IL TRATTATO ISTITUTIVO DELL`UNIONE EUROPEA E LE

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IL TRATTATO ISTITUTIVO DELL`UNIONE EUROPEA E LE
CAPITOLO SECONDO
IL TRATTATO ISTITUTIVO DELL’UNIONE EUROPEA
E LE SUCCESSIVE RIFORME
SOMMARIO: 1. L’elaborazione del Trattato di Maastricht. – 2. La configurazione dell’Unione in tre pilastri. – a) La cooperazione sulla giustizia e gli affari interni. – b) Il
controllo giurisdizionale. – 3. L’adesione all’Unione. – 4. Il recesso dall’Unione. – 5.
L’ambito di applicazione territoriale dei Trattati. – 6. La prima revisione: il Trattato di
Amsterdam. – 7. Il Trattato di Nizza. – 8. Il progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. – a) Il futuro dell’Europa nel Consiglio di Laeken. – b) Il contenuto del Trattato. – c) La mancata ratifica. – 9. Il Trattato di Lisbona e la sofferta entrata in vigore.
1. L’ELABORAZIONE DEL TRATTATO DI MAASTRICHT
La conclusione dell’Atto Unico europeo aveva lasciato scontenti alcuni
dei principali partner europei per non aver realizzato quel salto di qualità
verso l’unione politica europea, né tanto meno quello relativo all’unione economica e monetaria. Il rilancio di quest’ultima viene affermato dal Consiglio Europeo riunito ad Hannover nel giugno 1988. Successivamente, i lavori del Comitato, presieduto da Delors, condussero rapidamente alla Conferenza di Roma del dicembre 1990 che redigerà la parte relativa all’unione
economica e monetaria del Trattato di Maastricht.
Parallelamente ai lavori sull’unione economica e monetaria si svolgono
quelli per dotare la Comunità di una effettiva dimensione politica; l’iniziativa viene rilanciata dalla opportunità storica determinata dalla caduta del
muro di Berlino, e dalla conseguente riunificazione delle due Germanie e,
quindi, dal crollo dei sistemi politici dell’Est europeo. Il Consiglio Europeo
di Dublino del 26 aprile 1990 dà mandato ai Ministri degli affari esteri di
elaborare proposte in vista della convocazione di una Conferenza intergovernativa sull’unione politica da riunirsi parallelamente alla Conferenza intergovernativa sull’unione economica e monetaria.
Le due Conferenze adottarono il progetto di testo che, successivamente
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esaminato dai vari Paesi, venne adottato l’11 dicembre 1991 dai Capi di Stato
e di Governo riuniti a Maastricht. Il testo, dopo l’opportuna revisione linguistico-formale, è stato firmato, sempre a Maastricht, il 7 febbraio 1992.
Il testo prevedeva che la procedura di ratifica si sarebbe dovuta concludere entro l’anno, allo scopo di allineare l’entrata in vigore del Trattato di
Maastricht con quella della realizzazione del mercato interno, prevista per
il 1° gennaio 1993; purtroppo, diverse vicende hanno determinato il rinvio
della data prevista.
In funzione delle procedure necessarie per l’autorizzazione alla ratifica
dei trattati internazionali, il Trattato di Maastricht doveva essere sottoposto
a referendum in tre Paesi: Danimarca, Francia e Irlanda. La prima consultazione, svoltasi in Danimarca il 2 giugno 1992, ha dato esito negativo (49,3%
in favore e 50,7% contrari); la seconda, invece, svoltasi il 18 giugno dello
stesso anno in Irlanda, ha dato esito positivo (69,05% in favore e 30,95%
contrari).
Qualche mese dopo, il Consiglio di Edimburgo, senza modificare il trattato, ha adottato una serie di disposizioni intese a risolvere le preoccupazioni danesi. Si tratta di una Decisione ed una Dichiarazione che impegnano contemporaneamente i dodici membri, nonché tre Dichiarazioni unilaterali, formulate dalla Danimarca, delle quali il Consiglio Europeo ha preso
atto.
Dopo il referendum francese del 20 settembre 1992, che ha dato esito
positivo, sia pure con un margine assai ristretto (56,7% in favore, 43,3%
contrari), il referendum danese è stato quindi ripetuto, questa volta con esito positivo, il 18 maggio 1993.
Alcune disposizioni del trattato e segnatamente quelle che aumentavano
i casi di decisioni da adottare a maggioranza, in materie particolarmente
sensibili per gli Stati membri, hanno reso necessarie, in molti Paesi, modifiche costituzionali.
In Francia, la legge costituzionale 92/554, adottata il 25 giugno 1992, ha
aggiunto un nuovo titolo (XIV), ed in particolare l’art. 88 che risolve le accennate incompatibilità ed attribuisce valore costituzionale alla partecipazione della Francia al processo di integrazione comunitaria. La ratifica del
trattato è stata poi approvata mediante referendum popolare
Anche la partecipazione della Germania all’Unione, così come in Francia, ha richiesto l’adozione di una legge costituzionale (21 dicembre 1992)
che ha inserito nella Costituzione nuove disposizioni. La prima di carattere
generale, sulla partecipazione all’Unione con una formulazione più ampia
di quella contenuta nella Costituzione francese, nella misura in cui prevede
«trasferimenti di sovranità» mediante una semplice legge; ed altre disposizioni che introducono espressamente il diritto di voto e di eleggibilità a be-
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neficio dei cittadini dell’Unione ed il trasferimento di competenze dalla
Bundesbank alla Banca Centrale Europea.
In Irlanda, secondo la procedura già adottata al momento dell’adesione
alle Comunità e della successiva ratifica dell’Atto Unico, una revisione costituzionale, ed il referendum richiamato, hanno autorizzato lo Stato a «ratificare il Trattato sull’Unione Europea ed a divenire membro di questa Unione».
In Portogallo si è proceduto alla modifica della Costituzione approvata
dall’Assemblea della Repubblica il 17 novembre 1992. L’art. 7, sesto comma, così introdotto, prevede che il Portogallo può delegare i poteri necessari alla costruzione europea. Ciò ha consentito la successiva ratifica del Trattato (10 dicembre 1992).
In Spagna, a seguito della decisione della Corte Costituzionale del 1° luglio 1992, il Parlamento ha prima approvato il testo modificato della Costituzione (22 e 30 luglio 1992) e quindi approvato il Trattato (al Congresso dei
deputati il 29 ottobre 1992, al Senato il 25 novembre 1992).
In Svezia, il nuovo alinea 1 dell’art. 5 del cap. 10 della Costituzione dispone che «il Parlamento può cedere il proprio diritto di decisione alle Comunità europee, fintantoché esse garantiscono i diritti e le libertà in egual
misura rispetto a ciò che è stipulato nella presente Costituzione e nella
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».
Infine, in Belgio, pur non ponendosi problemi di costituzionalità, è stato
necessario far approvare il Trattato dalle tre comunità etnico-linguistiche
(francese, fiamminga e germanofona).
Nell’ordinamento italiano i Trattati istitutivi delle Comunità, e quelli che
li hanno modificati, sono stati resi esecutivi con legge ordinaria, nonostante si discutesse, fin dai tempi della CECA, se non fosse opportuno che l’esecuzione del trattato avvenisse con legge costituzionale, considerate le limitazioni e le deroghe a norme costituzionali derivanti dal trattato stesso. Ragioni contingenti di opportunità politica avevano fatto preferire la soluzione della legge «ordinaria».
Successivamente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 399/1987,
mantenendo fermo il rispetto dei principi fondamentali del nostro sistema
costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana, ha statuito che
«le norme comunitarie si sostituiscono a quelle della legislazione interna e,
se hanno derogato a disposizioni di rango costituzionale, devono ritenersi
equiparate a quest’ultime in virtù del disposto dell’art. 11 della Costituzione».
Nell’ordinamento italiano, quindi, i Trattati comunitari godono di una
«copertura» costituzionale speciale, fornita dall’art. 11. Questa interpretazione determina due conseguenze fondamentali: anzitutto, i Trattati comunitari, anche se eseguiti con legge ordinaria, possiedono una forza che con-
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sente loro di derogare alla Costituzione ed essere pertanto equiparabili alle
norme costituzionali, come si legge nella richiamata sentenza, con l’unico
limite del rispetto dei principi fondamentali; inoltre, anche nei confronti
delle leggi ordinarie, essi risultano dotati di una particolare forza in quanto
possono resistere all’abrogazione derivante da leggi o atti aventi forza di
legge (sentenza 20 maggio 1996, n. 96; vedi oltre cap. VIII).
Dopo il lungo ed intenso dibattito svoltosi in Gran Bretagna e dopo la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 12 ottobre 1993, con la quale la
Corte si è pronunciata a favore della costituzionalità del Trattato, consentendo quindi il deposito dell’ultimo strumento di ratifica, quello tedesco, il Trattato è entrato in vigore il 1° novembre 1993, con dieci mesi di ritardo sul
previsto. Il Ministero per gli affari esteri della Repubblica Italiana, come già
per i precedenti trattati, è il depositario degli atti adottati a Maastricht.
Dal punto di vista documentale l’Atto finale della Conferenza di Maastricht ha adottato un Trattato sull’Unione Europea, nonché 17 Protocolli e
ben 33 Dichiarazioni allegate. Il testo del Trattato, in senso tecnico, presenta una architettura assai complessa e di non facile lettura: vi figurano
all’inizio 6 disposizioni, elencate secondo le lettere dell’alfabeto (articoli da
A ad F) per distinguerle dai numeri utilizzati nei Trattati delle Comunità
che rappresentano le disposizioni comuni, cioè quelle che riguardano principi generali e obiettivi dell’Unione Europea nella sua globalità, compresa
cioè la Comunità europea ed i nuovi settori di cooperazione fra Stati. I tre
successivi artt. G, H ed I, si riferiscono, rispettivamente, al Trattato CE, a
quello della CECA ed a quello dell’EURATOM; ciascuna delle tre disposizioni, in realtà, introduce una serie numerosa di norme che modificano o
integrano i testi dei tre Trattati esistenti.
Altri due articoli (J e K) che contengono rispettivamente 11 e 9 disposizioni, riguardano i così detti secondo e terzo pilastro: il primo la politica
estera e di sicurezza comune, il secondo la cooperazione nei settori della
giustizia e degli affari interni.
La Conferenza di Amsterdam ha contribuito a risolvere il problema autorizzando la pubblicazione di un testo «consolidato» che ripropone in
maniera ordinata e secondo la nuova numerazione le disposizioni vigenti,
eliminando quindi ogni esigenza di continui rinvii.
2. LA CONFIGURAZIONE DELL’UNIONE IN TRE PILASTRI
A prescindere da questi aspetti formali e volendo tracciare un quadro
sintetico della costruzione che si è realizzata con il Trattato sull’Unione, è
opportuno muovere dal primo articolo con il quale viene istituita l’Unione
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Europea e si precisa che quest’ultima è fondata sulla Comunità europea,
«integrata dalle politiche e forme di cooperazione instaurate dal presente
Trattato». Ciò ha indotto a ritenere, con una frase entrata ormai nell’uso
comune, che l’Unione Europea poggiava su tre pilastri; il primo era costituito dal meccanismo comunitario, cioè a dire dai Trattati istitutivi delle
Comunità europee ampiamente modificati e integrati in quella che da quel
momento in poi si è chiamata la Comunità europea, abbandonandosi il
precedente plurale, conseguente alle tre organizzazioni, di cui, peraltro,
una si è già estinta (CECA).
Il secondo ed il terzo pilastro erano, invece, rappresentati dai settori della politica estera e di sicurezza comune, nonché dalla cooperazione in materia di giustizia e di affari interni. Questo terzo pilastro è stato sensibilmente ridimensionato per effetto delle modifiche introdotte ad Amsterdam
e rinominato «cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale».
I tre pilastri anzidetti non presentavano, tuttavia, alcuna caratteristica di
omogeneità; se da una parte, infatti, il pilastro comunitario riprendeva le
consuete Istituzioni e procedure comunitarie, integrandole ed estendendone i campi di applicazione, gli altri due pilastri sfuggivano al meccanismo
dell’integrazione comunitaria situandosi nel consueto contesto dei rapporti
di cooperazione internazionale fra Stati, realizzati con atti e procedure diverse. Ciò non escludeva attività che determinavano relazioni e integrazioni
fra pilastri, quali, ad esempio, le «cooperazioni rafforzate» che consentivano l’utilizzo delle Istituzioni e delle procedure comunitarie, ma si trattava
di meccanismi che, nel contesto della flessibilità alla quale si ispirano, realizzano procedure a metà strada fra la cooperazione intergovernativa e
l’integrazione comunitaria. Il progetto di Trattato che adottava una di Costituzione per l’Europa abbandonava la struttura in «pilastri» ed unificava
ogni attività nel contesto unitario della nuova Unione Europea.
Il secondo pilastro del Trattato istituiva una politica estera e di sicurezza
comune disciplinata dalle disposizioni del titolo quinto. Già negli anni ’60
la visione gollista dell’Europa delle patrie, espressa nel piano Fouchet, attribuiva un ruolo importante alla realizzazione di una politica estera e di
difesa comune; negli anni ’70, i progressi verso l’Unione Europea sono stati
lentamente assimilati dagli Stati membri che hanno cercato di realizzare
l’armonizzazione delle politiche estere attraverso la cooperazione politica.
Nell’ambito della Conferenza preparatoria del Trattato di Maastricht, l’asse franco-tedesca aveva più volte insistito sulla necessità di istituire una politica estera e di sicurezza comune che avesse capacità ad estendersi a tutti
i settori. L’Atto Unico aveva posto le basi per tali obiettivi ma gli impegni
assunti non andavano sostanzialmente oltre quei principi di cooperazione
politica già attuati, di fatto, attraverso l’istituzione dei Vertici europei.
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Il Trattato dell’Unione fissava, anzitutto, gli obiettivi di tale politica, distingueva poi i settori nei quali si poteva agire attraverso «posizioni comuni» e «azioni comuni», ovvero rafforzando la cooperazione sistematica fra
gli Stati membri per la conduzione della loro politica. Altre disposizioni regolavano aspetti più semplici, quali la rappresentanza esterna dell’Unione,
le missioni diplomatiche e consolari degli Stati membri nei Paesi terzi, il
meccanismo di consultazione del Parlamento europeo e la procedura di decisione del Consiglio.
La Conferenza di Amsterdam, coerentemente con l’aver attribuito all’Unione il ruolo di determinare la PESC, ha modificato anche l’ordine delle
procedure previste: la cooperazione sistematica fra gli Stati recede all’ultimo posto ed alle posizioni ed azioni comuni si aggiungono le «strategie
comuni».
Il Trattato assegna un particolare ruolo alla Presidenza, alla quale è attribuita la responsabilità della attuazione delle decisioni adottate nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (art. 18, par. 2). La Presidenza
è assistita dal Segretario generale del Consiglio che esercita le funzioni di
Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza comune, come esplicitamente previsto anche dall’art. 207 del Trattato CE. Questa figura,
sottolineata dai mass media come «il signor PESC», rappresenta un importante elemento per la visibilità stessa della PESC.
Infine, qualora sia ritenuto necessario, in ragione di problemi politici
specifici, il Consiglio può nominare un Rappresentante speciale. La previsione si è poi realizzata in occasione della crisi jugoslava, per l’attuazione
degli accordi di Dayton, per analoghe missioni in Medio Oriente e nella regione dei Grandi Laghi, in Africa.
In conclusione, se da una parte le disposizioni di politica estera contenute nel Trattato dell’Unione non rappresentavano certo una soluzione ottimale per le inevitabili implicazioni politiche sulla sovranità nazionale che
comportavano, dall’altra è indubbio che le stesse costituivano la lenta ma
graduale evoluzione della timida cooperazione politica, già iniziata con i
Vertici europei, consacrata poi in embrione nell’Atto Unico e sviluppata
quindi nel Trattato sull’Unione.
Il secondo pilastro del Trattato accomuna la politica estera al tema della
sicurezza comune, che implica una politica di difesa europea. La PESC non
poteva avere credibilità e realizzarsi pienamente senza un dispositivo di coercizione autonomo proprio. In effetti, «una politica di difesa comune» costituisce il corollario necessario di qualsiasi politica estera comune.
Il Trattato di Maastricht, che per primo ha introdotto la nozione di «difesa comune», costituisce una formula di compromesso fra le posizioni divergenti, espresse a più riprese durante i dibattiti precedenti l’adozione del
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trattato. Nonostante le ambiguità del testo, gli Stati hanno comunque affermato la loro volontà di progredire verso una «politica di difesa comune»,
impegnandosi, nel rispetto dell’Alleanza Atlantica, in una vera dinamica di
difesa che è ritenuta, in ogni caso, lo scopo ultimo, poiché una Europa unita non è concepibile senza una difesa europea comune, atta a sostenere la
sua azione diplomatica.
L’Unione si prefiggeva così il raggiungimento di due obiettivi: in un primo momento, definire una politica di difesa comune e successivamente,
passare alla realizzazione di una difesa comune.
Il Trattato di Nizza ha profondamente modificato le disposizioni dell’originario Trattato UE (art. 17) eliminando qualsiasi riferimento all’UEO ed
ai rapporti UE-UEO, ha introdotto nuove e più articolate disposizioni per
agevolare le forme di cooperazione rafforzata, ed ha istituito: il Comitato
Politico e di Sicurezza, composto da rappresentanti nazionali a livello di
alti funzionari, che è il fulcro della politica europea in materia di sicurezza
e difesa; il Segretario generale, l’Alto Rappresentante, che assiste il Consiglio e contribuisce alla formulazione, preparazione ed attuazione delle decisioni politiche; il Comitato Militare, composto dai Capi di Stato maggiore
della difesa dei Paesi membri rappresentati dai loro delegati e lo Stato
Maggiore dell’Unione che fornisce consulenza e sostegno in campo militare
alla PESD, compresa l’esecuzione delle operazioni di gestione militare delle
crisi sotto la guida dell’UE.
a) La cooperazione sulla giustizia e gli affari interni
Il terzo pilastro dell’Unione Europea concepita a Maastricht è costituito
dalla giustizia e gli affari interni. La cooperazione in materia giudiziaria,
estranea al settore economico delle tre Comunità europee, era stata anzitutto condotta nell’ambito del Consiglio d’Europa. Successivamente, diversi
tentativi ad iniziativa francese erano stati avviati per realizzare quello che
all’epoca si sarebbe chiamato uno «spazio giudiziario europeo»; i risultati
assai modesti erano stati fortemente rallentati dal successivo allargamento
delle Comunità.
Con il programma di realizzazione del mercato interno, previsto dall’Atto Unico, il problema della libera circolazione delle persone, in relazione
all’abbattimento delle frontiere tra gli Stati membri, aveva dato luogo ad
ulteriori forme di cooperazione realizzate fra un gruppo limitato di Stati
attraverso l’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 e poi la Convenzione
per l’attuazione del medesimo Accordo del 19 giugno 1990.
Tutte queste forme di cooperazione dovevano essere necessariamente
riproposte e coordinate nell’ambito del complesso organico di disposizioni
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relative all’Unione Europea che si è voluto realizzare con il Trattato di Maastricht; di conseguenza il Trattato, nel suo art. K, enumerava, anzitutto, i settori di interesse comune nei quali gli Stati membri avevano deciso di rinforzare la loro cooperazione nell’ambito dell’Unione, in particolare in vista di
una effettiva e totale libertà di circolazione delle persone; si menzionava così
la politica di asilo, nonché la possibilità di un futuro passaggio del settore
della stessa politica di asilo nell’ambito delle materie oggetto di metodologie
comunitarie, sottraendola, quindi, alla mera cooperazione intergovernativa.
Si indicavano ancora la lotta contro le tossicomanie, la lotta contro le frodi
di dimensioni internazionali, la cooperazione giudiziaria in materia civile
nonché in materia penale e la cooperazione doganale, la cooperazione fra
polizie in vista della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico
illecito di droga ed altre forme gravi di criminalità internazionale.
Nell’ambito della cooperazione così istituita è importante rilevare come
già il Trattato di Maastricht abbia aperto la via ad una sorta di comunitarizzazione progressiva delle questioni di interesse comune; un meccanismo
cioè che consente di far transitare talune materie dalla procedura della cooperazione intergovernativa a quella della struttura dell’Unione, sia pure
deliberando all’unanimità. Ai termini dell’art. 42 del Trattato UE (oggi abrogato), ad iniziativa della Commissione o di uno Stato membro e previa
consultazione del Parlamento europeo, il Consiglio poteva decidere di rendere applicabili le regole comunitarie dell’art. 100 (anch’esso abrogato) ad
azioni appartenenti al settore della cooperazione indicata e stabilire nel
contempo le relative condizioni di voto.
Secondo l’accennata procedura, cosiddetta della «passerella comunitaria», gli Stati membri potevano estendere questo processo di comunitarizzazione ad altri settori. In questa complessa situazione emerge, tuttavia, il
risultato positivo della comunitarizzazione di alcuni settori, già compresi
nel terzo pilastro del Trattato di Maastricht. In realtà, in quel contesto, si
prevedeva essenzialmente una evoluzione di formule consuete della cooperazione internazionale. Così, ad esempio, in materia giudiziaria, si trattava
di realizzare un’applicazione semplificata e con procedure più celeri dei
principi già contenuti nella Convenzione europea di estradizione del 1957;
analogamente, in materia di emigrazione e politica di asilo, ci si muoveva
nell’ambito della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 28
luglio 1951.
In un contesto così fluido, è significativo rilevare come, nella versione
adottata ad Amsterdam, l’art. 2 assegna all’Unione uno specifico obiettivo:
«mantenere e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, di sicurezza e di
giustizia» che viene quindi esplicitato nella prima disposizione del terzo pilastro nella quale si legge: «L’Unione si prefigge di fornire ai cittadini un li-
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vello elevato di sicurezza e giustizia sviluppando fra gli Stati membri un’azione in comune nel settore della polizia e giudiziaria in materia penale e
prevenendo e reprimendo il razzismo e la xenofobia».
La comunitarizzazione decisa dalla Conferenza intergovernativa e che
ha condotto all’inserzione di un nuovo Titolo IV nel Trattato CE, si presenta come una forma di attuazione dell’obiettivo assegnato all’Unione. L’art.
61 (oggi 67) dispone, infatti, che le misure nello stesso previste sono adottate «... allo scopo di istituire progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia», riproducendo così letteralmente l’obiettivo già evocato
nell’art. 2 del Trattato sull’Unione. Le precedenti competenze dell’Unione in
materia di cooperazione doganale e lotta alle frodi vengono così assorbite
nel pilastro comunitario. Inoltre, considerate le molteplici iniziative realizzate in questo settore in tema di libera circolazione delle persone (accordi
di Schengen), materia questa in buona parte rientrata nel sistema comunitario, si è convenuto di «comunitarizzare» tale settore prevedendo, tuttavia,
un regime istituzionale specifico ed un periodo transitorio di cinque anni.
Il perseguimento di tale obiettivo si avvale quindi di due forme di cooperazione: quella comunitaria, direttamente connessa alla libera circolazione
delle persone e quella intergovernativa incentrata sulla cooperazione in materia penale, realizzata fra le forze di polizia e fra le autorità giudiziarie dei
Paesi membri. Se nella versione di Amsterdam il terzo pilastro risultava più
limitato nei contenuti, esso guadagnava in termini di procedure istituzionali e di controlli giurisdizionali.
b) Il controllo giurisdizionale
Una delle caratteristiche della cooperazione intergovernativa, già nelle
formule dell’Atto Unico, era quella di essere integralmente ed espressamente sottratta a qualsiasi controllo della Corte di giustizia. Nell’ambito del
Trattato di Maastricht, anche le clausole di competenza della Corte, che si
sarebbero volute introdurre in talune convenzioni adottate in tale contesto,
hanno fatto registrare il rigido rifiuto della Gran Bretagna. Il problema è
stato quindi risolo concludendo dei Protocolli ad hoc.
La revisione introdotta ad Amsterdam ha modificato sostanzialmente la
situazione introducendo un controllo giurisdizionale di tipo pregiudiziale,
apparentemente generalizzato, ma in realtà sottoposto a numerose condizioni ed eccezioni. Ai termini dell’art. 35 la Corte era competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione delle convenzioni concluse
nell’ambito del terzo pilastro nonché sulla validità e sull’interpretazione delle
norme di applicazione delle stesse, ovvero sulla validità e sulla interpretazione delle Decisioni-quadro e delle Decisioni adottate nello stesso contesto.
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Dagli atti precedentemente elencati rimanevano quindi escluse soltanto le
«posizioni comuni» per la loro natura di obbligatorietà politica piuttosto
che giuridica.
Di maggior rilievo è certamente l’ampliamento della competenza della
Corte nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Considerato che una parte del terzo pilastro, già codificato a Maastricht, è stato integrato nel pilastro comunitario, la competenza della Corte, per questa parte, era una conseguenza automatica del processo di comunitarizzazione.
Il controllo sulla legittimità degli atti obbligatori adottati dal Consiglio
(Decisioni-quadro e Decisioni) era disciplinato in maniera analoga a quello
degli atti comunitari di cui all’art. 230 del Trattato CE. In tal caso, tuttavia,
il ricorso poteva essere proposto da uno Stato membro e dalla Commissione ma anche dal Parlamento europeo. La competenza della Corte in ordine
alle controversie sorte fra Stati membri sull’interpretazione e l’applicazione
di uno degli atti predetti viene ulteriormente limitata dall’intervento preventivo del Consiglio. L’intera materia è stata oggi profondamente modificata con il Trattato di Lisbona.
3. L’ADESIONE ALL’UNIONE
I Trattati di Roma prevedevano fin dall’inizio la possibilità di una Comunità allargata, e l’art. 237 del Trattato CEE disponeva che «ogni Stato
europeo può domandare di diventare membro delle Comunità». Le condizioni di ammissione ed i conseguenti adattamenti del trattato preesistente
formano oggetto di uno specifico accordo di adesione fra gli Stati membri e
lo Stato richiedente.
Nonostante la norma indichi chiaramente che lo Stato che desidera far
parte della Comunità deve formulare una «domanda» in tal senso, l’espressione utilizzata, fin dal primo caso di allargamento, è stata sempre quella di
«Trattato di adesione». Il termine non è certamente corretto; nel caso in riferimento non si realizza un procedimento di adesione bensì una vera e propria
ammissione. Come è noto, infatti, col termine «adesione» si indica quella
formalità che prevede soltanto un atto unilaterale – nella specie l’atto di adesione – dello Stato che aderisce alla convenzione o alla organizzazione internazionale. La procedura non attribuisce alle parti contraenti della convenzione o agli Stati membri dell’organizzazione alcuna possibilità di esprimere un
qualsivoglia giudizio nei confronti dello Stato che aderisce giacché la partecipazione di quest’ultimo si realizza unicamente con l’atto di adesione.
Al contrario, il procedimento di ammissione presuppone l’incontro di
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due volontà: lo Stato che chiede di far parte della organizzazione e quest’ultima che accetta; è implicito, quindi, che debba esservi anzitutto una domanda di ammissione, poi un più o meno complesso iter dell’esame della
stessa, ed infine una decisione unanime degli Stati membri dell’organizzazione. È questa, come si vedrà, la procedura sempre seguita dalla Comunità Europea ed oggi dall’Unione.
L’originario art. 237 del Trattato CE si limitava a prevedere la domanda
da parte di uno «Stato europeo». In pratica, l’unico requisito richiesto era
quello geografico (Stato europeo) riservandosi alla Commissione, al Parlamento e ed al Consiglio ogni più ampia discrezionalità per valutare la domanda di ammissione. Il Consiglio Europeo di Copenhagen (aprile 1978)
ha chiarito che il rispetto del mantenimento della democrazia rappresentativa e dei diritti dell’uomo costituisce un elemento essenziale dell’appartenenza alle Comunità. Con il Trattato istitutivo dell’Unione Europea le condizioni dell’ammissione sono state definite dall’art. 49 nel quale si pongono
essenzialmente tre condizioni: essere uno Stato; appartenere geograficamente al continente europeo; rispettare i principi enunciati all’art. 6 par. 1.
La qualità di «Stato» di un Paese che ha formulato domanda di ammissione non si è mai posta, né rilevano, al riguardo, le precisazioni relative
agli Stati di natura federale. In tal senso, ad esempio, a fronte delle diverse
comunità nelle quali si è costituito l’attuale Regno del Belgio, la Corte ha
chiarito che gli obblighi derivanti dalla partecipazione all’Unione si applicano agli Stati membri, a prescindere da regioni e comunità autonome degli stessi, e quale che sia l’estensione della loro competenza (ordinanza 21
marzo 1997, causa 95/97).
La qualità di Stato europeo non ha portato, fin oggi, ad una specifica delimitazione dei confini geografici dell’Europa. È stato agevole, comunque,
nel 1987, respingere la domanda del Marocco per la ovvia ragione che lo
Stato non poteva in alcun modo essere considerato europeo. Analoga situazione non è stata però sollevata in ordine alla Turchia che, com’è noto, ha
una piccola parte del proprio territorio situato in Europa mentre il resto,
sempre sotto il profilo geografico, è situato nel continente asiatico. Il problema, al momento accantonato, potrà certamente riproporsi se l’estensione dell’Europa verso i Paesi dell’est, così com’è avvenuto per il Consiglio
d’Europa, dovesse ulteriormente estendersi.
Con la modifica dell’art. 49 del Trattato UE, introdotta ad Amsterdam,
gli Stati europei che intendono far parte dell’Unione debbono rispettare «i
principi sanciti nell’art. 6 par. 1» cioè i principi di libertà, di democrazia,
del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello
Stato di diritto. Ai requisiti di natura economica, impliciti per la partecipazione ad un organismo di integrazione, si aggiungono requisiti «politici» e
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segnatamente, come indicato nella disposizione richiamata: il rispetto del
principio di libertà, di democrazia, dello stato di diritto ed il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
La disposizione riproduce in forma normativa i principi già fissati dai
Consigli europei di Copenaghen del 1993 e di Madrid del 1995 che avevano
posto alcuni «criteri» per l’adesione di nuovi Stati, specialmente applicabili
ai Paesi dell’Europa dell’est e fra questi, anzitutto, la presenza di istituzioni
stabili che garantiscano la democrazia, la preminenza del diritto ed il rispetto dei diritti dell’uomo e delle minoranze; l’esistenza di una economia
di mercato solida e capace di confrontarsi con la concorrenza internazionale; la capacità ad assumere gli impegni derivanti dall’Unione e segnatamente gli obiettivi politici, economici e monetari.
Questi criteri sono stati applicati fintantoché il Trattato di Lisbona non ha
introdotto i valori dell’Unione all’art. 2 e quindi l’attuale art. 49 del Trattato
sull’Unione Europea impone allo Stato che vuole divenire membro il rispetto
dei valori di cui all’art. 2 e l’impegno a promuoverli. L’art. 2, come si vedrà,
conferma le condizioni precedentemente esistenti assumendole a valori dell’Unione, ma vi aggiunge anche il rispetto della dignità umana, dell’uguaglianza ed uno specifico riferimento alle persone appartenenti alle minoranze. Quale elemento di utile riferimento si legge, altresì, che questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non
discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne. Tali caratteristiche specifiche, pur non essendo delle
esplicite condizioni all’ammissione, finiscono con l’esserlo dal momento che
vengono comprese fra i valori comuni agli Stati membri.
La procedura di adesione si apre con la domanda proposta dallo Stato
terzo e rivolta al Consiglio che viene, quindi, comunicata al Parlamento europeo ed ai Parlamenti nazionali. Tale comunicazione consente l’apertura
di un dibattito a livello parlamentare e potrà dare indicazioni utili al Consiglio. Quest’ultimo si pronuncia all’unanimità, dopo il parere favorevole
della Commissione ed il parere conforme del Parlamento europeo che delibera a maggioranza dei suoi membri. In pratica, dopo il parere favorevole
della Commissione, si apre un vero e proprio negoziato, condotto dalla presidenza del Consiglio e più spesso direttamente dalla Commissione. La fase
del parere del Parlamento europeo interviene, in realtà, quando il progetto
di Trattato di adesione e già delineato.
Come si è già accennato, il precedente meccanismo del periodo transitorio per consentire allo Stato di adeguarsi alla normativa comunitaria (acquis comunitario) nel frattempo adottata, è stato abbandonato dopo l’istituzione dell’Unione Europea. Nella situazione attuale, il lungo periodo di
negoziato che spesso intercorre fra la domanda e la conclusione dell’accor-
Il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e le successive riforme
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do, serve allo Stato terzo per effettuare un esame dettagliato della normativa dell’Unione e confrontarla con il proprio diritto interno al fine di procedere progressivamente all’adeguamento di quest’ultimo. Tale attività si svolge
con l’aiuto, ma anche sotto il controllo, della Commissione che periodicamente valuta i risultati raggiunti. Soltanto quando la piena armonizzazione
viene realizzata e non sussistono ulteriori ostacoli, anche di natura politica,
si può procedere alla conclusione dell’accordo di adesione che conclude la
procedura di ammissione.
Il Trattato di adesione è un consueto accordo interstatale che vede, da
una parte, la totalità degli Stati membri dell’Unione e dall’altra lo Stato o
gli Stati aderenti; è in quindi un trattato che fa parte del diritto primario
dell’Unione e che come tale può essere oggetto di interpretazione da parte
della Corte di giustizia.
4. IL RECESSO DALL’UNIONE
I Trattati istituitivi delle Comunità prima, e dell’Unione Europea poi,
unitamente alle reiterate revisioni, ad eccezione di quello della CECA di cui
si è detto, sono stati sempre conclusi per un periodo indeterminato e non
hanno mai previsto alcuna clausola di recesso.
Come è noto, il problema è stato già esaminato nell’ambito delle organizzazioni internazionali (si ricordi in particolare il caso dell’Indonesia nel
contesto della Organizzazione delle Nazioni Unite), e si è cercato di affrontarlo sia facendo riferimento alle disposizioni della convenzione di Vienna
sul diritto dei trattati, sia risolvendo il problema in relazione alle specifiche
esigenze politiche del momento. Generalmente, tuttavia, si tende ad escludere il recesso unilaterale, specie in relazione ad organizzazioni con un particolare livello di integrazione. In questo senso, il caso della integrazione europea è stato più volte qualificato come un «processo irreversibile» che, in
relazione alla struttura ed al livello di integrazione raggiunto, non consentirebbe in ogni caso un recesso unilaterale.
Diversamente non sembra potersi escludere un recesso negoziato con
l’Unione. Fortunatamente negli oltre cinquant’anni di vita delle Comunità,
ed oggi dell’Unione, il problema del recesso di uno Stato membro non si è
mai concretamente posto.
Nel corso dei lavori nel progetto di Trattato per una Costituzione per l’Europa era stata prevista, sia pure in maniera controversa, una disposizione sul
diritto di recesso. Se da una parte si registrava una dichiarata contrarietà all’ipotesi, dall’altra si riteneva auspicabile un diritto di recesso nel caso in cui
lo Stato non avesse voluto accettare la revisione dei Trattati. Si riteneva, infat-
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Il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e le successive riforme
ti, che una revisione adottata a larga maggioranza avesse dovuto consentire
ad uno Stato contrario alla revisione stessa di abbandonare l’Unione. La situazione di continua crescita dell’Unione avrebbe giustificato la previsione.
Il Trattato di Lisbona ha recepito l’idea nell’art. 50 del TUE. A termini della
disposizione uno Stato interessato notifica la propria volontà al Consiglio europeo; si apre, così, una procedura negoziale tra l’Unione e lo Stato recedente
allo scopo di disciplinare le modalità di applicazione del recesso, specie in relazione ai rapporti futuri tra lo Stato recedente e l’Unione. Quest’accordo è
negoziato alla stregua di un qualsiasi altro accordo internazionale. A termini dell’art. 218 del TFUE il Consiglio dell’Unione, previa approvazione
del Parlamento europeo, delibera alla speciale maggioranza qualificata, prevista dall’art. 238 n. 3 lett. b, che richiede almeno il 72% dei membri del
Consiglio partecipanti alla decisione, che rappresentino, a loro volta, almeno il 65% della popolazione degli Stati membri coinvolti nella decisione.
La disposizione si applicherà soltanto a partire dal 1º novembre del 2014
mentre attualmente la maggioranza è disciplinata dalle regole sulla ponderazione dei voti di cui all’art. 3 del Protocollo 36 sulle disposizioni transitorie allegato al testo di Lisbona. Trascorsi inutilmente due anni dalla notifica del recesso, ed in mancanza della conclusione di un accordo, il recesso
stesso può divenire effettivo.
5. L’AMBITO DI APPLICAZIONE TERRITORIALE DEI TRATTATI
Il principio generale in base al quale i Trattati si applicano ai territori degli Stati membri trova conferma nell’art. 52 del Trattato sull’Unione Europea. Il concetto di «territorio» in riferimento non è limitato alla spazio terrestre ma si estende a tutte le aeree (mare, zona contigua, zona economica
esclusiva, piattaforma continentale, ...) sulle quali gli Stati esercitano la sovranità. In tal senso, ad esempio, è interessante notare come la Corte abbia
riconosciuto la competenza della Comunità a disciplinare la pesca anche in
alto mare, considerato che tale competenza rientrava già in quella degli
Stati membri (sentenza 4 luglio 1976 nelle cause 3 e 6/76).
Il testo originario del Trattato CEE era applicabile altresì ai Dipartimenti francesi d’oltremare: Guadaloupe, Guyana, Martinica e Réunion (DOM),
sia pure con notevoli limitazioni, mentre, un particolare regime di associazione, definito nella parte IV del Trattato, venne stabilito per i Paesi e Territori d’oltremare (PTOM) elencati nell’allegato IV. Il Trattato di Roma conteneva, infatti, una specifica Convenzione al riguardo, più volte modificata,
a seguito delle successive adesioni e quindi di estensioni territoriali dell’ambito di applicazione del Trattato.