L`Uomo eroico di Giordano Bruno

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L`Uomo eroico di Giordano Bruno
Pietro Invernizzi
Bruno e Nietzsche.
Uomo eroico ed Oltreuomo
PREMESSA
È stata la casualità per prima a suggerirmi di accostare Bruno a Nietzsche quando, circa
un anno fa, mentre iniziavo a frequentare un seminario sul Nolano, leggevo per conto
mio Così parlò Zarathustra. Dopo poco tempo in cui lezioni universitarie e letture
private, Bruno e Nietzsche, camminavano al fianco, mi parve di riscontrare non poche
affinità fra i due pensatori. Da allora ho desiderato approfondire questo confronto e
soprattutto capire se effettivamente Bruno fosse stato letto e amato da Nietzsche e se
pertanto avesse potuto ispirare qualche pagina delle sue opere.
Intento delle pagine che seguono è dimostare filologicamente come sia avvenuto l’
‘incontro’ a distanza di tre secoli; inoltre si vogliono evidenziare le assonanze e i punti
di contatto tra i due filosofi, dapprima con una rapida rassegna delle tematiche più
rilevanti, poi soffermandosi con maggiore attenzione su due figure che si muovono in
due testi ‘principali’ dei rispettivi autori: l’Uomo eroico e l’Oltreuomo, negli Eroici
furori e nel Così parlò Zarathustra. Il motivo per cui ci si è soffermati proprio su queste
due figure è perché in esse si è vista la forza di un messaggio rivolto all’Uomo al di là
del tempo, al di là dei secoli che separano l’uno dall’altro ed entrambi da noi. Inoltre su
questo tema potrebbe consistere la maggiore influenza di Bruno su Nietzsche, stando a
quanto e a quando quest’ultimo ha letto del Nolano.
“- È però fastidioso e stridente avvicinare Nietzsche e Bruno: quasi una
<sconvenienza> e una gaffe storiografica. Non si vorrà per caso sostenere che Bruno era
il… profeta di Nietzsche!
- La storia della filosofia per profeti non è certo una brillante trovata. Altra cosa è però
la tesi heideggeriana del <non detto> del <detto>: nella parola di ogni filosofo si
annunzia un non-detto di quel detto. Qualcosa che un filosofo non può dire, ma che è la
condizione profonda di ciò che egli dice. (...) La <ripetizione> storiografica di un
filosofo mira a dire l’eguale, o l’identico (sebbene ciò sia poi di fatto impossibile e
illusorio); la <ripetizione> ermeneutica mira invece a dire il medesimo. Ora dietro la
gaffe che qui può essere rimproverata sta il tentativo (più o meno felice, questo è un
altro discorso) di una <ripetizione> ermeneutica di Bruno; un tentativo di dire
l’<impensato> di Bruno” 1 ; non volendo fare di Bruno il profeta di Nietzsche, ma
confidando che la massima distanza fra i due sia solo nel non-detto di quel detto, questo
lavoro trova il suo massimo limite nel dichiarato intento di ricercare e di mostrare
1
Carlo Sini, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, edizione Il Saggiatore, Milano 1982, 109.
soltanto le assonanze e le affinità fra i due, ignorando completamente un’analisi delle
differenze, rinviando un simile compito all’occasione in cui sarà possibile sfruttare più
spazio e più tempo.Devo poi confessare il vizio più grande che minaccia la mia ricerca,
cioè che un amore furioso per l’idea di questa affinità mi possa aver reso cieco rispetto
ad ogni altro vedere 2 .
2
“Questa cecità è eroica, ed è tale, per la quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il
qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiar ogni altro vedere, e da la
comunità non vorrebbe impetrar altro che libero passaggio e progresso di contemplazione [...]”.
G. Bruno, Eroici furori, edizione Laterza, Roma-Bari 2000, 146.
2
CAPITOLO PRIMO.
Bruno e Nietzsche, affinità tra i due filosofi.
1. Affinità elettiva.
Due pensatori in tutto estremi, esempi di un filosofare che vuole sfuggire, e sfugge, alla
pedanteria, di un filosofare che si scrolla di dosso il peso della riverenza alla tradizione
per sollevarsi più leggero verso le vette del pensiero, che vola anche sulle ali dell’ironia
pungente di chi si sente elevato rispetto alla moltitudine. Tre secoli a dividerli con un
richiamo di esattezza nelle cifre che da solo esercita un fascino tanto discreto quanto
privo di significato, Filippo Giordano Bruno viene arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma
il 17 febbraio 1600 e Friedrich Wilhelm Nietzsche muore folle il 25 agosto 1900. Non
solo la data della loro morte suggerisce un richiamo, ciò che più ci colpisce in questa è il
dramma che si consuma, epilogo di biografie profondamente intrise di umana tragedia.
Un brevissimo accenno alle loro vite ci può dare un’idea di questo: Bruno passerà la
vita inseguendo la libertà di espressione e di pensiero e sarà inseguito a sua volta dalle
scomuniche di ben tre Chiese (oltre a quella cattolica anche da quella calvinista di
Ginevra e da quella luterana di Helmstedt), ad ogni polemica risponde con opere
taglienti che suscitano ancora più polemiche. La sua ricerca si mosse di nazione in
nazione, Italia, Svizzera, Francia, Inghilterra e poi ancora in Italia, a Venezia, dove sarà
tradito da un suo”discepolo” di cui già era profondamente deluso, il celebre Mocenigo;
dovrà poi difendersi nei lunghissimi anni dei processi romani da accuse che non volle
mai abiurare, fino alla fine a cui si è accennato. Ma il martirio di Bruno si trascinerà
anche sulla sua memoria, la chiesa non riconoscerà le sue colpe nei confronti del
Nolano fino alle dichiarazioni del cardinale Poupard in occasione del Grande Giubileo e
quarto centenario del rogo, e la statua che oggi si erge in Campo de’ Fiori ha destato,
quando la si pose, non poche polemiche nella curia romana ancora nel 1889.
Nietzsche da parte sua inseguirà tutta la vita amicizie profonde di intelletti non viziati e
conoscerà una delusione dopo l’altra, dal celeberrimo Richard Wagner, passando per i
suoi più intimi amici: Paul Rèe e Lou von Salomè, e anche Heinrich von Stein, fino
all’amaro distacco dalla madre e soprattutto dalla sorella. Anni di solitudine e
sofferenza fisica e psicologica, vagando di eremo in eremo tra Italia, Francia, Germania
e Svizzera, alleviati solo dalla luce delle proprie opere, ma sempre con la tristezza di
non avere un vero discepolo e la paura che queste venissero fraintese, la paura di restare
solo anche dopo la morte: incompreso. Il crollo psico-fisico a Torino nel 1889 e poi
undici anni di follia, particolarmente inquietante per le tracce che ha lasciato in appunti
e lettere 3 . Infine la morte e il temuto tradimento della memoria; la sorella, complici
diversi intellettuali dell’epoca, mistificherà le sue pubblicazioni postume per biechi
3
Si rimanda per un approfondimento ad Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, edito
da Einaudi.
3
ideali nazional-socialisti e antisemiti in misura tanto vasta che ancora oggi è difficile
cancellarne le tracce 4 .
Tre secoli a dividere le loro vite, pertanto non potremo parlare di un'unica persona
costruita su due nomi, né tanto meno di un maestro e di un discepolo, tuttavia potremo
cogliere quelle assonanze astoriche che affascinano, assonanze incalzanti, frequenti
tanto nei contenuti delle opere quanto nella forza dello stile che le caratterizza; uno stile
variopinto e alto a tal punto che di entrambi si può sussurrare: poeti.
Cogliere la melodia intensa di queste assonanze, creare un filo che si intrecci nelle
trame di questi due filosofi, significa vedere il filosofico furore che può animare il
pensiero di un uomo, significa comprendere l’importanza di avere la convinzione di
potersi migliorare, di potersi liberare da qualsiasi giogo; quel filo tesse un modello di
riferimento a cui tendere, con cui confrontare le nostre vite e misurare le nostre scelte, è
un modello che esprime la forza di chi vuol essere uomo coerente con se stesso fino alla
fine, uomini consapevoli dei propri limiti, ma soprattutto della possibilità infinita di
superarli, uomini eroici, uomini che divengono oltreuomini.
2.1 Contro dotti pedanti ed asini
Colui che più di ogni altro nel sedicesimo secolo rende manifesta la sua avversità ai
grammatici, creatori di rigide griglie che ingabbiano il pensiero, ai pedanti educatori,
che insegnano polverosissime nozioni e dogmi come leggi, agli asini che hanno
indossato la pelle dei leoni ragliando false religioni, false promesse, false minacce e
falso sapere, colui che nell’Europa riformata, dove infuriavano le guerre di religione, si
scagliò contro la pestilenza intellettuale del suo tempo: la professione di cieca fede;
costui era Giordano Bruno, nato a Nola nel 1548.
Nietzsche, nato a Rocken nel 1844, si è scagliato contro la pestilenza intellettuale del
suo tempo: il nichilismo 5 , fratello gemello di una professione di cieca fede.
Al di là della asperrima polemica rivolta a tutto ciò che di marcio vi è nelle religioni
occidentali, polemica che vede lottare fianco a fianco Bruno e Nietzsche e di cui ci
occuperemo fra poco, ciò che in primo luogo risulta sorprendente è l’affinità nello stile
canzonatorio e anche la ricorrenza della tematica anti-asinina. Giordano Bruno apre la
sua “Cabala del cavallo pegaseo” con il seguente sonetto:
Sonetto in lode de l’Asino.
O Santa asinità, sant’ignoranza,
Santa stolticia et pia divotione,
Qual sola puoi fa l’anime sì buone,
4
Su questo argomento si rimanda a Ernst Nolte, Nietzsche e il nietzscheanesimo, edito da Sansoni,
Firenze 1991.
5
“Richiamiamo il nichilismo con una battuta. Esso dice: nulla su questa terra ha senso, niente è destinato
a durare; tutto è imperfetto e caduco; il mondo non è come dovrebbe essere perché esso è la <valle di
lacrime>; nulla vale la pena. […] La risposa al nichilismo può allora essere che il <senso>, il <valore>,
sono di questa terra, come annunziava lo Zarathustra di Nietzsche”.
Carlo Sini, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, cit., 58-9.
4
Ch’human ingegno et studio non l’avanza.
Non gionge faticosa vigilanza
D’arte qualunque sia o’nventione,
Né de Soprossi contemplatione;
Al ciel dove t’edifichi la stanza.
Che vi val (curiosi) il studiare,
Voler saper quel che fa la natura,
Se gl’astri son pur terra, fuoco et mare?
La santa asinità di ciò non cura;
Ma con mani gionte e ‘n ginocchion vuol stare
Aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
Eccetto il frutto de l’eterna requie,
La qual ne done Dio dopo l’essequie 6 .
L’asino personaggio bersaglio e protagonista della “Cabala del cavallo pegaseo” è
anche un personaggio ricorrente in “Così parlò Zarathustra”, in particolare lo
troviamo adorato da “devoti pazzi” nel brano “Il risveglio”, questa è la “litania devota”
che ad esso rivolge “l’uomo più brutto”:
(...) in lode dell’asino adorato e incensato. Questa litania sonava così:
Amen! All’Iddio nostro la benedizione e la gloria e la sapienza e la azioni di grazie e
l’onore e la forza, nei secoli dei secoli!
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Egli porta il nostro fardello, egli prese forma di servo, egli è paziente nel suo cuore e
mai dice di no; ma colui che ama il suo dio, lo castiga.
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Egli non parla: se non che dice sempre di dì al mondo, che ha creato: così egli esalta
il suo mondo. La sua scaltrezza è di non parlare: così è difficile che abbia torto.
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Egli va per il suo mondo senza farsi notare. Grigio è il colore del suo corpo, entro
cui vela la sua virtù. Se ha spirito, lo nasconde; ma tutti credono alle sue orecchie
lunghe.
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Quale nascosta saggezza nel suo portare lunghe orecchie e dire sempre sì e mai no!
Forse non ha creato il mondo a sua immagine e somiglianza, cioè il più stupido
possibile?
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Tu vai per sentieri diritti e tortuosi, poco ti cale ciò che a noi uomini sembra diritto o
tortuoso. Al di là del bene e del male è il tuo regno. La tua innocenza è di non sapere
che cosa sia l’innocenza.
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Bada di non respingere alcuno via da te, non i mendichi e nemmeno i re. I fanciulli li
lasci venire a te, e se i peccatori ti vogliono sedurre, tu dici un candido: I-A.
- L’asino a sua volta ragliò: I-A.
Tu ami le asine e i fichi freschi, tu non sei uno schifiltoso. Un cardo ti solletica il
cuore, quando ti viene fame. In ciò è la saggezza di un dio.
- L’asino a sua volta ragliò: I-A 7 .
6
G.Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, a cura di Fabrizio Meroi, edizione Bur, 2000, 67.
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, versione e appendici di M.Montinari, nota introduttiva di G. Colli,
edizione Adelphi 2001, 364-65.
7
5
E ancora proseguiamo questo confronto con alcuni passi della “Declamazione al
studioso, divoto e pio lettore”, che segue al “Sonetto in lode de l’asino” dove viene
formulata un’ironica celebrazione dell’”asinitade” dei cristiani.
“(...)estinguete quella focosa luce de l’intelletto,che vi accende, vi bruggia e vi
consuma; fuggite que’ gradi de scienza che per certo aggrandiscono i vostri dolori;
abnegate ogni senso, fatevi cattivi alla santa fede, siate quella benedetta asina,
riducetevi a quel glorioso puledro (...)” 8 ;
“Qua vedete chi son gli redemuti, chi son gli chiamati, chi son gli predestinati, chi
son gli salvi: l’asina, l’asinello, gli semplici, gli poveri d’argumento, gli pargoletti,
quelli ch’han discorso dei fanciulli; quelli, quelli entrano nel regno de’ cieli; quelli
per dispregio del mondo e de le sue pompe calpestrano gli vestimenti, hanno bandita
da sé ogni cura del corpo, de la carne che sta avolta circa quest’anima, se l’han
messa sotto gli piedi,l’hanno gittata via a terra: per far più gloriosa e trionfalmente
passar l’asina et il suo caro asinello. Pregate, pregate Dio, o carissimi, se non siete
ancora asini, che vi faccia dovenir asini” 9 .
Zarathustra da parte sua non risparmia il paragone con gli asini ai saggi illustri e anzi
vede che i re mandano innanzi un asino.
“Nel deserto hanno abitato, da sempre, i veraci, gli spiriti liberi, come signori del
deserto; ma nelle città abitano, ben foraggiati, i saggi illustri, - gli animali da tiro.
Essi infatti, in quanto asini, tirano sempre - il carro del popolo!” 10 .
“(...) se ne venivano a piedi due re, ornati di corone e di cinture di porpora,
multicolori nelle loro vesti come fenicotteri: essi spingevano davanti a sé un asino
gravato da una soma.
(...) <Strano! Strano! Come mettere d’accordo tutto ciò? Io vedo due re – ma un solo
somaro!>” 11 .
E per quanto concerne il fatto che i religiosi ci insegnano che i “fanciulli” sono quelli
che “entrano nel regno de’cieli”, sempre Zarathustra dice degli apostati:
“(...) dove sono camerette, là sono anche i nuovi bigotti e le nebbie delle loro
preghiere.
Per lunghe serate siedono l’uno accanto all’altro e dicono: <diventiamo come i
fanciullini e diciamo ‘buon Dio’!> - la bocca e lo stomaco rovinati da pasticceri
devoti” 12 .
E aggiunge più avanti ne “La festa dell’asino”:
“- perché potevate infine tornare a fare come i bambini, cioè pregavate, giungevate
le mani, e dicevate ‘buon Dio’! (...)
Certo: se non diverrete come i fanciullini non entrerete in quel regno dei Cieli. (E
Zarathustra indicò in alto con le mani)” 13 .
8
G.Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, cit., 86.
Ivi, 87-8.
10
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 116.
11
F.Nietzsche,. Così parlò Zarathustra, cit., 283.
12
Ivi, 212.
13
Ivi, 369.
9
6
Ma la polemica contro dotti e pedanti è un tema ricorrente nelle opere di entrambi i
filosofi, anche al di là della tematica asinina, pungenti attacchi riferiti alla cultura de’
loro tempi e la dovuta presa di distanza da un sapere polveroso, asfittico, arido e
mistificatore, li ritroviamo sparsi un po’ ovunque fra le pagine delle loro opere, bastino
qui alcuni riferimenti.
Per la penna di Giordano Bruno, dice Cicada nella “Parte prima” del “Dialogo primo”
degli “Eroici Furori”:
“Cicada. Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal
numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o
perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o
perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una
istoria o favola con l’altra, o perché finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto,
e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure
e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere ch’essi loro a un
proposito (se gli venesse de fantasia) sarebbono gli veri poeti, ed arrivarebbono là,
dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di
buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e
fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di
mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore” 14 .
E altrove, nello “Spaccio della bestia trionfante”, Sofia parlando con Saulino delle sorti
di Ganimede con un gioco di parole allude agli amori omosessuali dei pedanti e
richiama alla corruzione che regna nei collegi riformati:
“Saulino. Or che sarà di quel povero fanciullo?
Sofia. Ha preso partito di mandarlo a studiar lettere umane in qualche universitade o
collegio riformato, e sottoporlo alla verga di qualche pedante” 15 .
Lo Zarathustra di Nietzsche, invece, così parla “dei saggi illustri”:
“Ma in ogni senso voi, per me, vi prendete troppe confidenze con lo spirito; e spesso
della saggezza avete fatto un asilo e un ospedale per poeti scadenti.
(...)Voi siete per me dei tiepidi: ma fredda scorre ogni profonda conoscenza. Gelide
sono le intime scaturigini dello spirito: un ristoro per mani che bruciano e per coloro
che bruciano nell’agire.
Voi ve ne state qui impettiti e rispettabili e con la schiena dritta, o saggi illustri! –
non vi spinge un forte vento e volere” 16 .
E più avanti a proposito “dei dotti”:
“Giacché questa è la verità: io sono uscito dalla casa dei dotti: e per giunta ho
sbattuto la porta alle mie spalle.(...)
Io sono troppo ardente e riarso dai miei stessi pensieri: spesso mi si mozza il fiato. E
bisogna che fugga all’aperto, via dal chiuso delle stanze polverose.
14
G.Bruno, Eroici furori, con introduzione di Michele Ciliberto, testo e note a cura di Simonetta Bassi;
Editori Laterza, 2000, pag 25.
15
G.Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Dialoghi filosofici italiani,a cura di Michele Ciliberto,
edizione I Meridiani – Mondadori, 2000, pag 489.
16
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 117.
7
Loro invece siedono freddi nell’ombra fredda: in tutto non vogliono essere che
spettatori, e si guardano bene dal mettersi a sedere dove il sole arde i gradini. (...)
A toccarli con mano, ti impolverano tutto come sacchi di farina (...)” 17 .
2.2 La posizione antiluterana, antipaolina, anticristiana
Nietzche e Bruno, spiriti liberi dalla fredda ragione dogmatica e dallo statico torpore
della tradizione che costringono al capo chino, si fanno profeti, annunciatori, Mercurii
dello sguardo fiero; Filosofia e Religione (nova religio) si dovrebbero incontrare sul
terreno della domanda, della vita sperimentata, della ricerca. Secondo i nostri Mercurii,
una delle più gravi colpe, forse la più grave, dei pedanti, dei dotti e soprattutto della
religione è stata quella di frenare la ricerca, la domanda, la prassi filosofica.
In particolare la polemica antiriformista “brunonicciana” 18 si infiamma sul tema delle
opere, della praxis, infatti i temi cardine della riforma: predestinazione e iustitia sola
fide, tolgono valore e nobiltà all’opera e portano all’ozio.
“L’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invidia,
ignoranza e malignitade” 19 , Nietzsche e Bruno contro quest’ozio indotto che affligge le
vite degli uomini rendendoli predisposti ai vizi scagliano le proprie vite, diventando
uomini che agiscono sulle cose, che operano sul mondo e nel mondo cercano la loro
ricompensa: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che
vi parlano di sovraterrene speranze!” 20 ; “Siamo diventati uomini, - perciò noi vogliamo
il regno della terra” 21 .
Sia Nietzsche che Bruno vogliono che il regno dell’uomo sia la terra su cui vive,
collocano l’uomo finito all’interno della struttura mondo, della struttura vita-materia
infinita, ma non secondo una prospettiva prettamente umanistica, perché questa
porrebbe l’uomo sopra la struttura mondo-natura, bensì semplicemente entrambi i
pensatori restituiscono a questo animale borioso che è l’uomo l’importanza della
tematica del corpo e dell’opera, entrambi attraverso la critica a Paolo e alla riforma di
Lutero.
“Uno dei più amari venefici inoculati dalla religione, sia per Bruno che per Nietzsche, è
l’incomprensibile pretesa di separare l’uomo dalla natura” 22 , essi ritengono piuttosto
che l’uomo possa e debba ricercare la vicinanza alla dimensione divina attraverso la
vicinanza alla natura, “non è un caso, poi, che Bruno con gli Egizi, Nietzsche con i
greci, rivalutino entrambi una superiore concezione che sentiva come un tutt’uno
indistinto il vincolo uomo-natura-divinità.
Quell’insana considerazione del rapporto uomo-natura tipica del cristianesimo, si
ripercuote anche all’interno dell’uomo stesso: egli si ritrova antagonista di sé e della sua
corporeità” 23 .
17
Ivi, 143.
Termine adoperato da D. Morea e S. Busellato, in Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, edizione
Ets, 1999, 25.
19
G.Bruno, Eroici furori, cit., 23.
20
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 6.
21
Ivi, 369.
22
D. Morea e S. Busellato, Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, edizione Ets, 1999, 28.
23
Ivi, 28-9.
18
8
Se ricordiamo le parole di Paolo: “I desideri della carne portano alla morte, mentre i
desideri dello spirito portano alla vita e alla pace”, (Paolo, Rm. 8,6), risulta evidente
come i nostri due pensatori siano ben lontani da questa posizione. Difatti Bruno in
primis, secondo le accuse del Mocenigo nel processo veneziano, era convinto “che la
chiesa faceva un gran peccato nel far peccato quello che si serve così bene alla
natura” 24 , e difendendosi su questo punto, rispondeva con ironia:
“Quanto a questo io ne ho parlato qualche volta, dicendo che il peccato della carne,
parlando in genere, era il minor peccato degli altri (...) ed ho fatto che il peccato
della semplice fornicazione sia tanto leggero che fosse vicino al peccato veniale.
Questo sì che ho detto qualche volta; e so e conosco d’aver detto errore, perché mi
ricordo che san Paulo dice, <quod fornicarii non possiedebunt regnum dei>” 25 .
Nietzsche del resto attribuisce a quel “cervello balzano che fu Paolo” la grave
responsabilità di aver inventato la cristianità che mortifica la carne e i sensi; così chiama
l’insegnamento paolino: “una dottrina pagana di misteri che insegna alla fine ad
accettare lo stato, spinge verso guerre, …torture …e odio” 26 . Altrove dice: “il loro
delirio [dei cristiani] era credere che si potesse portare in giro un’”anima bella” in un
aborto di cadavere” 27 . “Si renda agli uomini il coraggio dei loro istinti naturali. Si
ponga sotto controllo il loro sottovalutare se medesimi (si sottovalutano non come
individui, ma come natura…). Si tolgano le contraddizioni dalle cose, dopo aver
compreso che ce le abbiamo messe noi stessi” 28 .
La morale cristiana è secondo Nietzsche “la nichilistica negazione di ogni valore al
mondo, e la conseguente volontà di abbassarlo ancora di più, disprezzandolo e
umiliandolo (come si disprezza e umilia nella morale cristiana <la carne>)” 29 .
“Nietzsche è tuttavia deciso ad includere Lutero nelle sue accuse ed il suo attacco alla
sola fide di Lutero e al grande esempio di Lutero, Paolo, è anche più appassionato delle
sue diatribe contro la Chiesa – a parte il fatto che per ‘Chiesa’ egli intende
Protestantesimo non meno che Cattolicesimo” 30 . Se Lutero è “uomo non spirituale” a
capo dei “contadini dello spirito”, Paolo per Nietzsche è “il primo cristiano”, (Aurora,
68), è colui che fa della fede una scusa per l’incapacità di compiere quella che uno
considera l’azione giusta, è “l’uomo che rese possibile ai pagani di tutto il mondo di
continuare il loro modo di vita pur chiamandosi cristiani” 31 .
Paolo inoltre infanga la vita terrena a vantaggio di uno stato successivo alla morte; “il
regno di Dio, sostiene Nietzsche, è nei cuori degli uomini e quando esso è ricercato in
un’altra vita, la visione centrale di Gesù gli sembra tradita” 32 .
Riassumendo: la posizione antiluterana che accomuna Bruno e Nietzsche è il disprezzo
per una dottrina che, predicando la predestinazione e anche la giustizia divina secondo
24
V.Spampanato, Documenti della vita di G.Bruno, IV documento veneto (Terza denuncia di Mocenigo,
29 Maggio 1592).
25
Ivi, XII documento veneto (Quarto costituto, 2 giugno 1952).
26
F.Nietzsche, La volontà di potenza, § 167; Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth
Forster-Nietzsche; nuova edizione italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, edizione Adelphi, 2003, 98
27
F.Nietzsche, Frammenti postumi, primavera 1888 (ed. Colli – Montinari 8, 14, 96).
28
F.Nietzsche, Frammenti postumi, autunno 1887 (ed. Colli – Montinari 8, 9, 21).
29
G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, (ed. Laterza, Roma - Bari 2001) 99.
30
W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, ed. Sansone, Firenze 1974, 361.
31
Ibidem.
32
Ivi, 363.
9
criteri di sola fede, distoglie gli uomini dall’operosità e li abbandona all’ozio e ad una
pecoresca rassegnazione; la posizione anticristiana e antipaolina invece vede i due
filosofi schierarsi contro l’insegnamento che i bisogni del corpo sono da ripudiare,
contro la assurda pretesa di separare l’uomo dalla natura in virtù di una vita
oltremondana promessa dopo la morte.
Tuttavia, avvicinando Bruno e Nietzsche nelle loro posizioni polemiche, emerge come
accanto ad un autentico disgusto e fastidio per la “struttura-dottrina” delle chiese, degli
asini vestiti da preti e cardinali, vi sia un autentico amore per un dio che non sia
oppressore dall’alto, ma all’opposto: il dio della beatitudine terrena.
“La ‘beatitudine’ non è cosa promessa: è già qui, se si vive e se si opera in un certo
modo” 33 .
“Nietzsche rimase più profondamente impressionato di quasi ogni altro uomo prima di
lui” – a parere di chi scrive, tanto quanto Bruno, – “dal modo in cui la credenza in Dio
ed una teleologia divina possano diminuire il valore e l’importanza dell’uomo: come
questo mondo e la vita possano essere completamente svalutati ad maiorem dei
gloriam” 34 .
Per Nietzsche come per Bruno il problema era se fosse possibile mettere “al posto dei
nostri ‘valori morali’ soltanto dei ‘valori naturalistici’” 35 . “Questo esperimento non
richiede la premessa che Dio non esiste, esso non richiede niente di più che accettiamo
di non invocare Dio per tagliare corto alla discussione” 36 ; e infatti entrambi gli autori
riconoscono il valore del divino,”quella di Bruno non è mai irreligiosità fine a se stessa,
giacchè è pure una forma di riconoscimento del valore divino dell’immensità
dell’universo e della sua inesauribile forza animatrice (...) quella che, ad esempio,
percorre molte pagine dei dialoghi De gli eroici furori(1585)” 37 ; Bruno “esprime una
sua religiosità, che non è più cristiana, e ritiene che questa sua religiosità sia il veicolo
più proprio di una evoluzione morale dell’umanità” 38 .
Dopo aver visto rapidamente e in modo piuttosto generale le critiche mosse alle grandi
Chiese d’Europa dall’autore di un testo fortemente provocatore ed eretico come “Lo
spaccio della bestia trionfante” che accusa direttamente il papa e tutta la cristianità, e
dall’autore di un testo capace tre secoli dopo di suonare nuovamente provocatore come
“L’Anticristo”, scopriamo in fine che l’intento di questi autori attraverso le loro opere,
non è invitare ad una totale perdita del sentimento religioso, del divino, anzi essi
ritenevano di professare la “religione” più autentica, la religione che sprona alla ricerca
e all’amore per la vita, non la religione che pretende greggi di apostati che ripudino il
mondo.
Entrambi fedeli, perché per loro Dio è sinonimo di Verità e l’uomo fedele a se stesso,
consapevole della sua partecipazione alla divina creazione, alla natura, vuole la verità;
Nietzsche arriva a dire:
“(...) Ebbene si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una
fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi,
uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere
33
F.Nietzsche, Frammenti postumi, novembre 1887 – marzo 1888 (ed. Colli – Montanari 8, 11, 360).
W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit. , 120.
35
F.Nietzsche, La volontà di potenza, § 462, op. cit., 259.
36
W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit. , 121.
37
G.Cacciatore, Giordano Bruno e noi, edizione Marte 2003, 20.
38
G.Canziani, Le metamorfosi dell’amore,edizione Cuem 2001, 116.
34
10
anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede
cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina
(...)” 39 .
3. Uno stile venato di alta poesia
Un fitto manto di polvere ricopre i testi di religiosi, grammatici aristotelici, dotti e
pedanti, la polvere nasconde la menzogna, la falsità, la polvere è la consuetudine
formalizzata, l’autorità che costringe il pensiero in rigide e astruse costruzioni.
Sollevare questo manto significa portare alla luce la forza espressiva di un testo, far
rilucere di verità le parole. Nietzsche e Bruno sono entrambi sensibili al problema del
linguaggio ed entrambi asservono e accomodano la parola al pensiero e non l’inverso;
pensano all’uso della parola come ad una scelta nel molteplice, il risultato è per
entrambi uno stile sempre vario, affascinante, colorato di colori accesi, spesso
irriverente, se mi è permesso dirlo, uno stile che preferisce suscitare autentiche
emozioni piuttosto che creare mendaci costruzioni analitiche. Là dove un loro passo è
difficile da afferrare è perché il tema trattato è in alto, troppo in alto per molti, e la
definizione sarebbe un errore, questo è il dire dei poeti, in loro intriso di vette
filosofiche: la vastità che sta dietro la parola è la poesia.
Questo dice Nietzsche “del leggere e scrivere”:
“Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col suo sangue. Scrivi col
sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito.
Non è cosa dappoco intendere il sangue altrui: io odio i perdigiorno che leggono
(...)Le sentenze devono essere vette: e coloro ai quali si parla devono essere grandi e
di alta statura” 40 .
Tre secoli separano le loro parole ed essi nascono in due regioni molto diverse
dell’Europa, è evidente che le differenze siano moltissime e tuttavia le analogie ci
sorprendono in numero; entrambi esprimono il molteplice adoperando una molteplicità
di personaggi; per citarne alcuni, con Nietzsche incontriamo: Zarathustra, Dioniso,
Arianna, Cristo, il prete, le tarantole, Socrate… Con Bruno invece: il Nolano, Atteone,
Coricante, Smitho, Manfurio, Onorio…
“Vediamo così che il pensiero di Bruno e il pensiero di Nietzsche, si costellano e si
muovono attraverso un nutrito numero di personaggi: portavoci, antagonisti, o ritratti
autobiografici. Tali personaggi costruiscono nell’immanenza del farsi, il pensiero dello
scrittore e rendono il lettore partecipe di un movimento in divenire. Essi nascendo
dall’acquisizione filosofica del molteplice, hanno uno spessore e un’autonomia del tutto
peculiare” 41 .
In Nietzsche la forma letteraria diviene dissertazione artistico filologica, aforisma,
semplice prosa, pura poesia. In Bruno è di volta in volta trattato, commedia, dialogo e
pura poesia. Questa ricchezza di forme letterarie e registri linguistici è a riprova di una
39
F.Nietzsche, La gaia scienza,§ 344, versione di F. Masini, nota introduttiva di G. Colli, edizione
Adelphi, 2003, 255.
40
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, edizione a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, marzo 2001,
40.
41
D.Morea – S.Busellato, Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, cit., 38.
11
profonda riflessione sul linguaggio. “La riflessione sul linguaggio costituisce uno degli
elementi centrali della filosofia di Bruno. Come è noto – si tratta di un punto sul quale
gli interpreti si sono soffermati con attenzione – il chiaro riconoscimento dell’esistenza,
anzi della coesistenza di molteplici e ben distinte prospettive teoriche si accompagna,
nella concezione bruniana, alla piena consapevolezza della dimensione plurale e
tutt’altro che esclusiva dei linguaggi e delle terminologie filosofiche (...)” 42 ; analoghe
considerazioni possono essere avanzate riguardo a Nietzsche, e ancora: “l’acquisizione
della pluralità dei linguaggi e l’idea di relatività delle lingue rappresentano dei
presupposti concettuali decisivi per la creazione di uno spazio in cui novità
dell’impianto filosofico e rinnovamento dello strumento espressivo vanno di pari passo
(...)” 43 , in questo modo le gabbie imposte da grammatici aristotelici vengono aperte, la
polvere di dotti e pedanti è rimossa e “la nuova visione del mondo si intreccia a una
nuova concezione della lingua. Dal nuovo pensiero germina una lingua strutturalmente
antipedantesca, capace di esprimere plasticamente, in modo duttile, la pluralità infinita
dei linguaggi umani e naturali, la varietà della realtà, la ricchezza e complessità
dell’uomo e delle sue esperienze, individuandone quei caratteri peculiari e specifici che
i
grammatici,
cultori
d’astratte
sinonimie,
ignorano
e
annientano
programmaticamente” 44 .
Nietzsche e Bruno fondono il loro stile su un continuo rimando al concreto,
all’esperienza della vita. “Si dovrebbe parlare solo di cose delle quali si è fatto
esperienza”,dice Nietzsche 45 , “per Bruno ‘lingua’ e ‘filosofia’ sono una sola cosa;
nascono insieme, procedono insieme; sono aspetti della stessa unica, irripetibile
‘esperienza’” 46 ; di realtà si impregna la penna del filosofo, che vola alta sulla
menzogna: poesia, immagine in luogo di un concetto. Nietzsche: “Per il vero poeta la
metafora non è una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva che gli si presenta
concretamente, in luogo di un concetto” 47 .
“Su queste basi il Nolano distingue i ‘poeti’ dai ‘versificatori’: questi ultimi,
condannati a vivere nello spazio dell’asinità negativa, si aggirano nel regno dell’ozio;
proprio questi ‘vani versificatori ch’al dispetto del mondo si vogliono passar per poeti’
(Spaccio, p. 744) si identificano i grammatici-pedanti. I poeti e i filosofi abitano, al
contrario, la sponda opposta: dediti allo studio e alla ricerca si impegnano per penetrare
il senso delle cose, perché la conoscenza non viene dall’alto ma è frutto del proprio
lavoro intellettuale (...). Bruno considera la letteratura una filosofia-pittura, una
raffigurazione della realtà nei suoi diversi aspetti, un’operazione artistica al servizio
della sapienza (...) l’uso delle immagini è strettamente legato ai concetti che esse
rappresentano; proprio attraverso le immagini è possibile cogliere il rapporto di
mediazione tra oggetto e concetto” 48 .
42
F.Meroi, nell’Introduzione a Cabala del cavallo pegaseo di G.Bruno, ed. Bur 2004, 26 .
Ivi, pag 27.
44
M.Ciliberto, in Introduzione a Lessico di Giordano Bruno, ed. dell’Ateneo &Bizzarri, Roma 1979,
XXVII.
45
(Lettera ad Heinrich von Stein a Berlino; Lipsia, 15 Ottobre 1885).
46
M.Ciliberto, Giordano Bruno, angelo della luce tra disincanto e furore, saggio introduttivo in
Dialoghi filosofici italiani, ed. Mondadori 2000, LXXVI.
47
F.Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito musicale, §8, versione di S. Giannetta, nota
introduttiva di G. Colli, edizione Adelphi, 2003, 59.
48
N.Ordine, La cabala dell’asino, edizione Liguori, Napoli 2001, 165-66.
43
12
Muovendosi tra le pagine delle opere dei nostri due filosofi questa tensione della parola
tra prosa e poesia, tra oggetto e concetto è chiaramente percepibile; in particolare
l’esperienza del furioso è difficile da comunicare e così la prosa si fa poesia negli Eroici
furori, “(...) la scrittura scelta da Bruno nei Furori: una sorta di lingua ‘originaria’,
intessuta di ‘prosa’ e ‘poesia’” 49 , allo stesso modo Zarathustra volendo esprimere in
maniera diretta la sua personale e vastissima esperienza di pensiero intinge la sua penna
nella poesia e alza la sua voce in canto.
“Ma che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? – Ma anche
Zarathustra è un poeta” 50 .
“ – In quale linguaggio parlerà un tale spirito, quando parla da solo con se stesso? Il
linguaggio del ditirambo. Io sono l’inventore del ditirambo” 51 .
“È notte: ora parlano pìù forte tutte le fontane zampillanti.
E anche l’anima mia è una zampillante fontana.
È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto
di un amante” 52 .
La poesia è amore e l’amore diviene poesia: “l’amore, epicentro di ogni esperienza
filosofico-esistenziale (Dioniso-Atteone) situata oltre i confini del comune linguaggio,
diviene poesia, canto d’amore: di qui il Canto di Zarathustra, di qui gli Eroici Cantica 53
del Furioso. Linguaggio, stile e pienezza del vissuto s’intrecciano a nodo sciogliendosi
in metafore, immagini, miti” 54 .
Bruno e Nietzsche li ritroviamo uniti nella grande varietà dello stile letterario e
dall’eccellenza nella poesia, e uniti divengono anche dall’oscurità di questo stile
poetico; infatti, se è vero che vi è una volontà comune di raggiungere un grande
pubblico con un messaggio essoterico di forza politica, è altrettanto vero che questa
volontà si scontra con la necessità di adottare una forma che, per altezza, per difficoltà
espressiva, per portata, non può che risultare accessibile a pochi, non può che avere le
vesti di un messaggio esoterico. E così “nonostante ogni buona intenzione, ieri come
oggi, Bruno continua ad essere un ‘eccentrico’, un ‘irregolare’, un ‘cavaliere errante’
(direbbe Bayle), capace di parlare soprattutto a ‘eccentrici’, a ‘cavalieri erranti’ (...)” 55 e
Nietzsche rende manifesta la sua consapevolezza di questa antitesi tra essoterico ed
esoterico con il sottotitolo del suo “Così parlò Zarathustra”:
“un libro per tutti e per nessuno”.
49
M.Ciliberto Filosofia e lingua nelle opere volgari diBruno.
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 146
51
F.Nietzsche, Ecce homo, a cura e con un saggio di R. Calasso, edizioni Adelphi, 2003. Così parlò
Zarathustra, §7, 105 .
52
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 121.
53
“In un primo momento, Bruno avrebbe voluto chiamare il suo dialogo Cantica. Poi decise per Eroici
furori intendendo il termine eroico nella sua discendenza etimologica da Eros”. ( – Nota n°26 in
D.Morea–S.Busellato, op. cit., 41 – ).
54
D.Morea – S.Busellato, Nietzsche e Bruno – Un incontro postumo, cit., 41.
55
M.Ciliberto, Saggio introduttivo a Dialoghi filosofici italiani, cit., LXXVII.
50
13
4. Sull’ eterno ritorno e l’infinito
E noi medesimi e le cose nostre
andiamo e vegnamo, passiamo e ritorniamo,
e non è cosa nostra che non si
faccia aliena e non è cosa aliena che
non si faccia nostra.
(G. Bruno, La cena delle ceneri)
In questo cammino che vuole mostrare le affinità che legano il pensiero di Nietzsche a
quello di Bruno, un punto di incontro nasce dalle riflessioni sul tempo 56 .
Entrambi mostrano una insofferenza al tempo presente, guardano con ammirazione a
periodi passati e sono convinti di essere sul punto di una svolta epocale.
“(...) il presente più ne affligge che il passato, ed ambi doi insieme manco possono
appagarne che il futuro, il quale è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi
veder designato in questa figura la quale è tolta all’antiquità de gli Egizii, che ferno
cotal statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che
remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane
che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma
non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano, ma sempre per
l’avvenire ne prometteno meglio” 57 .
Senza soffermarsi sulle articolate motivazioni di questa convinzione, di questo stato
d’animo, quello che qui interessa è la concezione del tempo che da esso scaturisce, e
cioè una ennesima presa di distanza da una convenzione ebraico-cristiana: quella della
linearità del tempo, che vede le vicissitudini del mondo originate in un momento dato:
la creazione, e che condanna queste ad un momento finale: il giudizio universale.
Sia Bruno che Nietzsche sostituiscono a questa concezione del tempo come
successione lineare di momenti, dalla creazione al giudizio, una concezione del tempo
circolare, maturata dalla riflessione sul problema dell’eterno; Bruno parlando di ruota
del tempo e circolo universale, Nietzsche con la sua, tanto celebre quanto discussa,
teoria dell’ eterno ritorno; l’eterno ritorno di Nietzsche si può interpretare come “la
radicale riduzione del tempo lineare della storia al tempo ciclico della natura” 58 .
“[la ruota del tempo] si muove in circolo; dove il moto concorre con la quiete, atteso
che nel moto orbicolare sopra il proprio asse e circa il proprio mezzo si comprende
la quiete e fermezza secondo il moto retto; over quiete del tutto e moto, secondo le
parti; e da le parti che si muoveno in circolo, si apprendeno due differenze di
lazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, altre dalla
sommità discendeno al basso; altre ottengono le differenze medianti, altre tegnono
l’estremo dell’alto e del fondo” 59 .
“La revolution dunque, ed anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti ed effetti diversissimi per gli opposti mezzi e contrarii si ritorna al medesimo:
56
Un riferimento costante per un approfondimento circa la nozione del tempo in Bruno deve essere fatto a
Michele Ciliberto, La ruota del tempo, Editori Riuniti, Roma.
57
G.Bruno, Eroici Furori, cit., 95.
58
G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 77.
59
G.Bruno, Eroici furori, 1089, riferimento tratto da M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno; 2 v.; ed.
dell’Ateneo &Bizzarri, Roma 1979.
14
come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove il principio d’una
disposizione contraria è fine de l’altra, ed il fine di questa è il principio di quella” 60 .
“Quello che sarà et è stato terra, non è, ne fu sempre terra; ma con certa
vicissitudine, determinato circolo, et ordine, si de’ credere che dove è l’uno sarà
l’altro; et dov’è l’altro sarà l’uno” 61 .
“<(...)Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga
via fuori della porta e avanti – un’altra eternità.
Si contraddicono a vicenda questi sentieri; sbattono la testa l’uno contro l’altro: e
qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta:
‘attimo’.
Ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi
tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?>. –
<Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il
tempo stesso è un circolo>“ 62 .
Riflessioni sull’”anno grande del mondo”, sulla circolarità del tempo e quindi
sull’eterno ritorno non sono nuove nella storia della filosofia, in particolare possiamo
pensare che i nostri due filosofi vedano le loro radici su questo tema nella fisica e nella
cosmologia degli stoici, degli orfici e dei pitagorici, i quali erano stati oggetto sia della
vastissima biblioteca del Nolano sia della passione per la Grecia antica di Nietzsche; la
filosofia greca aveva spesso elaborato concezioni del tempo che prevedevano dei
cataclismi periodici, dopo i quali la storia del mondo ricominciava da zero. Gli stoici
non solo fanno propria questa dottrina, ma la interpretano in una prospettiva
perfettamente ciclica: la storia si ripete eternamente, infinite volte, fin nei minimi
particolari. La realtà per gli stoici in quanto razionale, cessa anche di essere caduca; e
non è più tale proprio perché eternamente diviene, immobile e sempre uguale, ‘secondo
il ciclo’ .
“Di maniera che megliormente intese Democrito ed Epicuro, che vogliono tutto per
infinito rinnovarsi e restituirsi: che chi si forza di salvare eterno la costanza de
l’universo, perché medesimo numero a medesimo numero sempre succeda, e
medesime parti di materia con le medesime sempre si convertano” 63 .
Questo richiamo a Democrito e ad Epicuro risulta particolarmente illuminante perché
sottolinea che il ciclo vicissitudinale non porta una serie finita di forme e combinazioni,
ma si articola attraverso il moto incessante degli atomi e le loro infinite combinazioni.
La continua ‘rinascita’ degli enti, nel tempo circolare bruniano, non coincide con il
ritorno dell’identico, secondo una prospettiva teorica di matrice stoica.
“Essendo la materia et sustanza delle cose incorrotibile, et dovendo quella secondo
tutte le parti esser soggetto di tutte forme, a fin che secondo tutte le parti (per quanto
capace) si fia tutto, sia tutto, se non in un medesimo tempo, et instante d’eternità;
almeno in diversi tempi, in varii instanti d’eternità, successiva, vicissitudinalmente
(...)” 64 .
60
G.Bruno, Eroici Furori,cit., 95.
G.Bruno, Cena delle ceneri, 218, riferimento tratto da M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno, op. cit.
62
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra,cit., 183-84.
63
G.Bruno, De l’infinito, universo e mondi, in Dialoghi filosofici italiani, ed. I Meridiani – Mondadori, a
cura di Michele Ciliberto, 2000, 316.
64
G.Bruno, Cena delle ceneri, riferimento tratto da M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno, op. cit.
61
15
In ogni parte della materia vi sarebbe esplicata la potenza di tutta la materia, in ogni
istante di tempo è racchiusa una combinazione eterna, perché come la materia si lega in
ogni sua combinazione nello stesso principio animatore, l’”anima mundi”, tale per cui
si potrebbe dire che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma nella “vitamateria infinita”, così il tempo si costruisce nel legame di ogni istante con l’istante
precedente e quello successivo, e ogni istante è una combinazione eterna e tutta
l’eternità è un’unità, un istante; la materia e il tempo sono “Uno-Tutto”, in ogni unità vi
una combinazione del tutto e il tutto è un’unità.
“Tansillo. Sì come il tempo è uno, ma in diversi suggetti temporali, cossì l’instante è
uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, sono e sarò;
io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono.
Cicada. Perché volete che l’instante sia tutto il tempo?
Tansillo. Perché se non fusse l’instante, non sarebbe il tempo: però il tempo in
essenza e sustanza non è altro che instante. E questo basta, se l’intendi (...)”65.
L’eternità è un circolo, il tempo è uno in cui tutto ritorna, le combinazioni sono infinite,
così per Bruno possiamo affermare che di eterno ritorno si tratti, ma non di un eterno
ritorno in cui le cose si ripresenteranno esattamente come sono nell’istante presente, non
ci sarà per Bruno un Bruno futuro identico al Bruno presente e ad un Bruno passato;
soltanto la vicissitudine è un ciclo della natura perché il tempo è un uno.
Per Nietzche, secondo l’analisi che abbiamo condotto non possiamo ancora affermare
una cosa del genere, tanto più che la dottrina dell’eterno ritorno è nota come eterno
ritorno dell’uguale e che certi passi ad una prima lettura potrebbero suggerire questo.
“Ecco ch’io muoio e scompaio, diresti, e in un attimo sono un nulla.
Le anime sono mortali come i corpi.
Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, - esso mi creerà di
nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno.
Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con questa aquila, con questo
serpente – non a nuova vita o a vita migliore o a una vita simile:
- io torno eternamente a questa stessa identica vita, nelle cose più grandi e anche
nelle più piccole, affinché io insegni di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose (...)” 66 .
La vita di ogni singola unita è intrecciata nella vita del tutto, soprattutto nelle cause del
tutto; nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, anima e corpo scompaiono
e tornano, dove? Terra, aquila, serpente; ma non sono vite migliori o simili: eternamente
le stessa vita: la vita eterna della materia infinita! L’eterno ritorno: il tempo chiuso dei
cicli del cosmo. L’identico che ritorna è la vita di tutte le cose.
“Il genitivo che si riferisce all’eternità come eternità ‘di’, ‘ciò che’ è eterno, si dice in
Nietzsche l’uguale, una parola che in un primo tempo suona un po’ strana, o addirittura
insignificante. L’uguale non è lo stesso, ma neppure la molteplicità irrelazionata.
Nell’ambito del pensiero di Nietzsche, l’ ‘uguale’ non può riferirsi né alla somiglianza
esterna di una figura cosale, né alla mediazione sintetica di una riflessione che si
65
66
G.Bruno, Eroici Furori, cit., 90.
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., pp. 259-260.
16
costituisca attraverso opposizioni. Ciò a cui l’uguale si riferisce è l’eterno ritorno stesso
e niente altro” 67 .
Questa visione del tempo tanto per Bruno quanto per Nietzsche porta l’uomo che la
comprende a glorificare l’attimo, l’istante, perché l’istante consacra le scelte dell’uomo
nell’eterno ritorno; è anche un circoscrivere tutta l’attenzione al mondo terreno, si nega
la fede a un tempo altro, oltremondano, ad un’eternità fuori del mondo, tutto si svolge
qui: l’amore, la lotta, il ritorno.
Una vera e propria dimostrazione ‘scientifica’ dell’eterno ritorno o della circolarità del
tempo non è mai stata data, tentativi però si sono avanzati e Nietzsche stesso si è
misurato in questo, ma la sua argomentazione rimane solo in appunti da lui mai
pubblicati 68 , proprio perché esposta a critiche e soprattutto a confutazioni; ma qualora si
reputi l’eterno ritorno anche solo come probabilità o possibilità “anche come tale,
questo pensiero avrebbe la possibilità di trasformarci, così come ha fatto per tanti secoli
la pura e semplice possibilità della dannazione eterna” 69 .
Ecco che la concezione del tempo circolare, che abbraccia l’eternità nel cosmo, oltre
che tesi cosmologica è tesi etica, diviene una motivazione per spingere la volontà
dell’uomo verso quel sentimento eroico di amore e ricerca fedele alla terra, che rende
l’uomo veramente degno di questo nome.
“Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate, -se mai abbiate voluto ‘una volta’ due volte e detto <tu mi piaci, felicità! guizzo!
attimo!>,avete voluto tutto indietro!
- tutto di nuovo, tutto in eterno, tutto incatenato, intrecciato, innamorato, oh, così
avete amato il mondo, - voi eterni, amatelo in eterno e in ogni tempo: e anche al dolore dite: passa, ma
torna indietro! Perché ogni piacere vuole – eternità!” 70 .
La misura dell’esistenza di Bruno e Nietzsche è la totalità dell’esistenza della vita
umana, e questa è eterna, in quanto sottratta al moto rettilineo della storia e accordata
con i cicli sempre ricorrenti della vita universale.
5. La consapevolezza di essere eccezioni e il filosofico furore fino alla fine
Lascio che, chi sa se è pazzia questa, o quella?
Disse un pirroniano:<Chi conosce se il nostro stato è morte,
e quello di quei che chiamiamo defunti è vita?>
(G. Bruno, De la causa, principio et uno)
A fare del Nolano e del filosofo tedesco delle eccezioni a confronto è anche la loro
consapevolezza di essere eccezioni, il loro proclamare questo carattere di Mercurii;
67
J.Stambaugh, L’uguale nel pensiero nietzscheano dell’eterno ritorno dell’uguale, (in A. Marini,
Amicizia stellare, studi su Nietzsche di Beerling, Biser, Beaufret, Putz, Boehm, Granier, Staumbaugh,
Pautrat, Vattimo, Nohl. – ed Unicopli, Milano 1982).
68
Si veda ad esempio in Frammenti postumi,( V,2, p.382, oppure VIII, 3, 165) (ed. Colli-Montinari).
69
G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 88.
70
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra,cit., 376-77.
17
portatori di luce in un mondo che giace pigro, nel buio, portatori di pensiero con la vita
e con la scrittura, consapevoli che questo loro avvento rischia di isolarli avvertono
comunque il loro messaggio come una necessità, in esso la speranza che nel flusso del
tempo operi sugli uomini e sul mondo. “Noi, uomini nuovi, senza nome, difficilmente
comprensibili, noi figli precoci d’un avvenire ancora non verificato” 71 …”lasceremo la
moltitudine ridersi, scherzare burlare e vagheggiare su la superficie dei mimici, comici
ed istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso, e sicuro il tesoro (...)” 72 . “Perché
morto discorro tra le genti?” 73 .“Quando sono in alto, mi ritrovo sempre solo. Nessuno
parla con me, il gelo della solitudine mi fa tremare, che vado cercando
nell’elevatezza?” 74 . 75
“<Ci sono uomini che nascono postumi> dice Nietzsche, e uno di questi è anche Bruno.
Caratteristica che accomuna fortemente le loro biografie, è il sentirsi costantemente
inattuali, stranieri ovunque – anche in casa propria: è questo a spingerli al passo
irrequieto del viandante” 76 .
Non supereroi, niente di sovrumano ma anzi due esperienze di vita tragiche,
estremamente umane; l’aspetto ‘eroico’ è una conseguenza della consapevolezza della
portata del proprio pensiero,“per quel che concerne l’ ‘eroe’,(...) è la forma più
accettabile di essere umano, soprattutto se non si ha altra scelta”, 77 niente di più umano
di questa consapevolezza: l’eccellenza della domanda filosofica, che porta l’uomo a
divincolarsi dalla mediocrità con la domanda, affanno della mente che spinge la ricerca
lontano dai compromessi, a fondo nel contrasto.
La filosofia vicina al suo significato etimologico di amore per la sapienza, e cos’è
l’amore se non l’esperienza dell’eros, dell’eroico? Esperienza furiosa ed estrema della
tensione fra due poli, esperienza di due opposti che si incontrano “la separazione è la
causa che troviamo piacere nella congiunzione; e generalmente esaminando, si trovarà
sempre che un contrario è cagione che l’altro contrario sia bramato e piaccia” 78 , “Ah!
Quanto poco sapete voi della felicità dell’uomo, voi gente pacifica e bonaria! - giacché
la felicità e l’infelicità sono due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o,
come accade per voi, restano piccole insieme!” 79 .
Così parla Dario Del Corno a proposito degli eroi della tragedia greca: “La diversità,
l’esclusione sono il tramite per il ritorno a una condizione umana, addirittura più piena e
perfetta di quella concessa alla generalità degli uomini. Essi meritano questa sorta
d’eccezione per la forza dell’animo, che ha concesso loro di rimanere fedeli alla propria
natura, nonostante tutto” 80 .
Ecco allora che mi affascina accostare queste due figure di filosofi, amanti della vita per
la verità fino alla morte;
71
F.Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 382, 319.
G.Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, epistola dedicatoria.
73
G.Bruno, Eroici furori, dialogo quarto, parte seconda.
74
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dell’albero sul monte.
75
Il presente ‘dialogo’ tra Nietzsche e Bruno è stato trascritto dal testo di Donatella Morea e Stefano
Busellato, Nietzsche e Bruno, un incontro postumo, cit., 53.
76
D.Morea – S.Busellato, Nietzsche e Bruno un incontro postumo, cit., 53-54.
77
F.Nietzsche, Lettera ad Heinrich von Stein ad Halle, <Genova>, inizio Dicembre 1882, in D.MoreaS.Busellato, cit., 61.
78
G.Bruno, Eroici Furori,cit., 34.
79
F.Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 358.
80
D.Del Corno, Letteraratura greca, Dall’età arcaica alla letteratura cristiana, Casa editrice Principato,
1995, 214.
72
18
“Dov’è la bellezza? Là dove io non posso non volere con tutta la volontà; dove
voglio andare e tramontare, affinché un’immagine non rimanga un’immagine
soltanto. Amare e tramontare: ciò va insieme dai secoli dei secoli. Volontà d’amore:
è accettare di buon grado anche la morte” 81 .
“In viva morte morta vita vivo. (...) È altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio
che trapassa di gran lunga gli suoi termini; ed è altissimo per l’appetito intellettuale
(...)” 82 .
“Il maggior valore di Nietzsche può ben trovarsi nel fatto che egli ha incarnato il vero
spirito filosofico della <ricerca in me stesso e negli altri uomini> per citare l’Apologia
di Socrate, e pochi uomini” – a parere di chi scrive Giordano Bruno spicca fra questi –
“avrebbero potuto ripetere con maggior convinzione le parole del grande greco: < se mi
dite… ti lasceremo andare, ma ad una condizione, che non dovrai più ricercare… in
questo modo e che se sarai preso mentre fai questo, ancora una volta, morirai; se questa
fosse la condanna alla quale mi lascerete andare , dovrei rispondere… fino che avrò vita
e forza non cesserò mai di insegnare e di praticare la filosofia>“ 83 .
A proposito della vita di Nietzsche e dei suoi ultimi anni, “(...) giusta è l’asserzione che
pochi uomini hanno combattuto più eroicamente contro la malattia e il dolore, cercando
di capire se stessi attraverso la sofferenza (...)” 84 anche se la follia infine si prenderà il
filosofo, e in un certo senso, come Nietzsche, “anche Bruno spicca <un folle volo> - ma
verso la sapienza, non verso la follia; anzi, verso la sapienza attraverso la follia (come i
Furori si incaricheranno di chiarire)” 85 .
6. Una questione storiografica: Nietzsche ha letto Bruno?
“Le forme superiori nelle quali l’artista è solo una parte dell’uomo – per esempio
Platone, Goethe, Giordano Bruno. Queste forme riescono di rado”.
(F. Nietzsche) 86
Giunti a questo punto del nostro percorso che ha voluto affiancare il Nolano al filosofo
tedesco, risulta doveroso porsi una questione di carattere filologico e storiografico:
Nietzsche, aveva effettivamente letto e studiato Bruno? Se sapessimo con certezza che
Nietzsche nei suoi studi ebbe modo di incontrare direttamente le opere di Bruno
l’ipotesi fin qui condotta di un punto di incontro fra le due filosofie sarebbe senz’altro
avvalorata e risulterebbe più interessante un approfondimento.
Nella biblioteca di Nietzsche non si sono trovate opere bruniane, ma un primo incontro
con esse potrebbe essere avvenuto nel 1881, precisamente “nell’estate del 1881, quando
a Sils-Maria Nietzsche <scopre> per la prima volta l’eterno ritorno, egli si sta
81
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 149.
G.Bruno, Eroici Furori,cit., 38.
83
W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo,cit., 20.
84
Ibidem.
85
M.Ciliberto, Saggio introduttivo a Dialoghi filosofici italiani, cit., XXXI.
86
F. Nietzsche, Frammenti postumi, estate-autunno 1984, ed. Colli-Montinari, 7, 26, 42.
82
19
interessando attivamente di Spinoza” 87 . Al di là dei molteplici legami fra il pensiero di
Bruno e quello di Spinoza, per il quale sarebbe richiesto un vasto approfondimento che
non può trovare spazio in queste pagine, resta il fatto che non è eccessivamente
azzardato supporre che Nietzsche si stesse nel contempo interessando a Bruno, tanto più
che “proprio in quel periodo si era fatto mandare da Overbeck, in prestito dalla
biblioteca di Basilea, il volume della Storia della filosofia di K. Fischer” 88 in cui si
parla di Spinoza e anche di Bruno.
Inoltre l’inizio dell’Ottocento in Europa in ambito culturale è caratterizzato da un vero e
proprio ‘ritorno di Bruno’, proprio affiancato a Spinoza: “Bruno ritornò con Spinoza. Le
Lettere sulla dottrina dello Spinoza di Federico Enrico Jacobi danno in appendice un
pregevole estratto del De la causa: e già prima, risorgendo l’interesse storico per le
filosofie del passato, il Brucker aveva raccolto notizie sul Bruno. La fine del Settecento
e l’inizio dell’Ottocento fu il tempo del moltiplicarsi delle Storie della filosofia:
Tiedemann, Buhle, Tennemann. Ma il Bruno suscitò un fervido interesse speculativo in
due grandi:” – che Nietzsche conosceva molto bene – “ Schelling, che al Bruno intitolò
il suo dialogo: Bruno o della natura; e Hegel, che al Bruno dedicò acute pagine
d’analisi e interpretazione nelle Lezioni su la storia della filosofia. Il risvegliato
interesse per il pensiero bruniano suggerì ad Adolfo Wagner” – che il giovane
Nietzsche, lo abbiamo già accennato, conosceva personalmente – “una ristampa delle
Opere italiane del Bruno in due volumi (1830) ristampa scorretta, eppure utilissima,
perché su di essa il Bruno tornò ad essere letto largamente nell’Ottocento: su di essa fu
letto dai patrioti italiani del Risorgimento” 89 .
Tutte queste considerazioni però non provano che Nietzsche abbia letto Bruno,
semplicemente ne avvalorano l’ipotesi; il primo e unico incontro certo con il Nolano lo
si deve ad uno scambio epistolare con Heinrich von Stein 90 .
Stein, grazie alla mediazione della comune amica Lou Salomé, avrebbe dovuto
incontrare una prima volta Nietzsche a Lipsia, ma quest’ultimo fu costretto a partire
improvvisamente, facendo sfumare l’incontro. Per scusarsi scrisse a Stein e gli inviò
anche le bozze di Zarathustra; Stein grato di questo risponde e invia il suo Gli eroi e il
mondo. Nel maggio del 1884 Nietzsche invia a Stein la terza parte dello Zarathustra
appena terminata, ed è questo ad offrire l’occasione dell’entrata in scena del Nolano.
Stein entusiasta scrive che non ha parole per ringraziare e per questo desidera
condividere il piacere della lettura della traduzione di certe poesie di Giordano Bruno
che ha per le mani. Così Nietzsche può leggere seppur in una traduzione né filologica,
né tanto meno letterale, tre poesie di Bruno. Stein non specifica né il titolo né le
differenti opere da cui le poesie sono tratte 91 .
87
G.Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 83-4.
Ivi, nota n°15 a 84.
89
Introduzione di Augusto Guzzo a G. Bruno, De la causa, principio e uno, Milano edizione integrale
Mursia, 1985, 34.
90
Stein nacque nel 1857 a Coburgo; attirò l’attenzione di Nietzsche per la sua appartenenza alla cerchia di
Wagner, del cui figlio Sigrfrid fu precettore, incaricò che lasciò per insegnare filosofia ad Halle, grazie a
una tesi proprio su Giordano Bruno. Nel 1882 pubblica Gli eroi e il mondo, dedicandolo a Wagner. Nel
1887 dopo aver ottenuto la prima cattedra di estetica all’Università di Berlino grazie all’influenza del suo
amico Dilthey, Stein muore. Stein conobbe Lou Salomé ed ella parlò di Stein a Nietzsche. Fu grazie a
questa amica in comune che ebbe inizio lo scambio epistolare, destinato poi ad un incontro ‘di persona’.
Cfr. D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, cit., 43.
91
Cfr. D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, cit., 44.
88
20
Per capire meglio potrà risultare utile riportare qui il ‘cuore bruniano’ di questo
carteggio che trascrivo, non integralmente, dalla traduzione ad opera di Donatella
Morea e Stefano Busellato in Nietzsche e Bruno 92 .
Berlino, 17 Maggio 1884
Stimatissimo signore!
Come posso ringraziarLa per il Suo nuovo dono – per la calda verità, il cui pulsare
fa battere di rimando il mio cuore. Farò come allora, quando Lei con tale
benevolenza mi fece riuscire ad esprimere la mia gratitudine, e scriverò ciò che
adesso ho di nuovo sotto le mani, poesie tradotte 93 di Giordano Bruno, per
condividerne la gioia con Lei.
E chi mi impenna, e chi mi scalda il core,
Chi non mi fa temer fortuna o morte,
Chi le catene ruppe e quelle porte,
onde rari son sciolti ed escon fore?
L’etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l’ore,
Figlie ed armi del tempo, e quella corte,
A cui né ferro, né diamante è forte,
Assicurato m’han del suo furore.
Quindi l’ali sicure a l’aria porgo,
Né temo intoppo di cristallo o vetro;
ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo.
E mentre dal mio globo agli altri astri sorgo,
E per l’eterio campo oltre penetro,
Quel ch’altri lungi vede, lascio al tergo. 94
***
Monte, sebbene la terra ti trattenga appoggiato con tenacia sulle tue radici profonde
Ugualmente sai protenderti con la tua vetta fino agli astri.
Mente, una mente a te affine ti chiama dal vertice sommo delle cose
Perché tu sia discrimine ai Mani e a Giove.
Non perdere qui il tuo privilegio legittimo e, sotto il loro assalto,
non lasciarti impregnare delle acque dell’Acheronte, reclinandoti inerte sul tuo
fondo.
La natura tenti invece i recessi più sublimi,
poiché quando Dio ti tocca sarai fuoco ardente 95 .
92
D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, opera cit.
Stein ovviamente parla di traduzione in tedesco, ed è questa che invia a Nietzsche; di seguito invece è
riportata la versione in italiano. In particolare la seconda poesia in originale è in latino, qui è riportata la
traduzione di M. Ciliberto.
94
G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, cit., proemiale epistola.
95
G. Bruno, De la causa, principio e uno, cit., proemiale epistola.
93
21
E questa, già tradotta prima, che a suo tempo piacque a Wagner straordinariamente:
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovane Atteon, quand’il destino
Gli drizza il dubio ed incauto camino,
Di boscarecce fiere appo la traccia.
Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia,
Che veder possa il mortal e divino,
In ostro ed alabastro ed oro fino
Vedde; e ‘l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio, ch’a’ più folti
Luoghi drizzava i passi più leggieri,
Ratto voraro i suoi gran cani e molti.
I’ allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi, a me rivolti,
Morte mi dan con morsi crudi e fieri 96 .
(...)
La ringrazio di tutto cuore e Le porgo i miei più rispettosi ossequi.
Heinrich von Stein.
Rispose Nietzsche:
Ad Heinrich von Stein a Berlino.
Venezia, San Canciano, calle nuova
5256, 22 Maggio 1884
Mio caro signor dottore,
queste poesie di Giordano Bruno sono un dono per il quale le sono grato di tutto
cuore. Mi sono permesso di appropriarmene, come se le avessi fatte io e per me
stesso – e le ho <prese> come delle gocce corroboranti. Se solo sapesse quanto
raramente ancora mi giunga dall’esterno qualcosa di corroborante! (...) Mio figlio
Zarathustra può averle confidato che cosa si agita in me; e se ottengo tutto ciò che
voglio da me stesso, morirò nella consapevolezza che i secoli futuri faranno sul mio
nome i voti più solenni.
(...)
Suo, di cuore,
Nietzsche
A seguito di questo scambio epistolare “Nietzsche invita Stein nel suo ‘rifugio’ a SilsMaria, dove insieme trascorreranno tre giornate straordinariamente intense (26, 27, 28
96
G. Bruno, Eroici furori, dialogo quarto, cit., parte prima.
22
Agosto 1884)” 97 ; è estremamente probabile che in queste giornate abbiano parlato di
Giordano Bruno, a giudicare dall’entusiasmo della risposta di Nietzsche, tanto più che
“è datato proprio estate-autunno 1884 l’unico frammento postumo nicciano”- citato in
apertura al paragrafo- “in cui appare il nome del Nolano: < Le forme superiori nelle
quali l’artista è solo una parte dell’uomo – per esempio Platone, Goethe, Giordano
Bruno. Queste forme riescono di rado>” 98 .
Pertanto, se Stein dopo aver letto le prime tre parti dello Zarathustra spedisce a
Nietzsche le tre poesie di Bruno è perché doveva aver riscontrato un’affinità di toni,
slancio e contenuti fra i due autori. “Stein, quindi aveva sentito in Bruno e in queste tre
poesie, un legame profondamente affine a Nietzsche e al suo Zarathustra. Non importa,
qui, indagare quanta consapevolezza mediasse l’intuizione; fatto sta che Stein coglie
occhiate complici fra Bruno e Nietzsche” 99 .
In particolare tutte e tre le poesie, benché soltanto l’ultima appartenga agli Eroici furori,
sono animate da una comune tensione, da un comune furore a ergersi all’infinito, al
protendersi verso gli astri, rimanendo legati alla terra, al tocco di Dio che rende fuoco
ardente, a un furore mortal e divino. Nietzsche a queste poesie e al loro tema si sente
tanto vicino da appropriarsene, come se le avesse fatte lui stesso; era nata dunque una
‘amicizia stellare’ 100 fra questi due filosofi che si incontrarono solo fugacemente, fra
l’incauto cammino di Atteone e le perigliose vie di Zarathustra.
E chi può dire che la tensione e il furore di queste tre poesie, e in particolare, il
cacciatore Atteone, figura simbolo dell’eroe bruniano, come sarà mostrato nel prossimo
capitolo, non abbiano influenzato la successiva stesura della quarta e ultima parte del
Così parlò Zarathustra, in cui Nietzsche ultima il ritratto, iniziato già dalla prima parte,
dell’uomo superiore, del Superuomo?
Se un giudizio in merito non ci è dato di esprimere, quello che è certo è che solamente
di questo ‘incontro’ vi è una documentazione, e oggi, indipendentemente da quanta
causalità e casualità occorse in questo incontro, due figure sono consegnate a noi, legate
da un’amicizia stellare: l’‘uomo eroico’ degli Eroici furori di Bruno e l’ ‘Oltreuomo’
del Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
97
D. Morea – S. Busellato, Nietzsche e Bruno, cit., 46.
Ibidem.
99
Ivi, 48.
100
È un termine usato da Nietzsche nella Gaia scienza nell’aforisma 279, per riferirsi ad amicizie
distanti, caratterizzate dal brillare della stessa luce, affinità di spirito e di intenti: luce stellare. Distanti ma
che si ritrovano in cielo. Ad ogni modo la definizione di “Amicizia stellare” viene analizzata molto nei
suoi significati meno evidenti da Joachim Kohler, nell’ottavo capitolo del suo Nietzsche. Il segreto di
Zarathustra (vedi la Nota Bibliografica).
98
23
CAPITOLO SECONDO.
L’Uomo eroico di Giordano Bruno.
Mai fia che de l’amor io mi lamente,
Senza del qual non voglio esser felice;
Sia pur ver che per lui penoso stente,
Non vo’ non voler quel che sì me lice.
Sia chiar o fosco il ciel. Fredd’o ardente,
Sempr’un sarò ver l’unica fenice.
Mal può disfar altro destino o sorte
Quel nodo che non può scorre la morte.
Al cor, al spirto, a l’alma
Non è piacer, o libertade, o vita,
Qual tanto arrida, giove e sia gradita,
Qual sia più dolce, graziosa ed alma,
Ch’il stento, giogo e morte,
Ch’ho per natura, voluntade e sorte.
(G. Bruno, Eroici furori, Parte prima, Dialogo quinto)
Nel precedente capitolo si è mostrata l’opposizione netta che Giordano Bruno individua
tra il compito del filosofo e il mestiere di dotti, pedanti ed asini; questa opposizione si
articola, all’interno dell’opera del Nolano, principalmente nei sei testi che costituiscono
i Dialoghi italiani composti in Inghilterra tra la primavera del 1583 e la fine del 1585 e,
più precisamente, negli ultimi tre: lo Spaccio della bestia trionfante, la Cabala del
cavallo pegaseo e gli Eroici furori. In quest’ultimo in particolare se è vero che
inizialmente si accenna alla polemica con i religiosi e con i grammatici, è altrettanto
vero che l’intento principale diviene quello di indicare una strada, una nuova via per la
conoscenza umana.
Oltre la polemica quindi vi è il disegno di un nuovo sapere, distinto nettamente dal
“sapere dei sapienti”; dice in proposito Michele Ciliberto: “ (...) A Bruno, nell’ultimo
dialogo italiano, la prospettiva rappresentata dal sapiente appare insufficiente. E tali gli
appaiono sia la sua <conoscenza> che la sua <virtù>. Scaturisce di qui, da questa
persuasione, il programma di ricerca messo a punto nei Furori, che rappresentano
dunque una svolta essenziale nell’itinerario filosofico e intellettuale del Nolano” 101 .
Sia sotto un profilo gnoseologico sia da un punto di vista etico la consueta prospettiva
del sapiente appare manchevole e quel che manca appare con chiarezza già nel secondo
dialogo della prima parte: Eros, l’Amore. Punto cruciale della distinzione tra la
condizione del furioso e del savio-sapiente, l’Amore è quella tensione vissuta
nell’esperienza dei contrari che tormenta, deletta e muove la ricerca di questo uomo
eroico che è il furioso.
101
Introduzione di Michele Ciliberto a G. Bruno, Eroici furori, cit., XXII.
24
Nettamente distinti l’uno dall’altro il <furioso> e il <sapiente> rappresentano
certamente due esperienze di vita radicalmente diverse, a questo proposito Michele
Ciliberto pone come fulcro la tematica del vincolo, vincolo d’Amore che accende il
furioso: “Ma è una differenza che germina e si determina appunto sul terreno del
vincolo, dell’esperienza intellettuale e, prima ancora, esistenziale del vincolare: cioè, nel
caso specifico del furioso, dell’esperienza dell’essere vincolato da Cupido, dall’Amore.
Il sapiente è estraneo al vincolo, a tutte le passioni di cui l’amore è fondamento (...). Sta
nella casa della temperanza, nella indifferenza: non è contento, né triste, né freddo, né
caldo. (...) Chi teme, chi spera, chi si gloria, chi s’insuperbisce è il furioso: vincolato da
Cupido, dall’Amore, egli vive dentro di sé – nell’anima e nel corpo – tutte le passioni;
al contrario del sapiente che le contiene e le controlla, e le controlla perché conosce la
legge della <vicissitudine>, del <moto>, della <mutazione> di ogni cosa, e ispira ad
essa la sua vita” 102 .
“Tansillo. Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento, perché non gode del
presente, come il brutale amore; ma e del futuro e del absente, e del contrario sente
l’ambizione, emulazione sospetto e timore. Indi una sera dopo cena un certo de
nostri vicini: - Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso; - gli rispose Bruno,
padre del Nolano: - Mai fuste più pazzo che adesso. –
Cicada. Volete dunque, che colui che è triste, sia savio, e quell’altro ch’è più triste,
sia più savio?
Tansillo. Non, anzi intendo in questi essere essere un’altra specie di pazzia, ed oltre
peggiore.
Cicada. Chi dunque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è
triste?
Tansillo. Quel che non è contento, né triste.
Cicada. Chi? quel che dorme? quel ch’è privo di sentimento? quel ch’è morto?
Tansillo. No; ma quel ch’è vivo, vegghia ed intende; il quale considerando il male
ed il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto,
mutazione e vicissitudine ( di sorte ch’il fine d’un contrario è principio de l’altro, e
l’estremo de l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di
spirito, vien continente nelle inclinazioni e temperato nelle voluptadi; stante ch’a lui
il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente che la pena
non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di
quella. (...)”103.
Questo amore che tormenta l’eroe è lo strumento che lo conduce nella ricerca di una
sapienza autentica diversa da quella del savio, è la via da percorrere nella caccia alla
102
Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XX.
(“Chi teme, chi spera, chi si gloria, chi s’insuperbisce è il furioso: vincolato da Cupido, dall’Amore, egli
vive dentro di sé – nell’anima e nel corpo – tutte le passioni; al contrario del sapiente che le contiene e le
controlla, e le controlla perché conosce la legge della <vicissitudine>, del <moto>, della <mutazione> di
ogni cosa, e ispira ad essa la sua vita”. A parere di chi scrive in queste parole si potrebbe vedere una
conferma di quel che ci si era azzardati ad affermare in un passaggio del paragrafo 4 del primo capitolo, e
cioè che Bruno, con il furioso, come Nietzsche, con Zarathustra, glorifica l’istante. Infatti se
l’atteggiamento del sapiente che ha compreso la vicissitudine è di mesta rassegnazione, lontano dalle
passioni, temperato nelle voluptadi, annichilito; il furioso all’opposto si infiamma d’amore per l’attimo
che vive e in questo esperisce con tormento gli estremi della contrarietade, l’incommensurabile, la
tensione insanabile tra il finito e l’eterno, e in questo incarna la dimensione eroica. Se il sapiente
contempla lo scorrere del tempo, il furioso lotta per il futuro.
Tuttavia è doveroso sottolineare che questa è una mia personale considerazione e che Michele Ciliberto
non accenna minimamente a questo).
103
G. Bruno, Eroici furori, cit., 35-6.
25
verità. “A ben vedere, è il concetto di <verità>, di <felicità> e di <sapienza> che Bruno
qui riproblematizza fin dalle fondamenta, ponendo in modi radicalmente nuovi la
questione altrettanto decisiva delle <vie> e degli <strumenti> attraverso cui l’uomo
ascende all’una e all’altra, ammesso - e non concesso – che questo sia nelle sue
possibilità. Un elemento fondamentale egli ribadisce però con nettezza fin dall’inizio.
Sono <vie> e <strumenti> che non hanno niente a che fare con quelli propri del
sapiente.
Si è visto, del resto: il sapiente sceglie di stare nella casa della Temperanza, di
contemplare la vicissitudine, di essere virtuoso tenendosi nel <mezzo>. Il <furioso>,
impegnato con tutte le sue forza nella <venazione> della più profonda e nascosta Verità,
sceglie la strada opposta: oltre l’indifferenza sceglie la contrarietà, oltre la vicissitudine
l’unità, oltre la virtù egli sceglie il vizio. Del resto, questo, un vizio, è in essenza
l’eroico furore:(...) Vizio, passione, vincolo d’amore: appunto, è la vita del furioso.
Eppure – ed è questa la <scoperta> dei Furori – solo di qui, dall’esperienza della
contrarietà, dal <disquarto> di sé, dalla esplosione di tutte le passioni, insomma solo dal
<vincolo di Cupido>, può essere aperta la strada al <primo vero>, alla <verità absoluta>
(...)” 104 . Il furioso è dunque colui che problematizza il presente e nella compresenza di
tormento ed estasi è proteso verso il futuro, in un atteggiamento decisamente più attivo
e dinamico rispetto allo stolto inconsapevole o al savio contemplativo.
L’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente, come il brutale amore;
ma e del futuro e del absente, e del contrario sente l’ambizione, emulazione sospetto e
timore. Se tuttavia si è affermato che Amore è la chiave che apre le porte della Verità
più profonda, è necessario capire di quale Amore si sta parlando, Bruno è molto chiaro
nel distinguere subito fra amore eroico e brutale amore. L’amore brutale è quello
puramente animale, finalizzato al piacere nel presente e subordinato alla generazione:
“Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa
medesima è l’orto del paradiso degli animali (...)” 105 . L’amore eroico è quello di
ispirazione divina finalizzato all’infinito e per questo proteso al futuro: “Con questo
dimostra l’amor suo esser veramente eroico, perché si propone per più principal fine la
grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui non si
termina quell’amor c’ha del divino” 106 .
“Il bruto è un vivente che si muove entro un perimetro esistenziale definito,senza mai
neppure concepire il desiderio di superarlo”107 . Gli amori del furioso, eroici e non
puramente animali, invece:
“hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si
comunica all’anime e risplende in quelle; e da quelle poi o, per dir meglio, per
quelle poi si comunica alli corpi; onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la
corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza di spirito” 108 .
Questo passaggio è fondamentale perché Bruno ci fa capire che la differenza tra amore
eroico e animale è radicale in relazione alla finalità e alla consapevolezza di questa,
decisamente meno radicale in relazione al ruolo svolto dal corpo e dai sensi; del resto
104
Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXII.
G. Bruno, Eroici furori, cit., 35.
106
Ivi, 39-40.
107
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, ed. Libreria Cuem, Milano 2001, 186.
108
G. Bruno, Eroici furori, cit., 45.
105
26
che la valorizzazione del corpo e la comunione con la natura siano punti cruciali nel
Nolano lo avevamo già affermato circa la critica mossa a Paolo di Tarso.
“Il divino, sotto forma di bellezza, è dunque alla radice di ogni amore, e più
precisamente: esso è il movente d’amore in quanto a partire dalle, o per meglio dire
attraverso le anime, la bellezza divina si comunica ai corpi, permeandoli e rendendosi
sensibile in quella che ci appare come la loro bellezza corporea, simbolo della bellezza
spirituale. L’amore rettamente orientato è quello che riflette quest’ordine e che quindi si
sofferma sulla bellezza corporea solo per oltrepassarla e coglierne il significato
spirituale. Anche alla luce di questa interpretazione simbolica della dimensione
somatica, resta che il passaggio attraverso il corpo è inevitabile: il corpo è il medium
verso il meta-corporeo e la materia è (...) luogo di una teofania sensibile” 109 . Anche
l’amore spirituale deve valorizzare il corpo e la materia, cogliere in essi il divino e
amarlo, sia che si presenti in armonia di forme, in piacere dei sensi, in logica sublime o
imperscrutabile. “Il corpo è l’immagine viva di dio: adorarlo è riconoscere l’orma di dio
in lui!” 110 .
“Una cosa pare certa: il barbaro è tale perché si ferma al ‘toccare’, alla modalità
somatica dell’unione, meglio, perché vi si sofferma così unilateralmente da non saper
concepire modi ulteriori dell’espressione dell’amore” 111 .
L’amore eroico si protende verso la totalità e la totalità è legata da Amore. Il dio che
lega il tutto, che tutto unisce e vivifica è il dio-spirito Eros; Eros è la Natura stessa, “è
dunque l’energia stessa primordiale che tutto vivifica e muove, attraverso l’intersecarsi
di legami (vincula), che formano la trama di tutto il cosmo (...)” 112 .
Il furioso è l’uomo che si eleva sulla maggior parte degli uomini nello slancio del
proprio intelletto animato da amore-furore. “È appunto questo l’aspetto che più qualifica
il furor eroico-erotico dell’uomo: un’eccezione rispetto alla massa umana, ma, proprio
per questo, secondo Bruno, particolarmente collegabile al filosofo, che sopra i molti
aristocraticamente si leva, ma, come si vedrà, sconta spesso questa levatura, talvolta
perfino con la vita, come del resto accadde a Bruno stesso”113 .
Questo amore-furore è lo slancio dell’intelletto di fronte al limite percepito in sé
innanzi all’illimitato, all’infinito, è quello slancio teso al superamento che trova la sua
forza non più solamente nella ragione, ma nella volontà; è sete del superamento; brama
di avvicinarsi all’oltre, all’infinito; percepirsi limitato e sentire in sé una tensione che
limite non conosce questa è la condizione che rende l’uomo furioso. La conversione
dell’uomo in furioso “è infatti il frutto di un atto della volontà, presuppone un impegno
straordinario del volere” 114 .
“Tansillo. Dice:
1. Chiama per suon di tromba il capitano
Tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna;
Dove s’avvien che per alcun in vano
Udir si faccia, perché pronto vegna,
Qual nemico l’uccide, o a qual insano
Gli dona bando dal suo campo e ‘l sdegna:
109
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 195.
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, Rusconi Libri, 1999, 73.
111
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 194.
112
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 70.
113
Ibidem.
114
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 177.
110
27
Cossì l’alma i dissegni non accolti
Sott’un stendardo o gli vuol morti, o tolti.
(...)
1. Questo capitano è la voluntade umana, che siede in poppa de l’anima , con un
picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenza interiori
contra l’onde degli empiti naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della
determinata elezione, chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le
quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto), o pur gli
effetti di quelle, che son gli contrarii pensieri, de quali altri verso l’una, altri verso
l’altra parte inchinano; e cerca costituirgli tutti sott’un’insegna d’un determinato
fine. (...)” 115
“Il protagonismo della volontà è messo in evidenza da quel ‘piccolo timone’ della
ragione, che è sì indispensabile all’orientamento del naviglio, ma appare esiguo rispetto
alle forze della natura che lo circondano. Il discrimine rappresentato dal lume
intellettuale, pur decisivo nella vicenda di cui Bruno ci sta parlando, opera in un campo
nel quale confluiscono tutte le componenti dell’essere umano, e trae la propria efficacia
dalla forza di volontà che di quel discrimine deve farsi interprete. Il tema stoico del
controllo razionale delle passioni viene qui riproposto secondo una curvatura
volontaristica nettissima e in funzione di un fine che, platonicamente, viene identificato
con la bellezza” 116 .
È questo lo spazio della lotta che l’individuo divenuto furioso si trova ad affrontare,
identificato il fine nella platonica bellezza, nel bello della nuda verità, scopre che il suo
‘piccolo timone’ della ragione non è sufficiente a condurlo a destinazione, si trova
quindi a dover affrontare l’onde degli empiti naturali, le onde delle passioni e a cercare
di cavalcarle. Solo, con una ragione troppo piccola, conosce però il suo obiettivo, e in
eroico tormento ed estasi lotterà, si tenderà per raggiungerlo.
“Il furioso è l’individuo che giunto a un certo punto della propria crescita intellettuale e
spirituale, decide, con una scelta nella quale non può che essere solo, di vivere senza
schermi l’esperienza di quell’infinito che vede tralucere al di là dell’ombra delle cose.
Ma questa è appunto la nascita di un eroe, ‘specchio exemplare’ per quanti vogliano
vivere civilmente il proprio essere uomini” 117 .
La nascita di un eroe, il momento in cui l’uomo diviene consapevole dei suoi limiti e
dell’abisso che sta dietro questi limiti. Il momento in cui l’uomo comincia a desiderare
di superare questi limiti. È un significato questo di ‘eroe’ ben lontano dall’uso comune
moderno di questa parola, è un significato che rimanda agli eroi della antica tragedia
greca che traggono la loro grandezza e la loro immortalità dallo scontro e dalla fusione
con il fato, con gli dei; come l’Antigone di Sofocle o la Medea di Euripide, essi
scelgono, determinano il loro futuro, ma il loro destino è già scritto, paradosso troppo
grande per essere capito, paradosso in cui si vive massimamente l’autentica dimensione
umana e ci si consuma nell’Eros che ci annienta e glorifica: uomini divengono eroi.
Quel che è bene precisare con Bruno, è che l’approdare dell’uomo alla tragica
dimensione dell’eroe non è mai un impulso irrazionale, così come ponderate dalla
ragione e animate dall’amore erano le scelte di un’Antigone o di una Medea, così
“l’<eroico furore> bruniano: esso non sfocia mai nell’irrazionalità, o in posizioni di
carattere mistico o misticheggiante. Tutt’altro: è un’esperienza <estrema> di <umanità>
115
G. Bruno, Eroici furori, cit., 27.
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 177-78.
117
Ivi, 176.
116
28
e una radicale <riforma> del concetto di <ragione> e di <razionalità> in cui si fondono
in modi nuovi intelletto <riformato> e volontà, sotto l’impulso <vincolante>
dell’<impeto> di Amore. <Impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale>: così
appunto Bruno chiama l’<eroico furore> contrapponendolo in modo frontale
all’<impeto irrazionale> del <furore> <ferino> e <insensato>” 118 .
“Tansillo. Poneno, e sono, più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni:
secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità ed impeto irrazionale che tende
al ferino insensato; altri consisteno in una certa divina astrazione per cui dovegnono
alcuni migliori, in fatto, che uomini ordinarii. E questi sono de due specie; perché
altri, per esserno fatti stanza de dei o spiriti divini, dicono ed operano cose mirabile
senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono
promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati ed ignoranti; nelli quali, come
voti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirito
divino. (...)
Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato uno spirito
lucido ed intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale, suscitato dall’amor
della divinitate,della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e
soffio dell’intenzione, acuiscono gli sensi; e nel solfro della cogitativa facultade
accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non
vengono, al fine, a parlar ed operar come vasi ed instrumenti, ma come principali
artefici ed efficienti” 119 .
Posta la iniziale distinzione fra l’amore eroico e l’amore animale-brutale, segue che
questa distinzione divide in eguale modo la pluralità dei furori; per cui vi sono furori
caratterizzati da ‘cecità’, ‘stupidità ed impeto irrazionale’ e furori di ‘divina astrazione’
che portano alcuni ad essere ‘migliori, in fatto, che uomini ordinarii’. Anche
quest’ultima grande categoria di furori può essere suddivisa in due: quelli che ‘come
vasi ed instrumenti’ ‘operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la
raggione’; e quelli che sono ‘principali artefici ed instrumenti’, che uniscono doti
naturali di intelletto, amore e volontà e ‘accendono il lume razionale con cui veggono
più che ordinariamente’.
“(...) gli secondi son essi più degni, più potenti ed efficaci, e son divini. Gli primi
son degni come l’asino che porta li sacramenti; li secondi come una cosa sacra” 120 .
È evidente che il favore di Bruno vada ai secondi e che questi incarnino la figura di eroe
‘specchio exemplare’, rare eccezioni nella moltitudine degli uomini che escono
dall’ordinario. Ma chi siano i primi è un altro discorso, questi semplici ‘vasi’ sono i
profeti ‘passivi’: “Questo discorso rinvia al tema della profezia e alla figura del profeta
o dell’eletto, di cui parlano i miti classici, i libri della Bibbia e di altre religioni,
presentandolo ora come un capo (da Mosè a Salomone) ora invece come un semplice.
La divinità si rende riconoscibile, talora, proprio in quanto sceglie di manifestarsi
attraverso i semplici. Il divino si impossessa dell’idiota precisamente perché tutti lo
ritengono tale: le parole o gli atti di costui appaiono tanto più meravigliosi, quanto più
risultano inattesi. È il profeta passivo, un personaggio che nulla ha a che vedere con il
risoluto e ardente protagonista dell’amore divino ritratto da Bruno
118
Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXX.
G. Bruno, Eroici furori, cit., 42.
120
Ibidem.
119
29
(...)” 121 .
I furiosi del primo tipo sono solo dei ‘vasi’, recettori passivi; i furiosi del secondo tipo
sono esempio dell’eroe furioso protagonista del dialogo bruniano: artefice e causa di
eventi egli stesso.
“Nelli primi si considera e si vede in effetto la divinità; e quella s’admira, adora ed
obbedisce; ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade” 122 .
In questi passaggi si vede come in Bruno permanga forte il senso religioso, il rispetto e
l’adorazione per il divino e come questa sia da intendersi però strettamente legata con
l’eccellenza umana, infatti è un’adorazione che non passa attraverso la possessione
divina, o l’accettazione passiva, ma è l’adorazione del divino attraverso l’esaltazione
dell’umanità, della natura umana, l’orma più marcata di divino sulla terra. L’eroe non è
altro che il testimone di questa umanità. “L’eroe esalta nella propria eccellenza, quella
di tutti gli uomini” 123 .
L’uomo eroico bruniano credo lo si possa definire un cavo teso fra lo stato immediato
della propria natura e un momento ‘oltre’ in cui questa natura è sublimata. “(...) Il
furioso bruniano è un desiderante; contempla qualcosa che non riesce chiaramente a
distinguere, e l’attitudine contemplativa si confonde con la proiezione verso l’oggetto,
lo slancio verso l’oggetto, lo slancio nell’oggetto amato, secondo un’attitudine di
ricerca. (...) È il passaggio dal mero essere nella propria natura, all’essere secondo la
perfezione di questa natura, un essere, quest’ultimo, che consiste più in una tensione che
in uno status” 124 .
Verrebbe da dire che è una vita tra cielo e terra, tra luce e tenebra: che arde nell’ombra.
La tensione e la dimensione eroica nascono dal fatto che nell’uomo non vi sono due
nature, una protesa alle ‘sfere celesti’ e una rivolta alle ‘bassezze terrene’, bensì è la
medesima natura umana che vive le sue passioni nella contrarietà, una contrarietà
congenita all’uomo.
Non si tratta di mettere a tacere un ‘lato’ di una disposizione duplice, ma di
comprendersi in questa contrarietà e di vivere nella caccia dei contrari, il desiderio
stesso nasce e si sostenta nei contrari 125 .
“ Vogliono gli platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista
nell’intelletto, dove ha raggione d’intelligenza più che de anima; atteso che anima è
nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che
nodrisce e mantiene li pensieri in alto, insieme col magnificato cuore se induce dalla
parte inferiore contristarsi e richiamar quelli come ribelli.
Cicada. Sì che non sono due essenze contrarie, ma una soggetta a doi termini di
contrarietade?
Tansillo. Cossì è a punto. Come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra ed è
gionto a cose inferiori ed oscure, che illustra, vivifica ed accende; indi è gionto a
121
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 201-2.
G. Bruno, Eroici furori, cit., 42.
123
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 203.
124
Ivi, 204.
125
Bruno cita a proposito del desiderio un sonetto di Iamblico che voglio in parte qui riportare:
“E colmo di desio al ciel arrivo:/talché soggetto a doi contrarii eterno,/Bandito son dal cielo e da
l’inferno./ Non han mie pene tregua./Perché in mezzo di due scorrenti ruote,/de quai qua l’una, là l’altra
mi scuote […]”
Tratto da: . Bruno, Eroici furori, cit., 37.
122
30
l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso ed in cui
ha propria originale sussistenza; cossì l’anima che è nell’orizonte della natura
corporea ed incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori ed inchine a cose
inferiori” 126 .
Questa tensione negli opposti è caratteristica dell’uomo ma non solo dell’uomo, è ciò
che lega ogni natura alla Natura, ogni elemento nel tutto, ogni Uno nel Tutto. In questo
‘inseguirsi’ dei contrari l’uomo-eroe sta tra l’uomo e il divino perché unisce in sé
l’elemento animale e quello intellettuale.
“Cicada. È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose
divine, meritamente discende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli
divini gradi; e che son tre gradi di intelligenze: perché son altre nelle quali
l’intellettuale supera l’animale, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle
quali l’animale supera l’intellettuale, quali sono le intelligenze umane; altre sono
nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi” 127 .
Quello che mi preme di sottolineare è che l’ eroe che leggendo queste righe sembra
essere ‘altro’ dall’intelligenza umana è, nell’ottica di Bruno, la piena realizzazione
dell’umanitade, come in precedenza abbiamo già notato; “assume cioè l’attitudine
intellettuale e affettiva, che lo pone al vertice dei gradi di perfezione propri della sua
specie di appartenenza” 128 .È questa una differenziazione legata al ‘levarsi sopra la
moltitudine degli uomini’ da parte dell’eroe che si protende nel divino, ma è bene
ricordare che l’Uomo è fatto a immagine e somiglianza del divino e pertanto è dovere
dell’uomo, l’eroe bruniano ci incalza, illuminare questa somiglianza con dio, troppo
spesso dimenticata e mortificata.
“Cicada. Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi
per forza del riformato intelletto e voluntade.
Tansillo. Cossì è. (...)” 129
Il momento ultimo della tensione, della ricerca, dell’eroe furioso è la contemplazione
del divino, il momento estatico in cui di fronte agli occhi si mostra la nuda verità.
Giordano Bruno per descriverci questo passaggio circa l’oggetto ultimo dell’amor
eroico, si rifà al mito di Atteone, cacciatore che inseguendo la sua preda, si trova
innanzi alla dea della caccia: Diana, nuda mentre sta bagnandosi, la quale lo trasforma
in cervo: oggetto a sua volta di caccia, il cacciatore divenuto preda, è sbranato dai suoi
stessi cani. È l’epilogo tragico della caccia all’incommensurabile, Atteone rappresenta
colui che ricerca il divino e la nuda verità. “Atteone significa l’intelletto intento alla
caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina” 130 .
“Nella propria caccia, come sappiamo, il furioso – per usare un verbo dantesco – si
‘india’: la sua mente diventa un dio, attinge alla divinità” 131 .
Il suo amore che lo ha sospinto nella ricerca, lo trasforma e converte nella cosa
amata 132 .
126
G. Bruno, Eroici furori, cit., 63-4.
Ivi, 64.
128
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 225.
129
G. Bruno, Eroici furori, cit., 55.
130
G. Bruno, Eroici furori, cit., 53.
131
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 214.
127
31
“Se l’eroe è l’uomo che sa promuovere al massimo grado la propria partecipazione
all’intelligibile, egli è anche inevitabilmente, colui il quale più degli altri sa rendersi
divino. Perciò l’eroe è anche colui che chiude il cerchio di quella ruota che
dall’Uno/Tutto si articola nel molteplice infinito, per tornare infine alla propria
unità” 133 .
“Vedde il gran cacciator: comprese, quanto è possibile e dovenne caccia: andava per
predare e rimase preda questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui
converte le cose apprese in sé.
(...) e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri medesimo venea ad essere la
bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercar fuor
di sé la divinità” 134 .
Quando il furioso, il cacciatore della verità, vede la sua preda si riconosce parte di essa,
l’uomo si riconosce parte del tutto, del divino, e i suoi cani, che rappresentano intelletto
e volontà 135 smettono una caccia ‘esterna’ e puntano al cacciatore stesso, all’interiorità.
Questo perché il divino è nell’uomo e l’uomo è parte del tutto divino. La caccia di
Atteone qualora abbia successo, ed è rarissima questa eventualità, è necessariamente
destinata all’inversione dei ruoli per cui il cacciator diviene caccia. Infatti questa
inversione di ruoli è il passaggio da un oggetto di caccia determinato, limitato e
possedibile ad una preda, Diana, immagine terrena, specchio, di Apollo, di Dio,
indeterminata, illimitata e, non solo non possedibile per il limitato e determinato
cacciatore, ma essa stessa possidente di tutte le cose sulla terra, incluso il cacciatore
stesso che, comprendendo per quanto possibile questa nuda verità non può che
riconoscersi preda.
“Non si tratta più di <cattivare a sé l’altre cosa>, come fa il cacciatore (anche
metaforico: il cercatore della verità): in questa <divina e universale> venagione, il
furente cacciatore d’infinito <viene talmente ad apprendere che resta necessariamente
ancora compreso, assorbito, unito>. Come si esprime Bruno (De gli eroici furori, parte
II, dialogo I, in fine): <L’ingegno umano (…) in un subito talvolta si trova ingolfato
nell’abisso dell’eccellenza incomprensibile; onde il senso ed immaginazione vien
confusa e assorbita, che, non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né dove voltarsi,
svanisce e perde l’esser suo; non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare,
o picciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere spacioso ed
immenso>; e il naufragar gli è dolce in questo mare!” 136 .
“Nel 1819 Giacomo Leopardi avrebbe concluso il suo Infinito con questi versi: ‘ (...)
Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo
mare’. Il naufragio leopardiano ha in comune con quello bruniano il senso dell’infinito e
della mutazione, che il contatto con l’infinito comporta per il finito, sino al superamento
o alla perdita del sé” 137 .
132
Cfr. G. Bruno, Eroici furori, cit., 54.
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 214-15.
134
G. Bruno, Eroici furori, cit., pp. 54-55.
135
“Costui slaccia i mastini e i veltri. De quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de
l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa ed efficace che quella […]”.
Ivi, 53.
136
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 76-7.
137
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 241.
133
32
Tentare di abbracciare con la conoscenza la totalità, è una tensione all’infinito, questa
tensione è il superamento del limite, il superamento del limite è accostare la propria
determinazione, finitezza e vita all’indeterminato tutto, al punto da fondersi in questo,
come le ali di un Icaro si sciolgono quando si avvicina al sole.
“(...) il sole, la <face> metafisica, non possono essere contemplati dall’intelletto, senza
che questo venga disintegrato, assieme al suo portatore” 138 .
Questo slancio finale che rende l’uomo eroe furioso è il tentativo di comprensione
dell’incomprensibile ossimoro Uno/Tutto e del suo moto che concorre con la quiete, del
suo tempo circolare.
Non ‘prensione’ con il pensiero ma intuizione, una visione ultima che è diversa da
quella degli occhi, l’uomo resta sempre cieco di fronte alla totalità del vero, anche
Atteone vede Diana, specchio di Apollo, non Apollo stesso, la sua visione è tanto più
‘nuda’ quanto più divino saprà cogliere nella natura intorno a sé e in sé, ma Il divino
Uno e Tutto non è vedibile. Non è dato possedere ‘in sostanza la verità’, e ‘indiarsi’
significa espandere il divino in sé, ma non divenire dio; pena il completo annullamento
del sé nella totalità, nel dio stesso.
“Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella
fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi
caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il
cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose , assorbendo quelle con la bocca de
l’intelligenza propria; ma in quella divina ed universale viene talmente ad
apprendere che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito.
(...)
Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vòrano questo Atteone, facendolo morto al
volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal
carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua
Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto
l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e
numeri, che secondo la diversità de sensi, come de diverse rime fanno veder ed
apprendere in confusione. Vede l’Anfitrite 139 , il fonte de tutti i numeri, de tutte
specie, de tutte raggioni, che è la monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non
la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile,
che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa
monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia, come il
sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle
sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente
che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole
ed il splendor della natura superiore, secondo che la unità è destinta nella generata e
generante, o producente e prodotta” 140 .
“<Morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal
carnal carcere della materia>, diventato <tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizzonte>,
Atteone <vede l’Anfitrite, il fonte de tutti i numeri, de tutte specie, de tutte ragioni>,
vede la <monade>, la vera essenza de l’essere de tutti>. E questa è la sua grandezza.
Non la vede in <sua essenza, in absoluta luce>, la vede <nella sua genitura che gli è
simile, che è la sua immagine>: e questo è il <limite> in cui egli strutturalmente resta.
138
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 82.
È usata dai poeti latini, è una ninfa, sposa di Poseidone, e simboleggia l’oceano e quindi
l’indeterminato/senza fine.
140
G. Bruno, Eroici furori, cit., 127-28.
139
33
Ma Atteone, infine, vede. Non vede Apollo, vede Diana, non vede la natura producente,
vede la natura prodotta, non vede la natura generante, vede quella generata. Vede
l’universo, l’ombra, il simulacro, lo specchio del <primo principio>. Ma oltre i numeri e
le distinzioni, egli coglie l’unità, gode dell’unità. E qui sta la sua felicità.
Dal punto di vista di Dio – del <semplicissimo ed individuo principio> - la
<sproporzione> fra ente e accidente, fra tempo ed eternità, uomo e Dio, resta dunque
intatta” 141 .
Questa <sproporzione> tra uomo e Dio, fra determinato e infinito è per l’appunto
l’insanabile dimensione eroica.
Atteone vede a tutto occhio l’aspetto de tutto l’orizzonte, ma è l’orizzonte dell’ombra,
dello specchio, del limite: è un affacciarsi all’abisso dell’<absoluta veritate>
dell’universo.
“Di questo universo è simbolo la Diana che Atteone sorprende e in cui si perde, perché
lì l’eroe – addestratosi con la logica e la filosofia della natura – si affaccia sul ‘fonte’
della verità, su un’unità che nella sua originaria, divina, perfettamente semplice
espressione sta oltre la logica dei distinti e che si situa ai confini del tempo e della
vicissitudine. La ‘absoluta veritate’ è infatti il senso e il fine della vicissitudine e non
viceversa (...)” 142 .
Così l’uomo entra definitivamente nella dimensione eroica quando comprende di essere
parte dell’Uno/Tutto, comprende di avere in sé il divino e tuttavia che Dio sarà sempre
irraggiungibile ed ‘invisibile’, quando comprende anche di essere parte dell’eterno ciclo
della vicissitudine, quando comprende di comprendere sempre in maniera limitata; entra
definitivamente nella dimensione eroica quando matura la consapevolezza della sua
autentica natura, del conflitto insanabile che glorifica la sua specie; si affaccia su questo
abisso di comprensione e in esso si specchia.
“L’ombra, lo specchio, il simulacro non riduce la <sproporzione> fra ente e accidente,
tempo ed eternità, fra Dio e uomo: ma scandendone i caratteri e le forme si costituisce –
e non è poco – come il terreno, nell’infinito di una <comunicazione>, di un <vincolo>
che riscatta al massimo, senza mai annientarlo, il <limite> dell’uomo” 143 .
L’eroe, Atteone, vede in sé e nella natura solo lo specchio del divino, ma ad ogni modo
vede: “la sua visione è quella del ‘filosofo’, perché è preparata, come s’è detto, dallo
studio che dispone all’ ‘apprensione’, all’apprendimento, e perfezionata dal comunicarsi
del divino, dal concedersi di quest’ultimo con atto istantaneo e immediato; non è la
visione dell’ ‘ignorante’
- del profeta passivo – che non cerca, e a cui pure Dio può manifestarsi in modo
ugualmente istantaneo e immediato. La visione dell’eroe corrisponde non all’attitudine
sporadica e eccezionale del Dio che decide di mostrarsi, ma a quella inscritta nell’ordine
fisso delle cose, del Dio che vuole essere cercato.
Ma soprattutto, questa visione è al tempo stesso un sublime accecamento” 144 .
La cecità degli occhi come tramite di un’illuminazione della mente è un’allegoria
diffusa nella letteratura, Bruno costruisce su di essa il quarto e il quinto dialogo della
seconda e ultima parte degli Eroici furori.
141
Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXXIII.
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 244.
143
Introduzione di Michele Ciliberto a Eroici furori,cit., XXXV.
144
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 245.
142
34
“ Severino. Vedrete dunque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove
principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa
generale d’un comun furore” 145 .
Vengono infatti introdotti nove personaggi resi ciechi dalla maga Circe a causa dei loro
furori. Del resto si usa dire ‘accecato dall’amore’, e il furore eroico, lo abbiamo detto, è
amore; inoltre essere accecati può essere conseguenza della troppa luce, metafora questa
di Dio e della somma verità.
“E ancora: la cecità è causata dalle lacrime con cui l’uomo tanto più inarrestabilmente
piange la debolezza delle proprie facoltà quanto più forte è l’impulso verso la
perfezione; o dall’inaridirsi dei suoi occhi, per le troppe lacrime versate al constatare la
sproporzione tra la nostra natura e quella del divino” 146 .
L’accecamento è anche una punizione che la maestà divina infligge a chi ha voluto
guardare troppo in alto, peccando quindi di ùbris, l’accecamento è la punizione che si
auto infligge Edipo, nella tragedia di Sofocle, per essersi reso conto di non aver saputo
riconoscere la verità sulla terra, davanti ai suoi occhi.
Negli Eroici furori colei che rende ciechi è Circe, seconda immagine femminile dopo
Diana che incarna la Natura, e in entrambi i casi, l’uomo innanzi alla Natura è
trasformato.
“Circe, essa è dunque la trasparente allegoria della Natura, in cui il divino (<padre de le
forme>) si rispecchia adombrandosi. Nella materia/natura vige l’incantesimo della
perpetua trasmutazione, in cui, come si sa ormai benissimo, per Bruno, l’uomo,
effimero, transeunte, limitato, è come cieco nei confronti dell’illimitato e
incommensurabile divino, perché non lo può cogliere com’è, all’interno del
divenire” 147 .
Circe rende ciechi i suoi ‘amanti’, ma dona loro un ‘vase fatale’, che altro non è che la
possibilità di una nuova visione, quella unitaria della ‘genitura’ divina. Ma questa
visione diretta, l’apertura del vaso fatale, non è possibile, o quasi: una speranza è data
all’uomo furioso:
“ Perché vuol il destin che discoperto
Mai vegna, se non quando alta saggezza
E nobil castità giunte a bellezza
V’applicaran le mani;
D’altri i studi son vani
Per far questo liquor al ciel aperto.
Allor s’avvien ch’aspergan le man belle
Chiunque a lor per remedio s’avicina,
Provar potrete la virtù divina
Ch’amirabil contento
Cangiando il rio tormento,
Vedrete due più vaghe al mondo stelle” 148 .
In conclusione, la visione delle due più vaghe stelle, la bellezza e la bontà divina, pare
essere un momento rimandato a tempo indeterminato, ma non vi sono altre vie di
ricerca, altri studi son vani, che l’apprendimento di un’alta saggezza che miri al Bello, e
145
G. Bruno, Eroici furori, cit., 138.
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 246.
147
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 91.
148
G. Bruno, Eroici furori, cit., 152.
146
35
che non dimentichi le opere e la corporeità, per questo si aplicaran le mani, le man
belle, di modo tale che la condizione dell’amante, del furioso sia sì un tormento ma che
si cangia in contento, in virtù della speranza e della bellezza dell’oggetto della sua
ricerca.
È lecito chiedersi quale sia il significato di questa posizione ‘finale’ di Circe e dei suoi
nove ciechi, dopo il mito di Diana ed Atteone; Luciano Parinetto suggerisce che sia “un
passaggio dalla risoluzione puramente personale, soggettiva del rapporto del singolo col
divino ad una mediazione della materia/natura che si interpone tra singolo e divino,
forse nell’intento di graduarne il rapporto e di evitarne la disintegrazione, sia pure
eroica” 149 .A parere di chi scrive, per quanto sia vero che la natura/Circe non disintegri
il suo amante come aveva fatto la natura/Diana, il ruolo di mediazione e interposizione
tra singolo e divino è comune ad entrambe le figure, sono, lo si è già detto, entrambi
specchi e ombre di una visione diretta. Quello che invece è interessante notare, insieme
con Luciano Parinetto è il passaggio da una dimensione intima e solitaria
dell’esperienza eroica ad una più collettiva: dal singolo Atteone ai nove ciechi.
“Il rapporto solitario/eroico, eccezionale, di Atteone con Diana qui si è mutato nel
rapporto dei nove ciechi con Circe: un rapporto con l’Uno, mediato dalla dialetticamagica Natura, che, dunque, non è più quello del singolo col tutto, ma di un gruppo
intersoggettivo col tutto. Qui assieme alla natura, riappare la società; il singolo non è
più segregato dal collettivo, ma ad esso collegato” 150 .
Questo passaggio, da Atteone a Circe, dal singolo soggetto che si dissolve nella divinità
ad una collettività che ha da peregrinare per il mondo cercando tutti i numerosi
regni 151 nella sua ricerca della bellezza divina, sembra essere una sottolineatura della
portata etico/politica del messaggio riformatore del furioso, dell’uomo eroico come
modello di prassi nella società.
“Un orientamento alla positiva valutazione dell’attivo intervento nel mondo: apertura
sulla prassi, sulla riforma, certamente da furente, ma non da furente tolto nel divino, che
ne cancelli la prassi mondana. Bruno, con la presentazione di Circe, pare che assuma le
vesti di chi, in nome del legame coll’infinito, non prescinda tuttavia dal finito, ma anzi
voglia dar mano a mutarlo. E qui, a mio parere, si colloca anche l’utopia di Bruno:che
nella vicissitudine cieca delle cose e della natura inserisce il consaputo divenire e
mutare dell’uomo: una rivoluzione cosciente nella rivoluzione inconscia” 152 .
“Nei nove ciechi si compendia la condizione dell’umanità, nei suoi limiti e nella sua
eccellenza” 153 .L’eroe, il furioso, afferma la dignità di questa dimensione, sino al
tormento e all’estasi della divinizzazione, lo fa attraverso una avventura solitaria e
intima, rinunciando completamente al compiacimento e all’approvazione della
moltitudine, ma avendo sempre in mente la condizione della moltitudine e ponendosi
consapevolmente innanzi ad essa come esempio e modello di prassi.
149
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 96.
Ivi, 96-7.
151
“[…] – O curiosi ingegni,
Prendete un altro mio vaso fatale,
Che mia mano medesma aprir non vale;
Per largo e per profondo
Peregrinate il mondo,
Cercate tutti i numerosi regni […]”
G. Bruno, Eroici furori, cit., 152.
152
Luciano Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno, cit., 98.
153
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 247.
150
36
“All’eroismo si perviene da soli, attingendo a tutte le forze di cui si è stati dotati per
tentare di realizzare in sé quella “similitudine” del divino, che segna l’aprirsi dello
sguardo dell’uomo sulla dimensione dell’intelligibile e che è quindi una sorta di
apoteosi dell’umano. Questa apoteosi, culmine di un’esperienza assolutamente
individuale, è la condizione perché la specie mantenga il rapporto con la fonte del bene
e perché il bene e la verità possano quindi diffondersi tra gli uomini nella forma della
civilitas” 154 .
L’eroe si trova faccia a faccia con l’ineluttabilità del fato e tuttavia legittima ed esorta
l’Uomo all’autoaffermazione, alla lotta per la determinazione della sua dignità, a
discapito di qualsiasi forma di rassegnazione o di qualsiasi passiva attesa. L’azione, la
praxis terrena è l’arena per la morale del furioso, all’opposto della iustitia sola fide di
Lutero, la giustizia universale sta nell’affermarsi dell’uomo nel suo operare, il suo
dovere è, riconosciutosi parte dell’Uno/Tutto, operare nel ciclo vicissitudinale di questo.
Il furente degli Eroici furori ha un compito che non è più singolo-soggettivo, ma si
inserisce nel disegno cosmico di riforma del mondo; se la meta del furioso è oltre il
mondo, il suo ruolo si gioca nel mondo; se la sua ambita preda è l’Uno-divino, la sua
caccia si muove nella moltitudine, fra gli uomini. In virtù di questa caccia gli uomini
“non formalmente son dèi, ma denominativamente divini, rimanendo la divinità e divina
bellezza una et esaltata sopra le cose tutte” 155 .
“Il divino non è il termine di un percorso rettilineo, è invece il luogo di un’esplorazione
che non può finire; non è il più puro e il più alto oggetto della conoscenza,” – perché
non è mai pienamente conoscibile – “è piuttosto l’oggetto dell’amore e il mare nel quale
tornare ad immergersi, in un’esperienza di vita senza eguali”. – Il divino è oggetto
d’amore sul piano del ‘terreno’, vedere la sua immagine, la sua orma, nelle cose del
mondo è scoprire il mare dell’infinito in cui immergersi per levare la propria esperienza
di vita oltre l’ordinario. – “Al di là del vero, platonicamente, il bene. (...) Da un lato, al
centro dell’esperienza del furioso sta una figura tipica della modernità, quella lo si è
detto, dell’individuo, che qui acquista una prepotente consistenza morale (...). Dall’altro
lato, l’avventura umana dell’eroe interessa l’intera specie, cui l’eroe appartiene (...)” 156 .
“ Or benché sappiam vana ogni speranza,
Cedemo al destin nostro e siam contenti
Di non ritrarci da penosi stenti,
E mai fermando i passi
(Benché trepidi e lassi),
Languir tutta la vita che n’avanza” 157 .
154
155
156
157
Ivi, 248.
G. Bruno, Eroici furori, cit., 147.
Guido Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., 250-51.
G. Bruno, Eroici furori, cit., 153.
37
CAPITOLO TERZO.
L’Oltreuomo di Friedrich Nietzsche.
“Il futuro e ciò che sta in remota lontananza sia la causa del tuo oggi:
nel tuo amico devi amare il superuomo come causa di te
Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio:
io vi consiglio l’amore del remoto”.
(F. Nietzsche) 158
Nel precedente capitolo si è detto che gli Eroici furori di Giordano Bruno prendevano
le mosse dalla volontà dell’autore di mostrare la possibilità e l’esigenza per l’uomo di
superare la sua condizione, che fino a quel momento nella sua forma più elevata era
incarnata dal sapiente, per divenire, nello slancio del furore, un uomo nuovo: l’eroe.
Nietzsche pare mosso dalla stessa volontà quando fra il 1883 e il 1885 fa pubblicare il
suo Così parlò Zarathustra, in cui per la prima volta fa la sua apparizione pubblica, per
l’appunto, Zarathustra, che si rivolge al popolo con queste prime parole:
“Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete
fatto per superarlo?” 159 .
Come dire: uomini ci siete nati, l’uomo di natura è manchevole e imperfetto, quello che
avete fatto fino ad ora per migliorarvi non è ancora abbastanza, è il momento che
impariate ad essere ‘umani’in un modo più nobile, nuovo: oltre-uomini, superuomini 160 .
158
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 68.
Ivi, 5.
160
Il termine adottato da Nietzsche è Uebermensch, tradotto nella maggior parte dei testi in italiano con
‘Superuomo’ e in questa traduzione diventato noto ai più. La parola potrebbe essere stata suggerita a
Nietzsche dal poeta del II sec. a.C. Luciano, che troviamo citato nei suoi appunti; Luciano adoperava la
parola hyperantropos; tuttavia la parola ‘uebermensch’ la ritroviamo anche fra i tedeschi già dal 1600
con H. Muller, passando per J. G. Herder, fino a Goethe, stimatissimo da Nietzsche, che la adopera in una
poesia (Zueignung) e nel ‘Faust’ (parte I, verso 490).
Ad ogni modo, d’ora in avanti mi servirò di due traduzioni diverse del termine: la prima, Superuomo, la
seconda che io preferisco, Oltreuomo. Quest’ultima è adoperata da Gianni Vattimo, che la introduce nel
suo Il soggetto e la maschera (Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione.
Milano 1983); “per marcare la differenza tra questa umanità sognata da Nietzsche e l’uomo della
tradizione precedente; l’oltreuomo non è un potenziamento dell’umanità del passato”. (Queste parole
Vattimo le scrive in. Introduzione a Nietzsche, opera cit., 71). D’accordo con questa distinzione di
Gianni Vattimo, preferisco ‘Oltreuomo’ anche perché più distante dall’inglese ‘Superman’, che nel
contesto contemporaneo suggerisce rimandi fuorvianti a modelli direi ‘cinematografici’ di uomini con
‘innati super poteri’, ben diversi dalla dimensione ‘ultra umana’, cioè estremamente umana, e dalla
prospettiva di crescita dell’uomo ‘nicciano’. Tuttavia, proprio perché un chiarimento è possibile ed anche
poiché da un punto di vista prettamente linguistico credo sia più corretto ‘Superuomo’, non sarà per me
un problema d’ora in avanti adoperare entrambe le traduzioni. In particolare poiché nelle citazioni sarà
sempre ‘Superuomo’ perché questo il termine usato nell’edizione dell’opera di riferimento, per non creare
159
38
“Ancora non è esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l’uomo più grande e
il più meschino: - Sono ancora troppo simili l’uno all’altro. In verità anche il più grande
io l’ho trovato – troppo umano!” 161 .
Possibile che nessuno si sia superato? Che nessuno tra gli uomini, neppure tra i grandi
uomini che Nietzsche ha ammirato: Eraclito, Empedocle, Platone, Spinoza, Goethe, sia
stato superuomo? Forse che in loro la ricerca non si è spinta abbastanza ‘oltre’, non ha
osato abbastanza? Forse. Oppure la giusta interpretazione di questo passo è un invito a
superarsi sempre e comunque, perché la natura propria dell’uomo è l’acquisizione di
conoscenza, la ricerca, e a questa non è dato un limite? Un viaggio, quello dell’uomo
che ricerca, che non arriva mai a destinazione, la mente e lo spirito si elevano, ma mai
abbastanza in alto da poter vedere il tutto. Anche il migliore esempio tra gli uomini che
hanno camminato sulla terra sarà sempre “troppo umano!”; per condurci verso l’infinito,
verso la comprensione del ‘tutto’, serve una guida ‘oltre l’uomo’.
Oltre. Oltre ogni bassezza umana, ma anche oltre ogni consueta altezza umana; al di là
di ogni cosa, di ogni aspetto della vita, di ogni concetto, di ogni risultato… l’oltreuomo
è il persistere nella tensione al superamento. L’uomo stesso è un qualcosa che deve
essere superato.
“I più preoccupati si chiedono oggi: <come può sopravvivere l’uomo?>. Zarathustra
invece chiede, primo ed unico: < come può essere superato l’uomo?>” 162 .
Non è questo più di ogni altro un invito alla ricerca, alla domanda, ad un’esperienza di
vita nella ‘tensione amorosa ed eroica’ verso l’oltre?
Da sempre, poeti, artisti, religiosi e filosofi hanno guardato alla condizione umana
come affannata alla ricerca di un significato, di risposte alle sue domande, da sempre
l’uomo si è sentito straziato fra tensioni opposte: cielo e terra, anima e corpo, ragione e
sentimento, bene e male, il divino ed eterno e il bestiale e mortale dentro di sé. Questa
tensione distingue l’animale-uomo dal mero animale, che inconsapevole porta avanti i
suoi giorni, soddisfa i suoi appetiti per mero istinto di sopravvivenza; ma quando
l’uomo raggiunge la consapevolezza di questa distinzione dalla mera bestialità,
raggiunge anche la consapevolezza di essere limitato di fronte all’illimitato, si rende
conto di essere finito di fronte all’infinito, imperfetto innanzi alla perfezione e che le
sue azioni sono sempre costrette in questa imperfezione.
Agli uomini che sono giunti a questa prima consapevolezza, diventando già uomini
superiori rispetto agli inconsapevoli, dice Zarathustra:
“E anche se qualcosa di grande vi è riuscito male, siete voi per questo – malriusciti?
E se voi siete malriusciti, è riuscito male per questo – l’uomo? Ma se l’uomo è
malriuscito: ebbene! Coraggio!
Una cosa riesce tanto più raramente quanto più alta ne è la specie. Voi, uomini
superiori, non siete tutti – malriusciti?
un inutile confusione anch’io adotterò per lo più ‘superuomo’ nello svolgimento del capitolo, mentre in
alcuni punti e soprattutto nel titolo rimane ‘Oltreuomo’ per la preferenza di cui sopra.
161
162
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 103.
Ivi, 334.
39
Fatevi animo, che importa! Quante cose sono ancora possibili! Imparate a ridere di
voi stessi come si deve!
E che c’è da meravigliarsi se voi siete malriusciti e mezzo-riusciti, voi mezzoinfranti! Non urge, non spinge in voi il futuro dell’uomo?
Ciò che per l’uomo è più lontano, profondo, eccelso come le stelle, la sua
forza immensa: non spumeggia tutto questo in contraddizione nella vostra
pentola?” 163 .
Dunque l’uomo superiore di fronte alla contraddizione, alla consapevolezza del proprio
limite, non si deve scoraggiare, ma anzi farsi coraggio e pensare alla possibilità, (quante
cose sono ancora possibili), di riuscita della specie. In altre parole, la perfezione e il
superamento del limite sono visti come una possibilità per la specie umana, con questo
obiettivo, il singolo deve condurre la sua ricerca, la sua lotta eroica nelle contraddizioni.
E nelle contraddizioni risiede la massima forza dell’amore:
“Zarathustra non ha trovato una potenza maggiore delle opere degli amanti: ‘bene’ e
‘male’ è il loro nome” 164 .
“<L’uomo deve diventare migliore e peggiore> - così insegno io” 165 .
L’uomo superiore, mezzo infranto è spinto alla sua azione individuale dalla possibilità
dell’universale, dall’amore per la totalità della specie cui appartiene: non urge, non
spinge il futuro dell’uomo?
L’uomo superiore non si deve arrestare nella sua ricerca della verità qualora si renda
conto di non riuscire a raggiungerne l’oggetto: il superuomo, perché la sua ricerca della
verità si realizza nel tentativo di divenire Oltreuomo. Il primo obiettivo della ricerca è il
tentativo stesso e il primo passo sulla strada per divenire Oltreuomo è proprio la
continua ricerca dell’ ‘oltre’; l’amore per l’ ‘oltre’ è un’amore che non vuole essere
ricambiato.
“Ogni grande amore non vuole amore: - vuole di più!” 166 .
L’amore ha un ruolo chiave nella tensione al superamento, nella ricerca della verità, non
è un tema evidente e preponderante in Zarathustra come negli ‘Eroici furori’ del Bruno,
ma egualmente vi gioca una partita essenziale, e trova una delle sue principali
rappresentazioni nel ruolo dell’amore dell’amico, contrapposto all’amore del prossimo.
“Io non vi insegno il prossimo, bensì l’amico. L’amico sia per voi la festa della terra e
un presentimento del superuomo”. 167
Il cristiano ‘amore del prossimo’ non è altro il cattivo amore per se stessi 168 , mentre
l’amore
163
Ivi, 340-341.
Ivi, 66.
165
Ivi, 335.
166
Ivi, 341.
167
Ivi, 68.
168
“Voi vi affollate attorno al prossimo e avete belle parole per questo vostro affollarvi. Ma io vi dico: il
vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi”.
Ivi, 67.
164
40
per l’amico è l’amore per uno ‘specchio’ nel quale si trova un mondo compiuto 169 .
Nell’amico puoi specchiarti inserito nel mondo, nell’amico ami te stesso nel mondo, nel
prossimo ami l’altro.
Nell’amico ami il remoto: cercando di vedere in lui il superuomo, questo diventa il
modello che causa te stesso, l’amico diventa un ponte sulla strada verso il superuomo.
“Il futuro e ciò che sta in remota lontananza sia la causa del tuo oggi: nel tuo amico devi
amare il superuomo come causa di te.
Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio: io vi consiglio l’amore del remoto” 170 .
Un amore per uno ‘specchio’ era l’amore per Diana specchio di Apollo, per l’eroe di
Bruno, in cui l’eroe giungeva ad amare se stesso nel protendersi al divino; così nell’
‘amico’ Zarathustra ci insegna ad amare il remoto, il riflesso del Superuomo, perché
questo significa giungere ad amare se stessi protendendosi al superamento.
“L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un
abisso.
Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi
indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.
La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può
amare che egli sia una transizione e un tramonto.
Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono
una transizione.
Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini
della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva.
Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per
tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un
giorno la terra sia del superuomo.
Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un
giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto.
(...)
Io amo colui che della sua virtù fa un’inclinazione e un destino funesto: così
egli vuole vivere, e insieme non più vivere per amore della sua virtù.
(...)
Io amo colui del quale l’anima si dissipa (...)
Io amo colui che giustifica gli uomini dell’avvenire e redime quelli del
passato: a causa degli uomini del presente egli infatti vuole perire.
(...)
Io amo colui che castiga il suo dio perché ama il suo dio: giacché egli dovrà
perire per l’ira del suo dio.(...)
Io amo colui del quale l’anima trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le
cose sono dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto”171 .
169
“Io vi insegno l’amico nel quale il mondo si trova compiuto, una coppa del bene – l’amico che crea ha
sempre da donare un mondo compiuto.
E come il mondo ruotando si è dispiegato per lui, così pure ruotando tornerà ad avvolgersi in anelli per
lui, in quanto divenire del bene mediante il male, divenire degli scopi della casualità”.
Ivi, 68.
170
Ibidem.
171
Ivi, 8-9.
41
Questa lunga citazione tratta dal prologo di Zarathustra oltre a elencare una serie di
caratteristiche proprie dell’uomo che ricerca e che ambisce al superamento, ha lo scopo
di ribadire la centralità dell’amore per la condizione del superuomo, colui che ama
infatti è Zarathustra stesso. Ciò che ama è l’uomo teso al superuomo, che altro non è che
l’uomo nella sua dimensione autentica, appunto quella di cavo teso tra bestia e
superuomo, dall’essere un ponte, da qui nasce la sua grandezza, il suo eroismo. Ama
coloro che non hanno bisogno di vedere l’invisibile per anelare al superamento, non chi
aspetta passivamente di vedere dietro alle stelle, ma chi agisce sulla terra, chi guarda
sulla terra e sulla terra consuma il suo amore si sacrifica in virtù di un superamento
che in sé non sarà ancora perfettamente compiuto ma di certo rappresenta un passo
avanti sulla strada del superuomo per la specie. Egli infatti guarda al futuro, con
attenzione agli errori del passato e con lo sdegno della situazione presente.
Colui che vive per il superuomo è colui che vive per la conoscenza. Colui che vive per
la conoscenza è colui che ama nei contrasti , colui che diviene consapevole e si
riconosce parte del tutto e della vicissitudine, e per questo vuole sì vivere, ma anche
ricongiungersi al tutto e alla vicissitudine, dissipare la sua anima, dimentico di se
stesso, perché tutte le cose sono comprese in lui e lui in queste tramonta. Come
Atteone, la sua fine è essere sbranato dall’oggetto della sua caccia che potremo
chiamare dio, perché dio è la risposta: tutte le cose divengono il suo tramonto; e la
caccia è desiderio e castigo insieme di quel dio che infine lo costringe a perire.
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso.
Nietzsche ha visto in questa tensione di opposti “la condizione ontologica” dell’uomo.
La condizione umana è di essere ‘tesi’ tra due poli, uno verso il basso e uno verso l’alto,
la ricerca è il movimento che solleva.
Il cavo a cui ‘aggrapparsi’ è l’uomo stesso, lo sguardo rivolto a se stesso, l’amore per se
stesso, che passa attraverso l’amore riflesso nell’altro. Senza aggrapparsi a questo cavo
si cade nell’abisso della pigrizia, in un’oziosa e inconsapevole vita da animale, nel
gregge della moltitudine.
Il messaggio di Zarathustra è un’esortazione all’impegno attivo e critico dell’individuo,
egli non cerca ‘fedeli’, non vuole essere ‘pastore’ di un gregge, di una moltitudine,
all’opposto vuole sì parlare a molti, ai più possibile, ma parlando ad ognuno e
‘scuotendo’ i singoli affinché essi stessi a loro volta diventino ‘creatori’, consapevoli di
sé.
Sulla via della prassi e lontano da ozio, passività e abissi di vaneggiamenti si deve
spingere l’uomo, lontano dal gregge ‘fedele’ e dal pastore ‘asino’:
“A portar via molti dal gregge – per questo io sono venuto. Pieni di collera verso di me,
hanno da essere il popolo e il gregge: predone vuol essere chiamato dai pastori
Zarathustra” 172 .
Perché Zarathustra sottrae anime e menti, uomini risvegliati al giogo di questi pastori
che credo potremmo chiamare ‘preti’, ‘grammatici’, ‘dotti, pedanti ed asini’.
“Io dico pastori, ma loro si chiamano i buoni e i giusti. Pastori io dico: ma seguaci
dell’ortodossia si chiamano loro.
172
Ivi, 17.
42
Guardali questi buoni e giusti! Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le
loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente: - questi però è il creatore.
Guardali i credenti di tutte le fedi! Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza
le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente: ma questi è il creatore.
Compagni per il suo viaggio cerca il creatore e non cadaveri, e neppure greggi e
fedeli. Compagni nella creazione, che scrivano nuovi valori, su tavole nuove” 173 .
Questa precisazione mi pare fondamentale perché ci fa capire che Zarathustra-Nietzsche
non vuole essere un imbonitore della folla, al contrario contro questi si muove. In queste
poche frasi si capisce anche di che genere siano i rapporti interpersonali tra uomini
autentici: questi cercano la compagnia di chi sta facendo il loro stesso viaggio, e lungo
il viaggio sussiste la cooperazione, là dove ognuno crea e si rinnova è ‘specchio’, come
accennato per l’ ‘amico’, per la creazione e il rinnovamento dell’altro. Dice Zarathustra:
“Compagni vivi mi occorrono, i quali mi seguano, perché vogliono seguire se stessi – là
dove io voglio” 174 .
Compagni di viaggio che seguono se stessi, che sono sui miei passi perché stanno
cercando se stessi, non perché seguano un pastore; così io proseguo sulla strada che io
voglio, della mia ricerca.
È comunque un cammino solitario quello del ‘creatore’, anche quando muove in mezzo
ad altri, ma in questo è doppiamente pericoloso:
“E guardati dai buoni e giusti! Essi crocifiggono volentieri coloro che inventano le
proprie virtù – essi odiano il solitario.
Guardati anche dalla santa semplicità! Per essa non è santo tutto quanto non è
semplice; essa scherza volentieri col fuoco – dei roghi 175 .
E guardati dagli accessi del tuo amore! Troppo precipitoso è il solitario nel
tendere la mano a colui che incontra. (...)
Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti voler
rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!” 176 .
La compagnia dunque è da auspicare solo quando faciliti la crescita individuale tramite
‘rispecchiamento’, così accade tra viaggiatori, così deve essere il rapporto con l’amico.
Ma Nietzsche, o meglio Zarathustra, parla anche del rapporto con la donna, e in questo
ci pare nuovamente vicino al Nolano 177 ; nella donna è ravvisato infatti il rischio di
‘inebetirsi’, di sviluppare con lei solo l’amore bestiale e non una crescita verso l’ ‘oltre’;
tuttavia non è escluso un rapporto proficuo là dove, e questo pare essere molto raro,
173
Ibidem.
Ivi, 17.
175
Qui il riferimento alla Chiesa, a parere di chi scrive è assolutamente evidente, per di più l’avvertimento
che procedendo contro di essa si rischia il rogo, in un lavoro che costruisce un confronto con Giordano
Bruno, non po’ non suggestionare, a questo inoltre si aggiunge l’esortazione a diventare cenere per
rinnovarsi…
176
Ivi, 71.
177
La vicinanza che io ravviso fra il Nolano e Nietzsche circa la visione della donna come possibile
‘tramite’ di crescita, ma nel contempo rischio di crollo, è parallela ad una considerazione circa la funzione
del corpo nella conoscenza, secondo entrambi i filosofi non si può prescindere dalle esigenze del corpo, il
quale è quindi impegnato nel processo di conoscenza, e tuttavia su di esso l’eroe o ‘il creatore’ non può
indugiare. Su questo confronto mirato sarebbe interessante sviluppare un approfondimento che qui non
trova spazio, qualcosa si è comunque accennato nell’articolarsi del primo capitolo.
174
43
entrambi siano consapevoli dei propri limiti e delle proprie ambizioni più nobili. Il
matrimonio, e una conseguente procreazione, devono essere augurati solo quando siano
il giusto gradino in una scala che si va costruendo verso l’alto. In altre parole solo
l’uomo teso al superuomo e sufficientemente consapevole, può considerare una unione
con una donna, compagna di viaggio, in grado di camminare lungo la stessa strada.
“Al di sopra di te devi costruire. Ma ancor prima tu stesso devi essere costruito
tetragono nel corpo e nell’anima.
Non soltanto devi procrearti, ma creare più in alto di te!
A ciò ti aiuti il giardino del matrimonio!
Un corpo più nobile devi creare, un moto primo, una ruota da se stessa ruotante – tu
devi creare un creatore.
Matrimonio: così io chiamo la volontà di creare in due quell’uno che è qualcosa di
più dei due che lo crearono. Io chiamo matrimonio il venerante rispetto reciproco di
coloro che hanno una tale volontà.
Questo sia il senso e la verità del tuo matrimonio” 178 .
Questo è intendere l’unione con la donna come un passo sulla strada della Verità, questo
è l’Amore nobile, l’Eros che risveglia nell’uomo l’eroe. Il rischio che questa unione si
converta nell’affossamento dell’eroe è però alto:
“Questi partì come un eroe in cerca di verità, e alla fine la sua preda fu una piccola
menzogna in ghingheri. La chiama il suo matrimonio.
Quegli era schivo nei rapporti con gli altri e schifiltoso nelle sue scelte. Ma in un sol
momento si guastò la compagnia per sempre: la chiama il suo matrimonio” 179 .
Guidare il proprio amore sul giusto cammino, di nuovo questo sembra essere
l’imperativo per il raggiungimento del superuomo. Imparare ad amare! Un anelito
all’elevazione, felicità e tormento: tensione al momento estatico di contemplazione di
ciò che è oltre-l’uomo.
“Ma anche l’amore vostro più nobile non è altro che un simbolo estatico, un
doloroso ardore. È una fiaccola che deve illuminarvi verso sentieri più alti.
Al di sopra di voi stessi dovrete amare, un giorno! Perciò imparate prima di tutto ad
amare! E per questo foste costretti a bere il calice amaro del vostro amore.
Amarezza è nel calice anche dell’amore più nobile: tale è l’anelito che esso
ridesta verso il superuomo, questa è la sete che esso mette a te che sei il
creatore!
La sete del creatore, la freccia anelante verso il superuomo: dimmi, fratello,
è questa la tua volontà di matrimonio?
Santi sono per me una tal volontà e un tal matrimonio”. 180
Questo cammino dell’amore pone il superuomo non solo come meta, di più, lo rende il
senso dell’esperienza esistenziale:
“Io voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: che è il superuomo e il fulmine
che viene dalla nube oscura uomo” 181 .
178
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 77.
Ivi, 78.
180
Ivi, 78-9.
181
Ivi, 14.
179
44
Una straordinaria esperienza esistenziale, aggrappandosi con disperato amore alla sua
propria umanità, l’individuo, conosce se stesso, si interroga, si sforza di tendere alla
meta: al superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per
superarlo?
“Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo
appunto ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna” 182 .
Giunti a questo punto, considerando le esortazioni di Zarathustra, si potrebbe cadere, in
particolare dopo queste ultime parole, in una interpretazione di prospettiva darwinista;
questo sarebbe un errore imperdonabile, che pure in passato si è largamente diffuso.
Nietzsche stesso definisce coloro che in questo modo lo giudicano dei “dotti
bestioni” 183 ; infatti, il superuomo è l’aspirazione del singolo a superare i dualismi tra
‘interiore ed esteriore’, tra ‘pensiero e azione’, tra ideale e realtà 184 ; il superamento è
un’aspirazione possibile per ogni individualità, è uno stimolo per seguire una condotta
di vita, da soli o con altre individualità animate dallo stesso desiderio, dalla stessa
volontà, ‘dallo stesso furore’: è il fine e il mezzo per l’educazione di se stessi e
conseguentemente per la formazione di una civiltà migliore; non per un cambiamento
biologico della razza uomo.
Altrove Nietzsche è più esplicito nel negare la prospettiva darwinista e nel ribadire il
messaggio etico-politico:
“Il problema che io pongo qui non riguarda il posto che l’umanità deve prendere
nella serie successiva degli esseri (l’uomo è una fine [ende]), bensì quale tipo umano
deve essere allevato, deve essere voluto, in quanto tipo di superiore valore, più
degno di vivere, più certo dell’avvenire” 185 .
È uno strumento per educare, il superuomo, non il prossimo gradino dell’evoluzione
della specie, come vorrebbero i darwinisti. Guardando al superuomo ci possiamo
scrollare di dosso valori e insegnamenti falsi e opprimenti e riappropriarci di una
formazione orgogliosa. In opposizione all’ ‘uomo moderno’, al gregge, all’uomo
‘buono, giusto e ortodosso’ alla maniera dei cristiani e dei nichilisti.
Tenendo sempre bene a mente che del superuomo non si deve fare un idolo da venerare,
Zarathustra non vuole fedeli, e che noi non dobbiamo diventare pecore di un gregge, il
superuomo deve essere un obiettivo rinnovato sempre innanzi al sé che indaga.
All’interno di una dimensione pienamente umana, porsi sulle orme del superuomo è già
essere oltre-l’uomo, nella sublimazione della propria natura. L’uomo consapevole onora
il suo io, la sua intima natura, nel furore della ricerca.
“L’<umano, superumano> si riferisce dunque al nostro vero io e il <superuomo> è
quello che ha trasfigurato la sua physis e acquisito autocontrollo” 186 ; e, nel contempo,
“egli rappresenta il modo d’essere a cui tutti aspiriamo; egli possiede l’unico valore
finale che esista” 187 .
182
Ivi, 6.
F. Nietzsche, Ecce Homo, op. cit, 57.
184
Cfr. , W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit., 331.
185
F. Nietzsche, L’Anticristo, versione di F. Masini, nota introduttiva di G. Colli, edizione Adelphi, 2003,
168.
186
W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit., 332.
187
Ivi, 334.
183
45
Lo Uebermensch, l’Oltreuomo, il Superuomo “ha superato la sua propria natura
animale, organizzato il caos delle sue passioni, sublimato i suoi impulsi e dato uno stile
al suo carattere, o come dice Nietzsche di Goethe: <egli ha disciplinato se stesso fino a
raggiungere la completezza, egli ha creato se stesso> ed è diventato <l’uomo della
tolleranza, non per debolezza ma per la sua forza>” 188 . Nietzsche quattro anni dopo la
pubblicazione dell’ultima parte di Zarathustra scriverà in una sua opera:
“L’uomo che ha organizzato il caos delle sue passioni ed integrato ogni aspetto del
suo carattere , redimendo anche ciò che è brutto e dandogli un significato in una
totalità bella, questo Uebermensch si renderebbe anche conto di quanto
inestricabilmente il suo essere è implicato nella totalità del cosmo e nell’affermare il
suo essere, egli affermerebbe anche tutto ciò che è, è stato o sarà” 189 .
In queste parole vediamo ribadita la necessità di guidare l’amore: organizzare le
passioni, inoltre ci viene detto che l’aumentare della conoscenza non può che essere un
comprendersi nella totalità e comprendersi nella totalità è dare un significato ai
contrasti, al bello e al brutto, abbracciare tutte le cose; diremmo con Bruno, essere
consapevoli di fare parte del Tutto. Ma rendersi conto di quanto inestricabilmente si è
implicati nella totalità del cosmo è anche inscriversi nel tempo di questo, eterno e
circolare, e questa dimensione temporale è la necessaria dimensione affettiva ed etica
dell’Uebermensch, del superuomo; “(...) l’unica via attraverso cui si può operare quel
<salto> che deve condurre all’oltreuomo è una trasformazione del modo di vivere il
tempo” 190 . Nell’affermare il suo essere egli affermerebbe anche tutto ciò che è, è stato o
sarà.
Infatti proprio in ‘Così parlò Zarathustra’ Nietzsche articola il suo discorso circa l’
‘eterno ritorno’ 191 e qui si coglie il nesso tra l’idea del ritorno dell’uguale e il
superuomo: vivere l’attimo immenso, amare se stesso e la vita per glorificare l’attimo e
consegnarlo all’eterno, rendere eterno il momento. Dice Gianni Vattimo che come
ipotesi etica significa che “se si pensasse alla possibilità che ogni attimo della nostra
vita diventi eterno e si ripeta all’infinito, avremmo un esigentissimo criterio di
valutazione: solo un essere perfettamente felice potrebbe volere una tale ripetizione
eterna” 192 . In un momento iniziale di riflessione sul tempo, l’uomo odia il divenire, la
sua volontà si ribella al peso del passato e teme il futuro, soffrendo tremendamente per
la fuggevolezza del presente, e il rischio è che essa si rifugi nella speranza di un tempo
‘oltremondano’.
“ Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; ‘ciò che fu’ –
così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere. (...)
Così la volontà, invece di liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta,
per non poter volere a ritroso è tutto quanto sia capace di soffrire.
Ma questo, soltanto questo è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il
tempo e il suo ‘così fu’. (...)
188
W.Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, cit., 336.
F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, nota introduttiva di M. Montinari, traduzione di F. Masini,
edizione Adephi, 2002, 49.
190
G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 76.
191
Per quanto riguarda l’eterno ritorno dell’uguale ed anche una comparazione con la concezione del
tempo in Bruno, mi permetto di rimandare al § 4 del primo capitolo , intitolato appunto: “Sull’eterno
ritorno e l’infinito”.
192
G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 85.
189
46
Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto;
e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione. (...)
E poiché in colui che vuole è la sofferenza di non poter volere a ritroso, - così il
volere stesso e la vita in tutto e per tutto dovrebbero essere – punizione!
Ed ecco che sullo spirito si accumulò nube su nube: e alla fine la demenza si mise a
predicare: <Tutto perisce, perciò tutto è degno di perire!>. (...)
Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la
volontà che crea non dica anche: <ma così volli che fosse!>
- Finchè la volontà che crea non dica anche: <ma io così voglio! Così vorrò!> (...)
Bisogna che la volontà – in quanto volontà di potenza – voglia qualcosa al di sopra
di ogni conciliazione (...)” 193 .
L’uomo che vive nel convenzionale tempo lineare è ossessionato e schiacciato dal
macigno del ‘così fu’, e si vendica infliggendo a sé e agli altri le crudeltà della morale
dei ‘buoni e giusti ed ortodossi’, della religione, dell’ascesi e si lamenta: <tutto perisce,
perciò tutto è degno di perire!>; la vita per costui diventa casualità orrida, un significato
non è dato se non oltre il tempo e oltre la terra. Invece l’insegnamento di Zarathustra,
del superuomo, è di restare fedeli alla terra e fedeli al tempo della vita, la vita è
casualità orrida solo finchè la volontà di affermare il proprio essere non dica: così volli,
così voglio, così vorrò!
L’uomo con la volontà, la volontà di potenza, si inscrive consapevolmente nella catena
di cause della vicissitudine, nel tempo circolare dell’eterno ritorno, in cui si comprende
eterno protagonista attivo: eterno, nelle cause infinite che hanno portato a lui e negli
effetti infiniti di cui lui sarà causa. È una presa di posizione attiva istante dopo istante
innanzi all’ ‘essere nel mondo’. “(...) Nietzsche non vuole semplicemente l’accettazione
rassegnata delle cose come sono; vuole un mondo in cui sia possibile volere il ritorno
eterno dell’uguale” 194 .
Tuttavia il rapporto tra la decisione e l’eterno ritorno non è troppo semplice da
conciliare perché non si può ridurre eterno ritorno e circolarità del tempo a conseguenza
della comprensione e alla accettazione dei medesimi da parte del soggetto mediante
volontà, far risultare una concezione ‘fisica e cosmologica’ come conseguenza della
decisione di un singolo è evidentemente un controsenso; neppure del resto la circolarità
del tempo e l’eterno ritorno dell’uguale come dottrina traggono il loro valore dall’essere
una vera e propria ‘teoria scientifica – cosmologica ’ affermata e comprovata, come
abbiamo precedentemente chiarito 195 . Resta quindi un’unica certezza: circolarità del
tempo ed eterno ritorno che siano possibilità, probabilità o convinzione del soggetto
sono comunque la dimensione temporale del superuomo che, libero dal senso di
condanna della temporalità lineare giudaico-cristiana, può slanciarsi, mi permetto di dire
‘con eroico furore’ a glorificare la sua vita terrena: non più orrida casualità, ma
creazione della volontà.
La volontà, spinta dall’amore, diventa il fulcro dell’autentica esperienza esistenziale,
dell’autentica felicità umana, l’uomo che vuole ed è consapevole della sua volontà è
l’uomo forte:
193
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 163-64.
G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 93.
195
Il riferimento è qui nuovamente al §4 del primo capitolo, dove si affermava che una dimostrazione
matematica dell’eterno ritorno è stata tentata da diversi studiosi, incluso Nietzsche stesso, e tuttavia non si
è mai pervenuti ad alcun risultato valido scientificamente.
194
47
“Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? Così chiede lo spirito paziente, affinché io
la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza” 196 .
Gli inconsapevoli sono gli uomini deboli, i deboli sono quella moltitudine che contrasta
il corpo, la vita, l’Amore eroico, i deboli si difendono dai forti facendosi pastori o
seguendo il gregge e costruendo così religioni e stati intrisi di pregiudizi morali e
menzogne. “L’uomo è l’animale che ha inventato la <cattiva coscienza> e altre tecniche
per tormentarsi” 197 .
“Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io: e finchè la buona
coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io” 198 .
Al di là di cosa venga nominato di volta in volta ‘buono’ o ‘cattivo’ di certo è che
l’uomo è un cavo teso fra questi estremi, il ‘gregge’, che è la scelta più facile e più
antico piacere, in quanto scelta di non-autodeterminazione, in quanto non-scelta,
rappresenta certo il polo ‘animale’, mentre all’opposto un piacere più celato e più ostico
è quello dell’io che si autodetermina. Dell’io che ama, ragiona ma si infuria, vuole,
insegue e non si arrende, da solo, consapevole e sempre più consapevole del limite e
dell’oltre.
“Davvero un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un
fiume immondo, senza diventare impuri.
Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare nel quale si può inabissare il vostro
grande disprezzo” 199 .
E il naufragar mi è dolce in questo mare! Bisogna sentire il mare dentro di sé per
anelare alla foce del fiume, quel fiume immondo in cui siamo tutti immersi.
Oltre il limite ci si perde e si naufraga nell’assoluto, ma inabissarsi è la meta e massimo
desiderio.
“Qual è la massima esperienza che possiate vivere? (...)
L’ora in cui diciate: <Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso.
Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e
benessere miserabile!>” 200 .
“Zarathustra è <un indovino? Un sognatore? Un ubriaco? Un interprete di sogni? Una
campana di mezzanotte?>. Lo chiede agli uomini superiori, ma che ne sanno di lui? È
una <goccia di rugiada?>. Non sanno che è appena morto. <Non lo udite?>, chiede
Zarathustra, (...): <Non lo odorate, non lo vedete?>. No, nessuno sente, né intuisce, né
vede, cosa significhi questo canto di morte. <Non lo sentite?> chiede Zarathustra.
<Proprio ora, il mio mondo divenne perfetto, mezzanotte è anche mezzogiorno, - dolore
è anche un piacere… la notte è anche un sole – andate via o vi toccherà imparare che un
saggio è anche un folle>. La felicità e il dolore di mezzanotte hanno fatto impazzire
Zarathustra. <Avete mai detto di sì a un piacere?>, così parla agli uomini superiori,
196
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 23.
G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, cit., 11
198
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 65.
199
Ivi, 6-7.
200
Ivi, 7.
197
48
<allora dite sì anche a tutta la sofferenza>. L’avranno capito? La campana rintocca:
<Perché ogni piacere vuole – eternità!>.
Che piacere ha in mente Zarathustra? Il piacere-dolore che vuole <l’eternità di tutte le
cose>: esso <vuole miele, vuole feccia, vuole mezzanotte ebbra, vuole avelli, vuole il
conforto delle lacrime sui sepolcri>. Vuole se stesso, perché <è più assetato, più tenero,
più affamato, più pauroso, più misterioso di ogni sofferenza, vuole se stesso> (...)” 201 .
Il messaggio di Zarathustra non sempre si lascia vedere chiaramente, innanzitutto
perché non è un ‘sistema’ né un comandamento per i fedeli, ma un cammino
dell’individuo, inoltre perché la meta stessa di questo cammino non è dato descriverla,
essendo oltre il limite, essendo proprio quell’assoluto in cui ci si inabissa.
Tuttavia resta la forza dell’esortazione alla massima esperienza di vita e un
ammonimento a scuotersi di dosso la morale convenzionale, ‘il bene e il male’ come
norme dettate e indiscusse, gabbie per il furore. Zarathustra ha in mente il piaceredolore proprio dell’eroe, dell’uomo consapevole, che vuole l’eternità, volere l’eternità è
il volere di se stesso qui e nell’istante. Quanto più aumenta la consapevolezza di quale
sia la dimensione dell’esistenza umana, della sua finitezza e dell’infinità del tutto, tanto
più aumenta il dolore e la rabbia e con essi il desiderio di dissolversi nel tutto. Ma tanto
più aumenta anche il piacere e l’amore per il momento in cui possiamo essere
protagonisti nel tutto e l’amore per tutte le cose in cui ci sentiamo compresi e destinati a
dissolverci.
Mi pare di poter dire che non è un messaggio di luce che rischiara la parola di
Zarathustra, ma un accecamento che illumina. Come i nove furiosi sono resi ciechi da
Circe, dice Zarathustra:
“Io non voglio essere né significare luce per questi uomini di oggi. Costoro – io li
voglio abbagliare: fulmine della mia saggezza! cava loro gli occhi!”.
“Ma, in nome del mio amore e della mia speranza,
ti scongiuro: non buttar via l’eroe che è nella tua anima!
Mantieni sacra la tua speranza più elevata!” 202 .
201
Joachim Kohler, Nietzsche. Il segreto di Zarathustra, a cura di Fabio Minazzi, edizione Rusconi, 1994,
569.
202
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., 44-5.
49
CONCLUSIONE.
Ultime considerazioni.
“ Un animale ingannevole, sempre e a ogni modo è l’uomo.
Ma pure, parla: può darsi che tu riveli qualcosa di buono che è in noi,
o una possibilità troppo grande per la mia mente ignorante.
Dì a tutti quello che pensi, in pubblico:
perché di tutti sarà il beneficio che credi di poter procurarci”.
(Aristofane, Gli Uccelli)
1. La conoscenza: un cammino individuale
Bruno e Nietzsche si sono presentati a noi come Mercurii, come ‘angeli della luce’ 203 ,
portatori di un messaggio rivolto a tutti, ma intesi come individui e non come folla o
massa.
Entrambi credono che forse nessuno potrà non fraintendere almeno in parte le loro
parole, ma questo ha un’importanza relativa, perché la fortuna che entrambi augurano
alle loro opere è di spingere gli individui a iniziare un cammino, un cammino di
crescita ispirato alla massima onestà intellettuale, un cammino che inizia là dove il
singolo
comincia
a
credere
fermamente
nelle
infinite
possibilità
dell’autodeterminazione. Credere in questa possibilità di autodeterminazione, oltre le
contraddizioni, è un’esperienza di vita eccezionale, una morte e una rinascita, oltre ai
testi anche le biografie di Bruno e Nietzsche ci parlano di questo.
Mi pare di poter dire che sia Bruno sia Nietzsche, e in particolare sia gli ‘Eroici furori’
sia ‘Zarathustra’, corrono costantemente sui binari paralleli di individuo e società, nel
senso che il loro obiettivo è insieme risvegliare la coscienza dell’individuo e scuotere
una società che pare essere intorpidita, per non dire malata.
Entrambi infatti denunciano le piaghe della contemporaneità, false religioni, false
pretese, cattivi costumi, e nel contempo mettono in guardia dagli errori in cui può
incappare colui che vuole cambiare lo stato di cose e cioè l’eroe furioso o il creatore.
L’eroe furioso o il creatore sono animati, o devono essere animati, dall’amore, come
desiderio naturale e volontà di potenza in primis, convertire questo in ricerca di
conoscenza in un secondo momento e per mezzo di questa ricerca, infine, crescere
sempre di più nella consapevolezza
La conoscenza, come loro ce la consegnano, è appannaggio proprio dell’individuo,
perché non è mero nozionismo, ma comprensione che nel suo grado più riflessivo si
traduce in consapevolezza.
Dire che solo l’individuo comprende autenticamente non vuol dire ovviamente
precludere al resto del mondo la comprensione, ma vuol dire che necessariamente solo
l’io può dire: <ho capito!>.
203
L’espressione è adoperata da Michele Ciliberto in relazione a Giordano Bruno in diverse opere, si veda
ad esempio il saggio introduttivo a G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani,(op. cit.) oppure l’introduzione a
G. Bruno, Eroici furori (op. cit.).
50
Questo perché l’illuminazione è esperienza dell’io ed è incomunicabile o per lo meno
difficile da esprimere all’altro, come il fulmine di Zarathustra o la Diana nuda di
Atteone. In questo senso non accettare il passato né il presente come un punti di arrivo
di alcunché è conseguenza necessaria: Platone o Hegel sono individui con il loro
proprio bagaglio di comprensione, per me non sono punti di arrivo di nulla, bensì
possono diventare oggetto a loro volta della mia ricerca prima e della mia comprensione
poi, ed allora ‘illuminato’ dirò: <ho capito!>.
Le loro parole, ma soprattutto la mia comprensione di quelle parole saranno la verità
che mi eleva e il mio nuovo punto di partenza; questo a me hanno insegnato Bruno e
Nietzsche.
2. Un senso all’esistenza
Vedere ogni limite, ma soprattutto il limite rispetto all’infinito, come l’obiettivo da
superare, che sia per essere ‘eroi furiosi’ o ‘oltreuomini’, dà un senso all’esistenza, e dà
un senso all’esistenza qui sulla terra, senza proroga nell’oltremondano.
Così come un senso all’esistenza è dato dal credere nello sviluppo della specie; sulla
base di questa fiducia noi agiamo attivamente con le nostre opere, da quelle materiali
quotidiane, ai rapporti umani che istituiamo, fino al generare un figlio.
3. Un messaggio politico: tra individuo e società
Se facciamo nostro questo significato dell’esistere siamo necessariamente portati ad
impegnarci fortemente in una prassi politica, ma l’impegno non è inserito nella logica
della società, di nuovo è un impegno tutto dell’individuo: è il riflesso la speranza per la
società, e uno specchio sono per l’individuo i migliori esempi che ha.
La conoscenza, la consapevolezza desiderata per sé stesso è l’autentica crescita
suggerita, non la conoscenza perché è richiesta da altri. Se la nostra formazione fosse
mirata a soddisfare la richiesta di altri, sarebbe mistificata, sarebbe il sapere di quei savi
e sapienti che non sono consapevoli: non sono eroi né tendono all’oltreuomo. Ispirarsi
ad un modello di vita che ricerca in sé stesso è difendersi dai modelli di vita imposti o
comunque è un rendersi consapevoli di quanto di imposto vi è nella nostra condotta di
vita; non solo, ma ispirarsi ad un modello di vita che ricerca in sé stesso è anche la via
più efficace per innovare l’ ‘altro’, per riformare autenticamente la società.
4. Il messaggio nella società di oggi
Questo insegnamento che io ho ricavato dal confronto fra l’’eroe furioso’ e lo
‘Zarathustra’ lo sento tanto più prezioso quanto più attentamente guardo alla società in
cui vivo; è questa infatti una società dove fortunatamente non manca il pluralismo, voci
di ogni genere su ogni argomento giungono da ogni parte, così a me sembra e in questo
vedo un grande bene, ma una minaccia si nasconde: il ‘pecoresco’ conformarsi è tanto
più mascherato quanto più numerosi sono i ‘pastori’. Nel senso che, essendoci
costantemente proposta una grande varietà di ‘prodotti’, mi riferisco tanto alla
cornucopia di beni nei supermercati quanto, ad esempio, alle ‘offerte’ politiche, siamo
costantemente impegnati in scelte, sulle quali forse non abbiamo un sufficiente grado di
consapevolezza; scegliamo tra due, tre o mille offerte ma non riflettiamo sul valore della
scelta in sé, sulla necessità di quella scelta.
51
L’illusione di autodeterminarsi, di far cooperare intelletto e volontà, è creata ad arte
dalla pubblicità e dal messaggio mediatico in genere, carattere che domina e forse
definisce la società contemporanea; il media quanto più è invadente tanto più agisce
come un oppiaceo sulla coscienza dei nostri desideri. Furiosi e creatori sfuggono al
gregge e riflettono sulla natura dei propri desideri, guidano la volontà.
5. Un monito alla società dei computer
Dalla comparazione tra il messaggio di Bruno e di Nietzsche è emerso un comune
messaggio di valorizzazione della dimensione umana, non un messaggio ‘umanista’,
ma di amore per l’uomo nel suo ruolo tragico e nobile, questo messaggio può essere
utile oggi percepirlo anche come un monito per l’espansione del ruolo delle macchine e
della cibernetica, non un freno, ma appunto un monito. Un messaggio che ci può
ricordare che l’uomo deve stare sempre sopra a ciò che produce, senza scadere in
visioni di fantascienza, è un fatto che macchine e calcolatori sono sempre più diffusi e
anche più ‘autonomi’, l’uomo consapevole e padrone di sé stesso deve essere anche
padrone di ciò che crea.
6. Tempo circolare: nuovi valori
Un’altra riflessione legata al mondo in cui vivo, nasce in me dall’aver analizzato la
concezione del tempo di Bruno e Nietzsche, la caratteristica comune emersa è la rottura
di una concezione lineare del tempo per prediligere una concezione del tempo circolare.
Questo, lo si è visto, è fondamentale tanto per l’eroe quanto per l’oltreuomo e si può
tradurre in un messaggio etico e politico.
Una concezione del tempo lineare è un sentire il tempo come flusso di storia. Questa
concezione oltre ad essere propria della tradizione giudaico – cristiana è anche propria
della produzione economica e della ricerca tecnologica. Produzione economica e
ricerca tecnologica sono ambedue tese al superamento materiale sulla base dell’
‘acquisito’, tese al progresso come somma costante. Rompendo con questa concezione e
riflettendo sull’attimo nell’eterno, sulla vicissitudine, e adottando quindi una concezione
del tempo circolare e dunque ‘astorica’, viene meno la logica della progressione per
accumulazione e si pone attenzione alla ‘personalità umana’, all’educazione dell’Uomo
per la crescita etica e politica della società, in un circolo virtuoso; altrimenti i valori
sono rovesciati, si lascia da parte la ‘personalità umana’, percepita come effimera e
passiva nella ‘somma’ e a lavorare è la crescita economica e materiale della società, che
rende arida, quando non schiava di questa logica, l’educazione morale e politica
dell’Uomo, il ‘progresso’ rimane appannaggio di beni materiali e la coscienza schiava
di questi.
7. In conclusione: una premessa
Il lavoro svolto fin qui mi ha da ultimo suggerito alcune brevi riflessioni sul mondo
contemporaneo di carattere etico e politico. Tuttavia poiché il presente lavoro nasce da
una comparazione di interesse filologico e storiografico e su tale terreno poggia le basi
di uno sviluppo che qui non ha trovato sufficiente spazio, voglio considerare ciò che ho
scritto fino ad ora soltanto come una premessa, una presentazione di Bruno a Nietzsche,
come quella avvenuta storicamente nelle lettere di Heinrich von Stein, e confido nel
52
tempo che verrà per mettere a nudo tutta la trama che può essere tesa tra questi due
autori. Mostrare in modo più forte le assonanze, facendole rilucere nel contrasto con le
differenze.
Certamente un’analisi più completa, che includa le differenze e che si muova con cura
tra tutte le opere di questi due autori, potrà suggerire nuove riflessioni sia sul piano
storiografico che su quello delle implicazioni etiche e politiche.
53