sorgenti di acque potabili, di rara purezza». Un significato anche per lo sfondo argenteo su cui campeggia l’albero: è «simbolo della trasparenza, quindi della verità e della giustizia, doti indispensabili a sostegno dell’impegno pastorale del Vescovo».
Le tre stelle, «simbolo di luce e di orientamento», alludono alla «luce del mistero della
Trinità», ma anche «a Maria, la madre di Dio e
della Chiesa». Sono su uno «sfondo azzurro,
colore simbolo del cielo e quindi dei desideri che
fanno da contrappeso al radicamento alla terra di cui l’albero è immagine».
Nel suo insieme l’araldica evoca «la bellezza e
la freschezza di un’area naturalistica che rappresenta il “cuore blu” di questo territorio, che
incantò san Francesco tanto da farne la sua terra di adozione, “la valle santa”».
MERCOLEDÌ 9 SETTEMBRE ORE 21.00
MARIA, RIVOLGI A NOI QUEGLI OCCHI TUOI MISERICORDIOSI con D. DARIO VITALI, Ordinario di Teologia alla
P.U.G. di Roma.
VENERDÌ 11 SETTEMBRE Ore 21.00
OMAGGIO A MARIA: CONCERTO MARIANO con il COLLEGIUM
MUSICUM SIGNINUM e il Coro GIOVANILE DI SEGNI.
SABATO 12 SETTEMBRE Ore 21.30
PROCESSIONE DELL’ADDOLORATA per le vie del Centro
Storico con la partecipazione della BANDA MUSICALE
“CITTÀ DI SEGNI” diretta dal M° MARIO VARI.
Al termine, SPETTACOLO PIROTECNICO DELLA DITTA
PIROLAND.
DOMENICA 13 SETTEMBRE Ore 10.30
S. MESSA CELEBRATA DAL VESCOVO DIOCESANO MONS.
VINCENZO APICELLA E CONFERIMENTO DEL SACRAMENTO
DELLA CRESIMA.
Ore 18.00 SOLENNE CONCELEBRAZIONE PRESIEDUTA
DA MONS. LORENZO LOPPA, VESCOVO DI ANAGNI-ALATRI.
Al termine, trasporto dell’Immagine dell’Addolorata
da S. Maria alla Chiesa del Gesù.
Settembre
2015
26
Don Gabriele Ardente
nella chiesa di S. Bruno.
Giovanni Zicarelli
I
l 10 ottobre 2015, in Colleferro, presso la Parrocchia di San Bruno, si celebrerà l’Ordinazione presbiterale del diacono Gabriele Ardente. La solenne funzione
sarà officiata da S.E. Rev.ma mons.
Vincenzo
Apicella.
Ultimo di sei
figli, don
Gabriele
nasce a
Roma il 16
luglio 1975
da Bruno e
da Teresa
Eusepi.
È cresciuto nell’Esquilino, quartiere romano situato tra la Stazione Termini e la
Basilica di San Giovanni in Laterano,
nella zona facente capo alla Parrocchia
di Santa Bibiana. Sempre in Roma, ha
compiuto i suoi primi studi presso la Scuola
elementare “Di Donato” e la Scuola media
“Silvio Pellico” per
poi
iscriversi
all’Istituto Tecnico
Industriale “Galileo
Galilei” conseguendo, nel 1994,
il diploma di Perito
in telecomunicazioni.
Nel 1999 entra
nell’Istituto Religioso
Missionario di
Pontassieve, in provincia di Firenze,
dove diviene diacono nel 2005.
Nel 2010, uscito dal
seminario
di
Pontassieve, è chiamato a svolgere il
ministero diaconale nella Diocesi
Gabriele all'età di un anno con la madre
e i fratelli Fabio e Roberta.
Velletri-Segni, ove viene accolto dal vescovo mons. Apicella e da questi assegnato
alla Parrocchia di San Bruno, a coadiuvare il tuttora parroco don Augusto Fagnani.
In concomitanza con gli impegni di diacono, ha proseguito gli studi teologici frequentando
il seminario maggiore regionale del Pontificio
Collegio Leoniano, ottenendovi il Baccellierato
in teologia, per poi iscriversi alla Pontificia
Università Lateranense dove si appresta a
conseguire la licenza in “Cristologia”.
Su nomina del vescovo, da quest’anno è
anche Assistente spirituale dell’Azione
Cattolica Ragazzi Diocesana.
Questa Ordinazione, oltre che una fondamentale tappa nella vita di don Gabriele,
sarà anche uno storico esordio per la Parrocchia
di San Bruno, la quale si troverà ad ospitare per la prima volta tale rito.
Don Gabriele assistente spirituale ad un Campo scuola (luglio 2015).
Settembre
2015
La Congregazione Vaticana
per il Clero in data 10
luglio 2015 ha nominato
Rettore del Pontificio Collegio
di Anagni, Seminario Maggiore
per le Diocesi del Lazio sud
e le Suburbicarie il Rev.mo
Mons. Leonardo D’Ascenzo
del nostro clero diocesano.
Don Leonardo che appena
concluso il doppio mandato come vice direttore
dell’Ufficio Nazione per la
Pastorale delle Vocazioni, torna è il caso di dire al
Leoniano.
Infatti in questo seminario
si è formato e preparato al
sacerdozio, ordinato presbitero il 5 luglio del 1986, con la scomparsa improvvisa dell’amatissimo P. Mario Rosin s.j. storico padre spirituale del seminario fu chiamato a sostituirlo.
In seguito vi insegnò e fu chiamato anche in qualità di vice
rettore. In questo arduo e prezioso compito lo accompagni
tutta la simpatia di quanto hanno apprezzato la sua mitezza e fermezza, la preghiera del Presbiterio diocesano,
dell’amata Azione Cattolica, delle aggregazioni laicali, i religiosi e le religiose, le comunità dove ha svolto il ministero sacerdotale e della diocesi tutta.
n.d.r.
27
Settembre
2015
28
Stanislao Fioramonti
L
a domenica pomeriggio dopo ferragosto
ho fatto un giro in macchina per i Castelli,
più che altro per contrastare la noia che
sempre accompagna queste giornate festive di
estate, fatte soprattutto (per chi non è in ferie)
di grandi pranzi e di televisione. E così quel pomeriggio ho fatto i Pratoni del Vivaro, Albano, Ariccia
eccetera. Poco prima di Genzano ho incontrato il santuario mariano di Galloro, e dato che c’ero stato solo una volta tanti anni fa, per il matrimonio di un amico, mi sono fermato per rivederlo. Proprio in fondo alla navata era esposta
una lettera del vescovo di Albano Marcello Semeraro,
il cui titolo mi ha fatto subito drizzare le antenne: “LXX di ordinazione sacerdotale del Vescovo
Emerito DANTE BERNINI”.
Mons. Dante Bernini, don Dante per i tanti suoi
amici, è nato il 20 aprile 1922 a La Quercia, frazione di Viterbo nota per il santuario mariano.
Ordinato sacerdote il 12 agosto 1945, per un
ventennio ha insegnato matematica e fisica nel
seminario regionale di Viterbo, del quale è stato anche rettore. Il 30 ottobre 1971 è stato eletto vescovo titolare di Assidonia e ausiliare di Albano,
consacrato l’8 dicembre dal vescovo della sua
città mons. Luigi Boccadoro. Fatto più importante,
dal 10 luglio 1975 all’8 aprile 1982 è stato vescovo di Velletri e Segni, diocesi unite aeque principaliter nella sua persona il 20 ottobre 1980.
Dall’8 aprile 1982 al 13 novembre 1999 fu vescovo di Albano, e dunque vescovo dei papi quando risiedevano a Castelgandolfo; a S. Giovanni
Paolo II, che lo chiamava “il mio vescovo”, ha
anche fatto assaggiare più di una volta le fettuccine fatte in casa da nonna Iole, la cara vecchietta valmontonese che cucinava per i giovani
nel centro diocesano dell’Acero.
Dal 1978 Bernini è stato presidente della Commissione
Giustizia e Pace della CEI e membro della Conferenza
dei Vescovi Europei, ruoli nei quali rifulsero la
sua spiritualità la sua grande passione per l’uomo, caratteristiche peraltro da lui manifestate
in ogni occasione.
Della sua diocesi è diventato emerito dal giorno della rinuncia, e con un lapsus che più freudiano non si può, qualche tempo fa un quotidiano viterbese presentandolo lo ha definito vescovo “benemerito” anziché emerito, e mai “errore” fu più giusto e azzeccato.
La lettera del vescovo di Albano, datata 11 luglio
2015 e indirizzata “Al Clero, alle persone di vita
consacrata e a tutti i fedeli della Chiesa di Albano”,
avvertiva che “il prossimo 12 agosto 2015 ricorreranno 70 anni dalla ordinazione sacerdotale
del nostro carissimo vescovo emerito S. E. Mons.
Dante Bernini. L’anniversario dell’ ordinazione
sacerdotale – proseguiva il vescovo - è una data
cara per ogni sacerdote (…).
E’ ugualmente un giorno che famigliari e amici
non dimenticano, e anzi vivono con la preghiera,
il ricordo, l’affetto. Così la Chiesa di Albano vuole celebrare la scadenza giubilare del suo vescovo emerito Dante”.
Ricordando poi che il 9 luglio scorso aveva avuto la gioia di accompagnarlo in una visita privata al papa emerito Benedetto XVI nel palazzo apostolico di Castel Gandolfo, insieme a mons.
Giorgio Biguzzi, vescovo emerito di Makeni in
Sierra Leone, una diocesi vicina a quella Albanese
specie negli anni della guerra civile in quel Paese,
mons. Semeraro invitava tutti a pregare per il
vescovo Dante e i sacerdoti a ricordarlo nelle
messe di domenica 9 agosto, affinché “il
Signore, che gli dà la gioia di rivivere nella lode
il giorno della sua ordinazione sacerdotale, gli
conceda di esprimere nella santità della vita il
mistero che ogni giorno celebra all’altare”.
Mi sento di dire che anche la diocesi di Velletri-
Segni, benché in ritardo, partecipa con affetto a questo anniversario.
Don Dante è stato il nostro amatissimo vescovo per sette anni (19751982) e non potrò mai dimenticare la sua prima visita alla mia
parrocchia dell’Assunta a
Valmontone. La folla radunata sul
sagrato, in una bella serata di sole
quasi al tramonto, attendeva
macchinoni e personalità in talari colorate, quando invece ecco
fermarsi davanti alla chiesa una
Fiat 850 celeste, piuttosto vecchiotta,
dalla quale scende un umile
prete in tonaca nera. Era il nuovo vescovo, che si presentava in
quel modo semplice e dimesso,
ma gli ci volle molto poco a conquistare tutti con la sua parola e
il suo esempio.
Come “mio” vescovo lo ricordo in
modo particolarmente affettuoso
e riconoscente, per la sua presenza
a due dei momenti più importanti
della mia vita; ha celebrato infatti il mio matrimonio con Patrizia il 13 maggio del
lontanissimo 1978; ed è intervenuto, sempre nella Collegiata di Valmontone, alla serata di saluto dei miei concittadini quando siamo partiti, nell’ottobre 1979, per due anni di volontariato internazionale in America Latina (Venezuela ed Ecuador):
due presenze come segno di amicizia e di condivisione, sentimenti, anche questi, sempre manifestati verso tutti.
Nel febbraio 2012, per i suoi 90 anni, un gruppo di amici ha pubblicato un bel volume intitolato “La fievole voce del viandante. Parole non
scritte di Dante Bernini”, nel quale sono riportate alcune delle frasi belle e significative del vescovo amico. Ne riporto come esempio una sola,
che lega la sua vita al suo apostolato:
“Sono nato in un paesino dell’Alto Lazio che ha
come cuore un santuario, dedicato alla Madonna
della Quercia. Una immagine dipinta sul finire
del ‘400, su una tegola di tetto. E’ il tesoro che
gli abitanti si portano impresso nell’anima
ovunque vadano.
Ad Albano mi avete mostrato l’immagine della
Madonna della Rotonda. A Velletri ho incontrato quella della Madonna delle Grazie ed a Segni
dell’Addolorata.
Sì, un cammino segnato da tante immagini, ma
da una sola Persona, chiamata dovunque delicatamente: Maria”.
Io però ho conservato, e voglio offrire, anche
alcune delle parole scritte da lui: quelle pubblicate nel numero di ottobre 1995 della rivista “Club3”,
nella rubrica “Parliamone insieme” da lui curata; solo un piccolo esempio, per dimostrare che
le sue parole scritte, pur a distanza di venti anni,
sono belle e forti quanto quelle non scritte. L’articolo
si intitola “Il lato crudo del Vangelo” e come occhiello ha questa frase: “Il rischio che corriamo è di
leggere il Vangelo come se il mondo fosse già
salvato”.
continua nella pag. accanto
Settembre
2015
Scrive don Dante:
“Cristo sì, la Chiesa no. Una frase come questa può essere detta con intenzioni diverse. Dipende
molto dai significati che si danno alle parole Cristo
e Chiesa.
Uno immediato è che Cristo non ha voluto e non
ha fondato la Chiesa. E’ stata la comunità dei
discepoli, l’Apostolo Paolo in particolare, che l’hanno gradatamente avviata e realizzata.
Un altro. Cristo ha voluto la Chiesa, ma così com’è
oggi essa non incarna quello che Cristo ha pensato e voluto.
Un terzo. Chi pronuncia l’espressione si sente
e intende dirsi pronto ad accogliere e condividere quanto Cristo ha fatto e detto, ma non altrettanto quanto la Chiesa fa e dice.
C’è anche chi adopera la frase per dire che Cristo
può entrare, ha diritto di entrare nella cultura,
nella società odierne...ma non la Chiesa perché
essa è retrograda, chiusa, perfino arrogante e
prepotente...
Non solo. Dipende anche dai campi nei quali
ci si colloca. A seconda delle aree di cui si parla. Si distingue se Cristo e la Chiesa possano
considerarsi attendibili nella stessa misura e con
la stessa autorevolezza. Prendiamo il campo morale. Molta gente è intensamente attratta dalla parola di Cristo nei Vangeli e dal suo modo di comportarsi. Avverte la sublimità di quanto egli ha
detto e, coerentemente, vissuto.
La vita evangelica ha una purezza, una trasparenza
che immediatamente suscitano ammirazione e
consenso. Spesso provocano delle risonanze,
dei richiami di un mondo e da un mondo interiore fatto di pulizia, di onestà, di bellezza, di gioia,
di pace. Un mondo verso cui il desiderio sospinge, come risposta e proposta alternativa a tutte le miserie, le iniquità, le perfidie, le cattiverie, le malvagità, le atrocità, le ingiustizie di questa terra. Non è raro il caso in cui molti invocano la presenza di Cristo, addirittura la sognano, come presenza risolutrice di tutti gli interrogativi, i problemi, le contraddizioni, le sofferenze, le ansie, le angosce dell’umanità.
Spesso anche il non credente, per affermare che
una cosa è vera, dice: è vangelo! Oppure per
contraddire un’espressione che non condivide
e della quale vuol rilevare l’opinabilità: ma quello che dici è forse Vangelo? Si dirà: è linguaggio, linguaggio comune, non risente di atteggiamento
di fede... E’ certamente vero, ma non si può negare che per rafforzare il linguaggio noi ricorriamo spesso a espressioni che hanno un sottofondo di riferimento comune con i nostri interlocutori e rispetto alle quali una minima convergenza
è, più che invocata, presupposta. La conseguenza?
E’ che prendiamo del Vangelo le parti più umanamente e divinamente ricche, ma dimentichiamo,
o almeno non mettiamo in luce quelle cariche
di drammaticità e di tragedia. La Bibbia, e in essa
il Vangelo in particolare, è di una verità senza
veli e senza sconti. Il “mistero di iniquità vi si
svolge come oggi nelle nostre strade e nelle stesse nostre case. Il bene e il male si scontrano
senza mezzi termini. Nelle strade della Palestina,
di Gerusalemme come delle altre città, l’uomo
e la donna mostrano di poter essere, come dice-
va Berdaief, angelo o demonio. Senza
maschera.
La lettura serena e
sincera del Vangelo
ci fa sicuramente
scoprire Cristo, il suo
essere, operare e
parlare come testimonianza di vita divina, ma contemporaneamente e contestualmente di visione cruda e crudele della povertà
morale e spirituale
dell’uomo.
A cominciare dal
gruppo dei discepoli
di Gesù, per allargarsi ai suoi contemporanei. E’ saggezza saper leggere
il contrasto che ne
emerge come una
costante della storia umana.
Cristo, alla fine, appare umanamente come perdente. Lo è di fronte a Erode, a Pilato, ai sacerdoti, ai potenti...
Forse è qui che si può innestare una lettura meno
ideale - certamente meno ideologica - della Chiesa
e della presenza della Chiesa nel mondo. La Chiesa
non è Cristo, ovviamente, ma Cristo l’ha voluta composta dallo Spirito Santo e da noi povera gente. Un testo classico, ripetuto nel Concilio
Ecumenico Vaticano II, la dice “santa e peccatrice”. Santa perché tale la rende Cristo con la
sua grazia, peccatrice perché tale la rendiamo
noi con i nostri tradimenti di ogni giorno.
Ma forse è proprio questo un fatto provvidenziale: l’essere peccatrice, l’essere costituita per
coloro che hanno bisogno del medico. I sani non
hanno bisogno né di Cristo né della Chiesa.
Forse, guardando un pochino dentro noi stessi, dobbiamo in qualche modo rallegrarci perché, consapevoli o meno, anche noi abbiamo
bisogno del medico; in definitiva abbiamo bisogno di una Chiesa peccatrice perché così c’è
posto anche per noi all’interno di essa.
Coloro che sono chiamati a un ministero di servizio non sono immuni dal peccato e molto spesso c’è una brusca discordanza tra ciò che predicano e ciò che vivono; frequentemente la loro
testimonianza non è veritiera. Ma forse proprio
questa è la vera grande pena che spesso diventa dramma interiore: aver conosciuto la Verità
ma non essere in grado di viverla.
Il “ministero delle mani vuote” è quello di chi amministra con le sue mani beni non suoi, che non
dipendono né dalla sua intelligenza né dalla sua
bontà né dalla sua preparazione.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha avuto il grande merito di restituire la Chiesa a tutti i fedeli,
perché tutti, secondo il proprio ministero e carisma, hanno la propria responsabilità ed è indubbio che dalla fine del Concilio la Chiesa abbia
29
compiuto passi da gigante nel cercare di realizzare sempre di più la fedeltà al suo Signore.
La responsabilità è personale: a ciascuno di noi
la risposta più opportuna”.
Don Dante è una di quelle persone che si possono considerare oggettivamente un dono, e quando non ci sono ti mancano. L’ho incontrato l’ultima volta sabato 11 maggio 2013 a La Quercia,
dove vive nella casa paterna. E’ stata una visita attesissima e graditissima, un incontro bellissimo per la dolcezza, la lucidità e la delicatezza di quest’uomo mite e santo che ha 93 anni
e che, salutandoci, rispose ai nostri “Come sta?”
con queste parole: “Io mi sto preparando a sperimentare l’infinita misericordia di Dio”! (Non ha
detto “sperare”, ma sperimentare, da uomo di
scienza – oltre che di fede - che è stato ed è,
avendo insegnato matematica e fisica nel seminario regionale viterbese).
Ma poi, proprio per dimostrare la sua voglia di
vivere e di conoscere a fondo le cose, ci ha invitato a fare un giro in macchina nei dintorni, mostrandoci un’opera della natura (la fonte delle
Zitelle, di acqua calda carbonatico-sulfurea, che
– sosteneva con convinzione - potrebbe essere sfruttata a favore della salute della gente e
invece è lì che scorre nell’indifferenza generale, bloccata dalla burocrazia), e un’opera dell’uomo, di quegli Etruschi che abitavano la sua
terra 800 anni prima di Cristo (la spettacolare
tagliata del Ponte del Diavolo, una strada lunga diversi chilometri tutta scavata nel tufo).
Don Dante, a dispetto dei suoi problemi di fibrillazione atriale e di cattiva circolazione alle gambe, ha voluto pure accompagnarmi a piedi a visitare il suo santuario della Quercia, raccontandomi un pò della sua storia e arte e infine, con
semplicità e delicatezza, ci ha invitato a pranzo, un pranzo delizioso soprattutto perché condito della sua mitezza e saggezza.
Settembre
2015
30
Alfredo Serangeli*
L
a scoperta dell’incunabolo della Naturaslis
historia avvenne in un giorno di agosto
del 2007 nell’antica biblioteca del
Seminario Vescovile di Segni, assegnata in anni
recenti dal nostro vescovo all’Archivio. Dopo la
morte dell’ultimo rettore la biblioteca era infatti in una situazione di incertezza sul suo futuro
mentre cominciava a manifestarsi anche una condizione di abbandono e di caos!
Quale fu la sorpresa, quando, letteralmente in
ginocchio, per la posizione quasi nascosta, trovai l’antica edizione dell’opera
di Plinio il Vecchio che, pur in
condizioni molto precarie, era giunta fino a noi: incredibilmente per
duecentocinquant’anni nessuno
aveva identificato l’opera per quello che era, ossia un libro stampato nel XV secolo. Eppure stava nello scaffale di una biblioteca che per oltre due secoli è
stata il supporto della scuola del
seminario vescovile. Ricordo ancora quel momento come fosse oggi,
con un sentimento che è difficile trasmettere: emozione,
gioia, quel sentirsi vicino a varcare una soglia a cui nessuno
si era mai avvicinato. Avevo tra
le mani una preziosa edizione
ignota a tutti i repertori!
Come era stato possibile?
Forse aveva ragione Goethe, quando diceva: “La cosa più difficile da vedere è proprio quella che
sta davanti ai nostri occhi”.
Ma eravamo solo all’inizio della storia. Fu subito evidente che
l’incunabolo aveva bisogno di cure
urgenti: infatti non aveva nes-
suna coperta, le pagine iniziali e finali erano mutile mentre altre non si potevano nemmeno aprire, perché incollate dall’umidità ed infestate dai
parassiti; bastava poco perché una parte di quell’antico libro se ne andasse in briciole!
L’indispensabile restauro durato molti mesi fu
reso possibile da un generoso benefattore e dalla capacità professionale del Laboratorio
dell’Abbazia di Grottaferrata, che è forse il più
antico centro specializzato del settore, dove, per
intenderci, venne “curato” negli anni Sessanta
del secolo scorso anche il Codice Atlantico di
Leonardo da Vinci.
L’opera proveniva dalla bottega veneziana di Tommaso de
Blavis che si era trasferito nella città lagunare intorno al 1475,
probabilmente lavorando come
operaio presso un altro stampatore.
Venezia, in virtù della posizione geografica, della ricchezza
ed anche dell’attività intellettuale
era diventata la capitale degli
stampatori, infatti, tra il 1480 ed
il 1482 sono state identificate
con certezza ben 156 edizioni, senza contare quelle ormai
scomparse, dovute a grandi case
tipografiche come quelle di Herbort,
Jenson, Giovanni da Colonia,
Scoto o di un altro Blavis,
Bartolomeo, di cui non conosciamo i rapporti di parentela
che lo univano al nostro
Tommaso, se non il fatto che
era comune l’origine dal ceppo familiare di Alessandria1.
Nel complesso la produzione
di Tommaso de Blavis fu,
comunque, inferiore a quella di
molti altri suoi colleghi veneziani, sia dal punto di vista tecnico, sia come scelta dei testi stampati.
La nostra Naturalis historia è l’ultima sua edizione. Nel colophon2 è riportata anche la data
in cui Tommaso de Blavis terminò il lavoro, ossia
il 3 novembre 1491, oltre all’indicazione del doge
in carica, ossia Agostino Barbadigo.
Successivamente del de Blavis non si ha più alcuna notizia. Verso la fine del 2008 riavemmo finalmente l’incunabolo pienamente recuperato.
Cominciava ora la parte più difficile con lo studio e l’analisi delle numerose annotazioni a margine che era stato possibile solo intravedere.
La cosa richiese molto tempo e ci impose anche
molte domande, a cui cercammo di dare una
risposta. Ad esempio, com’era giunto l’incunabolo a Segni? Una risposta certa era impossibile. L’ipotesi più attendibile è quella che attribuisce l’arrivo della Naturalis historia agli
Scolopi, ossia i “chierici regolari poveri della Madre
di Dio delle scuole pie” che a partire dal 1755
si insediarono nel locale Seminario Vescovile
per disposizione di Benedetto XIV.
Vi rimasero per quasi cinquant’anni, fino agli eventi del 1798, che determinarono la chiusura e l’espulsione degli stessi religiosi, mentre i beni del
Seminario, compresa la biblioteca, furono confiscati. Successivamente, dopo alterne vidende, furono riacquisite tutte le proprietà ecclesiastiche,
compreso il Seminario, senza però che gli Scolopi
potessero riavere i libri che essi stessi avevano portato a Segni, nonostante le reiterate richieste. Questa ipotesi sulla provenienza dell’incunabolo è rafforzata dalla presenza in biblioteca, tra varie cinquecentine recanti note di appartenenza agli Scolopi, di un volumetto che in effetti contiene due diverse opere in edizioni stampate entrambe a Lione, rispettivamente nel 1537
e nel 1540, che recano nei loro testi varie postille che dal punto di vista calligrafico si possono
agevolmente rapportare a quelle presenti sulla Naturalis historia, e ci consentono di affermare
che si tratti della stessa mano. Lo studio delle
annotazioni sui margini dell’opera di Plinio richiese un’attenzione particolare.
L’antico possessore aveva apposto sul suo libro
delle brevi ma precise postille, da cui fu possibile presumere che ne fosse stato il solo responsabile sia per il tipo di inchiostro usato, sia per
la grafia di scrittura. Risaltava, inoltre, la sua profonda cultura umanistica, avvalorata ad esempio da correzioni allo stesso testo di Plinio o da
alcune dotte citazioni, ricavate verosimilmente
da altri manoscritti o da altre edizioni dell’opera. Ma chi era questo personaggio?
A dir la verità lui aveva anche, in certo qual modo,
firmato il libro apponendovi più di una nota di
appartenenza in cui aveva scritto chiaramente
Angelus Rechius!
Non ho difficoltà ad ammettere che all’inizio la
nostra ricerca prese una strada sbagliata, ma
i risultati dello studio non quadravano: ogni ricercatore sente a fiuto quando il suo lavoro è giunto a compimento, mentre nel nostro caso l’impressione era di trovarci in un vicolo cieco! Per
La postilla di Angelo Recchia che cambia la data del ritrovamento del Laocoonte.
Settembre
2015
31
segue da pag. 30
cui, dopo una lunga sosta decidemmo di ricominciare daccapo.
Ormai eravamo giunti al 2013. L’attenzione si
concentrò, infine, su un importante magistrato
capitolino, vissuto proprio nel periodo giusto per
le nostre “esigenze”, Angelo Recchia3. Ecco allora che quasi miracolosamente ogni conoscenza acquisita o che man, mano andavamo acquisendo si incastrava perfettamente nel disegno
che stava nascendo sotto i nostri occhi: eravamo capitati su un personaggio posto ai vertici
del Campidoglio, dalle relazioni giuste con i protagonisti del tempo oltrechè con i vertici della
Chiesa. A questo punto anche l’enigma della sua
postilla principe si scioglieva ed assumeva una
veste direi straordinaria: infatti laddove egli afferma con molta chiarezza che il Laocoonte, opera di Agesandro, Atanadoro e Polidoro di Rodi,
sarebbe stato scoperto il 10 gennaio del 1506
(Laochoõ/ tis statua/ qua Divus/ Iulius Pont./ Max.
in pa/ latio Vati:/ cano loca/ vit: reperta/ est Ro:
An/ no Virginej/ partus/ .1506./.iiii. Jdus/
Januarij)4, anticipando così di quattro giorni quella che da cinque secoli è considerata la data
ufficiale del ritrovamento, ha tutta l’autorità e l’attendibilità per dirlo; molto più di quegli agenti forestieri o di quei viaggiatori di passaggio - come
i vari Filippo Casavecchia, Bonsignore Bonsignori,
Cesare Trivulzio o Giovanni Sabadino degli Arienti
- su cui fino ad oggi si basava la notizia storica. Durante il nostro excursus nel Cinquecento
romano abbiamo potuto accertare l’amicizia del
Recchia con il nobile Marcello Alberini, poi assurto alla carica di Senatore di Roma, che egli aiutò in diverse occasioni guadagnandosene così
la profonda stima e riconoscenza; ovvero la frequentazione con Cristoforo Cenci, ricchissimo
ed ambiguo tesoriere della Camera Apostolica,
nonché padre di quel Francesco assassinato alla
fine del Cinquecento dalla figlia Beatrice, in quello che rimane uno degli episodi più torbidi ed
inquietanti della Roma pontificia.
C’è, poi, il rapporto con artisti come Giulio Romano
ed Antonio da Sangallo: con quest’ultimo fu incaricato, in qualità di “Commissario alle Marmore”,
di regolare i corsi d’acqua che nascevano dalle cascate umbre. Da notare che Antonio da Sangallo
era anche il nipote di Giuliano ed era vissuto
nella sua stessa casa a Roma, già prima del ritrovamento del Laocoonte ed il successivo riconoscimento proprio da parte sua e di Michelangelo!
Fu, infatti, proprio Giuliano che disse la famosa frase: “Questo è Hilaoconte, che fa mentione Plinio”. Altre conoscenze di livello furono Baldovino
del Monte, fratello di Giulio III, con il quale condivise il governo di Spoleto nel 1550, ed un collega, per così dire, d’ufficio, quale fu Pio Boncompagni,
che nel 1539 entrò anch’egli a far parte della
magistratura capitolina ed alcuni anni dopo divenne papa Gregorio XIII.
È quindi chiaro come la sua figura si stagli nel
panorama della Roma erudita e di qualità della prima metà del Cinquecento come un giurista di tutto rispetto - nella Curia Capitolina, ossia
il Tribunale presieduto dal Senatore di Roma,
che rappresentava l’autorità temporale del
papa - in cui il Recchia svolse a lungo la sua
tidiano “La Repubblica”
attività, sicuramente al coruscì un articolo su una monorente di ogni informaziografia relativa all’arte razne che circolava negli
ziata nei secoli. Bene, tra
ambienti più esclusivi e,
migliaia di immagini posquindi, anche di tutti i detsibili per sintetizzare la beltagli relativi al ritrovalezza rubata di un’infinità
mento del gruppo scultoreo
di capolavori venne sceldel Laocoonte che, è
ta quella di un vaso di Sèvres
bene sottolinearlo, fu un
dei primi dell’Ottocento
evento che coinvolse tutche ritraeva proprio il
ta la città ed in particolaLaocoonte, sottratto da
re proprio questo mondo
Napoleone allo Stato ponche si riversò nella casa
tificio, mentre si avviava,
di Felice de Fredis, autoa bordo di un carro, sulla
re della clamorosa scoperta
via di Parigi verso il Louvre,
sul colle Oppio, tant’è che
dove rimase per una quinin una lettera del 31 gendicina d’anni, finchè, dopo
naio 1506 il già citato
il Congresso di Vienna, potè
Giovanni Sabadino degli
finalmente tornare a Roma.
Arienti scrisse: «Tutta
Non dimentichiamo, poi, che
Roma die noctuque conproprio dalla data del ritrocorre a quella casa che
vamento di questo straorlì pare el jubileo. La
dinario gruppo scultoreo si
magior parte Cardinali
fa decorrere anche l’inizio
sono iti ad vedere. Lui [Felice
dei musei vaticani!
de Fredis] le tene in sua
Dopo la pubblicazione del
camera appresso lo lecnostro articolo sulla rivista
to ben guardate». Infatti,
Il monumento funebre di Angelo Recchia
dell’Istituto di Studi Romani
altro particolare di questa comprendente il suo busto, una iscrizionel settembre 2014 (L.
storia, il de Fredis temen- ne e lo stemma gentilizio nella chiesa di
Calenne - A. Serangeli, Una
do forse che la scultura Sant’Agostino in Roma.
nuova datazione per il ritropotesse essere dannegvamento del Laocoonte da
giata o addirittura rubata
in mezzo a tutto quell’andirivieni di gente la fece un incunabolo conservato a Segni, in “Studi Romani”,
LXI (2013), pp. 77-98), la scoperta ha cammitrasferire nella sua camera da letto!
Un altro fatto lega, poi, il de Fredis, entrato defi- nato molto nel mondo5 scientifico, tant’è che il
nitivamente a fare parte delle glorie della Città prof. Salvatore Settis l’ha ripresa, avallando di
Eterna, ad alcune località del nostro territorio: fatto il cambio di data del famoso ritrovamento
infatti, il padre dello scopritore del Laocoonte era nel 1506, in un suo articolo (Da Laocoonte a Munch,
nato a Valmontone, e lo stesso Felice posse- l’urlo e il dolore) sulla pagina culturale de “La
deva dei beni fondiari a Colleferro.
Stampa” nel dicembre 2014 oltrechè in una sua
Possiamo quindi supporre che, attraverso conferenza (Un poema nel marmo. Il Laocoonte
parenti e conoscenti, la notizia del ritrovamen- Vaticano e le sue metamorfosi), tenuta nel Palazzo
to del Laocoonte abbia raggiunto rapidamente Ducale di Genova il 30 gennaio 2015.
la diocesi segnina, agganciando una volta di più Altro risultato rilevante: dal 2 marzo di quest’anno
il centro con la periferia dello Stato pontificio, il nostro esemplare della Naturalis historia è entrasenza peraltro immaginare che, per l’imponde- to nell’Incunabula short-title catalogue, ossia il
rabilità delle vicende umane, proprio qui sareb- catalogo mondiale degli incunaboli, realizzato
be stata rintracciata dopo cinquecento anni la dalla British Library di Londra.
sorprendente nota di un testimone di quei fat*Archivio Storico “Innocenzo III” di Segni
ti, che ci consente oggi di riconsegnare, anche
idealmente, alle comunità della nostra diocesi
il libro appartenuto ad Angelo Recchia che mira- 1 Comunque i due ebbero anche un altro legame, costituito da
colosamente è giunto fino a noi come un teso- Andrea Torresano un ricco possidente di Asola in Lombardia che
ro ritrovato. Questo conferma ancora di più, qua- investì molto nella nuova attività della stampa, comprendendolora ce ne fosse bisogno, come una città non ne le grandi potenzialità, tant’è che in prosieguo di tempo divensia fatta solo di pietre e di mura, ma anche di terà socio di Aldo Manuzio, ossia il maggior tipografo del suo temcose non materiali quale il pensiero dell’uomo 2po oltrechè il primo editore in senso moderno.
Formula posta alla fine dei libri – dai primordi della stampa all’iche si concretizza nello scritto.
nizio del sec. XVI – che riportava, generalmente, il nome dello
L’ormai famosa postilla, che anticipa di quattro stampatore, il luogo e la data della stampa ed altre notizie inegiorni il ritrovamento del Laocoonte, potrebbe renti alla pubblicazione. Il colophon, detto anche soscrizione o
sembrare a molti di poco conto, qualora non si sottoscrizione, teneva l’ufficio del frontespizio, il cui uso venne
valuti però che la scultura in questione è la più introdotto più tardi.
famosa del mondo, con una bibliografia immen- 3 Angelo Recchia nacque a Barbarano nel 1486 da Mariano e
sa ed un’attenzione mediatica internazionale sem- Francesca di Domenico De Silvestris, in una famiglia più che benpre presente per qualsiasi dettaglio che la riguar- estante, tale da permettergli costosi studi universitari, riservati per
di! Non a caso, infatti, qualche mese fa sul quo- quell’epoca ad una ristrettissima élite. Dopo avere condotto i suoi
continua nella pag. 32
Settembre
2015
32
ORDINE DEI FRATI MINORI
Provincia Romana
dei ss. Apostoli Pietro e Paolo
Il Ministro provinciale
A tutti i Fratiloro sedi
comunicazione della morte di
fr. Federico Scascitelli
Cari fratelli,
il Signore vi dia la Sua pace!
Appena trascorso il giorno della
solennità di Maria Assunta in cielo, alle
ore 8:00 di questa mattina ha terminato il suo cammino terreno il nostro
caro confratello fr. FEDERICO SCASCITELLI.
Nato a Fumone (FR) il 17 marzo 1922
da Felice e Maria Grazia Cecchetti,
ricevette al Battesimo il nome di
Mario.
Entrò nell’Ordine a Palestrina nel 1938,
poi ricevette il saio francescano e il nome
di fr. Federico nel gennaio del 1941 a
Fontecolombo, dove il 10 gennaio dell’anno seguente emise la prima Professione religiosa e il 13 maggio 1945 la Professione solenne.
Dal 1942 al 2013 è sempre stato di famiglia ad Artena con gli
uffici di Sagrista, Refettoriere e Questuante, poi anche di Vicario
ed Economo della Casa. Di carattere mite e docile, ha sempre
svolto gli incarichi affidatigli con grande cura e in autentico spirito di servizio, senza mai spegnere lo spirito di orazione e di lode.
Per tutti aveva un sorriso e una parola buona, in particolare quando svolgeva il prezioso ufficio di Questuante.
Di questa sua presenza hanno memoria alcuni confratelli della Provincia, che da bambini lo ricordano passare per le strade ed
i mercati dei quartieri di Roma.
Negli ultimi anni, per ragioni di salute e
per essere meglio assistito, fu trasferito da
Artena alla nostra Infermeria provinciale di s. Sebastiano alle Catacombe. Qui accoglieva sempre col sorriso quanti andavano a trovarlo, pur non ricordandone quasi più ormai i nomi e l’identità.
Ancora una volta desidero ringraziare il
Direttore dell’Infermeria, fr. Rino e la Fraternità
di s. Sebastiano, insieme alle Suore che assistono con tanta cura i nostri Fratelli infermi.
Il rito delle esequie sarà celebrato domani, lunedì 17 agosto, alle ore 15:30 nella
chiesa conventuale di Artena, dove fr. Federico
ha trascorso quasi tutta la sua lunga vita
religiosa e dove ha lasciato un ricordo indelebile di bontà e di laboriosità. Qui sarà
anche tumulata la salma.
Siamo certi che la Madre di Dio assunta
in cielo ha voluto chiamare con sé questo
figlio, che nutriva per Lei tanto affetto e devozione, espressi con
la preghiera del s. Rosario che spessissimo aveva tra le mani.
Il padre s. Francesco presenti al cospetto dell’Altissimo questo
fratello, che ha testimoniato a noi e al mondo le più belle virtù
francescane.
Un cordiale fraterno saluto a tutti,
Roma, 16 agosto 2015
Fr. Luigi Recchia OFM,
MINISTRO PROVINCIALE
sto umile francescano, una storia fatta
di fede e laboriosità; tanti aneddoti, dai
suoi modi silenziosi, ad grande miracolo di cui fu protagonista da giovane.
Le cronache narrano di un bombardamento avvenuto nel lontano 31 gennaio
1944; fu colpito Il Santuario della
Madonna delle Grazie di Artena dove perirono 23 persone di cui tre sacerdoti e nove
fratini: fra Federico scampò alla morte perchè era andato a prendere le patate per
la cena. La vita è un dono, e questo dono
Fra Federico lo ha ricevuto due volte, ma
non ha tenuto nulla per se stesso, ed è
per questo che il suo sorriso resterà nei
cuori di tutti noi.
Paola Lenci
I
l 17 agosto 2015 l’ultimo saluto, un commovente abbraccio da parte della popolazione, del Vescovo S. E. mons. V. Apicella,
di una delegazione del Comune di Artena (Fra
Federico era cittadino onorario), del Circolo
Culturale Padre Ginepro Cocchi e dei suoi confratelli venuti da ogni parte della Provincia Romana
dei Frati minori, se ne citano alcuni: Padre
Provinciale Luigi , Padre Rocco Rita. Padre
Michele Mariotti , Padre Domenico Lassandro,
Padre Domenico Dominici, Padre Pasquale
Veglianti e molti altri. Durante l’omelia S.E. mons.
Apicella ha ripercorso le tappe della vita di que-
segue da pag. 31
studi di legge a Pavia ed avere raggiunto la laurea utriusque iuris
(diritto civile e canonico) a Pisa nel 1517, divenne prima giudice
o Capitano delle appellationi, poi secondo collaterale e, quindi,
primo collaterale sempre del Campidoglio.
Dopo aver ricoperto altri importanti incarichi gli venne conferita
la cittadinanza romana e, di lì a breve, nel 1557, divenne Riformatore
della Sapienza, coadiuvando di fatto il rettore nella gestione dell’Università.
Egli fu, quindi, un personaggio di spicco nella società romana
della sua epoca. Il 29 marzo del 1558, mentre era a letto ammalato, dettò il suo testamento al notaio Stefano Querro che lo redasse
nella sua abitazione del rione S. Eustachio: una casa che appartene-
va al ricchissimo tesoriere generale della Camera Apostolica Cristoforo
Cenci, come diligentemente trascritto dal notaio nella parte finale
delle ultime volontà del giudice di Barbarano.
Morì l’8 aprile successivo. Uno degli eredi, il nipote Evangelista
che lui aveva instradato negli studi giuridici probabilmente anche
aiutandolo nella brillante carriera successiva, gli fece erigere qualche
anno dopo il monumento funebre in marmo che ancora oggi è
murato nella chiesa di Sant’Agostino in Campo Marzio a Roma
e che comprende il suo busto-ritratto, lo stemma gentilizio ed una
iscrizione.
4 La statua del Laocoonte che il pontefice Giulio II fece collocare nel palazzo vaticano è stata trovata a Roma quattro giorni pri-
ma delle idi di gennaio, ossia il 10 gennaio 1506.
È un intellettuale che non ha bisogno di presentazioni. Basta
ricordare che è uno storico dell’arte ed un archeologo di fama
mondiale, il maggior esperto e consulente di normative sul patrimonio, dei rapporti fra pubblico e privato, è professore e già
direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato presidente del consiglio superiore dei beni culturali, ha diretto il Getty
Center for the History of Art and the Humanities di Los Angeles,
a Mantova per il sindaco Fiorenza Brioni aveva redatto il Progetto
per Mantova e curato la mostra La forza del bello. Da qualche
tempo è presidente del comitato scientifico del Museo del Louvre.
5
Settembre
2015
33
Tonino Parmeggiani e don Antonio Galati
È
ormai prossima la ricorrenza della festa della Madonna della Salute, che si celebra annualmente nella chiesa di S. Maria in Trivio la terza domenica di Settembre. La ricorrenza è occasione
per la comunità ecclesiale di rivolgere il suo sguardo e le sue preghiere a Maria, che saluta con l’appellativo di Salus Infirmorum, “Salute degli Infermi”,
in quanto trova in Lei un aiuto nelle proprie infermità
fisiche e anche spirituali.
La devozione si radica in una storia di ormai 150 anni,
per questo si ha la necessità di tornare all’origine
della festa per renderla ancora oggi significativa per
il presente, e un aiuto per il futuro.
Il passato
L’origine di questa devozione a Maria come Salute
degli Infermi è da ricercarsi nella chiesa di S. Maria
Maddalena in Roma, dove dal 1616 viene custodito un quadro di Maria con il Bambino che veniva esposto alla devozione dei fedeli, specie quando erano
nella sofferenza. La devozione del popolo romano
a questa immagine suscitò la costituzione della Pia Unione “Salute degli
Infermi”, con l’intento di diffondere la venerazione a Maria e di attuare
opere di carità. Nel 1864 questa iniziativa, con la devozione a Maria che
la suscitava, arrivò a Velletri per opera dell’allora parroco di S. Maria in
Trivio, don Giuseppe Morza, che
istituì la festa a Maria Salus
Infirmorum nella domenica che
cadeva nell’ottava della Natività
di Maria, che si celebrava l’8 di
settembre.
In origine il quadro che si
venerava a S. Maria in Trivio,
una pittura del XVII secolo, non
era custodito nell’attuale cappella,
ma vi fu posto nel 1870, a seguito dell’aumentare della devozione
a Maria.
Questo però fu sottratto durante gli avvenimenti bellici della
Seconda Guerra Mondiale e se
ne persero le tracce. In seguito a ciò, furono, negli anni, commissionate due riproduzioni a due
pittori locali, che ancora sono
presenti nei locali parrocchiali.
Il presente
L’attuale quadro che si venera
ora nella chiesa di S. Maria in
Trivio fu donato dal cardinale Basilio
Pompili nel 1922 e proviene dalla cappella del seminario di Norma,
dove era stato in precedenza custodito e venerato.
L’attuale immagine è da allora
il nuovo centro dei festeggiamenti
della Madonna della Salute, i quali si sono orientati, da qualche
anno a questa parte, a ricorrere all’aiuto di Maria, e alla sua
intercessione, verso ogni tipo di
infermità, sia fisica che spirituale.
Quest’anno la festa acquisirà un
ulteriore significato: il giorno della Madonna della Salute, infat-
ti, diverrà l’occasione per porre sotto la sua protezione e la sua intercessione il nuovo anno pastorale che, convenzionalmente, ha in settembre
la sua ripresa, dopo le ferie estive. Per questo i tre giorni precedenti la
festa saranno l’occasione per i diversi operatori parrocchiali di ritrovarsi insieme davanti al Signore Gesù
insieme a Sua Madre Maria.
Giovedì 17 settembre si onorerà
Maria come la “donna dell’ascolto”
e tutti gli operatori impegnati nella formazione e trasmissione della fede avranno in quel giorno
un momento di preghiera a loro
dedicato. Così come venerdì 19
settembre gli operatori dell’animazione liturgica, che saluteranno
Maria come la “donna del canto”. Per concludere la preparazione,
poi, con gli operatori della
Caritas parrocchiale, che si ritroveranno insieme a Maria “donna della carità”.
Tra le tre, questa è la giornata
di preparazione più intensa, perché, dopo un Rosario pregato
insieme, alle 12.00 la comunità farà la sua supplica a Maria
e alle 13.00 ci sarà, nei locali
parrocchiali, un “pranzo della solidarietà”, a cui saranno invitati
gli anziani, specie se soli, e i poveri della comunità.
Domenica 20 settembre, giorno della festa, dopo la celebrazione
della Messa serale delle 19.00,
ci sarà la benedizione per il nuovo anno pastorale.
A conclusione dei festeggiamenti,
lunedì 21 settembre si celebrerà
una Messa, sempre alle 19.00,
di ringraziamento per i benefici ricevuti e come suffragio per
i defunti della Pia Unione
“Madonna della Salute”.
Settembre
2015
34
Stanislao Fioramonti
B
Selvascura (Grotta dei Templari), ricavato da una
caverna naturale di forma quasi rettangolare, con
le pareti tutte affrescate probabilmente nella prima metà del ‘400 dai Fraticelli o dai Cavalieri
Templari che, secondo una tradizione non documentabile, si rifugiarono qui dall’abbazia di Valvisciolo
dopo la soppressione dell’ordine (1312) decretata dal re di Francia Filippo il Bello con l’appoggio di papa Clemente V.
Nonostante il grave deterioramento dovuto allo
stillicidio dell’acqua, si possono ancora distinguere 13 pannelli e una nicchia che risentono
fortemente della maniera tardo trecentesca.
Nella parete a destra dell’accesso abbiamo: una
Madonna col Bambino, la Maddalena, una
Annunciazione di scuola fiorentina, l’Adorazione
del Crocifisso, un personaggio su una scala trafitto da una freccia, una Scena di animali, un
Cristo benedicente tra quattro Santi.
A sinistra è San
Leonardo, San
Giacomo,
S.
Francesco con papa
Leone IX, un cinghiale
che allatta i suoi
cuccioli, Carcerati
che si liberano dalle catene, la Madonna
della Palma e l’incredulità di Tommaso.
In una nicchia, San
Giorgio e il drago; sul
pilastro di destra:
S. Nicola di Bari; su
quello di sinistra: S.
Antonio Abate; sul soffitto: S. Michele
(dell’800). La festa liturgica del luogo è
quella dell’Esaltazione
della Santa Croce, il
17 settembre.
Il Crocifisso di questo santuario fu scolpito da un francescano nativo di Bassiano, Fra Vincenzo Maria PIETROSANTI (1624-1694). Entrò a 15 anni nei Frati
Minori Osservanti della Provincia Romana
come fratello laico falegname (non fu mai sacerdote).
Nel 1662 aveva l’incarico di custode della salara (complesso di magazzini ove veniva deposto il sale, bene allora prezioso) nel convento
romano di Aracoeli; dimorò alcuni anni (almeno dal 1669 al 1682) nel convento di Nemi, del
quale fu anche guardiano; dal P. Antonio da Cipressa
sappiamo che nel 1672 nel Santuario di Nemi
veniva iniziata la costruzione del Coro superiore
“ad opera e sotto la direzione di Fra Vincenzo“.
Alla sua mano sono pure attribuiti il monumentale
Pulpito con bassorilievi floreali e i sei Confessionali
in noce con colonnine tortili sormontate da capitelli corinzi tuttora presenti nella Chiesa di S. Maria
del Giglio a Bolsena.
Per il refettorio del convento
di S. Francesco a Cori
scolpì 34 stalli di grande valore artistico, rappresentando nei capitelli dei pilastri scanalati alcuni episodi della vita
di S. Francesco. Per l’altare maggiore della chiesa di
Aracoeli scolpì le statue dei
santi Giovanni da Capestrano
e Bernardino da Siena e curò
la sistemazione a stucchi della parte superiore della
navata centrale. Dal 1683
visse all’Aracoeli, dove morì
il 25 marzo 1694 a 70 anni;
fu sepolto il 26 marzo all’ora terza. P. Samuele Platani
da Farnese (+ 1807) nel
“Necrologio della Provincia
Romana“, al giorno 25 mar-
assiano (LT) è un borgo dei monti Lepini
di origine volsca, posto a 562 metri fra
boschi di querce, lecci e castagni; è circondato da mura castellane medievali i cui camminamenti sono tuttora percorribili. A Bassiano
è nato il celebre stampatore e tipografo quattrocentesco Aldo Manuzio (1449-1515), al quale il paese ha intitolato il Museo delle Scritture,
in via Sezze.
Seguendo via fra Vincenzo Pietrosanti, chiamata
anche via della Croce, in circa 4 km dal centro
del paese si giunge in località Selvascura, al Santuario
del Crocifisso. E’ all’interno di una grotta naturale, sormontato da una cupola tondeggiante medievale. Dal ‘300 al ‘400 fu abitato dai Francescani
“spirituali”, separatisi dall’Ordine
per le dispute sulla povertà di Cristo, che papa
Celestino V autorizzò a seguire l’osservanza integrale della Regola del loro fondatore;
facevano vita eremitica e furono infine condannati come
eretici.
Attualmente si accede al santuario attraverso una scalinata. Sulla destra, all’aperto,
è un affresco della Madonna
col Bambino e un S. Onofrio
eremita tutto ricoperto da barba e capelli.
Da un piccolo portico rettangolare si entra nella
seicentesca cappella circolare
delle Palme, costruita proprio per accogliere il
Crocifisso. Percorrendo
quindi un buio passaggio si
Crocefisso, Angelo Movizzo, Francigena del Sud-Santuario, Bassiano.
giunge al romitorio di
continua nella
pag. accanto
Settembre
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35
segue da pag. 34
zo 1694 scrive: “Nel Convento di Aracoeli,
F. Vincenzo da Bassiano, con fama di santità. E’ fama costante che questi fu sempre intento alla contemplazione della Passione
di Cristo. Essendo alquanto perito nell’arte
della scultura, scolpì molte immagini del
SS. Crocifisso, conosciutissime per la gloria dei miracoli ed il concorso dei fedeli.
Sono particolarmente venerate quelle dei
conventi di Nemi e di Farnese: al lavoro
delle medesime non attendeva se non nei
giorni di venerdì, dopo aver flagellato a sangue
il proprio corpo, in ginocchio e digiunando a pane ed acqua, tanto che possono
dirsi effetto della pietà più che dell’arte e
della tecnica“.
Fra Vincenzo era dunque - come scrive
p. Agostino Gemelli - uno di quei “crocefissari” che fiorirono nel ‘600 nei conventi francescani soprattutto dell’Italia centromeridionale e che si specializzarono nell’arte di suscitare “lacrime purificatrici di
penitenza” mediante la scultura nel legno di Gesù
in croce. Il culto di Cristo Crocifisso era peraltro peculiare dei Frati Minori, che lo proponevano in ogni loro chiesa sia in ricordo delle stimmate di Francesco, sia perché in quella devozione riconoscevano una delle principali vie di
conversione.
Caposcuola dei “crocefissari” francescani del ‘600,
tutti fratelli laici, fu fra’ Umile Pintorno da Petralia,
riformato siciliano, maestro anche di esecuzione artistica: infatti prima di iniziare una scultura si confessava e comunicava, si flagellava e
digiunava, si chiudeva in cella a meditare i momenti della Passione, lavorava, pregava, coloriva,
piangeva, imprimendo a ogni particolare di Cristo
sofferente (la grande corona di spine, le piaghe
copiosamente sanguinanti, gli arti feriti o contusi...) un verismo misurato e commovente, mai
ripetitivo, con risultati che “trasfondono nell’osservatore la pietà dello scultore”.
Metodo di lavoro adottato anche da fra’
Vincenzo da Bassiano, di cui restano almeno
7 crocifissi scolpiti nei conventi di Caprarola (VT),
di Nemi (santuario del Crocifisso), di Farnese
e di Bellegra, nella chiesa di S. Agata a Ferentino,
nel santuario di Bassiano, nella cappella del Crocifisso
della chiesa di Aracoeli in Roma.
Del Crocifisso di Nemi, uno dei più famosi, la
tragicità dell’espressione e le particolarità del volto diedero subito adito alla leggenda che la testa
fosse stata fatta in modo miracoloso. Scrive P.
Casimiro da Roma (1744): “Fu questa lavorata dal divoto F. Vincenzo da Bassiano nei soli
giorni di Venerdì, nei quali macerava il proprio
corpo con pane, ed acqua, e flagellavalo con
aspre discipline, pregando istantemente il
Signore che questa di lui immagine riuscisse di
benefizio alle anime: ed è fama costante ch’egli un dì ritrovasse il di lei volto perfettamente
compiuto di mano invisibile”.
Fra Vincenzo fa emergere dalla sua opera il dramma della sofferenza del Crocifisso: Cristo è rappresentato a dimensioni naturali e, secondo le
caratteristiche della scultura barocca, con
un’accentuata espressività mirante a coinvolgere
lo spettatore (viso emaciato, espressione sofferente, posizione contratta del corpo sparso di
sangue ecc.); la corona di spine infissa sul capo,
il corpo straziato da evidenti piaghe - vistosa quella del costato e quella sulla spalla causata dal
peso della croce -, le ferite dei chiodi nelle mani
Particolare del Crocifisso di Bassiano.
e nei piedi fortemente
deformati dal peso del
corpo che sopportano,
il torace inarcato che evidenzia la fatica nel
respiro. Ma - scrive
Claudio Mannoni - un
momento della passione
fra Vincenzo ha saputo mirabilmente esprimere: il Cristo che si
rimette alla volontà del
Padre mutando una
espressione di dolore
in un abbozzo di sorriso; egli riesce a comunicarci la consapevolezza
Bassiano, Torre e Cinta muraria.
Foto di Mario Aielli.
di Cristo morente che nel totale abbandono al
progetto di Dio sarà operata la salvezza per l’intera umanità. L’intento del pio frate nello scolpire un crocifisso a beneficio delle anime appare perfettamente compiuto.
Sono caratteri presenti anche nel Crocifisso di
Bassiano, scolpito in un unico tronco di pero e
donato al suo paese dall’autore, quando era guardiano del convento di Nemi. Da un atto notarile del 23 settembre 1673 risulta “ ... quod R.D.
frater Vincentius de Pietrosantis de Bassiano ordinis minorum observantiae S. Francisci, ad praesens guardianus V Conventus de Nemore”, ha
scolpito un’immagine del SS. Crocifisso “ ... et
satisfacendo voluntati totius populi Bassianesis
de auctoritate A.R.D. Patris Provincialis sponte
... cedit et concedit praefatam V Statuam dictae Comunitati et toti populo Bassiani“. Già era
stata eretta una Cappella per la conservazione del simulacro presso la Chiesa di S. Maria
delle Palme, “in agro Bassiani in Contrada nuncupata Selva oscura“ e in paese venne istituita anche una Confraternita incaricata di diffondere la devozione al SS. Crocifisso ed il decoro della suddetta Cappella.
Bibliografia:
- A. Gemelli, Il Francescanesimo,
Vita e Pensiero, Milano 1969;
- Emanuele Romanelli OFM,
Fra Vincenzo e i suoi crocifissi, su Google;
- Colombo Angeletti OFM, Necrologio della Provincia
Romana dei SS. Apostoli Pietro e Paolo,
Roma 1969, p. 222;
- Damiano Neri OFM, Scultori francescani del Settecento
in Italia, Tipografia Pistoiese, Pistoia 1952;
- Claudio Mannoni, Il crocifisso di fra Vincenzo,
su Google;
- Stanislao Fioramonti, I Frati Minori a Piglio, Storia
del convento di S. Giovanni Battista, Piglio1995).
Settembre
2015
36
Antonio Venditti
D
opo circa un decennio di “riflessioni” sulle varie tematiche educative, pubblicate
mensilmente su “Ecclesia in c@mmino”, a partire dal 2005 nell’apposita rubrica, ho
ritenuto opportuno sospendere la gratificante attività, nella convinzione di aver sviluppato, al massimo delle mie possibilità, l’occasione che mi è
stata data dal Direttore, al quale esprimo la mia
sincera gratitudine.
Rileggendo la “Premessa” del 2005, nella quale cercavo di individuare le linee direttrici dell’impegnativa indagine nel mondo dell’educazione,
mi sembra di aver tenuto fede al proposito di
trattare tutti gli aspetti più significativi e rilevanti
della odierna realtà, che presenta molte ombre,
ma anche luci di speranza per il miglioramento presente e soprattutto futuro.
Il titolo della rubrica “Educare oggi” ancorava
la trattazione di ogni questione alla vita attuale e, perciò, sempre si è preso spunto da fatti,
progetti, dibattiti, leggi e disposizioni, per avere piena coscienza dei problemi reali, individuarne
le possibili soluzioni e gli sviluppi futuri. Ed anche
i riferimenti alla “tradizione” sono serviti ad interpretare l’attualità, alla luce di valori di sicura utilità, per la risoluzione dei problemi del travagliato presente, nella prospettiva di un miglioramento
generale della qualità di vita
delle nuove generazioni.
Non era certo prevista una collaborazione sistematica così
lunga nel tempo, con la produzione di quasi un centinaio
di articoli, tenendo conto dei
temi suddivisi in due parti e
pubblicati in mesi successivi.
E ciò si è verificato, perché,
da un lato, mi sono sempre più
appassionato alle “riflessioni”,
che mi permettevano di rivisitare la mia lunga esperienza di docente e preside, dall’altro, mi è sembrato di avvertire un consenso del vasto pubblico di lettori, che ringrazio sentitamente, in particolare insegnanti, genitori ed educatori
in genere, che spero possano aver tratto qualche utilità
dalla lettura.
So, ovviamente, che le problematiche educative sono inesauribili, come senza soluzione
di continuità sono i “fatti”
connessi; tuttavia, anche per
evitare ripetizioni o cali di interesse, è bene che
chi scrive, per un lungo periodo, sappia prendersi una pausa, come, appunto, ho deciso di
fare io. Gli articoli non sono stati scritti a caso,
ma secondo un’impostazione di fondo, in corrispondenza con la mia visione pedagogica. Ecco
perché ho ritenuto di poterli riunire in un’apposita pubblicazione, ideata due anni fa ed in seguito ampliata, a mano a mano, fino a raggiungere l’assetto definitivo, con l’inserimento dei più
recenti articoli.
L’opera è articolata in tre parti: I – “Scuola famiglia società”, II - “La Riforma della Scuola”,
III - “La tradizione educativa”.
Nella prima parte, sono trattati ampiamente i problemi della scuola e della famiglia, in stretta interazione, come espressioni significative della società, su cui hanno la capacità di incidere, soprattutto per l’avvenire delle giovani generazioni.
Nella seconda parte, è posto nel dovuto rilievo
il grande evento della “Riforma” scolastica generale, nelle finalità fondamentali e nel rinnovamento
della struttura organizzativa e della didattica, ma
anche nel travaglio dell’elaborazione finale, come
pure nella difficile applicazione ancora in atto,
nelle mutazioni delle stagioni politiche, scandite dalla successione dei Ministri, titolari del dicastero dell’Istruzione.
Nella terza parte, emergono i valori della nostra
tradizione educativa, assunti come riferimento
costante nella trattazione di tutti i temi: un filo
che unisce gli elementi della complessa materia e la rende organica, permeandola di autentica passione per l’insegnamento e di schietto
amore per la persona in crescita, sempre al centro della famiglia, della scuola e della società.
Mi auguro che tale iniziativa possa rivelarsi utile, soprattutto a chi è affascinato, come me, dall’educazione, che è stata la fondamentale ragione della mia vita. Dedico, quindi, “Educare oggi”
a tutti coloro, che, in ogni ambito, svolgono con
scrupolo la funzione di educatori.
Torneo di Calcetto
per la Festa di S. Gaetano
Comunità di Segni
seguito delle attività svolte durante tutto l’anno nel campetto
del Seminario, in occasione
della Festa di S. Gaetano è stato organizzato il Torneo di Calcetto.
A
È stata una bella esperienza, partecipata da tanti ragazzi e dalle loro
famiglie, ben riuscita, grazie alla pro-
Settembre
2015
37
Bollettino diocesano:
Prot. VSC 19/2015
AL REV.DO DIACONO GABRIELE ARDENTE
Vista la tua richiesta, pervenuta con lettera datata 16 luglio 2015, di poterti dedicare stabilmente al servizio della diocesi di Velletri-Segni, dopo
il triennio di prova concessi dal Priore Generale della Società di vita apostolica “CRISTO RE SOMMO SACERDOTE” a norma del can. 745 del
C.J.C. il 13 giugno 2011.
Avendo ottenuto dal medesimo Priore Generale, Mons. Gilles Wach, il consenso e l’autorizzazione affinché tu possa essere incardinato definitivamente nella diocesi di Velletri-Segni, con lettera datata 18 ottobre 2014, secondo il disposto dei cann. 267, 269, 693 e 743 del C.J.C,
nonché a norma del n° 48 delle Costituzioni dell’Istituto di “Cristo Re Sommo Sacerdote”
Avendo preso atto delle relazioni inviatemi annualmente dai formatori del
Pontificio Collegio Leoniano, Seminario Regionale di riferimento per la nostra diocesi, a cui sei stato affidato dall’ottobre 2011.
Dopo aver ascoltato reiteratamente il parere del Collegio dei Consultori e di don Augusto Fagnani, parroco di San Bruno in Colleferro, con cui
stai tuttora svolgendo il tirocinio pastorale, con il presente
DECRETO DI INCARDINAZIONE
Ti accolgo da questa data stabilmente e definitivamente nel Clero della diocesi di Velletri-Segni a norma del can.269 C.J.C., specificando che,
in tal modo, assumi tutti i diritti e gli obblighi previsti dai cann.273-287 del medesimo Codice di Diritto Canonico.
I Santi Patroni Clemente e Bruno ti accompagnino nell’esercizio del tuo ministero e, per l’intercessione della Beata sempre Vergine Maria, tu
possa crescere in santità, sapienza e zelo apostolico a beneficio di tutta la Chiesa e, in particolare, della nostra diocesi di Velletri-Segni
Velletri, 13.08.2015
+ Vincenzo Apicella, Vescovo
Il Cancelliere Vescovile,
Mons. Angelo Mancini
segue da pag.36
fessionalità e caparbietà dei volontari che hanno messo a disposizione il
loro tempo e la loro passione.
I ragazzi ce l’hanno messa tutta per
vincere, ma tutti si sono distinti per la
sportività, la lealtà e la correttezza.
Non per niente tutti i partecipanti hanno ricevuto un significativo riconoscimento.
Finito il Torneo, l’attività continua nei
tempi e nei modi stabiliti.
E buon divertimento!
Settembre
2015
38
Don Marco Nemesi*
L
a Cappella Brancacci
è una piccola cappella
situata all’interno dell’affascinante Chiesa di Santa
Maria del Carmine di Firenze.
Essa rappresenta uno degli
esempi più elevati di pittura
del Rinascimento (14241428); ed è frutto della collaborazione di due dei più grandi artisti dell’epoca, Masaccio
e Masolino da Panicale, ai
quali deve aggiungersi la mano
di Filippino Lippi, chiamato
a completare l’opera circa cinquant’anni dopo. La famiglia
Brancacci possedevano la cappella alla testata del transetto di Santa Maria del
Carmine fin dalla fine del
Trecento, quando venne
fondata da Pietro Brancacci
(1367). Successivamente,
Antonio Brancacci iniziò una
serie di lavori nella cappella nel 1387, ma fu solo con
suo nipote Felice, un ricco mercante della seta, tra i protagonisti della scena politica fiorentina nella prima metà
del Quattrocento, che commissionò probabilmente alla
bottega di Masolino la decorazione ad affresco,
con un ciclo sulle Storie di san Pietro, il protettore di famiglia. Non si è conservata una documentazione diretta circa la decorazione della cappella, ma le vicende sono oggi ricostruite tramite fonti indirette o più tarde.
Per esempio Vasari nelle Vite ricorda come i due
artisti avevano eseguito in un periodo immediatamente
precedente un San Paolo (di Masaccio) e un San
Pietro (di Masolino, entrambi perduti) in una cappella sull’altro lato del transetto, che gli valsero la prestigiosa commissione. Questa risalirebbe
al 1423, dopo il ritorno di Felice Brancacci da
un’ambasceria al Cairo ed entro la fine del 1424
i lavori dovevano essere avviati. Masolino fu impegnato con lavori a Empoli fino al novembre del
1424, per cui si può pensare che abbia iniziato a lavorare alla cappella Brancacci immediatamente dopo. Il suo aiutante Masaccio prese
la direzione dei lavori dopo la partenza di Masolino
per l’Ungheria, per essere poi sospesi nel 1427
o 1428 quando Masaccio partì a sua volta per
Roma, dove morì nell’estate del 1428. Alcuni ipotizzano che Masaccio non vi lavorasse già più
dal febbraio 1426, quando i Carmelitani di Pisa
gli affidarono un’altra importante opera (il
Polittico), che difficilmente i Carmelitani fiorentini avrebbero permesso, tenendosi un’opera incompiuta. È più probabile che l’interruzione avvenne su iniziativa del committente, con un frettoloso completamento dell’ultima scena avviata,
la Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro
in cattedra testimoniata dall’esecuzione meno
rifinita e dall’uso più cospicuo di assistenti (la
scena venne poi probabilmente mutilata in seguito e ricompletata da Filippino Lippi).
Oggi gli affreschi masoliniani sono nettamente
in minoranza, ma in antico essi si trovavano anche
sulla volta a crociera e in una o due delle lunette superiori, andate distrutte, con un effetto d’insieme completamente diverso. Chiudeva probabilmente il ciclo su San Pietro il rilievo sull’altare con la Consegna delle chiavi, opera di
Donatello oggi al Victoria and Albert Museum,
scena fondamentale per la chiusura delle
Storie e del discorso sull’autorità di Pietro nella Chiesa. Entrambi gli artisti lavorarono separatamente a scene diverse, pianificando accuratamente i loro interventi in modo da poter operare contemporaneamente. Essi usarono un solo
ponteggio dipingendo scene contigue, in modo
da evitare una netta separazione tra le loro opere, che avrebbe creato maggior squilibrio
rispetto a una divisione “a scacchiera” come si
vede oggi. Sul ponteggio di forma rettangolare
l’uno dipingeva la scena sulla parete laterale,
l’altro su quella frontale, per poi scambiarsi i compiti sul lato opposto. Con questo metodo venne sicuramente eseguito il registro superiore e
forse la parte delle lunette, mentre l’interruzione dei lavori comportò la mancata applicazione nel registro inferiore.
L’opera rimase incompiuta, anche per l’esilio di
Felice Brancacci nel 1436, a causa del suo schierarsi nel partito avversario a Cosimo de’ Medici.
È probabile che in quel contesto vennero mar-
tellati via anche i ritratti dei
Brancacci e di altri cittadini dell’epoca che si trovano nella scena della
Resurrezione del figlio
di Teofilo e San Pietro in
cattedra, dove la pittura di
Masaccio s’interrompe
bruscamente sopra a
metà delle vesti.
Nel 1458, quando l’esilio
diventò perenne, la cappella venne probabilmente svuotata di tutti i riferimenti alla casata dei
Brancacci, essendo ormai
sconveniente, per i Medici
e per i carmelitani stessi,
un ciclo pittorico tanto famoso che legasse una famiglia ribelle con il papato.
La cappella venne allora
ridedicata alla Madonna
del Popolo (foto 2) e vi
fu posta la tavola della
Madonna col Bambino, risalente probabilmente all’anno della fondazione della chiesa, il 1268, e tutt’oggi presente sull’altare.
In quell’occasione venne
probabilmente cancellata
la scena dietro l’altare del
Martirio di san Pietro,
ridipinta poi dal Lippi sulla parete destra. Solo
con la riammissione della famiglia Brancacci a
Firenze, nel 1480, la decorazione della cappella
poté essere portata a termine incaricando Filippino
Lippi, che oltre che essere un artista di spicco
era adatto all’incarico anche perché figlio di Fra
Filippo, uno dei primissimi allievi di Masaccio.
Filippino cercò di temperare il suo stile, adeguando
la sua tavolozza alla cromia degli affreschi più
antichi e mantenendo la solenne impostazione
delle figure, per non rompere l’omogeneità dell’insieme. Nonostante ciò il suo stile appare oggi
facilmente riconoscibile, poiché improntato a un
chiaroscuro più maturo e dotato della linea di
contorno che è tipica dello stile intellettualistico del Rinascimento all’epoca di Lorenzo il Magnifico
e che è opposto alla pittura “di getto” fatta di veloci stesure di colore e luce di Masaccio.
Nel corso del Cinquecento il jus patronatus (diritto concesso su un altare di una chiesa ad una
famiglia) dei Brancacci decadde, ma nessuna
famiglia lo rilevò. Al 1565 risale un primo intervento di pulitura, seguito poi da un altro
restauro nel 1670-1674. A fine del XVII secolo
la cappella fu abbellita da argenti preziosi, da
una cornice intagliata e dorata, da una balaustra marmorea e da una spalliera.
Nel 1690 il marchese Feroni, d’accordo con i
Carmelitani, mise in progetto la trasformazione
della cappella da gotica a barocca, in maniera
da fare pendant con la recente Cappella
Corsini, ma il progetto non andò in porto. Risale
al 1642 circa la copertura delle nudità dei percontinua nella pag. accanto
Settembre
2015
sonaggi con fronde, all’epoca di Cosimo
III dei Medici.
Nel 1746-1748 le vele nella volta
a crociera, affrescate da Masolino
con i quattro evangelisti, vennero
distrutte per creare una cupoletta,
dove Vincenzo Meucci affrescò la
Madonna che dà lo scapolare a
san Simone Stock (foto 3), mentre le due lunette superiori, dove il
ciclo aveva inizio, vennero rimpiazzate
da finte prospettive di Carlo Sacconi.
Fu smantellata la bifora gotica e si
creò una più ampia finestra barocca, distruggendo gran parte degli
affreschi nella parte superiore della parete di fondo. In quell’epoca venne anche approntato un massiccio
tabernacolo marmoreo per ospitare la Madonna del Popolo, oggi rimosso. La cappella venne danneggiata dal grave incendio che distrusse la basilica nel 1771, ma gli affreschi si conservarono bene, nonostante
alcuni inevitabili danni all’intonaco
e alla cromia, incotta ed annerita,
ai quali si fece fronte con una successiva rinettatura. La Madonna duecentesca si salvò, essendo stata spostata all’interno del convento da circa un anno.
A ricordo dell’incendio sugli scudi dei pennacchi venne aggiunta la scritta “SIGNUM SALUTIS IN PERICULIS”.
Nel 1780 i discendenti dei Brancacci, i marchesi
de Brancas ormai trasferitisi in Francia, firmarono la rinuncia ufficiale ai diritti sulla cappella,
che passò così ai Riccardi (1782), che operarono alcuni restauri. Il loro stemma (con la chiave) è ben visibile ai lati dell’altare odierno. Nel
1940 si ebbe un restauro conservativo delle pitture, a base di un “beverone” protettivo con uovo
e caseina, che ravvivò il colore. Nel frattempo
la patina di sporco e un velo di nerofumo avevano coperto i colori originari a tal punto che era
maturata nella critica una considerazione di Masaccio
quale pittore dai colori “petrosi”, ma ne veniva
comunque apprezzata la ricchezza plastica.
L’opera di Masolino e Lippi era invece valutata scarsamente. La lettura critica dei contributi di Masaccio e Masolino fu dominata dalla confusione tra i due fino alla metà del XX secolo.
La decisione della necessità di procedere a un
restauro venne presa già nel 1932, quando Ugo
Procacci scoprì sotto due lastre di marmo dell’altare settecentesco alcuni ritagli di affreschi
non interessati dall’incendio e dai restauri, che
mostravano ancora la brillante cromia ante 1748.
Il restauro vero e proprio ha avuto luogo tra il
1983 e il 1990, quando venne rivelata, nello stupore internazionale, una cappella “inedita”, restituita ai brillanti colori di Masaccio ed ai chiari e
soffusi cromatismi di Masolino.
Durante le indagini sono state anche ritrovate
le sinopie di due scene sulla parete dietro l’altare accanto alla finestra barocca, che sono riferibili alle scene distrutte del Pentimento di san
Pietro, probabilmente di Masaccio, e della Chiamata
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Foto 2.
di san Pietro, attribuibile a Masolino. La mano
di Masaccio in una delle semilunette è un indizio fondamentale che prova la presenza dell’artista
fin dall’inizio dei lavori. Niente resta invece degli
Evangelisti nella volta a crociera né delle due
lunette. Dallo smontaggio del tabernacolo marmoreo (oggi ricomposto in un altro ambiente del
convento) sono riemersi gli sguanci della bifora originale, dove sono presenti racemi decorativi e due testine (maschile e femminile), i cui
colori chiari hanno fatto da termine di paragone per il recupero dei colori durante il restau-
ro. Molto interessante anche il ritrovamento
nella parete sotto la finestra di un frammento pittorico attribuito alla Crocifissione
di San Pietro, che Masaccio avrebbe dipinto sopra la mensa dell’altare.
Per quanto riguarda invece le scene già
visibili è stato giudicato straordinaria la nuova lettura della trama pittorica, il valore dei
nudi (liberati dalle fronde settecentesche),
del paesaggio, della purezza di elementi come l’aria e l’acqua, delle architetture
e volti celati, nonché la riscoperta dell’equilibrio sostanziale tra i vari interventi artistici che si sono succeduti nel tempo. Il
tema della decorazione a affresco è quello della historia salutis, cioè la storia della salvezza dell’uomo, dal peccato originale all’intervento di Pietro, quale diretto
erede di Cristo e fondatore della Chiesa
romana. Le fonti del complesso sono la
Genesi, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli e
la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze.
Pietro è sempre riconoscibile, negli affreschi di ciascuna mano, per l’abito verde
scuro con il mantello arancione e per la
tipica capigliatura corta e bianca, corredata da barba. La cappella era originariamente
organizzata su tre registri, coperti da volta a crociera dove nelle vele si trovavano i quattro Evangelisti di Masolino, oggi sostituiti dalla cupola con gli affreschi di Vincenzo
Meucci. Le lunette, pure perdute, raffiguravano,
secondo la testimonianza di Vasari, la Vocazione
di Pietro e Andrea e la Navicella, probabilmente di Masolino. Sulla parete di fondo si trovavano il Pianto di Pietro dopo il triplice rinnegamento o Pentimento di Pietro (ritrovata la sinopia) attribuito a Masaccio e il Pasci i miei agnelli di Masolino (ritrovata la sinopia).
Pietro apostolo, primo papa, era il protettore di
continua nella pag. 40
Foto 3.
In un certo senso lo
Pietro Brancacci, il fondatosguardo dello spettatore
re della cappella, e della famiera portato a procedere dal
glia Brancacci in generale. Pietro
Paradiso fino al proprio monera anche l’apostolo fondado. Le fonti antiche attritore della Chiesa Romana,
buiscono questa lunetta a
dal cui potere discendeva quelMasolino, ma, seguendo
lo del papa, per cui celebrandolo
lo schema dell’alternanza
si celebrava il papato stesdelle mani dei due artisti
so, in linea con la politica filosui ponteggi, alcuni ipopontificia verso Martino V, contizzano che questa possa
divisa dalla maggior parte dei
essere stata dipinta da
fiorentini dell’epoca e dai
Masaccio. Il Pentimento di
Carmelitani, patroni della
Pietro si trovava nella
chiesa del Carmine.
semilunetta sinistra del regiLa presenza di scene della
stro superiore, di cui si è
Genesi (Peccato originale e
ritrovato il disegno preCacciata dal paradiso terreparatorio (molto schemastre) si collegano infatti al tema
tico) della sinopia.
della salvezza dell’umanità opeLa scena è stata attribuirata dal Signore proprio
ta a Masaccio, sulla base
attraverso Pietro.
di una maggiore incisiviL’accostamento delle storie
tà nel tratto rispetto alle opedi Pietro a quelle della
re di Masolino e consiGenesi inoltre poteva essederando l’alternanza delre letta come un parallelo tra
le mani degli artisti nella
la Creazione di Dio e la creadecorazione.
zione della Chiesa e del papaFoto 4.
Nella semilunetta destra
to da parte di Pietro, in paraldel registro superiore è stalelo con la ri-creazione voluta trovata nel 1984 la sinota da Martino V della sede
pia di un affresco riconoromana dopo il lungo scisma
d’Occidente. Alcune scene, rare in altri cicli pit- sciuto come il Pasce oves meas (Pasci i miei
torici, sembra che furono scelte per esprimere agnelli o Missione di san Pietro),
una posizione riguardo all’istituzione del cata- grazie al ritrovamento, dopo
sto fiorentino, all’epoca già nell’aria (venne avvia- la pulitura, di quattro pecore.
to nel 1427), con il quale s’introduceva, per la L’episodio ritrae Gesù che affiprima volta in Italia, un sistema di tassazione da a Pietro il compito di pastoproporzionale basato sul reddito, che attinge- re universale. La scena, conva in maniera maggiore dalle ricchissime fami- frontabile con le sinopie degli
affreschi di Empoli, è conglie della borghesia di mercanti e banchieri.
In questo senso, scene come il Pagamento del cordemente attribuita a
Tributo e la Distribuzione delle elemosine e mor- Masolino.
te di Anania sembrano dipinte proprio per riba- Il ciclo inizia dalla scena deldire la necessità civile e religiosa di pagare le la Tentazione di Adamo ed
Eva di Masolino, (foto 4) posta
tasse per il bene dell’intera comunità.
Nella lunetta di sinistra, distrutta nel 1746-1748, in un riquadro alto e stretto sulMasolino aveva dipinto la Chiamata dei santi Pietro lo spessore dell’arcone che
e Andrea, o Vocazione, nota attraverso gli accen- delimita la cappella.
ni dei testimoni antichi (Vasari, Bocchi e Questa scena e quella simBaldinucci). Longhi individuò per primo un’im- metrica sul lato opposto (la
magine di questo affresco perduto in un dise- Cacciata) sono gli antefatti delgno più tardo, che non rispetta il formato con la storia, che mostrano il momenla curvatura superiore della lunetta, ma appa- to il cui l’uomo ruppe la sua
re oggi come ipotesi molto probabile. In que- amicizia con Dio, che verrà poi
sta scena Masolino aveva diviso la propria com- riconciliata da Cristo con la
mediazione di san Pietro. Mostra
posizione in due distese di mare e cielo.
Sulla lunetta opposta si trovava l’affresco del- Adamo accanto ad Eva in piela Navicella, titolo tradizionale della scena in cui di, che si guardano con misuCristo, camminando sulle acque, salva Pietro rati gesti mentre lei sta per
dalle onde di una tempesta. Questa lunetta ripro- addentare il frutto proibito, che
poneva quindi un paesaggio marino, equilibrandosi il serpente le ha appena
con la scena sul lato opposto e creando una sor- offerto dall’albero dove essa
ta di parabola della Creazione: dai cieli degli Evangelisti appoggia il braccio.
nella volta, ai mari del registro superiore, fino Il serpente ha una testina dotaFoto 5.
alle terre e alle città dei registri mediano e infe- ta di una folta capigliatura bionda, molto idealizzata. Si tratriore, proprio come nella Genesi.
ta di una scena aulica, impostata nei gesti e nello stile al clima “cortese” del tardogotico. Un tempo questo influsso era accentuato ancora
maggiormente dalla ricchezza quasi calligrafica di fogliami e di erbe nello sfondo che oggi
sono scomparsi.
La luce, che modella le figure senza asprezze,
è morbida e avvolgente; lo sfondo scuro fa risaltare la loro sensuale plasticità, lasciandole come
sospese nello spazio. Soprattutto la figura di Adamo
però mostra l’adesione a un certo canone di bellezza classicista, memore di una citazione dell’antico.
Sul lato opposto, in posizione speculare, si trova l’altra scena della Genesi con la Cacciata
dal Paradiso Terrestre, (foto 5) capolavoro di
Masaccio. In quest’opera, vera e propria frattura rispetto al filone tardogotico del passato,
è scomparsa la compostezza di Masaccio e i
personaggi sono ritratti in una cupa disperazione,
appesantiti sotto l’angelo che con la spada sguainata li espelle con volontà perentoria, con un’intensità fino ad allora inedita in pittura.
I gesti sono eloquenti: mentre escono dalla porta del Paradiso, da dove provengono alcuni raggi divini, Adamo si copre il volto con le mani dallo sconforto e dal senso di colpa, Eva nasconde le nudità con vergogna e piange urlando, con
una dolorosa espressione sul volto. In alto l’angelo della giustizia, con la spada, indica loro con
durezza la via. La plasticità dei corpi, soprattutto quello di Adamo, dà uno spessore mai visto
alle figure inserite saldamente
sul terreno, su cui si proiettano le ombre della violenta illuminazione che modella i corpi. Essi sembrano infatti emergere dalla parete
inondati dalla luce tagliente
che, come realmente avviene dalla finestra della cappella, arriva da destra.
Adamo è curvo, con la testa
angosciosamente piegata
in avanti, incamminandosi nell’arido deserto del mondo.
I corpi sono volutamente massicci, sgraziati, realistici,
con alcuni errori (come la caviglia di Adamo) che però non
fanno che accrescere l’immediatezza espressiva dell’insieme. Molti sono i dettagli di grande spessore, dai
cappelli bagnati e appiccicaticci
di Adamo (sulla Terra egli va
incontro alla fatica e alla sporcizia), all’impostazione della figura dell’angelo, dipinto in scorcio come se stesse piombando dall’alto. La
posa di Eva è una citazione dell’antico (Venere pudica). Le fronde che coprivano le nudità di Adamo e di
Eva sono state rimosse nel
restauro del 1990.
(continua)
*Direttore dell’Uff. Diocesano Beni Culturali