Semiotica dei media e processi educativi

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Semiotica dei media e processi educativi
Convegno “In classe c’è un bambino che...”
Semiotica dei media e processi educativi
Prof. Ruggero Eugeni
Università Cattolica del S. Cuore – Milano
Uno. Star Wars Uncut
Vorrei partire da un esempio concreto: Star Wars Uncut (Casey Pugh, 2010): il “regista” e
produttore ha segmentato l’intero Star Wars IV. A New Hope (George Lucas, 1977: il
primo e mitico film della serie) in spezzoni di pochi secondi e ha invitato chiunque fosse
interessato a girare con qualunque mezzo uno o più dei microsegmenti ottenuti. Ha poi
scelto e montato i segmenti dalla enorme mole di materiali che gli erano pervenuti,
ricomponendo l'intero film come un patchwork di metodi, stili e linguaggi differenti e
disparati – ma comunque “dal basso” –.
Non intendo fare una apologia degli UGC (User generated contents), né esaltare le figure
dei prosumers (producers + consumers). Vorrei piuttosto assumere l’esempio di Star Wars
Uncut come metafora della situazione che coinvolge oggi i linguaggi all’interno delle nostre
pratiche sociali – e che come vedremo coinvolge profondamente la semiotica e i suoi
destini anche scolastici –.
Due. Il multilinguismo plurimediale e postdiscorsivo
Nel passato esisteva una organizzazione dei linguaggi in cui eravamo immersi, linguaggi
che erano peraltro di tipo limitato. Diciamo che esistevano linguaggi attivi e passivi: da un
lato le pratiche del linguaggio verbale orale e scritto che la scuola insegnava più o meno a
padroneggiare, dall’altra i linguaggi visuali e audiovisivi che la scuola per lo più ignorava e
che erano visti come un fenomeno di “oralità di ritorno” (McLuhan), e dunque bene o male
di regressione: e comunque non erano padroneggiabili se non da pochi appassionati
videoamatori.
La situazione attuale è profondamente differente: noi viviamo all’interno di un numero
molto più ampio di linguaggi, e i confini tra quelli attivi e quelli passivi è tendenzialmente
sparito. I linguaggi verbali scritti e orali ovviamente cambiano (cito di sfuggita la lettera dei
600 docenti al ministero, ma ricordo anche l’insegnamento di Tullio de Mauro
sull’importanza dell’Italiano parlato): di fatto l’italiano si sta avviando a divenire un bene
culturale, tutelato e coltivato soprattutto all’estero. Subentrano per converso nuove
esperienze linguistiche: l’ampliamento (soprattutto in alcune fasce) delle competenze
linguistiche in inglese; una più o meno obbligata competenza multiculturale nelle classi
scolastiche. Ma anche la capacità di trattare immagini: fotografie, elementi di grafica, ecc.
E ancora: cresce la competenza nel maneggiare i testi audiovisivi, che perdono il carattere
distante e sacrale delle precedenti fare di consumo e da intoccabili divengono oggetti
manipolabili, scomponibili, personalizzabili (il fenomeno dei GIF). Ma ci sono poi i
linguaggi musicali, sempre più alla portata delle persone; i linguaggi del coding la cui
presenza è ormai del tutto liquida e diffusa e che si inizia a considerare come forme
linguistiche da padroneggiare (si pensi a iniziative come Scratch o Arduino), ai linguaggi
della enogastronomia e del gusto e così via.
La mia idea insomma è che mentre nel passato eravamo immersi in una rete di linguaggi
che nella sua relativa limitazione e nella sua organizzazione sociale permettevano una
condivisione, oggi la moltiplicazione esponenziale dei linguaggi crea tendenzialmente una
forte segmentazione e differenziazione di competenze.
Questa situazione si lega d’altra parte a un secondo fenomeno: se precedentemente i
linguaggi erano comunque collegati a forme testuali e discorsive determinate (il libro, il
film, il quotidiano, ecc.) oggi assistiamo a una nebulizzazione degli oggetti discorsivi: se i
devices digitali sono dei “metamedia” che rimediano contemporaneamente e ibridano
costantemente media precedenti, allora le forme discorsive ad essi legate saranno sempre
più aleatorie e incerte.
Tre. Il destino della semiotica
Questo contesto potrebbe portarci immediatamente a considerare i problemi e le sfide
educative implicate. Ma vorrei qui dare al mio discorso una direzione differente e
considerare invece il destino della semiotica.
La semiotica nasce all’inizio degli anni sessanta del novecento come pratica teorica e
analitica di tipo critico: di fronte all’avvento dei nuovi linguaggi soprattutto visuali della
pubblicità, della stampa popolare e del cinema, un gruppo di intellettuali (in particolare
Roland Barthes) propongono di assumere alcuni strumenti nati per l’analisi del linguaggio
(la linguistica strutturalista saussuriana) e di applicarli ai discorsi soprattutto iconici dei
media (lo stesso Saussure aveva autorizzato l’ampliamento dei propri strumenti a
linguaggi “non verbali”). Dunque, all’origine della semiotica ritroviamo quel “logocentrismo”
cui accennavo sopra. Tuttavia fin da subito la semiotica rivela qui un suo primo limite: non
tutti i linguaggi si comportano alla stessa maniera, per esempio non tutti hanno il livello di
convenzionalità proprio del linguaggio verbale. E’evidente che la situazione attuale che ho
descritto sopra a proposito dei linguaggi mette definitivamente il crisi questo tipo di
approccio “segnico”.
La reazione della semiotica dalla fine degli anni settanta in poi è sostanzialmente quella di
cambiare oggetto di studio e di passare dal linguaggio agli oggetti e alle pratiche di
discorso: il discorso diviene dunque l’oggetto ancor oggi al centro delle attenzioni
semiotiche. Ma anche questo oggetto come ho accennato è entrato oggi in crisi: solo con
un notevole artificio la semiotica può sostenere che un sito web o una piattaforma, una
app, ecc. siano dei discorsi.
Dunque la semiotica sembrerebbe condannata a una emarginazione: i suoi procedimenti
appaiono sempre più artificiosi rispetto alla realtà delle produzioni linguistiche e incapaci di
sintonizzarsi con essa.
Quattro Esperienza
A mio avviso la semiotica (e per quello che mi riguarda in particolare la semiotica dei
media) non deve perdere ma anzi recuperare la propria potenzialità critica rispetto alle
produzioni mediali contemporanee. Ma per fare questo deve in sostanza rinunciare al
proprio oggetto di studio, il linguaggio e il discorso; e divenire piuttosto una semiotica delle
esperienze progettate. Questa vocazione non le è in realtà del tutto estranea, ma va
riaffermata e perfezionata anche in base alle nuove concezioni di esperienza (incarnata,
emotiva, “enattiva” etc.) proprie delle neuroscience cognitive contemporanee. D’altra parte
la semiotica deve conservare la propria specificità: studiare non l’esperienza in generale
ma le forme, i modi e i mezzi della sua progettazione. Nella consapevolezza che ‘azione
progettuale degli oggetti e degli strumenti mediali è oggi molto estesa, abbraccia tutti gli
aspetti dell’esperienza dei soggetti (compressa la rete delle relazioni e interazioni) e si
allarga a quasi tutti i momenti di vita delle persone.
Cinque Scuola
Le conclusioni del mio discorso sono dunque due.
Primo: la difficoltà della scuola oggi sotto il profilo linguistico mi sembra quello di ricostruire
delle parziali koinè linguistiche senza trascurare una educazione allargata per lo meno alla
comprensione della molteplicità e complessità degli strumenti di espressione e di
creazione.
Secondo: il ruolo della semiotica nei processi educativi scolastici non è tanto quello di
“analizzare” in sé, quanto piuttosto quello di far comprendere le forme e le misure di
progettualità delle esperienze mediali che viviamo – o per meglio dire delle esperienze
mediate che viviamo, dunque la maggior parte delle nostre esperienze.