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AH, LEI INSEGNA RELIGIONE? L`insegnante di religione tra
AH, LEI INSEGNA RELIGIONE? L’insegnante di religione tra passione pedagogica e rischio di burnout Essere insegnante di religione non è facile. Lo sanno bene le centinaia di insegnanti in Italia che sperimentano le contraddizioni di una professione, al tempo stesso, motivante e frustrante per la sua complessa natura. Finalità e contenuti la collocano tra le discipline più “importanti”: essa, infatti, invita ad esplorare le grandi domande di senso, e proprio per il fatto che nell’ora di religione si parla di se stessi, si affrontano tematiche come la vita, la morte, la sofferenza, il bisogno di salvezza, la propria identità, richiede l’istaurarsi di relazioni di apertura e fiducia tra il docente e l’alunno e nel gruppo classe. Nell’organizzazione scolastica è tuttavia una materia “debole” per la sua presenza marginale nell’orario scolastico (l’unica materia che abbia una sola ora settimanale), per la mancanza di un voto “che faccia media” e soprattutto per il fatto di poter essere scelta dagli alunni e dalle famiglie ogni inizio ciclo, spesso in modo arbitrario, esponendo così l’insegnante al sentimento di sentirsi rifiutato sulla base di criteri che spesso non hanno nulla a che fare con la qualità del suo insegnamento. In un sistema in cui tutte le discipline sono obbligatorie, l’essere titolari dell’unica materia a scelta pone problemi non facili da risolvere a livello psicologico, motivazionale e anche didattico: spesso, infatti, induce a compromessi nella scelta delle tematiche da trattare, richiede all’IdR uno sforzo di gran lunga superiore che agli altri docenti per stimolare la motivazione primaria dello studente (ricordiamo che quella secondaria è data da voti e strumenti disciplinari che non sono a disposizione dell’IdR). Anche il rapporto con i colleghi può essere fonte di gratificazione (molti IdR si sentono apprezzati e benvoluti) ma anche di frustrazione. Non sono rare le battute del tipo: “Tanto tu insegni solo religione!” oppure “Che fate nell’ora di religione, gli alunni non sanno neppure…”, o addirittura giudizi più svalutanti: “A che cosa serve questa materia?” “Beati voi che non soffrite di precariato!” ecc. Di fronte a questi atteggiamenti, l’Idr potrebbe essere tentato a rimuoverli giungendo ad affermazioni del tipo: “tutti mi amano, tutti mi apprezzano” che, proprio perché espresse in modo così generalizzato, diventano automaticamente poco realistiche o a ipercompensare il proprio ruolo, autodefinendosi unico docente in grado di capire lo studente, perdendo, così, la dimensione della collegialità che deve guidare sia i rapporti con gli studenti che la loro valutazione. GESTIRE LE ASPETTATIVE Il benessere del docente di religione è molto legato alla sua capacità di gestire il peso delle diverse aspettative. Le prime sono quelle che gli derivano dalla presa di coscienza dell’importanza del suo compito. L’Idr è ben consapevole del valore formativo della sua disciplina e quindi dell’impegno indispensabile per fare della propria ora uno spazio di dialogo, di approfondimento critico di argomenti che molti studenti non hanno mai occasione di affrontare alla presenza di un adulto competente. Questa consapevolezza alimenta spesso aspettative irrealistiche nei propri confronti, come essere sempre disponibile con gli studenti, saper motivare anche i più restii, dare sempre le risposte giuste. In questo clima, le eventuali richieste di non avvalersi vengono vissute come fallimenti personali e diventano concausa di burnout . Ricordiamo infatti che esso viene definito come Le aspettative degli studenti e delle famiglie Gli stessi studenti nutrono alte aspettative riguardo l’insegnante di religione. Frequente è la richiesta che non sia un insegnante come gli altri: deve comprendere, venire in aiuto, essere dalla parte dello studente (soprattutto in sede di scrutinio!). Deve più in generale fungere da confidente e da psicoterapeuta. Gli studenti intuiscono che l’IdR è più interessato alla loro persona che al programma e proprio per questo motivo si aspettano da lui un atteggiamento più aperto ed accogliente e tendono a sottovalutare le esigenze della disciplina (alcuni sono fieramente sdegnati alla richiesta di verifiche o “compiti a casa!”). Se dunque da una parte l’insegnante recepisce il desiderio di gran parte degli studenti di stabilire con lui un rapporto più profondo e autentico, esperimenta anche la difficoltà di far valere la sua materia ed’insegnamento come disciplina scolastica a tutti gli effetti e quindi di essere seguito dagli studenti in un percorso sistematico con un impegno adeguato. Inoltre il numero elevatissimo di classi (ben 18!) gli richiede lo sforzo di “reinventarsi” ogni ora, cercando di entrere in contatto e di rispondere adeguatamente alla realtà di ciascuna classe. Le richieste dell’istituzione scolastica a confronto con il “ruolo debole” in cui confina l’IdR Anche le richieste dell’istituzione scolastica sono elevate e contraddittorie: deve partecipare a tutti gli organi collegiali, ma spesso nei consigli di classe la sua voce è poco ascoltata, almeno rispetto a quella del docente d’italiano o di matematica. In ogni caso non è il ruolo a dare peso all’IdR ma la credibilità che è riuscito a conquistarsi spesso con maggior sforzo di altri docenti sostenuti da una posizione più forte all’interno del consiglio di classe o del collegio docente. Anche il fatto che il suo voto “non faccia media” è un ulteriore fattore di debolezza: per far prendere in considerazione dai colleghi il suo giudizio sullo studente egli deve puntare soprattutto sulla stima e l’apprezzamento che ha saputo acquisire pazientemente giorno dopo giorno. Il fatto che moltissimi IdR rivestano incarichi di grande delicatezza- come quello delle funzioni obiettivo- è un’ulteriore dimostrazione della passione educativa dell’IdR che si considera donna e uomo di scuola, corresponsabile del progetto educativo dell’istituto in cui opera. Le aspettative della Chiesa Anche la doppia appartenenza all’istituzione scolastica e alla comunità cristiana può essere vissuta come risorsa o come un’ ulteriore esigenza a cui far fronte. Dai colleghi e dagli studenti egli è visto come rappresentate di una Chiesa spesso contrastata per le sue prese di posizione soprattutto in materia di etica. Se colleghi e studenti si rivolgono a lui come “esperto in teologia”, al tempo stesso tendono a considerarlo poco autonomo nelle sue valutazioni e nei suoi giudizi proprio a causa della sua appartenenza ecclesiale. Non raramente questo atteggiamento è fonte di pregiudizi e malintesi. Da parte sua l’Idr vive spesso con fatica questa posizione di uomo di scuola e rappresentante di una religione, anche per i duplici impegni che spesso comporta. Non basta dunque che il docente di religione possieda – come affermava ironicamente già un secolo fa un pedagogista tedesco (Diesterweg 1835)“l’acume di un Lessing, l’entusiasmo di un Pestalozzi; le conoscenze di un Leibniz, la sapienza di un Socrate e l’amore di Gesù Cristo” , ma si vuole anche che abbia l’impegno missionario di un S. Paolo; la competenza teologica di un Rahner e l’acume pedagogico di una Montessori. Troppo per chiunque. L’insegnante di religione è consapevole di essere sempre alla ricerca di un sottile equilibrio tra le diverse esigenze che il suo ruolo comporta. Solo così egli può conservare il gusto del rapporto umano, l’interesse per la persona dei suoi studenti, la consapevolezza di contribuire significativamente alla loro formazione. Perché questo avvenga egli deve essere sostenuto da iniziative di aggiornamento intese a rinforzare la sua motivazione e a prevenire i primi sintomi del burnout che si manifestano come perdita di disponibilità verso gli studenti, irritabilità eccessiva verso i colleghi, distacco nei confronti del proprio lavoro, disagi fisici e l’instaurarsi di difficoltà di rapporto anche in famiglia e in altri ambiti sociali. SÌ, IO INSEGNO RELIGIONE! Darsi animo, per all’insegnamento. dare anima alla scuola. Motivarsi “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti”1 . Con l’abituale incisività, la filosofa ebrea tedesca Hanna Arendt individua la motivazione profonda del vero educatore: l’amore per i giovani e per il loro futuro, attraverso cui si manifesta l’amore per il mondo e la fede di poter contribuire, in qualche modo alla sua realizzazione. Lo studente motivato fa l’insegnante motivato e viceversa … L’insegnante che trova gioia e soddisfazione nel suo lavoro suscita negli alunni un atteggiamento positivo nei confronti dello studio o almeno permette loro di abbassare gradualmente le difese per aprirsi al confronto e per conquistare o riconquistare il gusto del pensare. Il primo impegno è, dunque, lavorare su se stessi. RIMOTIVARSI PER RIMOTIVARE Ricordo ancora quando all’inizio della mia carriera d’insegnante confessai, durante un consiglio di classe, che avevo problemi con alcuni alunni. Una collega “esperta” mi rispose che “le classi non devono far problema”. Lo stesso concetto mi fu espresso alcuni anni dopo da una collega più giovane che evitava ogni problema disciplinare assumendo un atteggiamento “professionale” freddo e distaccato, limitandosi a spiegare e a interrogare, senza lasciarsi coinvolgere in alcun modo nel rapporto con gli alunni. Con il tempo ho fatto esperienza che questi comportamenti sono meccanismi di difesa che se preservano da scontri aperti con gli studenti, tolgono la 1 Hannah Arendt, La crisi dell’istruzione, in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001 possibilità di un incontro sincero con i ragazzi che rappresenta la più forte motivazione all’insegnamento. Nel contatto che si stabilisce tra il docente e la classe coesistono due elementi: uno “simmetrico” per cui percepisco una sintonia, un senso di riconoscimento e di appartenenza; l’altro “asimmetrico” che mi fa sentire che sto aprendo agli studenti una strada, una nuova prospettiva, che li sto introducendo in uno spazio di significato ancora inesplorato in cui potranno procedere autonomamente. In questi momenti s’instaura nella classe una dinamica tra l’insegnare e l’imparare che coinvolge sia gli studenti che il docente e che trasmette a quest’ultimo la significatività del suo compito. La motivazione dell’insegnante, così come quella degli alunni, dipende in gran parte dal tenere vivo questo rapporto tra insegnare e imparare per cui entrambi i partner, alunni e insegnante, non sono relegati nel ruolo fisso del docente e del discente, ma sperimentano entrambe le possibilità, soddisfacendo così due bisogni elementari e profondi dell’essere umano: l’imparare e l’insegnare. Come scrive lo psicoanalista junghiano J. Hillman nella sua lettera agli insegnanti italiani 2 «Qualcosa dentro di noi vuole imparare, specialmente nell’infanzia. Come usare una sega, cucinare un uovo strapazzato, ricordare i versi di una canzone? Dove va il sole quando scende "giù"? e dove sono i pettirossi d’inverno, e perché le anatre non annegano come i polli.? Qualcosa dentro di noi vuole sapere dove, come, quando, che cosa. Porre domande è innato alla psiche umana [. …]. In corrispondenza con questo desiderio d’imparare c’è un impulso a insegnare, egualmente innato. Qualcosa, di nuovo piuttosto naturalmente, vuole rispondere a una domanda, dimostrare, spiegare, correggere. " Su dammi quello; lascia che ti mostri come si fa." La relazione fra l’imparare e l’insegnare è animale, naturale, data, dotata di ubiquità; non è tanto il prodotto della civilizzazione e della cultura quanto la loro base. La cultura chiama questa relazione tradizione; la civilizzazione, educazione. Comunque diamo forma a questa relazione, l’insegnante e l’allievo, la guida e l’apprendista, l’esperienza e l’innocenza, il sapere e l’ignoranza, il pieno e il vuoto sono costituenti costanti della vita interiore dell’anima. In quanto tali, appartengono non solo ai primi anni o alle prime fasi dell’indagine. La ricerca di un insegnante, di un insegnamento e il desiderio d’insegnare continuano in modo importante nella tarda vita» . 2 La lettera scritta agli insegnanti italiani da J. Hillman si ricollega ad una iniziativa che si attuerà nell'ambito del convegno mondiale sull'istruzione organizzato dalla Fondazione Liberal - Edizione 2003 (Milano, 14-17 maggio 2003) La consapevolezza che sia l’imparare che l’insegnare rappresentano i poli di uno stesso processo avverte l’insegnante che lo smettere di apprendere, adagiandosi nella routine del programma mette a rischio la sua motivazione alla professione insegnante. La resistenza ad esperimentare nuovi approcci alla materia, nuovi metodi non è dannoso soltanto per gli studenti, ma per il docente stesso che inaridisce, perde l’entusiasmo e il senso di ciò che sta facendo. Le proposte di aggiornamento spesso vissute come imposizione della scuola o dell’Ordinario Diocesano vanno lette in quest’ottica di rivitalizzazione e rimotivazione personale. Il Terzo separatore Soprattutto l’insegnante di religione, non vincolato a scadenze di esami ecc può rischiarare di considerare la sua materia d’insegnamento quasi un dippiù e di puntare tutto sulla relazione amicale o di appoggio all’alunno. “Importante è costruire la relazione” si sente dire “Parlare con i ragazzi dei loro problemi”. Anche in questa scelta sono insiti dei pericoli che, a lungo andare, minacciano la stessa motivazione del docente. Come abbiamo già sottolineato nell’articolo precedente, riconoscersi esclusivamente nel ruolo di “confidente” degli alunni può nascondere il bisogno di una compensazione affettiva e l’incapacità di sostenere i necessari conflitti che fanno parte del rapporto asimmetrico docente e discente. Nella relazione insegnante-alunno che rischia di diventare troppo personale e vincolante entra un terzo, la disciplina che si insegna. Essa struttura e da concretezza alla relazione, vi porta i suoi contenuti oggettivi che rappresentano il comune elemento di confronto del docente e del discente. Qui, grazie alla sua maggiore competenza, l’insegnante esercita il suo ruolo di esperto. Da parte sua lo studente partecipa attivamente al dialogo educativo, rilanciando la sua visione e interpretazione, proprio perché non è un pedissequo esecutore, ma un rielaboratore creativo della materia. Se dunque la motivazione dell’insegnante viene accesa dall’interesse per la persona dello studente e per il suo futuro, viene, però, continuamente alimentata dalla passione per la materia d’insegnamento che non è fuori dal processo relazionale docente-discente, ma anzi lo vivifica e lo concretizza. Il rispetto degli OA della propria disciplina d’insegnamento crea la giusta distanza nel rapporto docente-discente, definendo compiti e funzioni dell’uno e dell’altro e richiamando alle legittime aspettative del contesto sociale: ciò che avviene nell’aula non è solo “cosa” del docente e della sua classe fa parte del progetto educativo della scuola, risponde a criteri di oggettività, comunica valori condivisi anche e soprattutto con la famiglia, produce competenze. Concretamente l’insegnante motivato è colui che: 1. sa ciò che vuole ottenere e prevede i benefici e i costi della sua azione; 2. è consapevole dei limiti del suo intervento educativo il cui successo è determinato da tante variabili, prima fra tutti la libertà dell’alunno che risponde come e quando può e vuole; 3. non ha pretese irrealistiche né nei suoi confronti né nei confronti dello studente; 4. è consapevole della significatività del proprio ruolo e del proprio compito per la crescita e il ben-essere degli studenti. La motivazione dell’insegnante di religione ha le medesime caratteristiche e attinge alle stesse fonti dei colleghi, tuttavia egli porta nel suo lavoro, come componente essenziale della sua identità, il suo essere credente e la sua appartenenza alla Chiesa. La sua azione educativa si muove perciò in un orizzonte di significato determinato dalla visione cristiana della vita e della persona per cui Dio entra come compagno di cammino e come protagonista nella storia dell’uomo. Insegnare religione significa allora introdurre il giovane in una prospettiva dell’esistenza nuova e liberante che supera di gran lunga i “traguardi” di qualsivoglia disciplina scolastica. Il detto latino Non scholae sed vitae discimus si applica all’IRC in modo del tutto particolare e vale non solo per la persona dello studente ma anche per la trasmissione di quel patrimonio prezioso dei valori cristiani che fonda la cultura italiana ed europea. Questa consapevolezza – alimentata costantemente anche nel contatto con la comunità cristiana- non toglie nulla all’impegno “laico” dell’IdR che è un professionista della scuola, ma contribuisce a dargli una più forte motivazione.