LIBERTA` E COSTRIONE - Associazione San Marcellino

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LIBERTA` E COSTRIONE - Associazione San Marcellino
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
FACOLTÁ DI SCIENZE POLITICHE
Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale
Elaborato di Tesi in Teoria dei Processi di Socializzazione
IL CONDIZIONAMENTO OPERANTE DI
B.F. SKINNER COME CHIAVE DI LETTURA DI UN
SERVIZIO PER SENZA DIMORA
Candidato:
Relatore:
TRUZZI FRANCESCA
Prof. GIOVANNI PIERETTI
Sessione II
Anno Accademico 2004/2005
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2
INDICE
Introduzione
pag.
2
1. La libertà
pag.
7
2. Verso l’alienazione
pag. 12
3. Il ruolo del potere
pag. 16
Capitolo 1: La chiave di lettura
1. Il comportamentismo
pag. 19
2. Walden Due. Utopia per una nuova società
pag. 22
Capitolo 2: Il contesto
1. Cenni sulle povertà
pag. 29
2. L’associazione San Marcellino
2.1
Un po’ di storia
pag. 31
2.2
Lo stile
pag. 33
2.3
Le aree d’intervento
pag. 37
Capitolo 3: I soggetti
1. Storie di vita:
percorsi diversi per un destino comune verso la libertà
pag. 40
2. L’opinione di un operatore
pag. 60
Conclusioni
Bibliografia
3
Introduzione
“La libertà è un tema trattato da molti teorici, e nessuno a parte esprimere le
loro tesi in merito, può vantarsi di aver dato un significato unico e
inequivocabile a questo termine”. Cosi un ospite della comunità di vita “Il
Ponte”, mi ha detto, quando una sera a cena ho iniziato a spiegare
l’argomento del mio elaborato finale per cercare di dare agli occhi degli
abitanti della comunità un senso alla mia presenza li.
Io non voglio certo cercare di spiegare cos’è la libertà, vorrei solo che il mio
lavoro di ricerca mi aiutasse a comprendere come, la libertà tanto acclamata
dai movimenti libertari, la libertà che presuppone assenza totale di
coercizione esterna in realtà non esista. La lotta per la libertà è infatti diretta
non al controllo in sé stesso, ma ai controllori avversivi. E’ un modo per
sottrarsi alle condizioni avversive, si esplica infatti con la lotta o la fuga, che
però non hanno come focus il controllo in quanto tale, ma il modo con cui
questo viene esercitato. Un bambino quindi può ribellarsi ai genitori, un
cittadino può rovesciare un governo, un ecclesiastico può riformare una
religione, uno studente può attaccare un insegnante ed un emarginato può
sfuggire vagabondando dalla cultura, ma il fine di queste azioni non è
l’anarchia, l’assenza totale di potere e controllo, ma è la contestazione del
controllo “cattivo”. Contestazione che fa per cosi dire, parte del corredo
biologico dell’individuo, che quando è trattato in modo avversivo tende ad
agire con aggressività contro la fonte reale della stimolazione, ma anche
contro ogni persona o oggetto a portata di mano. Il vandalismo può esser un
esempio di contestazione aggressiva indiretta o mal diretta. Quella che
possiamo chiamare letteratura della libertà è stata realizzata al fine di indurre
la gente ad attaccare o a fuggire da coloro che cercano di controllarla
mediante condizioni avversive. L’importanza di questi scritti sulla libertà non
va comunque messa in discussione, lasciata senza aiuto e senza guida infatti
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la gente si sottomette nel modo più assoluto alle situazioni che siano esse
avversive o meno. Di alcuni contributi tradizionali si potrebbe dire che
definiscono la libertà come l’assenza di controllo negativo, sottolineano cosi
come la situazione viene “sentita”. Altre teorie definiscono libero l’individuo
che agisce in assenza di un controllo negativo, qui l’accento viene quindi
posto sul “fare ciò che si vuole”, usando le parole di John Stuart Mill : “la
libertà consiste nel fare ciò che si desidera”.
Si inneggia cosi la possibilità di sfuggire da condizioni di controllo avversivo,
ma il sentimento di libertà che nasce non è una guida attendibile, infatti
decade la sua validità non appena ci si scontra con forme di controllo non
avversive che sono meno appariscenti e a volte nemmeno percepibili.
Per chiarire riporto l’esempio presente nel libro “Oltre la libertà e la dignità”;
Skinner ricorda come il lavoro produttivo era un tempo il risultato della
punizione, si pensi allo schiavo che lavorava il più possibile per evitare le
conseguenze dell’interruzione del lavoro. Oggi invece l’escamotage del
controllo per il lavoro produttivo è il salario che rappresenta la forma buona
delle punizioni del tempo della schiavitù; Si evidenzia cosi che l’uomo agisce
per evitare conseguenze negative del suo comportamento, lo studente farà
tutti i compiti per evitare le punizioni, il lavoratore lavora come stabilito per
non essere licenziato. Ecco esplicato uno dei principi della teoria di Skinner,
in base alle quali il comportamento si esplica in seguito a rinforzi positivi e
negativi. L’intera teoria di B. F. Skinner si basa sul concetto di operant
conditioning (condizionamento operante). Gli individui operano in base ad
un continuo processo di condizionamento dato dall’ambiente esterno, dalla
società, dalle istituzioni, dalla cultura, durante il quale incontrano speciali tipi
di stimoli, chiamati rinforzi. Questi stimoli hanno l’effetto di indurre e favorire
un certo tipo di comportamento.
Questo è il condizionamento operante: “il comportamento è seguito da
conseguenze, e la natura di queste conseguenze modifica la tendenza degli
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organismi a ripetere o meno un determinato comportamento in futuro”. Se un
comportamento è seguito da un rinforzo positivo, molto probabilmente verrà
ripetuto; viceversa se è seguito da un rinforzo negativo ci sono scarse
probabilità che si ripeta. Questo è il controllo, il condizionamento
onnipresente che l’individuo subisce.
Il Lavoro per lo svolgimento di questo elaborato è cominciato con uno studio
approfondito delle teorie di Burrhus F. Skinner (1904-1990), psicologo
statunitense, uno dei maggiori esponenti del comportamentismo.
Tra le sue affermazioni più radicali, colpisce la concezione stessa
dell’individuo. L’uomo non viene infatti da lui visto come soggetto
completamente autonomo, libero e incondizionato. Skinner e cinquant’anni di
comportamentismo insegnano come in realtà gli individui siano condizionati
dall’ambiente sociale, culturale e naturale.
Da quello che più mi ha colpito durante la lettura delle sue opere, cioè dalla
tesi della coincidenza tra libertà e controllo, vista soprattutto in ambito
comunitario, esempio evidente nel suo romanzo Walden Due, ho cercato di
estrapolare la possibile chiave di lettura per il contesto di Sa Marcellino. In
particolare volevo appunto mettere in discussione ciò che io, come molti altri,
credevo che fosse la libertà, il pensiero di Skinner preso in toto è a mio
avviso, troppo “radicale”, però credo sia importante tener presente che
esistono certi tipi di controllo sotto i quali la gente si sente perfettamente
libera.
Quello che io intendo evidenziare è come l’individuo è già condizionato in
partenza dal suo essere uomo. Questo mio lavoro mi ha permesso di
modificare il mio modo di essere e di vedere le cose, in quanto ha ribaltato
molti dei miei sensi comuni riguardo appunto, il tema del controllo e della
libertà, e mi ha permesso anche di trovare il modo e il luogo di senso per un
mio sviluppo identitario.
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Nella prefazione del suo libro, “Oltre la libertà e la dignità” Skinner narra un
esempio a mio avviso efficace per evidenziare come e quanto noi siamo
facilmente condizionati da tutto ciò che ci circonda.
Riporta l’ influenza esercitata da uno striscione con su scritto “ricordatevi
della guerra aerea” posto davanti a dei professori, e a lui stesso durante una
lezione in cui si discuteva di “Oltre la libertà e la dignità”, tutti gli oratori infatti
hanno nominato la guerra in Vietnam.
Evidenziare cosi, ciò che l’autore definisce un “atto eccellente di ingegneria
comportamentale”, pone una questione a mio avviso destabilizzante, in
quanto dimostra chiaramente come siamo sottilmente “controllati” e
“controllabili”.
Seguendo la tesi di Skinner che presuppone che la libertà senza controllo
non può esistere, e che afferma anzi che un contenimento buono sia
essenziale per provare la reale sensazione di libertà, vorrei , dimostrare come
questa teoria sia vera più che mai in realtà come quelle comunitarie.
Per trovare queste conferme ho scelto di avvicinarmi alla Fondazione e
associazione San Marcellino di Genova, in specifico ho vissuto e osservato la
realtà della comunità di vita “Il Ponte”, una delle tante strutture
dell’Associazione, ma sono stata anche a contatto con gli operatori del centro
d’ascolto, punto nevralgico dell’attività del servizio e con diversi operatori e
volontari che da anni gravitano attorno a San Marcellino. Mi sono avvicinata a
questa istituzione perché credo che la sua accezione di libertà corrisponda a
quella che io cerco di evidenziare: “la libertà di essere sé stessi”, con i propri
difetti, le proprie incapacità, le proprie bruttezze, senza per questo essere
giudicati o esclusi. E’ un concetto molto evidente nella realtà della comunità
“il Ponte”, dove al suo interno le persone riscoprono la ricchezza di
condividere, di stare insieme, in maniera diversa, a volte con litigi, a volte
facendo vedere il proprio lato peggiore, ma insieme.
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Quando la libertà viene intesa in questo modo, il controllo diventa di
conseguenza un aspetto non legato tanto alla repressione e punizione di atti
violenti o illegali, ma una forma di contenimento, di monitoraggio, che si
esercita più sul piano della relazione che su quello delle regole. San
Marcellino opera con persone in stato di emarginazione grave e povertà
estrema, persone cioè che vivono in totale assenza di libertà d’essere, di
libertà di scegliere. Quello che l’associazione tende a fare è trasmettere una
forma di contenimento e di auto-controllo, essenziali per riprendere in mano
la propria vita e per riprovare la sensazione di libertà. Cerca infatti di trovare
una via intermedia tra la figura del genitore normativo e l’interiorizzazione di
questa figura, cercando di far capire cosa è giusto e cos’è sbagliato, ridando
significato alle loro esistenze e tessendo una rete di legami significativi,
essenziali per l’equilibrio della persona. Le regole “imposte” servono per
impedire alle persone di lasciarsi vivere e di farsi del male, bevendo o
vivendo allo sbando, servono per far sentire le persone importanti e ben
volute, per insegnare una buona convivenza e ritmi di vita sani, e non sono
create per dare impedimenti fine a sé stessi. Ecco quindi che la teoria di
Skinner trova conferma nella realtà, in particolare nella realtà della comunità
di vita “il Ponte”, dove attraverso l’imposizione di un controllo “buono” si cerca
i fare ri-acquisire alle persone la propria libertà e la propria dignità.
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La libertà
…..facile credere che la volontà sia libera e che la persona sia libera di
scegliere. Il risultato è invece il determinismo. La generazione spontanea del
comportamento ha raggiunto lo stesso stadio della generazione spontanea
dei bachi e dei microrganismi al tempo di Pasteur. "Libertà" significa di solito
l’assenza di restrizione o coercizione, ma in modo più ampio significa una
mancanza di qualsiasi determinazione anteriore: "Tutte le cose che
pervengono ad essere, tranne gli atti di volontà, hanno cause".
È in gioco la vistosità delle cause quando il comportamento riflesso si chiama
involontario – un individuo non è libero di starnutire o non starnutire; la causa
iniziante è il pepe. Il comportamento operante si chiama volontario, ma non è
realmente senza causa; solo è più difficile individuare la causa. La condizione
critica per l’esercizio apparente del libero arbitrio è il rinforzo positivo, in base
al cui risultato un individuo si sente libero, si dichiara libero e dice di fare
come gli piace o ciò che vuole e che gli garba di fare. Il ruolo peculiare
attribuito alla volontà deriva dalla sua apparente spontaneità e dal suo
mistero, che suggerisce che si possono produrre conseguenze senza azione
fisica.
E’ necessario andare oltre la dicotomia libertà e costrizioni, per molti
pensatori infatti i due concetti di libertà e costrizione non possono essere
intesi come fenomeni autoescludentisi. Non sono collegati da un legame
quantitativo, che farebbe dipendere un aumento delle libertà da una
diminuzione delle costrizioni e viceversa; queste però non agiscono all’interno
di un campo d’azione a somma zero, cioè in uno spazio sociale dove ad un
aumento delle costrizioni, etero e autodirette, corrisponderebbe una parallela
diminuzione degli spazi di possibilità individuali. Si può semmai sostenere
che quando mutano qualitativamente le forme sociali e individuali della
costrizione, non potranno non subire cambiamenti le configurazioni dentro cui
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si costituiscono spazi decisionali autonomi e, quindi, le possibilità di scelta tra
diversi corsi d’azione.
Ogni istituzione sociale, per quanto stabile, centralizzata e potente che sia,
non crea norme in modo completamente autonomo e libero in quanto le
istituzioni, come qualsiasi altra struttura sociale, non possiedono una realtà
ontologica: le istituzioni “non pensano” e, pertanto anche il modo in cui esse
producono norme, per essere compreso deve essere ricondotto ai
meccanismi sempre variabili di funzionamento delle relazioni interindividuali e
ai rapporti di potere che possono essere più o meno asimmetrici.
Le norme sono l’espressione non deterministica dei rapporti di forza che
agiscono all’interno di un ambiente e, quindi essendo prodotti sociali, sono
costruite su e a partire da una realtà relazionale storica e contingente.
Essendo prodotte socialmente, le norme possono essere più o meno
interiorizzate e condivise. Possono agire a strati diversi della personalità, e
contribuire in modo più o meno intenso, a costruire le identità degli individui. Il
maggiore o minore grado d’interiorizzazione e condivisione delle norme
influisce sul loro stesso livello di stabilità e sulla loro eventuale modificazione.
Le norme, qualsiasi esse siano, non pendono come una spada di Damocle
sugli individui e sui contesti sociali, ma sono in continua ridefinizione e
formazione; tra le norme sociali che costringono ci sono infatti delle possibilità
di evasione e possibilità di riformulazione delle stesse. Si instaura, tra le
norme e la loro potenziale riformulazione, una dinamica circolare, un instabile
“gioco di poteri” e dei rapporti di forza; c’è insomma relazionalità tra norma e
possibilità, tra costrizioni e libertà.
Non c’è costrizione se non dentro uno spazio di libertà, cosi come non ci
sono libertà non innescate in un insieme di coercizioni. Costruzioni e libertà si
presuppongono necessariamente, tanto da poter sostenere che “la società, è
quella condizione tipicamente umana, che ci rende allo stesso tempo liberi e
vincolati: perché se fossimo nell’una o nell’altra soluzione allora non
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saremmo in società.” (Donati P. “La società è relazione” p. 8 CEDAM Padova
1998) I confine delle une aprono gli spazi delle altre, e viceversa.
Libertà e costrizioni quindi si possono vedere come aspetti relazionali
interdipendenti e condizionati sia dalla nostra componente biologica, sia da
quella sociale. Cosi la componente chimico-biologica del nostro cervello non
è che uno dei tanti fattori, per quanto importante, che intervengono nel
processo di condizionamento del nostro diventare esseri sociali pensanti.
Pensiamo e agiamo come soggetti sociali, al di là di semplici istinti e azioni
riflesse. Siamo costrutti sociali, dove poco sembra appartenerci, forse nulla
oltre la sostanza di cui siamo costituiti, ci appartiene naturalmente; ci
muoviamo dunque dentro spazi-tempi determinati dal continuo e storico fluire
delle relazioni umane. Agiamo come individui vincolati e costretti:
interdipendenti. E’ a questo livello che si collocano, inscindibili e collegate
circolarmente alle costrizioni sociali, le libertà. I nostri gradi di libertà, dove
con ciò intendo riferirmi all’intensità delle azioni che ci appaiono, che
percepiamo come libere, di senso di autonomia, di decisione e di distinzione,
sono lo spazio della nostra percezione che è poi anche la percezione
dell’altro da sé. La propria individualità non può essere vissuta come se fosse
un oggetto che ci appartiene naturalmente e che può quindi esistere anche al
di fuori di un contesto sociale di interdipendenze. Si evidenzia cosi che, per
quanto asimmetrica una relazione possa essere, non ci troveremo mai di
fronte a individui totalmente liberi o totalmente costretti, semmai ci troveremo
di fronte a soggetti “diversi”, più deboli, che si trovano a sottomettersi a
situazioni di assoluta mancanza di libertà, intesa come possibilità di scelta,
dove ogni atteggiamento di resistenza, che postula la coscienza di possedere
un certo margine di libertà individuale, viene a mancare.
La prospettiva relazionale limita cosi, sia il pericolo che vede attribuire
all’individuo un’illimitata capacità-possibilità di scelta, quanto il rischi opposto,
secondo cui l’attore sociale non metterebbe in azioni sovradeterminate dai
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meccanismi di funzionamento del più vasto contesto sociale e ambientale. Il
rischio che è comunque importante sottolineare è l’esistenza di soggetti più
deboli, che si trovano a “subire la vita”, che non sono capaci, per motivi di
povertà relazionale o per problemi psichici, o perché sono semplicemente più
fragili, di opporre resistenza e di agire le pratiche del sé, usando un termine di
Foucalt, in maniera autonoma; Invece di rielaborarli a propria misura, questi
soggetti si percepiscono inadeguati, e vedono i modelli che si trovano nella
cultura imposti, invece che proposti, suggeriti dalla cultura, dalla società e dal
gruppo sociale. Ci si trova cosi in situazioni dove il sentimento di
inadeguatezza e il senso di inferiorità prevalgono, la forza di reagire oltre che
i mezzi stessi per farlo, vengono a mancare, ci si percepisce in una
situazione estrema dove non resta nient’altro che non fare scelte estreme che
li conduce verso un percorso di autodistruzione e progressivo abbandono di
sé. Proseguendo cosi verso la più assoluta perdita di libertà. In particolare
penso alla libertà della scelta di una persona di vivere per strada, è inevitabile
chiedersi se la condizione di senza dimora è una scelta o una costrizione. Ci
sono due diversi punti di vista; c’è chi pensa che sia una condizione
totalmente subita e chi invece filofeggia sul fatto che è una scelta pienamente
libera e consapevole. Io credo che, entro limiti ben precisi si possa affermare
che è una scelta vivere per strada, in quanto credo che comunque qualsiasi
individuo abbia un minimo di autoderteminazione ma subito voglio
sottolineare che non è soltanto una scelta fatta perché desiderata o perché
considerata ottimale. Ogni persona infatti, è soggetto nella vita a compiere
scelte che avrebbe preferito evitare, perché sconvenienti e portatrici di
sofferenza, ma che si vede quasi costretto a fare. L’esperienza della vita si
svolge con una “dotazione iniziale di risorse”, data da condizioni oggettive in
cui si trova, dalle caratteristiche personali, dalle risorse economiche, sociali,
culturali del suo ambiente, dalla carica affettiva che lo circonda, e ciascuno di
noi ha diverse capacità di gestione di queste risorse originarie; non si può
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quindi apriosticamente stabilire quali siano le cause principali che portano a
scegliere di vivere per strada perché ogni singolo individuo ha delle proprie
“chance di partenza” e delle proprie capacità di gestione di queste e delle
esperienze di vita. La contraddizione quindi sta a priori, , in quanto le persone
che hanno compiuto tale scelta o che l’andranno a fare sono persone che a
causa di lacunosità nelle loro “dotazioni originarie”, di mancanza di
significative relazioni umane, di una serie di microfratture esistenziali
insostenibili, non avevano nient’altro da scegliere. Quindi soffermandomi
nuovamente sulla libertà presente nella scelta di diventare “senza dimora”,
ritengo necessario evidenziare che anche se apparentemente una persona
sceglie consapevolmente è anche vero che è una scelta dettata da una
mancanza di condizioni oggettive che permettono di compiere una scelta tra
diverse alternative. Non avevano quindi altra possibilità di scelta, e io
definisco questa non una libera scelta, perché una scelta senza alternative è
una costrizione.
Ecco quindi cosa intendo per libertà: l’esseri liberi di scegliere perché messi
nelle condizioni di poter avere delle diverse chance e liberi d’essere diversi, di
avere i propri limiti e le proprie peculiarità, i propri problemi e la propria
“dotazione di risorse oggettive e soggettive” per affrontarli.
Credo che sia emblematica la figura del senza dimora per evidenziare come,
una persona che apparentemente vive al di fuori di ogni regola di ogni
costrizione, non sia in realtà una persona libera ma anzi oserei dire
totalmente costretta, in quanto è priva di qualsiasi risorsa oggettiva e
relazionale necessaria per compire scelte, per definirsi, per vivere e per
provare l’esperienza della libertà.
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Verso l’alienazione
L’uomo odierno percependosi come separato dal mondo, si sente libero ma
anche solo. E questa libertà lo obbliga a fare una scelta che gli fa paura; egli
ha dunque bisogno di sentirsi unito agli altri uomini, non dimentichiamo infatti
che l’uomo è un animale sociale. Questo conflitto di base tra separazione e
unione, tra autonomia e socialità, è comune a tutti gli uomini. Per restare in
buona salute mentale, ognuno deve risolverlo; ma ognuno lo risolve in
maniera differente, a seconda del suo carattere e della sua cultura. L'uomo
può risolverlo: tramite l'amicizia, la tenerezza, l'amore, l'azione per bisogno di
giustizia, la ricerca della verità e dell'indipendenza; oppure tramite la
dipendenza, l'odio, il sadismo, il masochismo, la distruttività, il narcisismo
(amore di sé, egocentrismo). Non bisogna dimenticare che uno dei primi
sentimenti dell'uomo fu quello dell'ansietà esistenziale. Ogni uomo ha bisogno
di riconoscersi nel suo universo naturale e sociale, ha bisogno di una
bussola, di un quadro di orientamento (la stregoneria, la magia, la credenza
in un Dio hanno coperto questo ruolo). Che importa che il ruolo sia falso, che
alieni l'individuo, l'importante è che esso svolga la sua funzione psicologica di
socializzazione con l'universo. E' per questo che le religioni e le ideologie le
più irrazionali e fanatiche sono così attraenti.
Più che di una bussola l'uomo ha bisogno di dare un senso alla propria vita,
di avere degli scopi di vita; ma può anche votarsi completamente ad un idolo,
ricercare il potere, ammassare del denaro che evolverà ad un ideale
umanitario. L'uomo può trovare il sentimento d'unità, ridurre la frattura
esistenziale, unirsi agli altri uomini, amarli, essendo creativo e indipendente;
ma può anche cercare di sfuggire all'angoscia fondendosi con qualche cosa o
con qualcuno, perdendo quindi la sua autonomia, sia per passione amorosa,
religiosa o ideologica, sia esercitando una potenza assoluta sugli altri
(sadismo), sia sottomettendosi totalmente agli altri (masochismo), sia infine
facendo di se stesso il centro del mondo (narcisismo). L'uomo può fuggire la
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sua separazione, cercare di dimenticare se stesso, ritrovare l'unità nel trance,
nelle orge sessuali, nei rituali, nella droga, nella passione sfrenata, nella
distruzione; egli può cercare la fama, identificarsi nel suo ruolo sociale,
diventare un oggetto; questa è la via regressiva, la via dell'alienazione, nella
quale non si afferma come individuo autonomo e perde se stesso.
La nostra società, non ha saputo sviluppare una via progressiva, né la
potenzialità di autonomia e di cooperazione degli individui, né la creatività
individuale e sociale, sviluppa invece le potenzialità regressive; essa
nasconde la noia, il disgusto di vivere, la depressione, l'aggressività, la
distruttività. Eppure l'uomo ha in sé le possibilità di diventare un essere
autonomo, creatore e sociale, purché le condizioni esteriori favoriscano le
sue possibilità. L'aggressività, la distruttività non sono innate; esse sono una
delle possibilità che la natura ha dato all'uomo per risolvere il suo problema
esistenziale: la distruttività non è che l'alternativa alla creatività. Si dice che il
corredo genetico di una persona, che è il prodotto dell’evoluzione della specie
spieghi parte del funzionamento della sua mente, mentre la parte restante è
spiegata dalla sua storia personale. Per esempio la competizione fisica o
intellettuale che sia, ha determinato la comparsa di sentimenti non fisici di
aggressività, i quali conducono a loro volta ad atti fisici di ostilità.
A condizione che una società favorisca le potenzialità di autonomia e di
creatività rendendo possibili dei legami affettivi d'uguaglianza, l'uomo perderà
i suoi impulsi negativi.
Il carattere mercantile della nostra civilizzazione e lo sviluppo della tecnica
hanno disumanizzato i rapporti tra gli uomini; ormai si possono uccidere
migliaia di persone premendo un bottone; la sessualità stessa diventa una
tecnica del piacere ed il corpo una "macchina dell'amore"; non dimentichiamo
che la distruzione degli ebrei da parte dei nazisti fu organizzata come una
produzione di massa con recupero di materiale e riciclaggio. L'uomo
cibernetico è una specie di schizofrenico in un universo di cose, un essere
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cerebrale tagliato dalla realtà affettiva, un uomo che non avvicina gli esseri e
le cose affettivamente, con il cuore, ma in termini di efficacia e di rendimento.
Questo uomo può sembrare ben adatto e soddisfatto perché divide la sua
follia con milioni di altri. Paradossalmente, ai nostri giorni, è la persona sana quella che rifiuta di diventare una macchina tra le macchine - che può sentirsi
estranea al mondo, isolata al punto di diventare psicotica.
Certo, la situazione è grave; ma si vede nascere una reazione, una rivolta,
come se le forze della vita si risvegliassero nell'uomo ed egli rifiutasse di
lasciarsi andare ad un controllo cattivo. E' forse anche per questo che si
vedono giovani protestare contro i misfatti della civilizzazione industriale,
contro l'inquinamento, contro l'autoritarismo, contro le barriere gerarchiche e
le diverse segregazioni, contro la guerra. I bisogni di "qualità di vita" si fanno
più pressanti. Alcuni preferiscono un lavoro interessante in miseria a delle
soddisfazioni di denaro e di prestigio. L'amore della vita è stato
profondamente represso in ognuno di noi, ma ciò che è stato represso
continua ad esistere.
L'uomo preistorico che viveva in bande come cacciatore e raccoglitore di cibo
era relativamente poco distruttore e sapeva mostrarsi amico e cooperante. E'
con lo sviluppo della produzione e la divisione del lavoro, con
l'accumulazione di un largo surplus e la costruzione di Stati, fondati su un
sistema di gerarchie e di élites, che la distruttività ha cominciato ad
aumentare.
E' possibile pensare che, essendo in crisi la società attuale, l'uomo arriverà a
costruire una nuova forma di società nella quale nessuno si sentirà
minacciato. Ma bisogna ben riconoscere che per ragioni economiche e
culturali queste speranze non si realizzeranno senza difficoltà.
Ciononostante è possibile costruire un mondo nuovo, ma il nuovo
“umanesimo” deve essere radicale; dei cambiamenti profondi sono necessari
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nelle strutture politiche ed economiche, nei nostri valori, nella nostra
concezione degli scopi di vita e nel nostro comportamento personale.
Grazie ad una migliore conoscenza dell'uomo, grazie ad una specie di fede
nell'uomo e nella vita, il cambiamento personale è possibile, anche nella
nostra società malata. Non si tratta di aspettare passivamente il miracolo di
una rivoluzione violenta ma bisogna cominciare a cambiare la società,
bisogna accelerare il cambiamento e renderlo irreversibile. La conoscenza di
sé e le relazioni umane possono essere migliorate ed anche trasformate
grazie all'apporto della psicologia sociale e della dinamica di gruppo, cosi
come affermava E. Fromm nella sua “Speranza e Rivoluzione”: “Bisogna
moltiplicare i piccoli gruppi nei quali l'individuo impara a spogliarsi delle sue
antiche strutture mentali e relazionali e può mettersi a vivere l'autonomia e la
cooperazione egualitaria”.
L'uomo deve, in effetti, liberarsi delle antiche strutture alienanti e ricreare le
nuove strutture che lo renderanno completamente umano. Non potrà non
servirsi di una nuova educazione. Senza questa nuova forma di educazione,
senza la moltiplicazione dei piccoli gruppi di formazione e di lavoro dove si
insegna a vivere diversamente, la pratica dell'autogestione e la società
libertaria resteranno allo stadio di utopia. Sono già presenti nella realtà gruppi
di individui che più o meno coscientemente cercano di creare un nuovo modo
di vivere, che cercano di cambiare la società. Si pensi per esempio a
numerosi movimenti mondiali e in particolare all’esperienza dell’Associazione
San Marcellino, che, usando le parole del Professore G. Pieretti: “dalla sua
straordinaria esperienza umana concentrata sul mondo delle persone senza
dimora, trova la fiducia e la certezza di una possibilità di riscatto dell’uomo,
figlia della certezza che tra gli uomini non ci sono perfetti o imperfetti, né salvi
e dannati ab inizio”. San Marcellino è una realtà concreta che permette di
toccare con mano come sia viva e pulsante la voglia di cambiamento, fuori e
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dentro di noi, che ha il merito di innescare una fondamentale catena tra
associazioni in Italia ed Europa che condividono lo stesso mondo della vita.
Ecco quindi esempi tangibili di come una pacifica e sommersa rivoluzione sia
in atto, verso il cambiamento, verso una nuova dimensione umana, dove la
dignità, la libertà e la centralità della persona ne sono il motore.
Il ruolo del potere
In quest’ottica il potere sembra essere un’esigenza pratica, non è mai
individuale e pertanto non è collegabile nell’ottica contrattualistica della
cessione e dell’acquisizione. Un potere dinamico ed elastico è un potere
eminentemente relazionale, che pertanto non esiste al di fuori di un contesto
ambientale di interdipendenze. Nel momento in cui le istituzioni collettive
hanno preso (appreso) forma e contenuto, gli individui non avrebbero scelta
che rimanere dentro il quadro normativo fissato dall’istituzione, salvo ricadere
nel campo dei comportamenti devianti e pertanto punibili tanto dalle regole
del diritto (si pensi al protagonista del film Arancia meccanica, Alex in
carcere) tanto dai meccanismi informali di esclusione sociale (si pensi ad
esempio all’eterno e tormentato girovagare del vagabondo o della fuga nella
droga). A differenza delle teorie dell’azione, quelle sistemiche procedono
invece dall’alto verso il basso (top-down), secondo una logica deterministica
che spesso finisce con il considerare alla stregua di cose, le istituzioni
restringendo eccessivamente i margini di scelta degli attori sociali.
La prospettiva relazionale permette di superare questa dicotomia tra attore e
sistema sociale per studiare i fenomeni interpersonali senza che il primato
spetti al singolo o al sistema, ma semmai alla relazione che li connette
rendendoli interdipendenti. Quindi Potere con la p maiuscola per definire un
potere concentrato e un potere monarchico assoluto, la sovranità legittima di
uno stato liberaldemocratico, l’autorità indiscussa di un leader carismatico
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ecc. , un potere che ha quindi un centro, un fulcro dal quale si diparte un
marginale potere, con la p minuscola, o meglio dei poteri periferici più o meno
gerarchicamente subordinati al Potere; poteri diffusi, instabili, multiformi che
determinano dispositivi concreti come per esempio carceri, cliniche, comunità
che impongono o offrono all’individuo la possibilità di determinarsi. Il folle, il
tossico, il senza dimora come soggetti e la follia, la tossicodipendenza e la
povertà estrema come oggetti, non esistono separatamente e pertanto non
possono essere considerate come due sostanze isolabili, non basta però
nemmeno connetterle con un rapporto dialettico di interazione, in quanto
anche ciò significherebbe trattarli come fenomeni che esistono
separatamente e che solo in un secondo momento entrano in connessione.
E’ necessaria pertanto una prospettiva processuale e relazionale che
consideri il folle e la follia, il tossico e la tossicodipendenza ecc.,
interdipendenti e non isolabili; la relazione deve essere prioritaria anche
all’interno delle tecnologie di potere che producono l’oggetto della follia e
quindi il folle, l’irrazionale, il criminale, il malato, ecc.
I poteri dunque agiscono sull’individuo, sulle essenze delle idee, sulla
determinazione del comportamento, e agiscono a primo impatto sui corpi, si
pensi ad esempio ai meccanismi di ammissioni alle istituzioni totali: prigione,
ospedale, caserma ecc., in cui i processi di cambiamento comportamentale
degli internati, passano attraverso un meticoloso lavoro sul corpo. Lo schema
gerarchico non aiuta molto a comprendere le complesse e policentriche
dinamiche del potere, meglio riferirsi quindi ad un potere diffuso (non
equamente s’intende) impercettibile, incoglibile. Esiste una serie di ricorrenze
che mette in risalto come il potere sia in parte responsabile del
comportamento degli individui, per esempio i rigidi meccanismi di controllo
della parola o della gestualità sono rinvenibili tanto nell’ingresso in carcere
quanto nelle relazioni che si stabiliscono per esempio in una corte o in una
caserma; i riti e le consuetudini determinate dai poteri, creano le definizioni di
19
normale/anormale, giusto/ingiusto, bene/male, sano/malato e queste
condizionano in maniera conscia e anche inconscia l’operare degli individui,
il loro comportamento, i loro principi e valori fondamentali e in generale i
significati che si attribuiscono ai vari ambiti di vita (scuola, lavoro, famiglia,
abitazione, tempo libero).Il rispetto delle forme cerimoniali di comportamento
è vincolante per gli individui che all’interno di “spazi totali” agiscono sempre
per così dire, come internati. E chi non riesce a stare all’interno di questi
spazi totali si perde, per cosi dire, in un percorso di abbandono e
decomposizione del sé.
20
CAPITOLO 1: LA CHIAVE DI LETTURA
Il comportamentismo
Il behaviorismo (o comportamentismo) è stata la corrente che fin dagli inizi
del secolo ha visto registrare i maggiori consensi e i più interessanti sviluppi
in rapporto al metodo, ai campi di ricerca, alle applicazioni. Essa si
caratterizza per la forte ostilità nei confronti di tutte le impostazioni legate
all'introspezione, al mentalismo, allo strutturalismo, alla psicoanalisi,
all'associazionismo, a quelle che partono da ipotesi innatiste per sostenere
che la psicologia è studio dei comportamenti osservabili. Passata da un
orientamento meccanicistico (come nel caso dei riflessi condizionati di
Pavlov) ad uno studio più articolato dei rapporti tra stimolo (S) e risposta (R),
la scuola ha progressivamente prestato maggiore attenzione alle affinità e
alle differenze del comportamento degli animali e degli uomini, alle relazioni
tra apparati biologici, fisiologici, organici e modalità di comportamento, alla
presenza degli elementi attivi operanti nell'individuo a livello biologico,
psichico, comportamentale nei rapporti con l'ambiente. Di qui la concezione
dell'apprendimento come costruzione di legami associativi tra stimoli e
risposte nell'interazione con l'esterno. Tra i suoi esponenti principali E. L.
Thorndike (1874-1949), J.B. Watson (1878-1950), C.L. Hull (1884-1952).
Tuttavia la figura di maggior spicco è certo quella di B.F. Skinner (19041990), in quanto ha dimostrato tutte le potenzialità del comportamentismo nel
campo pedagogico.
Il punto di partenza della teoria di Skinner è la critica alla tesi che il pensiero
ha un modo di funzionare autonomo, con proprie strutture, processi evolutivi,
modalità di raccordi e di organizzazione dei dati dell'esperienza; in realtà il
pensiero (come del resto anche il linguaggio e le altre funzioni superiori) è
una forma di comportamento che non possiede una propria autonomia
21
interna e di cui pertanto occorre conoscere le componenti. Skinner rifiuta la
posizione degli attivisti che postulano una serie di motivazioni, bisogni,
interessi immediati nel fanciullo. Presupponendo invece che determinati
eventi (detti "rinforzi") abbiano un valore particolare per gli individui in quanto
il loro prodursi riduce o aumenta lo stato di tensione interna, il modo più
efficace per promuovere un certo tipo di condotta mentale sta nel mettere a
punto rinforzi con caratteristiche contingenti (contingenze di rinforzo) tali da
esercitare un controllo positivo del comportamento. Normalmente
nell'educazione si fa ricorso al controllo disciplinare, mentre sarebbe più
proficuo rafforzare le risposte, le condotte, le azioni ecc. ritenute positive con
opportuni interventi.
Si possono perciò tracciare dei programmi di rinforzo che determinano la
quantità, la qualità, la frequenza dei rinforzi necessari per ottenere lo
stabilizzarsi di certi comportamenti. Discriminare, generalizzare, astrarre non
sono per Skinner atteggiamenti del pensiero e a un certo stadio dell'età
evolutiva, ma comportamenti acquisiti in seguito a una serie di operazioni
nell'ambito delle quali viene favorita quella ritenuta più valida. Lo stesso
dicasi per il linguaggio, per le attività espressive e creative. In generale la
società cerca di raggiungere questo obiettivo usando però termini e modi
impropri, anche perché esiste una difficoltà reale nel rafforzare in termini
immediati e temporali i comportamenti. Si tratta invece di puntare sulla scelta
appropriata di contingenze rafforzative, sulla semplificazione dei contenuti da
apprendere, sul controllo immediato, sull'apprendimento individualizzato. Si
rende dunque necessaria un'impostazione programmata secondo linee
curricolari ben specificate, sia come gradualità di progressione sia come
momenti di apprendimento e di verifica, in modo da ottenere un insieme
organizzato di comportamenti che sia aperto, non ripetitivo e non meccanico.
Ispirandosi al romanzo "Walden" di H. D. Thoreau (1854), Skinner propone di
costruire una società in cui il rispetto della libertà e della dignità della persona
22
viene ottenuto con un sistema educativo fondato sul condizionamento
operante, senza punizioni e repressioni; una società “paneducativa” che
anziché punire tardivamente i comportamenti negativi, si fondi sul rinforzo
precoce di quelli desiderabili. Poiché l'istruzione tradizionale, mentre
presuppone che le conoscenze necessarie vengano acquisite da tutti in modo
uguale, trova poi difficoltà a individualizzare l'insegnamento per adattarlo ai
ritmi di ciascuno, Skinner ritiene che sia necessario progettare delle
sequenze di apprendimento uguali per tutti ma nello stesso tempo in grado di
individualizzarsi per le esigenze di ciascuno e di verificare accuratamente i
risultati ottenuti. La pedagogia deve diventare "tecnologia dell'insegnamento",
avvalendosi del supporto di tecnologie esterne. Infatti la pedagogia di
Skinner, proprio presupponendo l'esame e il controllo analitico dei processi e
delle strutture psichiche da formare negli allievi, privilegia la progettazione, la
programmazione, l'istruzione programmata. In tale contesto si inserisce
l'impiego delle macchine per insegnare: già realizzate nei primi esemplari fin
dagli anni '20, Skinner le progetta, al fine di individualizzare l'insegnamento,
secondo un modello a sequenza lineare. Esse si fondano sul principio di
realizzare accurate sequenze di contenuti e quesiti che ogni alunno può
affrontare con i propri tempi e modi, avendo la garanzia di un feedback
immediato attraverso il rinforzo che segue alla risposta. E' chiaro che
l'impiego di questi strumenti ai fini dell'insegnamento non si può certo inserire
nella scuola tradizionale ma solo in un progetto che si propone di creare
scuole modello, di formare insegnanti preparati, di semplificare e di
programmare ciò che si deve apprendere, di migliorare la prestazione dei
materiali utilizzati, di definire in modo più organico gli obiettivi, di costruire
curricoli scolastici articolati nello spazio, nel tempo, nei contenuti, nei sistemi
di verifica e di controllo.
23
Walden due. Utopia per una nuova società
Per far comprendere meglio il disegno di ingegneria comportamentale di
Skinner, riporto di seguito il suo progetto di comunità utopica, incarnato nel
romanzo Walden Due.
E’ un romanzo scritto nel 1948, riprende il romanzo Walden (vita nei boschi)
di Henry David Thoreau (1854), romanzo volto a riportare l’uomo ad una sua
interiore autenticità in perfetta armonia con la natura.
Walden 2 è una ripresa socializzata e razionale, la descrizione del modello di
vita di una piccola città in cui le regole sociali sono all’opposto di quelle
vigenti negli States.
Si narra della visita nella comunità-città di Burris (dal primo nome di Skinner,
Burrhus) professore universitario di psicologia, e di un professore di filosofia
morale, Castle, che opporrà delle contro argomentazioni polemiche, più due
coppie: una affezionata allo stile di vita americano mentre l’altra molto meno.
Vengono accolti dal prof. Frazier che li guiderà nel loro soggiorno.
Il romanzo è soprattutto un’opera di pedagogia estesa a tutti i livelli di vita: dai
bambini appena nati fino agli anziani, dai problemi individuali a quelli collettivi
dove gli individui possono esprimere e sviluppare le proprie capacità
intellettive, operative, creative, secondo il proprio gusto, senza l’ansia della
competizione, senza il morso della gelosia (“il mostro dagli occhi verdi”), ma
in cooperazione con gli altri.
L’ingegneria culturale adottata si basa sui seguenti punti:
•
No gelosia e invidia
•
No competitività
•
No leaders
•
No prevaricazioni personali di alcuni su altri (“non siamo adoratori di
dei”)
• No imposizioni di sorta
•
No arricchimento
24
• No consumismo
• No moda
•
Sì al controllo del feedback comportamentale degli individui adottando il
condizionamento operante
• Sì all’eliminazione di situazioni casuali
• Sì al lavoro per tutti, secondo i gusti di ciascuno e poco impegnativo
• Sì ai servizi socializzati (tipo grande comunità, no familiare).
• Sì al matrimonio precoce
• Sì a pochi figli e subito
• Sì alla realizzazione professionale o artistica anche della donna
• Famiglia = grande comunità
•
I figli sono di tutti, tutti possono fare i genitori
•
Educazione comunitaria (“la casa domestica non è il posto giusto per
l’educazione”)
L’istruzione è un punto debole del progetto di Skinner: non propone nulla di
più di ciò che aveva dato la scuola attiva.
Per l’educazione della condotta, si usano esercizi di autocontrollo sin dalla
prima età e vige la regola dell’antipunizione (come nella psicanalisi) constatati
i suoi effetti negativi a lungo termine.
Nel libro è diffuso un elegante senso dell’umorismo nei confronti del “buon
senso” e dei luoghi comuni.
Skinner si oppone al perenne controllo del comportamento di molti da parte di
pochi (Chiesa, governi, scuola, famiglia, ecc.) per mezzo di un
condizionamento operato con mezzi rudimentali ma non per questo meno
efficaci.
Skinner ha scelto di presentare il proprio pensiero in termini di
controargomentazioni che emergono principalmente fra due protagonisti del
romanzo: Castle e Frazier.
25
Il tema dominante è quello della tesi fondamentale di coincidenza di libertà e
controllo.
L’autore ritiene pronta la scienza del comportamento. Le sue tecniche però
sono attualmente nelle mani sbagliate. L’uomo non è libero, anche se ciò
forse non sarà mai completamente dimostrabile. Obbiettivo della scienza del
comportamento skinneriana è la felicità di tutte le persone impedendo la
prevaricazione di singoli individui sugli altri assieme a quello del
raggiungimento di un senso di libertà ottenuto senza coercizione e punizione.
La tecnica adottata è quella del condizionamento operante. Si tratta di
aspettare che la persona esibisca un determinato comportamento, che faccia
già parte del suo repertorio e che quindi la persona ha la tendenza o
inclinazione ad emettere, a produrre spontaneamente, cioè non in risposta a
richieste altrui. A tale comportamento deve essere fatto seguire
immediatamente o qualche evento che sia piacevole per la persona stessa,
un evento cioè che rientri in quelle cose che ci piacciono, vogliamo che si
verifichino di nuovo (rinforzo positivo), oppure la cessazione della situazione
di disagio in cui il destinatario si trovasse nel momento in cui emetteva quel
determinato comportamento (rinforzo negativo), l’eliminazione cioè di quelle
cose che non ci piacciono, non vogliamo che si verifichino e prendiamo
misure per liberarcene ( Walden 2 p.251). In entrambi i casi con la risposta
immediata si ottiene un aumento della probabilità che la persona esibisca
spontaneamente quel comportamento, si ottiene cioè che il suo
comportamento venga rafforzato.
A Walden 2 viene praticato il rinforzo positivo perché le situazioni negative
sono già state eliminate per quanto possibile già a priori. Ad ogni modo
controllare tramite rinforzo vuol dire instaurare una situazione in cui l'individuo
“fa ciò che vuole” o meglio “tende a fare ciò che vuole” e riceve in più un
premio consistente in un’esperienza che è sicuramente piacevole per lui. Il
controllo tramite condizionamento operante viene sospettato di
26
manipolazione, mistificazione e autorità anonima. Frazier replica che
ciononostante le persone si ritengono completamente libere, fanno ciò che
realmente desiderano fare: non vi è né costrizione né rivolta. Non si lotta mai
contro forze che fanno sì che essi vogliano agire nel modo in cui agiscono. La
manipolazione operata dal controllore viene evitata attraverso una scrupolosa
osservazione del feedback comportamentale degli individui: è l’appagamento
stesso dell’individuo a dimostrare ciò che è bene e ciò che non lo è.
I programmi di sviluppo sono tagliati a misura individuale dei soggetti e
modificati sperimentalmente: se ci si accorge che un programma risulta
troppo avanzato per un soggetto non ottenendo i risultati previsti, si ritorna ad
una fase precedente. In questo modo viene rispettato il normale e soggettivo
ritmo evolutivo. Il benessere del controllato è alla base del corretto
programma di condizionamento. Così pure particolare attenzione riceve il
gruppo in quanto secondo Skinner una corretta cooperazione sociale è
indispensabile alla felicità dell’individuo. ( Per una scienza del
comportamento, B.F. Skinner)
Quindi la forma di controllo è compatibile con l’esperienza di libertà e il
sistema skinneriano permette di scongiurare rischi manipolativi. L’obiettivo
del corretto comportamento viene raggiunto unitamente alla rinuncia
sistematica alla punizione ed alla repressione dei bisogni individuali assieme
all’adozione di un piano mediante il quale l’educatore ottiene con sicura
efficacia il massimo di realizzazione delle potenzialità individuali, compresa la
capacità di stabilire relazioni di cooperazione sociale che non è qualcosa di
diverso dalla felicità individuale, ma ne è condizione necessaria.
(Argomentazioni Skinneriane a cura di Lucia Lumbelli p. XX).
Skinner ritiene il modello di Walden 2 perfettamente applicabile anche alla
società americana del 1976 come a quella del 1948: se non viene applicata è
solo per motivi di cattiva volontà politica o pedagogica favorendo invece
modelli che favoriscono una cultura competitiva ed opportunistica. (p. XXI)
27
Nella società descritta da B. F. Skinner nel racconto Walden Two, del 1948,
tutto ciò che bisogna insegnare ai ragazzi sono le tecniche di apprendimento,
poiché poi ognuno per proprio conto o assieme ai compagni che s'è scelto,
coltiverà gli studi che desidera. Tanto più che la città di Walden offre in vari
luoghi e in vari momenti le più diverse opportunità di sviluppare le proprie
conoscenze. Come egli afferma anche nel suo saggio "Oltre la libertà e la
dignità", lo scopo deve essere quello di offrire a ciascuno le conoscenze e le
tecniche necessarie per padroneggiare sè stessi. Per cui nella sua comunità
utopica, le lezioni di autocontrollo debbono iniziare sin dalla primissima
infanzia e saranno abbastanza frequenti per molto tempo. "Dato che i nostri
bambini -spiega un abitante di Walden due- restano felici, energici e curiosi,
non abbiamo assolutamente bisogno di insegnar loro delle "materie". Noi
insegnamo solo le tecniche del pensiero. (...)diamo ai nostri bambini delle
opportunità di apprendere e una guida, (...)il resto lo imparano da soli nelle
nostre biblioteche e nei nostri laboratori. (....)non vengono trascurati, ma solo
raramente, per non dir mai, viene loro insegnato qualcosa. (...) Piuttosto noi
diamo loro le nuove tecniche per acquisire conoscenza e pensiero" ( Walden
2 p.131-2). Perciò al di là del leggere, scrivere e far di conto, non si
prevedono né programmi, né discipline fisse, né classi; tutti d'altronde si
preoccupano dei bambini della città, li aiutano e sono a loro disposizione per
ogni problema. Anche a Pala, nell'Isola di Huxley, 1963, al posto della
famiglia vi sono centri di adozione reciproca per cui i bambini pensano ad
ogni adulto come fosse suo padre o sua madre. Come tra gli Ajaoïens di
Fontenelle anche in questa società, ispirata al buddhismo tantrico, l'intera
società si è costituita in comunità educante e si sente responsabile per tutti i
suoi membri, a tal punto che l'istruzione formale passa in secondo piano
rispetto alla formazione stimolata dal contesto socializzante.
Per tutte le società si può parlare in un modo o in un altro di comunitarismo
utopico nel senso che il bene comune, anzi della comunità, è il bene supremo
28
cui tutti vanno educati sin da piccoli, e dunque il sentimento di appartenenza
alla comunità è il più forte rispetto a qualsiasi altro. Altre volte, si pensi per
esempio alle comunità di vita o di riabilitazione, dove ormai le persone
presenti hanno un certo tipo di educazione e di stile di condotta, il senso di
appartenenza viene man mano insegnato e rappresenta poi il vero collante
della comunità stessa e il “farmaco” adatto per i problemi esistenziali delle
persone che ne fanno parte. Dato che vi è esclusa ogni coercizione forzata,
l'educazione è lo strumento principe cui ci si affida, ma quando invece non si
ha davanti un foglio bianco da educare diventa di cruciale importanza
sviluppare un forte senso di appartenenza basandosi sulla costruzione di una
relazione di fiducia e di aiuto. Sempre si ribadisce il concetto che è più
importante orientare a certi valori che non far apprendere nozioni.
Nella società odierna però la realtà è ben diversa; un forte individualismo fa
da valore fondamentale nell’esistenza dell’individuo. Non è più il senso di
appartenenza ad una comunità o ad una società il motore che fa si che
l’individuo si comporti conformemente. Il condizionamento viene attuato in
maniera sottile attraverso i Mass-media, le mode, i luoghi comuni, la cultura.
E’ inverosimile pensare come nella realtà non ci sia un naturale senso di
coesione, ma che ci sia una specie di lotta di sopravvivenza, e chi vince è chi
riesce a stare tra i binari di ciò che a priori viene definito normale - che poi
nient’altro è che il comportamento più diffuso - chi non riesce a stare tra i
margini viene definito un deviante un diverso, un malato, un pazzo, ecc.
nessuno si pone l’interrogativo se questa persona sta bene o male, se è cosi
per sua scelta o perché tante microfratture nella sua esistenza gli hanno fatto
credere che per lui non c’era che quella soluzione. “Chi non ci sta dentro”
viene etichettato e man mano escluso. Allora c’è qualcosa che non va,
bisogna allargare gli orizzonti e capire che le persone sono esseri fragili e
vulnerabili che la nostra libertà d’essere, di fare, di apparire e di scegliere è
intaccata da sottili meccanismi di controllo che non lasciano scampo o meglio
29
non permettono all’individuo una piena realizzazione di sé. Con questo non
intendo dire che non ci devono essere meccanismi di controllo o meglio di
contenimento, anzi credo che questi siano necessari, ma intendo dire che il
controllo affinché sia buono deve essere esercitato per il bene comune non
per interessi privati, deve inoltre svilupparsi attorno all’individualità di ognuno,
deve prevedere diversità tra un controllato e l’altro. Le regole quindi devono,
a mio avviso, avere un senso chiare e preciso; devono delineare dove inizia e
dove finisce il margine di libertà di ogni individuo, per facilitare quindi la
convivenza civile e per dare all’individuo, la sensazione di essere protetti e
non controllati.
30
CAPITOLO 2: IL CONTESTO
1. Cenni sulle povertà
Prima di parlare dell’Associazione San Marcellino di Genova credo sia utile
alla comprensione cercare di dare un volto al contesto in cui opera, e credo
che sia quindi necessario dare una più precisa spiegazione di cosa s’intende
per povertà.
La situazione stessa di definizione della povertà è un problema; la maggior
parte delle persone infatti crede che i poveri si caratterizzino per una più o
meno assoluta privazione materiale, stereotipo che perde immediatamente di
validità se facciamo caso alle persone che si presentano a chiedere aiuto in
qualsiasi servizio sociale; vediamo infatti persone normali, nel senso che non
si differenziano nel loro apparire, dalla maggior parte delle persone; si
presentano infatti ben vestiti, con cellulare e altri “optionals” il quale
possesso a mio avviso, sta appunto ad evidenziare come non siano i beni
materiali a mancare a queste persone. Solitamente si valuta la povertà non
come fenomeno multidimensionale ma come povertà economica.
Questo tipo di interpretazione però, è valida solo in parte, il concetto di
povertà infatti ha subito e tutt’ora inevitabilmente subisce modificazioni, si
muove infatti di pari passo con la trasformazione della città e delle sue
tradizionali forme di tessuto connettivo. La società, imperniata dei valori, delle
regole, delle caratteristiche del sistema capitalistico, racchiude in sé
meccanismi subdoli e meno appariscenti di esclusione sociale che prima non
erano presenti.
Innanzitutto è necessario concepire la povertà come un processo , come ,
usando le parole del professore Guidicini, lo stato finale di immobilità ormai
del tutto priva di autonomia strategica. Non è uno stato d’essere ma una
sequenza verso il basso che passa attraverso più situazioni.
31
Meglio quindi servirsi di una terminologia specifica e parlare di povertà
urbana estrema, ed evidenziarla come “una sequenza di rotture biografiche
che interessano sia la personalità, sia il tessuto sociale” (G.Pieretti, Per una
cultura dell’essenzialità, Pg 81).
Parlare di povertà significa quindi carenza o mancanza di beni materiali, ma
vuol dire anche addentrarsi in una situazione che vede soggetti incapaci e
riluttanti al provvedere a se stessi, e sottolineare cosi anche la presenza di
più o meno numerosi eventi destabilizzanti aventi effetto di microfratture
dell’equilibrio individuale e che via via fanno perdere il senso stesso della
vita.
E’ come se la società elevasse un muro, ponesse un alinea di separazione
che definisce deviante e non deviante, normale e anormale, malattia e
integrità, stigmatizzando cosi le persone e rendendo ancora più difficile
l’accettazione delle proprie debolezze e fragilità. La pena non è quindi un
supplizio, ma è la perdita di un diritto, di un bene: la libertà di scelta e il diritto
di ognuno di essere messo nelle condizioni minime necessarie per compiere
scelte e decisioni.
La persona che grava in stato di povertà diventa altro da sé, e segue un
processo deformativo che ha effetti sul corpo e sulla mente.
Una persona povera che si trova a vivere in strada, perde coscienza di sé
stesso, perde la sua identità, viene stigmatizzato; la sua nuova forma viene
data dal suo essere “barbone”, uomo che vive per strada, ha cosi inizio la sua
“lobotomia celebrale” il suo cammino verso la perdita di ogni appartenenza e
del senso di sé, verso la spersonalizzazione.
La società, toglie a mio avviso la possibilità di “libero arbitrio” nel senso che
fornendo un assistenza che deve essere solo richiesta e creando una linea di
confine tra normale e anormale, fa si che alcuni individui siano costretti a
scelte estreme di degradazione. Si inserisce a questo punto il “gioco delle
alleanze, dove vince chi riesce a tessere la rete di relazioni primarie e
32
secondarie più solide e funzionali. La vita si svolge all’interno di una rete
complessa di interdipendenze, dove si sviluppano forme “buone” di controllo
e condizionamento auto e etero imposto, l’integrità di una persona si
mantiene e si sviluppa all’interno di un insieme intricato di relazioni plurime e
policentriche, che costituiscono sedi di appello cui fare ricorso e affidamento
nei momenti “troppo” duri della vita. Se queste reti relazionali vengono a
mancare, quando l’individuo per i motivi più disparati si trova a non farcela da
solo, inizia l’inesorabile percorso di abbandono e decomposizione del sé, un
percorso che porta alla povertà estrema.
2. San Marcellino
2.1 Un po’ di storia
L’associazione San Marcellino è legata ad un particolare stile d’intervento
che attraverso gli anni si è andato evolvendo a favore di quelle persone che,
per le loro difficoltà, si trovano a dover gravitare attorno alla piccola chiesa di
San Macellino, nel cuore del centro storico genovese. L’associazione di fatto
si situa in linea di continuità con la veneranda Opera di carità denominata “La
messa del povero”, nata nel 1945 per iniziativa di un padre gesuita, P. Paolo
Lampedosa. Ai margini del centro storico della città di Genova, quest’uomo
sensibile , alla vista delle tante macerie che ricoprivano la città vecchia dopo i
bombardamenti della guerra, toccato, colpito, commosso dalla sofferenza di
tanta gente, decise di aprire la porta della vecchia chiesetta di San
Marcellino. Dietro l’invito del Padre Lampedosa varcarono la porta della
chiesa le persone più diverse, gente che aveva perso tutto con la guerra,
bisognosi delle cose più disparate come un aiuto alimentare, una foto, una
buona parola o anche solo di un po’ di compagnia.
33
Accanto a queste persone se ne insinuavano altre che avevano scoperto una
possibilità concreta e semplice di rendersi utili, di fare qualcosa di buono per
chi ne aveva bisogno. Nelle foto di archivio si rivedono persone dignitose
composte fra i banchi della chiesa e anche impegnata in momenti di festa,
gita, pellegrinaggi. Nel 1963 Padre Giuseppe Carena S.J. prende il posto di
Padre Lampedosa improvvisamente deceduto. Ormai l’attività
dell’associazione già esistente da diversi anni è diventata punto di riferimento
per le persone e per le famiglie, che per le più disparate motivazioni si
trovano a gravitare attorno al centro storico di Genova. Padre Carena decise,
in quel periodo, di muoversi soprattutto a sostegno delle famiglie provenienti
dal sud Italia che si trovavano a vivere nel fatiscente centro storico, dove
trovavano alloggiamenti a basso costo. Si creano attività rivolte ai bambini e
ai ragazzi appartenenti a queste famiglie migrate per mancanza di beni e di
mezzi in situazioni di povertà diffusa, cosi facendo si costituisce un modo di
agire rivolto all’aiuto dell’intero nucleo. Attorno all’attività dell’associazione
gravitano molti volontari, chiamati collaboratori, che poi prendendo spunto
dall’esperienza di San Marcellino sviluppano diverse associazioni e
cooperative che operano nel campo dei minori, alcune delle quali ancora
presenti nel territorio genovese. La figura di Padre Carena risulta cruciale da
molti punti di vista; prosegue infatti le attività assistenziali quali l’ambulatorio
medico, il sostegno alimentare ed economico, la distribuzione di indumenti
ecc., oltre a questo però inizia una rilevante attività di osservazione, di
registrazione, infatti documenta e scrive tutto ciò che man mano viene a
conoscere delle singole storie di vita delle persone in difficoltà. Fa questo in
assenza di giudizi morali sulle condizioni di vita dei singoli e delle famiglie.
Importante è anche il suo ruolo di tramite tra le persone in difficoltà e il resto
della città, pone infatti a tutta la città il problema dei più deboli inviando un
foglio informativo che tutt’oggi viene inviato a circa quattromila indirizzi.
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La messa domenicale è forse ciò che ha caratterizzato e caratterizza le
attività di San Marcellino, proprio in questo momento di preghiera, ma anche
di incontro e di aiuto, è stato possibile per Padre Alberto Remondini e Padre
Nicola Gay, osservare, conoscere, comprendere ed affrontare le situazioni
difficili dell’emigrazione, della tossicodipendenza, dell’alcolismo e dell’essere
senza dimora.
Dall’inizio degli anni ’80 l’associazione rivolge le sue attività principalmente a
favore di homeless che gravano in condizioni di povertà estrema e pur non
escludendo le altre problematiche si strutturano a partire dal centro d’ascolto
servizi ad hoc: dormitori, accoglienze notturne, comunità, mense, laboratori.
2.2 Lo stile
L’Associazione San Marcellino ci ricorda: “di fronte al disagio abbiamo
imparato tante cose, ma ancora tante abbiamo da impararne. Più la
situazione è difficile e più occorre essere preparati: abbiamo iniziato come un
gruppo di volontariato e non vogliamo trasformarci in una fredda squadra di
tecnici dell’aiuto; Cerchiamo però di dare grande attenzione all’integrazione
tra buona preparazione e buone motivazioni perché le persone preparate
siano anche ben motivate e perché le persone motivate si preparino
adeguatamente”.
“In quest’ ultimi anni ci siamo ritrovati accano alle persone della strada ed
abbiamo cominciato ad incontrarle cercando di dare spazio agli stimoli che,
come singoli o come gruppo, ricevevamo da loro: in questo modo è nato
anche il nostro stile, che non è stato frutto di un’idea precostituita ma del
desiderio di incontrare, di comprendere e poi di intervenire. A partire
dall’ascolto dei bisogni immediati (un letto, un pasto, vestiario, una doccia)
abbiamo cercato di avvicinarsi ai bisogni più profondi, raramente espressi:
rileggendo successi e fallimenti abbiamo trovato la strada che è quella di
oggi, che sappiamo non essere quella definitiva, perché sarà continuamente
35
rivista a partire da nuove riletture del vissuto e adeguandosi ai repentini
cambiamenti della società. Il nostro stile consiste perciò nel lasciarsi
emotivamente toccare da queste persone e la riflessione sulla nostra
esperienza di servizio ci induce ad affermare che non bisogna accontentarsi
di inventare risposte adeguate al disagio ma, anche e prima di tutto bisogna
lasciarsi cambiare dall’incontro, cambiare mentalità, guardare noi stessi e gli
altri in un modo più umano, più vicino al cuore, più vero”. (sanmarcellino.ge.it)
Quando si pensa alla condizione di senza dimora, quello che magari più
colpisce è il fatto che queste persone non abbiano una casa dove ripararsi
dove dormire dove prendersi cura di sé, ma in realtà l’essere senza dimora
presuppone anche l’assenza di un luogo degli affetti, di relazioni significative,
di simboli che sono elementi necessari per la definizione della nostra identità.
Quindi lo stile d’intervento dell’associazione non intende lavorare solo sul
problema dell’essere senza casa, ma parte dalla condizione di desaffiliation
(R. Castel), l’esperienza ha messo in evidenza come il problema sia
multidimensionale e articolato, comprende infatti molte diverse problematiche
psico-fisiche che mettono a repentaglio lo sviluppo del sentimento di
appartenenza sociale, innescando o aggravando itinerari di destrutturazione
dell’identità. Partendo dal presupposto che ogni essere umano è tale in
quanto animale sociale, e che la sua forza sta anche nell’aggregazione e
nella socialità, nella sua capacità di tessere relazioni, legami, appartenenze,
si evidenzia come queste persone, che per diversi motivi si trovano a vivere
un progressivo distacco nei confronti dell’appartenenza sociale e delle reti
sociali primarie e secondarie (famiglia, istituzioni ecc.) , scivolano in una via
di non ritorno, verso un percorso di abbandono e decomposizione del sé. Il
rapporto con questo “realtà parallela” ha messo in risalto che è necessario
intervenire con una logica multidimensionale e che non si deve ridurre la
problematica ad un mero insieme di necessità. La risposta al bisogno quindi
dev’essere vista non tanto come finalità ma come strumento e mezzo
36
attraverso cui mettere a punto un progetto di accompagnamento, che
contrasti la cronicizzazione e che porti l’individuo a rinegoziare la propria
identità verso una maggiore emancipazione.
Occorrono anni e anni perché le persone possano ritrovare il loro equilibrio, i
tempi sono quelli dettati dalla storia personale e i progetti ne vengono
condizionati. Non esiste una meta ideale a cui si mira, può essere
l’autonomia parziale o totale, un inserimento lavorativo o a volte anche solo
un accompagnamento sulla strada che per scelta o per forza si trovano a
percorrere. Nell’accompagnarli molto spesso è più che sufficiente stare in
ascolto, essere presenti e rispettare le differenze individuali. E’ preferibile
aspettare che sia la persona a parlare, a chiedere, a confidare; non si deve
cadere nella trappola del “dare per scontato” e in quella di creare situazioni
troppo rigide e predeterminate. Massimo rispetto dunque per le esigenze e i
tempi di ciascuno.
Ci si può riferire al concetto di “addomesticamento” presente nel racconto di
De Saint-Exupery, Il Piccolo Principe, addomesticamento che richiede tempo,
costanza e pazienza nel cominciare a fidarsi dell’altro attraverso piccoli passi.
Addomesticare, cosi come viene spiegato al piccolo principe, è una cosa da
molti dimenticata; vuol dire creare dei legami, vuol dire riconoscere di avere
bisogno uno dell’altro, vuol dire creare dei riti. Ecco quindi evidenziarsi lo stile
di San Marcellino nel prendersi cura delle persone. Occorre tempo, occorre
un tempo di “addomesticamento reciproco” in cui far crescere e maturare la
fiducia perché possa prendere campo l’aiuto, la comprensione, la tenerezza,
l’affetto e perché possa innescarsi una relazione significativa che aiuti a far
ritornare le persone ad una condizione di vita sostenibile.
Si cerca di conoscere la persona al di là del suo problema più evidente.
Questo permette di vedere la persona sola senza casa, senza lavoro, come
una persona segnata dai suoi problemi, dalle sue debolezze, da una serie di
microfratture, ma anche come fonte preziosa di ricchezze e risorse ancora
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inespresse. Per questo agli operatori è richiesto un enorme lavoro di
relazione e uno sforzo per lavorare in pieno con le persone per le persone,
offrendo loro principalmente una relazione.
Gli operatori cercano di valorizzare negli utenti le capacità residue di cui
ancora dispongono. Ciò è strettamente connesso ad una logica progettuale,
con la quale è possibile costruire insieme alla persona in stato di bisogno, un
progetto non rigido e determinato, che porta ad un certo cammino e ad alcuni
fondamentali cambiamenti che possono migliorare la qualità della vita,
verificati nei coordinamenti che San Marcellino attua secondo una logica di
lavoro di rete. Ecco quindi evidenziarsi il reale oggetto di lavoro: prima del
bisogno c’è la persona nella sua interezza, importante è quindi il ruolo di
mediazione tra individuo e sistema sociale: “crediamo che la persona che
viene esclusa o si auto-esclude, necessiti di uno spazio e di un tempo dove
tentare di riconciliare il conflitto che una volta esposto genera solamente
violenza, autodistruzione, morte”. Incontrare una persona nella sua interezza,
e non solo il suo bisogno, si evidenzia nei fatti con la “regola” di dover
passare dal centro d’ascolto per un colloquio individuale con un operatore per
poter accedere alle strutture, il senso è che deve esserci un incontro
significativo tra due persone e non solo tra una domanda e un’offerta. Non
viene erogato solo un servizio, ma quello che viene innescato nell’incontrarsi,
è un processo di rinegoziazione di sé, attraverso un’esperienza educativa,
cioè una situazione in cui i protagonisti - operatori, utenti - possano dare un
senso a quello che stanno vivendo, una situazione dove c’è un
condizionamento operante che l’associazione cerca di fare sull’individuo,
trasmettendo la sua filosofia, e mettendo delle regole, delle norme di
condotta, che costituiscono i punti fermi necessari alla persona di strada
affinché riprenda la sua dignità e la sua libertà.
L’universo dell’utenza mostra caratteristiche eterogenee, e nega l’esistenza di
percorsi e di carriere definite. Se vogliamo evidenziare un comune
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denominatore tra le diverse storie di vita, questo è sicuramente l’incapacità di
stare dentro ad una realtà normale. La tipologia di interventi che San
Marcellino offre, indica che non ci sono routine consolidate, ma che per ogni
persona ci sono dei singoli interventi, contro le “macro risposte che sono
etichettanti, spersonalizzanti ed emarginanti”. Si cerca di superare l’ottica del
mero assistenzialismo, cosi in voga nelle strutture pubbliche ed
evidentemente non valido, si cerca quindi di far cambiare alla persona il
proprio “cattivo” modo di vivere proponendo un “contratto”, una relazione
importante correlata di servizi e attività. Il rapporto che si viene ad instaurare
non è dettato a priori da logiche di bisogno e risposta ad esso, ma è la
persona stessa che lo sceglie,che detta i tempi e le modalità della relazione.
Credo che a si possa parlare di condizionamento operante, anche per quanto
riguarda il servizio con le persone di San Marcellino, utilizzando l’esempio
dell’associazione viene cosi esaltato il “buono” del condizionare altre
persone. San Marcellino lavora con le persone che gravano in situazioni di
povertà estrema e le condiziona con il suo stile e la sua filosofia, fa si che
queste, riprendano affiliazione e senso di sé, attraverso una relazione
importante che dà consigli e suggerimenti per ritornare a vivere un’esistenza
degna di essere chiamata Vita.
2.3 Le aree di intervento
Fra i senza dimora le problematiche emergenti sono principalmente:
• L’alloggiamento
• Il lavoro
• La salute
• Le dipendenze
• La socializzazione
Nell’affrontarle è necessario non porsi in una posizione a priori critica, ma
chiedersi “come mai questa persona si è lasciata andare fino a questo punto,
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come mai è cosi mal ridotta”, nel fare ciò occorre essere pazienti ed adattarsi
i tempi degli altri, diversi da persona a persona e diversi perché sono il
risultato di singole storie di vita. In ogni individuo che si trova a rivolgersi a
San Marcellino, i problemi della casa, del lavoro, dell’alcool, delle relazioni e
quello sanitario a suo tempo hanno creato e stanno ancora creando
sofferenza. Accanto ai servizi offerti, si cerca di organizzare interventi che
spaziano in cinque aree. L’accoglienza è la parola d’ordine a San Marcellino,
fa parte del tentativo di offrire alle persone uno spazio ed un tempo per
negoziare la propria identità. Faccio riferimento in particolare all’area
accoglienza del centro d’ascolto, dove un volontario gestisce la sala d’attesa
e accoglie chi arriva. Per i frequentatori è importante qui, essere riconosciuti,
chiamati per nome, valorizzati, se si è attenti a curare il momento
dell’accoglienza, anche e soprattutto nelle modalità di approccio, allora la
persona riscopre la possibilità di scoprirsi “voluta bene” e degna di attenzione
e di stima. In particolare una buona accoglienza permette alla persona di
cambiare in positivo l’idea che ha di sé, la persona deve sentirsi amata da
qualcuno, deve percepire un’attenzione e un riconoscimento da parte degli
altri, che lei non riesce a darsi da sé stessa. Essere ben accolti aiuta quindi le
persone senza dimora a riacquisire l’importanza della socializzazione, dello
stare insieme e del fidarsi dell’altro; condizioni essenziali per la buona riuscita
dell’accompagnamento verso la libertà e la dignità personale, infatti solo cosi
scatterà il desiderio di una rinnovata conoscenza di se stessi e di una
rinnovata gestione e organizzazione della propria esistenza. E’ importante
quindi accogliere e poi saper ascoltare. All’inizio infatti le persone si rivolgono
al servizio portando i loro problemi e i loro bisogni quali il mangiare, il
dormire, aiuti economici ecc. sta agli operatori, con gli strumenti a
disposizione, convertire la richiesta iniziale in una vera relazione d’aiuto, e
creare quel rapporto significativo di comprensione dell’altro, che permetta di
leggere oltre la richiesta iniziale, e di cercare i reali problemi, mancanze,
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bisogni.
Dietro al problema alloggiamento, c’è infatti, oltre alla necessità di un posto
caldo, pulito e protetto dove dormire, il bisogno di una dimora, di un proprio
luogo degli affetti , delle relazioni significative, di simboli che sono elementi
fondanti della propria identità. Anche dietro una dipendenza che
necessariamente dobbiamo curare, c’è un problema altro che ha portato a
abusare di una determinata sostanza legale o meno. Il problema non sta
nella sostanza, o meglio non solo in quella, il problema sta a monte, è, un
malessere esistenziale che ti porta a vivere nell’oblio dello sballo, che ti porta
a riuscire a vivere solo alterato. E’ importante aiutare chi si trova in difficoltà,
soprattutto con un tipo di aiuto che porti la persona a percepire il suo reale
problema, ed è necessario non fermarsi al solo problema “apparente” ma
andare a fondo e chiedersi “Perché”.
CAPITOLO 3: I SOGGETTI
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1. Storie di vita: percorsi diversi per un destino comune verso
la libertà.
I percorsi biografici sotto esposti, hanno lo scopo di evidenziare come la
libertà intesa come “fare quello che si vuole”, impregnata dalla filosofia del
vivi e lascia vivere, si dimostra estremamente pericolosa e addirittura
dannosa. Se non c’è una qualche forma di controllo auto o etero imposto, se
manca un’effettiva disponibilità di risorse oggettive e soggettive, se non c’è
un senso del limite e una concreta conoscenza di sé stessi e se è assente un
sistema interiorizzato di norme, infatti, le persone lasciate allo “stato brado”,
perdono dignità e restano faticosamente aggrappati al limite della
sopravvivenza, iniziando un percorso di inesorabile abbandono e
decomposizione del sé, senza contenimento alcuno, verso l’autodistruzione e
scegliendo per contingenze e non per libera volontà.
La logica comunitaria e nello specifico la realtà del Ponte, comunità
residenziale della più vasta realtà di San Marcellino, sono un esempio di
concreta e piena coincidenza di libertà e controllo. Le persone che seguono
un percorso di reinserimento con l’associazione, sono consapevoli della loro
esigenza di essere aiutati ma sono anche coscienti che deve nascere da loro
la voglia di cambiamento. Il loro non è semplicemente un seguire i comandi,
le regole, ma è, seguire delle indicazioni “terapeutiche” date da persone con
più capacità e maggiore esperienza, essenziali per rientrare in porto e
riprendere sé stessi e nel modo possibile maggiore libertà ed autonomia. La
persona è, attraverso piccoli passi, aiutata ad uscire da una situazione in cui
è spesso assente una dimensione temporale e un certo autocontrollo. Le
regole presenti non sono semplicemente imposte, ma sono nate prendendo e
dando senso al contesto in cui si formano. Non sono quindi divieti e
costrizioni fine a se stessi, ma sono una forma di contenimento essenziale. I
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progetti che intendono promuovere l’autonomia e la libertà e la dignità,
riconsegnano alla persona il senso e l’importanza della propria vita Questo
emerge dai racconti biografici degli ospiti che aiutano a vedere e a capire
come questi individui abbiano riacquistato dignità e libertà solo dopo
l’inserimento in questa “istituzione totale” che li impone, regole e norme
comportamentali da rispettare.
Piero si presenta per la prima volta a San Marcellino nel novembre del
1987, molto intimorito, chiede un posto dove poter dormire, varie volte è stato
al dormitorio pubblico “Massoero”, ma ora non avendo più la residenza a
Genova non può più essere ospitato li. Fa molta fatica a parlare di sé,
racconta velocemente che ha lavorato come barista e cosi ha cominciato a
bere, che è stato sposato, e che ad un certo punto ha perso lavoro e moglie.
Dopo di questa prima sfuggente “apparizione”, Piero non si è più visto, fino al
giugno del 1995. Si presenta come un tipo trasandato vestito di jeans e fa
pensare ad uno scaricatore in porto, al tipico uomo da bar. Non fa in tempo a
sedersi che precisa di essere un ex detenuto. Da quando è uscito dal carcere
(circa quattro mesi) è stato in una pensione, pagandosela con dei precedenti
risparmi, da allora cerca lavoro, ma senza risultati.
Inizialmente si presenta alquanto scostante e sembra menefreghista, la sua
richiesta è chiara: “Cerco aiuto per non finire per strada, un posto dove
dormire che mi dia la tranquillità necessaria per riuscire a trovare lavoro e
ritrovare l’autonomia”.
Spiega di essere un tipo chiuso, di avere difficoltà a parlare con gli altri di sé
ed esprime la sua convinzione che parlare dei suoi problemi non porterà a
nulla in quanto non glieli risolveranno gli altri. Dice di non essere alcolista,
ammette che lo è stato, ma che ormai, il problema è risolto; ha smesso in
carcere perchè si era reso conto che bevendo non poteva andare lontano.
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Passano le settimane, la sua ricerca di lavoro è in vana, si sente addosso
l’etichetta di ex carcerato, che gli impedisce di trovare un’occupazione. Si
sente un uomo senza possibilità, accusa fastidio nell’essere giudicato e
pensa che il suo passato ormai gli precluda ogni possibilità di cambiamento,
la gabbia del suo passato gli toglie la libertà, lo priva d’ogni possibilità di
scelta, in questo periodo Piero non si sente libero perché privato delle
ricchezze della “normalità”: casa, lavoro, amicizie, famiglia.
Nel settembre 1995 è stato inserito nel laboratorio di pulizie, il suo umore e la
sua salute migliorano di giorno in giorno, dice di stare meglio soprattutto
perché, con qualche ora occupata, la giornata sembra meno dura. Ammette
anche di non bere più quei bicchieri che ogni tanto si sentiva costretto a bere
perché la vita gli pesava troppo. Molto soddisfatto del suo piccolo impegno
quotidiano, ha cominciato a progettare il domani, pensa a una casa
rendendosi però conto che anche a causa dei suoi 55 anni non è cosi
semplice inserirsi nel mercato del lavoro e trovare un’occupazione che gli
permetta di mantenersi autonomamente, ha quindi una costante sfiducia di
fondo verso la possibilità di migliorare la sua situazione.
E’ il maggio del 1997, Piero è da qualche giorno uscito dal carcere, dorme al
Massoero, si ripresenta a San Marcellino ed è convinto di ricominciare da
dove era arrivato. E’ molto prudente nell’esprimere i suoi progetti , dice che
per il momento preferirebbe uscire dal dormitorio pubblico perché in quella
struttura si sente abbandonato a se stesso, si sente in pericolo perché
nessuna regola viene fatta rispettare e da questo capisce che non c’è
nessuna attenzione verso di lui e verso gli altri ospiti.
Nel 1998 Piero viene inserito nella comunità di riabilitazione “il Boschetto”,
dove si inserisce subito nel migliore dei modi e recupera forza e buon umore.
Durante una delle riunioni settimanali, fa emergere le sue difficoltà, che
riguardano per esempio il rispetto degli altri compagni, la tolleranza e
l’accettazione delle osservazioni e delle critiche; dal suo modo di descrivere
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una vita comunitaria ideale traspare l’attaccamento ad un impianto valoriale
segnato dai trascorsi di carcere e dal tempo passato nella Legione straniera
prima come fante e poi come infermiere, dove non facendo né osservazioni,
né critiche agli altri si ha il diritto di non riceverne mai e dove le inadempienze
e le carenze di qualcuno vengono subito coperte da altri.
Nella dimensione comunitaria una concezione simile della convivenza si
scontra con il lavoro di scambio e arricchimento che quotidianamente avviene
tra gli ospiti. Le modalità di relazionarsi di Piero, frutto molto probabilmente di
esperienze povere d’opportunità di vera condivisione, lo condizionano molto,
ma non sembrano rappresentare un ostacolo al suo progetto con San
Marcellino e alla sua voglia di andare avanti e alla scelta concordata di
passare alla comunità di vita “Il Ponte” piuttosto che in un alloggio.
Questa scelta appare dettata dal suo bisogno e dalla sua voglia di socialità, di
condivisione, di famiglia. Il 31 maggio 1999, si trasferisce in comunità dove
prende subito possesso dei suoi spazi, mostrando lo sviluppo di un forte
senso d’appartenenza con le strutture, e con la più ampia realtà di San
Marcellino, cosa evidenziata anche dalla sua scrupolosa puntualità nel
presentarsi ai colloqui settimanali; padroneggia in cucina, luogo a lui preferito,
dove riscatta la sua identità perduta, riprendendo coscienza di se stesso e
delle sue capacità.
Quando gli chiedo di spiegarmi secondo lui che significa l’essere libero, mi
dice: “Ero solo, orfano di guerra, sono stato affidato ad una zia materna che
sposò un militare di Messina e ci trasferimmo li, dove ho frequentato le scuole
dei Salesiani fino alla prima liceo, quando a causa di litigi violenti con il marito
della zia, presi l’unica via che mi sembrava possibile per sfuggire da una
situazione ormai insopportabile, e mi arruolai in marina. Dopo tre anni di
Legione straniera venni espulso e approdai cosi a Genova, dopo un paio di
anni come barista cambiai professione e cominciai a fare il ladro e poi la vita
trascorse fine a se stessa, quasi a me estranea, ogni giorno agivo mosso da
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necessità impellenti, conducevo un’esistenza sregolata e senza senso,
abbandonato a me stesso, ai miei problemi e alle mie debolezze; senza
nessuno che mi prendesse per mano e mi consigliasse trasmettendomi un
piccolo insieme di regole a vivere dignitosamente libero. Quando mi sono
ritrovato in strada dopo tanti anni di carcere e di Legione straniera, mi
sembrava che non mi rimanesse altra scelta, altra possibilità, se non vivere
per strada, arrangiandosi a stento con qualche lavoretto illegale, io oggi
invece sono libero, mi sento libero perché ho scelto io di stare qui, perché ho
ritrovato forza e serenità, aiuto e compagnia; perchè in questa istituzione io
mi sento libero di scegliere, sono libero di essere me stesso nel rispetto della
mia persona e delle altre a me vicine e sono contento di sottostare alle poche
e fondamentali regole che San Marcellino ci dà, perché sono queste regole
che mi hanno tolto dalla rovina, che mi hanno fatto rientrare in porto!”
Aldo si presenta al Centro d’ascolto per la prima volta nell’aprile del 1988 e
dice di trovarsi a Genova da 4 anni. Inizialmente ospitato da una cognata, poi
a casa di un amico e poi si è ritrovato a vivere in stazione perchè “l’ospite
dopo un po’ pesa”. Ha una completa o quasi, assenza di rapporti con parenti
o con amici e comunque non ha nessuna relazione importante che gli dia la
possibilità di chiedere aiuto. Il suo primo bisogno espresso è di tipo
alloggiativo e chiede qualche soldo, dopo questa prima richiesta non si è più
presentato a San Marcellino fino al novembre del 1993, quando si ripresenta
fingendo di essere nuovo. Confida di avere moglie e tre figli, è certo però che
la sua famiglia non voglia avere a che fare con lui, perché non ha un lavoro.
Dice di essere in giro da tre mesi e di trovarsi per la prima volta in una
situazione del genere.
I suoi racconti non coincidono, forse la realtà è troppo dura da ricordare per
lui, forse ha vergogna di ammettere il suo passato, chissà, è comunque
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evidente il suo processo di abbandono, non ha lavoro, dorme dove gli capita,
è trasandato, rifiuta di stare al Massoero perché dice di “non voler stare con
quelli là”, chiede ospitalità all’Angolo. Man mano che il rapporto va avanti,
Aldo racconta la sua verità: dice di vivere da 40 anni a Genova, che ha
lasciato il lavoro su pressione della moglie che voleva tornare al “paesello”,
da li non è più riuscito ad inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro.
Ha 3 figli con i quali ha buoni rapporti ma contatti occasionali, racconta di non
essere mai stato in una situazione agiata, ma che con il lavoro che aveva
riusciva a “campare”. Dai suoi racconti emerge la sua incapacità a prendersi
le responsabilità, non è mai colpa sua, accusa la crisi lavorativa, la moglie
cattiva ecc. Escono lunghi periodi passati al Massoero, alle stazioni e sui
treni. Ormai la sua condizione di senza dimora è conclamata e ha evidenti
problemi di alcoolismo, che però minimizza, secondo lui, infatti, il suo unico
problema è la mancanza di lavoro, che lui considera la chiave per la stabilità
e per l’autonomia.
Gentile e ambiguo, ha un atteggiamento sottomesso e un modo di rapportarsi
che impedisce un reale contatto, continua comunque il rapporto tra Aldo e
San Marcellino, che permette di capire che dietro quell’uomo che ride,
scherza e fa battute in realtà c’è una persona sensibile e affettiva, che
racconta agli altri e a sé stesso bugie perché è meno doloroso rimuovere la
realtà passata piuttosto che rielaborarla.
Nel frattempo gli anni scorrono, Aldo ha una borsa lavoro di cui sembra più
che soddisfatto, sta frequentando un Club per alcolisti in trattamento e sta
cercando di ritrovare l’equilibrio e di progettare il futuro, dopo anni passati al
Gradino e all’Angolo, nel 2000, viene trasferito al Boschetto. All’inizio
reagisce con aggressività verso il gruppo, fa fatica a mantenere regolarmente
i suoi impegni e a creare contatto con il resto degli ospiti. Passa al Boschetto
tre anni, durante i quali si rivela la sua adeguatezza a vivere in una situazione
comunitaria piuttosto che in un alloggio, emerge infatti sempre più, il suo
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bisogno di essere aiutato e controllato. Soffre la solitudine, è pervaso da un
senso di inadeguatezza e inferiorità e per questo non è in grado di crearsi
autonomamente relazioni importanti, inoltre, forse a causa dell’abuso di
alcool, ha subito un precoce deterioramento mentale, La soluzione che si
prospetta ottimale per lui e per i suoi 56 anni è la comunità Il Ponte dove
tutt’ora risiede.
Parlandomi del suo passato Aldo fa molta confusione, dice una cosa e subito
dopo l’esatto contrario, riesco però ad entrare in confidenza con lui, così mi
racconta che nella vita ha tanto sofferto per i suoi errori, che l’alcool e il suo
senso di inferiorità gli hanno precluso molte scelte. Mi dice di essersi sentito
abbandonato nel momento del bisogno dalla sua famiglia, e che ha vagato
per molto tempo senza mete, bevendo e ancora bevendo per tutto il giorno,
per non pensare, per cercare di attutire il dolore vivo più che mai al solo
pensiero di essere solo, di non potere per vergogna e per orgoglio chiedere
aiuto ai figli, di non potere tornare a casa perché troppi pregiudizi gravavano
su di lui.
Aldo pensa di non essere mai stato veramente libero, dice che non ha mai
capito cosa voleva dalla vita e che solo da quando sta a San Marcellino crede
di aver scoperto se stesso e di essere scampato da una situazione senza via
di uscita. Vede le regole come essenziali per la formazione dell’individuo e
per il suo sviluppo, vede la vita in comunità libera e dignitosa, mentre ricorda
il suo passato in strada come un periodo buio, iniziato per forza maggiore e
non per scelta e dove era completamente condizionato e dipendente.
Gianni è seguito dal Centro d’ascolto di San Marcellino dal 1986. Accolto in
un momento di grave difficoltà, non aveva né casa, né qualcuno che lo
potesse aiutare e al quale fare riferimento. Confida che non ha mai visto il
padre e che la madre è morta quando lui era piccolo, ma in realtà questo non
è vero, non vede e non sente la madre da tantissimo tempo perché con lei
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aveva dei grossi problemi di incomprensione a causa dei quali preferiva
pensarla morta. Si è trasferito in giovane età a Roma con il fratello, dove si è
sperperato tutti i suoi risparmi, vaga per l’Italia, prima ad Ancona, poi Asti,
Torino e arriva a Genova dove riesce a sviluppare una forte conoscenza del
territorio e instaura rapporti con molti enti assistenziali. E’ ormai a tutti gli
effetti un senza dimora ed ha problemi con l’alcool, è terribilmente fobico,
molto rigido e chiuso, nervoso, aggressivo, dice di avere una casa in Lazio
lasciatagli dai parenti ma lui non la vuole, non gli interessa anche perché non
riesce a vivere sotto un tetto.
Gianni non riesce a stare in luoghi chiusi, dice di soffrire di claustrofobia, e
questo non gli permette di trovare lavoro e lo costringe a dormire per strada,
la sua fobia infatti gli impedisce di riuscire ad entrare in un posto chiuso
anche solo per riposarsi; forse i suoi disturbi derivano da un evento
traumatizzante; all’età di 24 anni ha perso la giovane amata, morta
all’improvviso a causa di un brutto male. Continua a dormire in strada, sotto
qualche portico, E’ inserito per la prima volta nell’anno 1992 al dormitorio
L’angolo e nel 1996 è trasferito in un’altra accoglienza notturna, sempre
dell’associazione, sembra cominci ad accettare di stare con altre persone
sotto lo stesso tetto.
A periodi alterni frequenta il Centro d’ascolto dove è aiutato ad affrontare le
difficoltà dovute a frequenti momenti di depressione legati per lo più, al suo
precario stato di salute, che lo portano a bere e a vagare in città.
Nel 1998 il suo senso di appartenenza con la realtà di San Marcellino è forte,
e lui inizia a mostrare interesse per trasferirsi in comunità, vorrebbe andare al
Ponte perché dice di sentire il bisogno di essere aiutato e contenuto e perché
non vuole rimanere solo. Anche se ammette che quando è con altre persone
è scontroso, maleducato, prepotente e che non sa accettare critiche o
consigli, sceglie la vita di comunità, perché alla fine dietro alla sua dura
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apparenza c’è una persona fragile e sensibile che ha molto bisogno di
attenzione e di affetto.
Gianni mi dice che le regole di San Marcellino e più in generale, della società
servono per delineare ed evidenziare gli spazi di libertà che ogni persona ha,
dice: “la libertà senza regole non può esistere”.
Secondo lui nessuno è libero se non ha un controllo alla base che gli fa
capire che cosa è bene e cosa è male, che insegna a rispettare sé stessi e gli
altri. Le regole per lui sono essenziali, innanzitutto per mantenere l’ordine e
poi perché il controllo è l’unico mezzo che permette alle persone di farsi una
coscienza, una guida interiore che aiuta a vivere.
Giorgio si presenta al Centro di ascolto nel 1998, dal 1983 è senza casa e
senza dimora, racconta di essere stato cacciato dalla moglie e che da allora è
senza lavoro, senza casa e senza dimora, e passa il tempo facendo lunghe,
lunghissime passeggiate “qua e là”. Giorgio al momento del primo colloquio
ha già 62 anni e da 15 vive per strada, dormendo in stazione e al dormitorio
pubblico.
Si presenta chiedendo assistenza: un alloggio e qualche spiccio.
Da anni ristagna in questa situazione; immobile, aspetta rassegnato e con
atteggiamento passivo. E’ convinto che siano gli altri a doverlo aiutare, che è
lo Stato che ha il dovere di trovargli una famiglia, cioè che è la legge che
deve garantirgli quei diritti e quel minimo essenziale perché lui possa
provvedere a sé stesso e a farsi una famiglia. Quando affronta certi
argomenti appare ansioso e impaziente, è convinto che sia suo diritto non
essere costretto a chiedere ed essere però ugualmente aiutato. Questo suo
modo di percepire il suo diritto all’assistenza è in netto contrasto con la logica
assistenziale attualmente in auge; in Italia infatti per ricevere aiuti e
assistenza sociale, è necessario chiedere!
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Il suo particolare modo di vedere la sua situazione e di pretendere aiuto, lo
hanno fatto gravitare in questo non spazio esistenziale, è effettivamente una
persona con qualche deficit mentale, ma questo non può giustificare l’omertà
dell’assistenza pubblica che lascia vivere cosi queste persone, che per
mentalità, per orgoglio o per incapacità non riescono a chiedere e si sentono
abbandonate da tutti e pian piano abbandonano se stessi.
Passa qualche anno al dormitorio “Il Gradino” dove dice di stare bene e dove
si adatta scrupolosamente a regole ed orari.
Più il tempo passa e più Giorgio ritorna in ottima forma, non è particolarmente
reattivo però esprime la sua esigenza di vivere in un contesto protetto, dove
possa essere contenuto e seguito. Dice che le regole non gli danno fastidio,
ma anzi gli piace seguirle e il dover rientrare in dormitorio ad una specifica
ora gli da un forte senso di appartenenza, perché dice “mi sembra che
qualcuno mi aspetti, e questo mi fa sentire accolto, ben voluto e importante”.
Si barcamena tra atteggiamenti di disponibilità e di chiusura, è ripetitivo e
fatica molto ad uscire dai suoi schemi mentali, non accetta consigli se non
dall’autorità, dice che vuole ragionare con la sua testa ma poi in realtà si
abbandona agli altri. Ammette di non sentirsi adatto a combattere “là fuori,
dove il mondo è troppo cattivo, competitivo e veloce”.
Quando arriva il sussidio, appare spaventato piuttosto che contento, reazione
strana visto che sembrava aspettasse quello per progettare il suo futuro. Il
ricevere un contributo economico continuativo, fa emergere la sua paura al
cambiamento, la sua paura di essere nuovamente abbandonato a se stesso:
“…ho paura di essere lasciato libero, in balia di me stesso e delle avversità
del mondo, non riesco a mettere dei paletti nella mia vita, da solo non riesco
a pensare ad un domani, da solo cammino e ancora cammino perché non so
che altro fare…”. Me lo immagino attraversare il mondo, lo vedo passeggiare
senza meta per posti che solo lui avrà il tempo di raggiungere, e al suo rientro
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gli chiedo: dove sei stato di bello oggi Giorgio? Risponde: “dalla foce a
Boccadasse e poi indietro, come sempre, come ogni giorno.”
Il suo comportamento è sempre uguale, tutto in lui è immutabile, innanzitutto
il sorriso che non è mai pieno ma sempre un po’ forzato, quasi come se la
felicità non appartenesse al suo cielo vitale; è uguale ogni giorno, nel modo di
vestire e nelle cose che fa, credo che il suo essere scrupolosamente
routinario lo aiuti a trovare in un certo senso, la sua stabilità.
Sembra essersi fermato agli anni ’40/’50, rispetto alla percezione che ha di lui
e della sua vita, anni in cui i film erano bellissimi, la musica straordinaria, la
società ordinata e a misura d’uomo, insomma sembra essersi fermato nel
periodo dove aveva un’esistenza degna e serena.
Gli viene proposto uno “stage” alla comunità “il Boschetto”, dove può “giocare
alla famiglia”, dove cioè può imparare a gestire se stesso in rapporto con altre
persone e a seguire regole, compiti e doveri precisi. Accetta anche se
preferirebbe la soluzione dell’alloggio per avere maggiore autonomia, si
rende comunque conto che per lui è ancora prematuro trovarsi solo in una
casa e gestire poi tutte le incombenze che ne deriverebbero, sembra pian
piano accettare l’idea che forse la via della comunità e in specifico “Il Ponte”,
comunità residenziale, sarebbe la più adeguata alla sua persona e alle sue
esigenze. Dopo 1 anno in comunità riabilitativa infatti, accorda con il suo
operatore, il trasferimento al Ponte, dove tutt’ora con la precisione di un
orologio vive tra i suoi riti, le sue abitudini e i suoi doveri di buon coinquilino.
Parlare con lui non è stato facile. E’ una persona ermetica e sfuggente, il tono
emotivo è quasi assente nelle sue parole, parla per frasi fatte, manierismi;
quando durante una cena in comunità ho parlato di me e del motivo della mia
presenza li, Giorgio mi ha detto che per capire cos’è la libertà e per capire se
gli individui sono liberi devo guardarmi attorno e vedere quante sono le cose
che una persona sceglie di fare perché vuole e quante ne fa per necessità,
per dovere, per caso, per forza maggiore. Mi dice che lui ha smesso di
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sentirsi libero proprio quando apparentemente non aveva più regole e legami
che lo portassero a fare o dire qualcosa, “la mia libertà è finita quando sono
stato lasciato solo senza nessuno che mi desse consigli e indicazioni”, le
regole sono per lui necessarie per percepirsi libero e per fare delle scelte,
“senza delle regole io non sono nessuno, mi alzo alla mattina e non so cosa
fare, senza l’insieme di norme che San Marcellino ha costruito per noi non mi
sarebbe restato nient’altro che camminare…”.
Franco ha iniziato a frequentare il Centro d’ascolto nel febbraio 1987. Dopo
diversi tentativi di accoglienza naufragati a causa del suo alcolismo e degli
accentuati tratti paranoici, nel febbraio del 1996 comincia a discutere per un
reale cambiamento, intraprendendo, con l’aiuto dell’Associazione San
Marcellino, un percorso di reinserimento sociale: accetta di avere una
residenza stabile e di conseguenza un documento d’identità valido, inizia a
frequentare il servizio di salute mentale, partecipa con regolarità al CAT (club
per alcolisti in trattamento), inizia una pratica per l’invalidità civile e si iscrive
al collocamento. Molto gradualmente le cose migliorano: il suo problema con
l’alcol viene tenuto a freno, i suoi tratti paranoici non compromettono la
relazione d’aiuto e in virtù di tali cambiamenti nel 1999 viene inserito nella
nostra comunità residenziale, che si presenta per un soggetto come lui la
soluzione più adatta perché concede da un lato maggiore libertà e autonomia
ma, dall’altro assicura contenimento e controllo, necessari per mantenere la
“rotta”. In questa dimensione il Signor Franco ha risposto positivamente sia
alla maggiore responsabilità richiesta dalla stretta convivenza con gli altri
ospiti, che dalla maggiore responsabilità richiesta dalla maggiore autonomia e
libertà che la comunità offre ai suoi ospiti: ha le chiavi di casa, deve rispettare
gli orari, gli ospiti sono chiamati a gestire spesa, pulizie, cucina ecc.
Franco mi racconta di sé e del suo passato: sua madre è morta tre mesi dopo
il parto, il padre si è subito risposato, è stato lui secondo Franco a far morire
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sua madre. Ha sempre avuto con la figura paterna un rapporto conflittuale,
che a causa dei problemi di alcolismo del padre, sfociava spesso in liti
violente. La situazione si era fatta insopportabile, cosi a sedici anni decide di
scappare di casa dove però ritorna. Dopo pochi anni, però, scappa ancora,
poi ritorna e riscappa, resta su questa altalena fino al 1980 quando approda a
Genova, fa il delinquente, ruba e spaccia e per questo passa in tutto 10 o 12
anni di carcere, che li segnano l’esistenza. Dice che si sente costretto a fare
queste cose, perché non sapeva in che altro modo guadagnarsi da vivere.
Non trovava lavoro e dopo i primi arresti era praticamente diventato
impossibile trovare occupazione. Confida che passa dei momenti di grave
sofferenza quando pensa alla sua famiglia, alla sua casa, al suo paese;
ammette che quando era solo e non contenuto da San Marcellino, beveva
per attutire, almeno momentaneamente, i dolori provocati dai ricordi e dalla
poca fiducia nella vita e in se stesso.
Da quando ha accettato di farsi aiutare dall’associazione, è contento di sé
stesso ed è sempre più soddisfatto della sua scelta di “vita buona”.
Ammette che è stato difficile accettare le regole e la convivenza con altre
persone diverse da lui, ma sottolinea l’importanza di stare in un posto
tranquillo e sicuro quale il Ponte dove si sente a casa sua.
Franco si accende particolarmente al suono della parola libertà, questo è
comprensibile, in quanto il suo essere è stato segnato da anni di reclusione e
quindi di privazione della libertà fisica, “non era nessuno là dentro, solo un
numero, solo un delinquente che doveva essere punito per le sue malefatte;
mi volevano rendere uguale agli altri nel modo di pensare, di agire e di
essere, mi hanno costretto a tagliare i capelli e questo è stato una delle cose
che più mi ha fatto sentire sottomesso e una nullità in quanto, insieme ai miei
capelli se ne andava anche la libertà di essere me stesso, con le mie
problematiche, i miei difetti, le mie particolarità ma anche con quel poco di
buono che avevo; se ne andava cosi, la mia libertà di essere Franco, diverso
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dagli altri, con bisogni e problemi diversi ma non per questo meno
importante”.
I suoi racconti sono evidentemente segnati dal carcere e da anni di vita di
strada: “sono sempre stato un ribelle, un diverso, mi sono trovato a
delinquere perché mi sembrava che fosse l’unica cosa che ero all’altezza di
fare, perché era l’unica via disponibile, la più facile, non me ne importava
niente delle regole e degli altri, perché nessuno rispettava me e il mio modo
di essere. Da quando sono a San Marcellino, ho imparato molte cose, innanzi
tutto ho iniziato a conoscere, capire ed accettare me stesso e poi ho capito il
senso delle costrizioni dell’associazione, che sono costruite attorno a noi per
proteggerci e per aiutarci”. “Le regole non vengono imposte, ma spiegate e
per questo acquistano un significato preciso e viene naturale e piacevole
seguirle. Per esempio, alla sera, dobbiamo rientrare in comunità entro una
certa ora , ogni tanto sbuffo per questo, ma poi sono felice perché sento che
qualcuno si preoccupa di me, perché so che c’è qualcuno che mi aspetta, che
aspetta proprio me, con le mie battutacce, con i miei modi sgarbati, con le
mie lune, aspetta me, Franco diverso ma non per questo, meno importante”.
Le semplici regole di civile convivenza e il contenimento esercitato dalla
comunità su Franco hanno senza dubbio raggiunto il loro scopo, hanno fatto
in modo che si sviluppasse in lui un forte senso di appartenenza e d’identità,
e lo facessero sentire amato,e voluto da quella che oggi lui considera la sua
famiglia. “Sono libero perché ogni giorno scelgo io cosa fare e non scelgo per
necessità ma per volere; per me la libertà è poter fare ciò che si vuole, è
poter fare delle cose coscienti del perché si fanno, e non perché qualcuno ti
da degli ordini, la libertà è l’assenza di dipendenze, l’alcolista e il drogato,
cosi come le persone che vivono per strada, i depressi e gli eterni
insoddisfatti, sono schiavi, persone deboli, che hanno scelto non quello che
volevano, ma quello che apparentemente li restava da fare”. “Io sono libero,
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libero di essere, di fare, di amare e di essere amato, di rispettare e di essere
rispettato, sono libero di scegliere”.
Enzo ha 57 anni dal 1997 è seguito da un operatore di San Marcellino,
inizialmente chiede aiuto per trovare un alloggio.
Racconta di essere stato cresciuto dal fratello del padre e sua moglie,
dall’età di 1 anno, da quando mori sua madre. Dice che con loro è riuscito a
passare una buona infanzia, a differenza dei suoi fratelli, anche se prova
ancora un po’ di rabbia per il fatto che, gli zii, non gli hanno permesso di
sposarsi e di essere autonomo. Nel 1978 gli zii hanno cominciato ad avere
problemi di salute, cosi lui si è visto costretto a lasciare il lavoro per accudirli,
nel 1993 sono entrambi morti, e in quel momento la situazione è precipitata.
Enzo si è trovato solo, uomo di mezza età non in grado di badare da solo a
sé stesso, di curarsi da sé perché ha sempre avuto qualcuno che, in salute e
in malattia, gli indicava che fare e come farlo. Vive per molto tempo nella
casa dov’è cresciuto, divenuta ormai una capanna sporca, senza luce, gas,
acqua. Quando si presenta al Servizio, chiede un posto dove dormire,
spiegando che ormai la sua casa se n’è andata insieme ai suoi parenti
defunti. E’ molto depresso, piange spesso, è amorfo, taciturno, non cura la
sua persona, è sporco, mal vestito. Emergono subito la sua incapacità a stare
da solo e i suoi problemi psichici. Nel 1999 gli viene proposto “il Boschetto”,
subito non ne è entusiasta, ma dice “almeno posso stare a casa quando
voglio e almeno ho compagnia”. Accetta il trasferimento, con la
consapevolezza che per il futuro gli potrà essere utile sviluppare delle abilità
nella cura della casa, in cucina, e nella cura di sé stesso.
Il suo comportamento esprime una grande pigrizia che lo porta a non curarsi,
non ha infatti una carenza di capacità, ma una forte tendenza a trascurarsi,
tendenza che coinvolge la persona, i suo oggetti personali e i suoi progetti
per il futuro. E’ poco autonomo, ha bisogno di continui stimoli, naviga sempre
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nel suo nulla esistenziale, dice di annoiarsi nel fare sempre la solita vita, ma
non è motivato a fare alcunché.
Comprende i rischi che lui dovrebbe affrontare se decidesse di vivere da solo:
impigrirsi sempre più, guardare troppa televisione, non uscire, non parlare,
trascurare sé e le cose; per questo decide a suo malgrado di passare al
“Ponte”. Li, ha un atteggiamento da istituzionalizzato, è immobile, lamentoso,
questo potrebbe essere il frutto di una forte condizione depressiva.
Enzo crede di non essere mai stato libero: “ho sempre vissuto condizionato
da chi mi ha allevato. Quando avevo deciso di prendere il volo, mi hanno
tagliato le ali e cosi sono stato costretto a vegetare all’interno delle quattro
mura di casa, finché un giorno, sono rimasto solo, e li che potevo fare? Non
sapevo più cosa volevo, cosa pensare, dove andare, chi cercare, ero solo e
molto triste, cosi mi sono lasciato scorrere la vita addosso, finché il mio
patrimonio è finito e la consapevolezza di non farcela da solo, mi ha costretto
a chiedere aiuto”. “Il contenimento per me è essenziale, se non avessi trovato
con San Marcellino il mio spazio, mi sarei lasciato morire, perché la vita che
da solo posso svolgere in realtà non è molto diversa dalla morte. Ho bisogno
che mi venga imposto tutto, dall’ora del rientro a quanto posso stare davanti
alla televisione; grazie a Dio non sono capitato in cattive mani, ma anzi ho
trovato aiuto da persone con esperienza, che mi insegnano trasmettendomi
delle regole necessarie per condurre la mia esistenza, rispettando i miei ritmi
e le mie diversità”.
Angelo, nel gennaio del 1989 si presenta per la prima volta a San
Marcellino, chiedendo un posto dove dormire, perché non sa dove andare.
Racconta che, negli ultimi anni, ha girato l’Italia in cerca di lavoro senza
ottenere risultati. Ha solo 35 anni, ma è evidentemente in uno stato avanzato
di abbandono di sé.
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Nel 1987 ha perso il lavoro a causa di un intervento di riduzione del
personale, da quel momento non è più riuscito a pagare l’affitto ed è stato
sfrattato, da allora vive per strada.
Ha perso il padre durante la prima adolescenza e da allora è stato costretto
da necessità economiche a lavorare.
Originario del sud Italia, dove ha vissuto fino a 9 anni, quando si è trasferito a
Genova con la sua numerosa famiglia per cercare di vivere una vita più
dignitosa. Ha tre fratelli più giovani tossicodipendenti, in carcere per furti e
spaccio, e due sorelle che sembrano essere adeguatamente sistemate.
Si sposato e dopo anni di matrimonio nel 1987 ha divorziato.
Inizialmente racconta che quando ha perso il lavoro ha cominciato a bere, e
per questo sono cominciati i problemi con sua moglie che dopo poco ha
chiesto la separazione. In realtà il suo rapporto problematico con l’alcool è
iniziato precedentemente, infatti quando acquista più fiducia nell’operatore
racconta che, gli piaceva passare le giornate al bar con amici bevendo molto,
e che alcune volte si trovava coinvolto in risse violente causate per lo più, dal
suo stato alterato dall’alcool. E’ stato più volte carcerato per reati “leggeri”:
piccoli furti, ubriachezza molesta, liti violente.
La moglie vive a Genova e anche la figlia di 9 anni, che dopo la separazione,
è stata data in adozione perchè entrambi i genitori sono stati giudicati non
adatti al loro ruolo.
Da quello che racconta, e dal modo in cui lo fa, emerge che è una persona
che necessita di essere riconosciuto meritevole e che ha bisogno di essere
incoraggiata e gradualmente ri-educata con attenzione e cura.
Non trova il lavoro, ma vista la sua giovane età, sembra rischioso chiedere un
sussidio, che potrebbe portare alla cronicizzazione del suo stato di
disoccupato.
Man mano che la relazione va avanti, emergono le sue turbe psichiche; è
depresso, si sente perseguitato, ha paura che qualcuno trami alle sue spalle
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per toglierli anche la possibilità di vedere la figlia, rifiuta le proposte di colloqui
con una psichiatra, soffre di nevrosi croniche e ha anche tentato il suicidio.
La vita sembra insostenibile per lui; non riesce a rielaborare il passato - “per
me quello che è stato, stato, l’unica cosa importante è quello che verrà” – si
colpevolizza, ogni minimo cambiamento lo mette in ansia, e si rifugia sempre
nel bere. L’accompagnamento continua, e i risultati iniziano a vedersi: è
inserito nel laboratorio pulizie, frequenta il Cat (club per alcolisti in
trattamento), per aiutarsi a non bere, prende l’Antabuse, farmaco che rende
tossica anche la minima ingestione di alcolici e frequenta il servizio di salute
mentale.
E’ il 1996, mantiene le sue stranezze, ma comincia a rendersi conto che non
può passare l’intera vita in dormitorio, e con sorprendente lucidità comincia a
fare richieste e progetti per il futuro.
“Sto vivendo un buon periodo, tutto sembra andare bene, riesco a fare
qualche lavoretto, ho un letto, un piatto di minestra calda, qualcuno con cui
parlare, mi sto curando e tutto questo nella massima libertà”.
Nel 1998 si trasferisce al Boschetto, dove sembra stare bene, anche se
spesso ha delle ricadute nell’alcool e nella depressione.
Quando parlo con lui mi dice: “Mi sto rendendo conto, a mio malgrado, di non
essere in grado di controllarmi, di darmi dei freni. Ho capito che non so
gestire la piena libertà e che anzi, questa è dannosa per me. Grazie a San
Marcellino, ho imparato ad accettare l’importanza delle regole e del controllo,
necessari per vivere senza dipendenze, in maniera equilibrata nonostante le
continue difficoltà, e per riuscire a condividere con altri il peso dell’esistenza”.
Per questo anche se passano gli anni e sicuramente i suoi progressi sono
evidenti, gli viene proposto il Ponte, struttura dove tutt’ora risiede, dove può
vivere con maggiore autonomia, restando comunque in un ambiente protetto.
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Simone è nato a Genova nel 1946, è conosciuto dal Centro d’Ascolto dal
marzo 1987, quando si presenta veramente malconcio, dicendo di essere
proprio a terra perché da sette anni ha perso il lavoro. E’ andato via di casa
dopo la morte della madre, a causa di conflitti con il fratello, che sembra
disprezzarlo, e da allora vive in condizioni di precarietà, sia dal punto di vista
alloggiativo (camere in affitto, ospite d’amici, dormitori, autobus) che dal
punto di vista economico, da quando è disoccupato infatti vive di questua.
Fa la richiesta di essere inserito in un’accoglienza notturna e di trasferire
presso il Centro d’Ascolto la residenza anagrafica necessaria per rifare i
documenti.
Ha avuto rapporti saltuari con San Marcellino, finalizzati ad ottenere soldi o
lettere di richiesta d’ospitalità per il dormitorio pubblico, fino al 1996, quando
a dicembre si presenta con la richiesta di essere ospitato al Gradino,
accoglienza notturna dell’Associazione, in quanto in seguito ad
un’aggressione, nella quale è stato ferito ad un fianco, non vuole più stare al
Massoero. Vuole un riparo, inteso non solo come ospitalità, ma anche come
luogo protetto.
Simone ha evidenti problemi con l’alcool e come compromesso alla sua
entrata in dormitorio, ha accettato di frequentare un club per alcolisti in
trattamento e di prendere l’Antabuse.
Durante i suoi primi giorni al Gradino, emerge chiaramente la sua difficoltà a
rapportarsi con gli altri ospiti, dice che vorrebbe essere più spigliato e
socievole, ma che a causa della sua malattia (soffre di nanismo), la quale
fatica molto ad accettare, non riesce nemmeno a parlare con disinvoltura con
le persone. Tende in genere a svalutarsi, questo emerge nelle sue battute,
nelle cose che dice, è per questo da subito stato necessario fargli capire che
a San Marcellino lui è accettato cosi com’è ed è stato avviato con lui, un
percorso verso l’acquisizione di maggior sicurezza di sé. Lavora presso
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laboratori, prima nelle pulizie e poi in lavanderia; è molto corretto e svolge
con puntualità i suoi impegni.
In questo periodo, si sente contento e più sicuro di sé: “qui non mi sento
giudicato, ma accettato e apprezzato per quello che sono, sono felice perché
a 50 anni questa esperienza sta segnando una svolta nella mia vita e sono
sicuro più che mai di voler continuare su questa strada”
A fine ’98, viene trasferito al Boschetto, il cambiamento lo destabilizza e
durante una chiacchierata emerge la sua difficoltà a comprendere la
situazione, si chiede infatti come mai non riesce ad essere sereno neanche in
questo momento in cui ha smesso di bere, lavora, ha un posto dove stare e
persone che lo accettano.
A dicembre 1999 “fugge” dalla comunità, quando torna nel 2000, pentito si
giustifica dicendo che non reggeva più il clima di tensione tra gli ospiti.
Chiede un posto dove dormire perché da mesi dorme sull’autobus e non ce la
fa più. Tutto ricomincia da capo, e questo fa capire come all’interno della
progettualità di San Marcellino, ci sia il più ampio margine possibile di libertà
di sbagliare, di scegliere. Dopo qualche anno passato presso l’accoglienza
notturna e ricominciata l’attività in laboratorio lavanderia, Simone chiede di
passare alla comunità “Il Ponte”, perché ha paura di allontanarsi da San
Marcellino e di rimanere solo. Viene prima inserito al Boschetto, dove
qualche anno “gioca alla famiglia”. Nel giugno del 2006 si trasferisce al
Ponte.
Nell’occasioni che ho avuto di parlare con Simone, è emerso la sua grande
difficoltà ad accettarsi: “ho sempre vissuto sotto gli sguardi indiscreti delle
persone, ho subito giudizi, ho fatto pietà, ribrezzo. Il mio apparire mi ha da
sempre condizionato” - “da quando ho San Marcellino al mio fianco, mi sento
accettato,ho acquistato maggiore sicurezza e autostima e mi sento più libero.
Libertà che tra l’altro si dimostra nei fatti, perché molte volte sono “scappato”,
ma ogni volta mi si è data la possibilità di ricominciare. Questo mi ha fatto
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capire di non essere sotto giudizio alcuno, di non subire critiche gratuite, mi
ha fatto appunto scoprire la sensazione di poter essere libero di essere me
stesso, con i miei pregi, i miei difetti e le mie debolezze”.
Per lui le regole non rappresentano un problema ma anzi; “vivere in un
contesto con delle regole precise, mi ha fatto scoprire l’importanza di una vita
regolare e equilibrata. Inoltre mi sento protetto e contenuto e anche nei
periodi più duri sento il dovere di comportarmi bene perché c’è qualcuno che
si preoccupa per me”.
2. L’opinione di un operatore.
Riporto di seguito l’intervista da me fatta a Ribotti Federico, operatore di San
Marcellino, fino a qualche anno fa responsabile della comunità “il Ponte” e
adesso responsabile dell’area alloggi assistiti.
L’utilità di questa intervista è da ricercarsi nei contenuti e nei significati che
parole come libertà, controllo, logica comunitaria, hanno in una persona che
da anni lavora nell’ambito dell’esclusione sociale grave nella povertà
estrema. E soprattutto le risposte si rilevano importanti, in quanto esprimono
con chiarezza il significato che ho cercato di far emergere dei concetti
apparentemente opposti ma, in realtà interdipendenti, di libertà e controllo.
Mi chiedevo come quando e perché avete scelto San Marcellino?
Nel 1996 ho cominciato a fare volontariato per l’associazione invogliato dai
racconti di un amico che faceva l’obiettore di coscienza a SM. Da tempo
sentivo la voglia di partecipare attivamente, di vedere dal vero, di uscire dalla
prospettiva filtrata dei media o dei racconti di altri sul mondo del disagio, di
provarmi in un ruolo educativo, di scoprire i miei lati più “umani”, un vago
senso di fastidio per il mondo che produce e funziona nonostante tutto e tutti,
un’idea di società come comunità di persone interconnesse e interdipendenti,
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la ricerca di un luogo identitario più sano e reale, il sano realismo della
sofferenza contro la finta prospettiva di una vita comoda, un senso di giustizia
terrena…un calderone di buoni propositi, molti dei quali hanno trovato
qualche risposta nel mondo delle persone sulla strada.
Com‘è il vostro rapporto con SM e con gli utenti?
L’istituzione SM si è coerentemente sviluppata con l’idea di accoglienza data
alle persone in difficoltà negli anni. Sarebbe assurdo (ma accade) che con gli
utenti ci si ponga in maniera attenta e accogliente e chi ci lavora si senta in
maniera differente. L’Associazione rappresenta per me un luogo di senso e
sviluppo identitario notevole. Il tramite, in pratica, per accedere e partecipare
ad una comunità di persone (che ci lavorano, che frequentano, che chiedono)
che personalmente in questo momento è più che un semplice luogo di lavoro.
Se un domani non lavorassi più a San Marcellino rimarrei comunque legato
alla comunità e alle persone.
E’ in qualche modo inevitabile se si vuole fare un buon lavoro con queste
persone che un passaggio di questo tipo venga in qualche modo fatto.
Questo per restituire alle persone che la richiesta che facciamo loro di
appartenenza e di affiliazione alla comunità (nella prospettiva di ricostruzione
dell’io) è la nostra stessa ricerca, che è un percorso che facciamo con loro. E’
importante altresì che lo teniamo a mente per evitare di interpretare in
maniera errata il ruolo educativo.
Cosa vuol dire accoglienza?
Significa lasciare aperta la porta del confronto reciproco. Giocarsi
nell’incontro con l’altro in maniera totale, senza impedire che l’altro ci induca
al cambiamento personale. Essere accoglienti significa accettare l’altro in
quanto persona degna, a prescindere dai suoi atti passati, dal suo aspetto
esteriore e dai pregiudizi sulla persona. Accoglienza è anche non accettare
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comportamenti che non vadano nella direzione di rispettare se stessi e il
prossimo.
Cos’è la libertà e cos’è il controllo usando come chiave di lettura
l’esperienza con San Marcellino?
Credo che l’accezione migliore per la parola libertà usata nell’ambito
dell’Associazione sia “libertà di essere se stessi”. Ricollegandomi al concetto
di accoglienza, la libertà che conquistano queste persone è quella di poter
essere se stessi, con i propri difetti, le proprie incapacità, le proprie bruttezze,
senza per questo esserne giudicati o esclusi. E’ un concetto molto evidente
nella comunità del Ponte dove l’esperienza di anni ha dimostrato a queste
persone che nonostante le crisi, nonostante i litigi, nonostante abbiano fatto
vedere il peggio di se, continuiamo a stare insieme, magari in maniera
diversa, ma insieme. La porta aperta al Centro di Ascolto ha questo
significato, l’esserci nonostante tutto.
Se la libertà è intesa in questo modo, il controllo di conseguenza diventa un
aspetto non legato tanto alla prevenzione/repressione di atti violenti per se o
per gli altri, ma una forma di monitoraggio degli aspetti relazionali e dei
legami che la persona riesce a costruire e mantenere, per valutare se il
servizio, lo strumento in atto per aiutare la persona è congruente con il suo
percorso, per eventualmente valutare con la persona (per quanto possibile)
soluzioni alternative.
La fiducia nell’Associazione e, per la proprietà transitiva, negli altri ospiti
dell’Associazione assicurano una sufficiente autonomia sul piano
dell’autocontrollo (contenimento); cosicché in comunità si esercitano
pochissimi atti esplicitamente nella direzione del controllo della situazione,
ma si lascia che siano le persone stesse a riportare i problemi che sorgono,
stimolando in questo modo le stesse a interiorizzare il genitore altrimenti
esercitato dalla figura del leader (presente per altro non più di 15 ore la
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settimana in comunità). Il contenimento in questo modo si esercita sul piano
della relazione più che sul piano delle regole.
Ri-acquisizione della libertà tramite il controllo/contenimento. E’ una via
possibile/utile?
La percezione delle persone presenti in comunità è quella di una
osservazione dall’alto da parte dell’istituzione, anche nei momenti di nonpresenza fisica. Alcuni inizialmente pensavano avessimo piazzato all’interno
della struttura delle “microspie e telecamere” per tenerli d’occhio in ogni
momento. Oggi sanno che nessuno li guarda durante il giorno ma continuano
a pensare che qualunque cosa avvenga all’interno della comunità sia nota
all’istituzione (operatori, dirigenti, volontari). Questa forma di autocontenimento potrebbe essere vista semplicemente come un passo
intermedio tra la figura reale di un genitore normativo (che ti dice cose devi e
cosa non devi fare e ti osserva nei tuoi comportamenti) e l’interiorizzazione
del genitore nella consapevolezza del cosa è giusto e cosa sbagliato. Nulla di
diverso probabilmente da ciò che succede nell’età adolescenziale e
nell’esperienza delle prime forme di autonomia.
L’importanza di questa forma di contenimento sta nella percezione non
oppressiva che fornisce; sicuramente i soggetti paranoidi soffrono
maggiormente per l’assenza fisica ed è inevitabile un maggior impegno nei
loro confronti per sopperire a tale assenza con la “presenza relazionale”.
Cos’è la logica comunitaria in San Marcellino?
Con gli strumenti comunitari si tende a fornire una simulazione di realtà in un
contenitore protettivo per le persone. Sia il Boschetto (la comunità
terapeutica) che il Ponte (la comunità residenziale) sono state pensate per
simulare, quando e dove possibile, le esperienze di casa, di convivenza, di
rapporto con l’autorità, di quotidianità; tale simulazione fornisce però anche
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gli strumenti per analizzare e verificare con le persone l’esperienza in corso.
Si tengono riunioni settimanali e colloqui individuali per gestire con le persone
l’andamento della vita comunitaria e i problemi che da essa sembrano
sorgere.
Spesso si parla di “giocare alla famiglia”, così come i laboratori di educazione
al lavoro cercano di “giocare al lavoro”, nell’idea che la prima forma di
educazione passa ai bambini attraverso il gioco dove sperimentano e si
sperimentano all’interno di nuovi contesti e di nuovi ruoli.
I percorsi degli ospiti del Ponte hanno nelle loro diversità punti in
comune? Quali?
Se si intende i percorsi di vita delle persone i punti in comune sono quelli
riscontrabili in tutte le persone “simbolicamente”. Mancanza di punti di
riferimento nelle età dello sviluppo e carenza (conseguentemente) di quella
dose di “carezze” (transazionalmente parlando) che sia in negativo che in
positivo determinano lo sviluppo di una identità.
Ricordo sempre quando al Ponte una sera nacque una partecipata
discussione sulla “mamma”. Il concetto comune era < se avessi oggi la
mamma con me…> ; considerando che alcuni di loro non hanno mai visto la
loro madre la cosa risulta perlomeno curiosa.
In questo senso la comunità (di San Marcellino in senso lato) cerca di
sopperire a queste mancanze ricominciano un percorso di affiliazione, nel
senso letterale del termine, di rigenitorializzazione, per permettere (meglio
tardi che mai) la costruzione dell’io o il suo consolidamento (a seconda dei
punti di partenza).
In base alla tua esperienza cosa porta un individuo a “scegliere” o
“subire” la vita di strada?
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Credo che un individuo “scelga” la vita di strada in seguito alla distruzione di
tutte le alternative per lui possibili. La persona sceglie la strada perché non
c’è altro di meglio che riesca a fare. L’ambiente (assenza di stimoli esterni) e
la mancanza di alcune capacità relazionali e/o intellettuali si autoalimentano
in un circuito perverso di progressiva distruzione delle alternative possibili fino
alla scelta estrema (amartica) della vita in strada. Le scarse risorse
(economiche, familiari,…) contribuiscono al mancato sviluppo relazionaleintellettuale, le carenze relazionali-intellettuali contribuiscono a loro volta a
peggiorare il quadro di riferimento e le risorse in un rincorrersi di eventi
distruttivi.
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Conclusioni.
L’appeal delle città è diventato ambiguo e controverso. Sfiducia, inquietudine
e insicurezza investono la forma urbana e la quotidianità del vissuto
personale, questo è a mio avviso dovuto principalmente alla deprivazione di
comunità forti e di un sistema di appartenenze e di norme stabili ed efficaci.
Il vivere urbano non è solo lo spazio scenico dell’agire dei soggetti ma,
diventa anche, luogo di sparizione e di trasformazione degli individui. Sfuma il
riferimento ad un sistema di regole e con esso anche il riferimento ad uno
“schema guida”. L’uomo è lasciato solo, in balia delle incertezze e dei
repentini cambiamenti, in una concorrenza spietata, dove è solo il più forte a
sopravvivere. Sfiducia, incertezza, solitudine, diffidenza e rifiuto diventano
tratti caratterizzanti l’ideologia dell’uomo urbano.
Credo che questa situazione d’insicurezza urbano, unita a una serie di
microfratture nel vissuto, diano inizio a percorsi di impoverimento e di
distaccamento da sé e dalla realtà circostante.
La città appare come luogo di complessità ma, attorno e all’interno di essa si
sviluppano condizioni di vita alternative. Alcune di esse, non sono a mio
avviso degne di essere chiamate alternative di vita, mi riferisco per esempio
alla fuga nella droga, nel consumo sfrenato, nel cibo o ancora all’eterno
vagabondare.
L’esempio più evidente di questa “fuga” è la scelta di vivere sulla strada.
Sono convinta del fatto che una persona sia costretta a scegliere di vivere “on
the road” in seguito alla distruzione di tutte le alternative possibili. La persona
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sceglie la strada perché non c’è altro di meglio che riesca a fare. Le scarse
risorse, familiari ed economiche, eventi traumatizzanti, problemi fisici o
psichici, anni di carcere, dipendenze contribuiscono al mancato sviluppo
relazionale - intellettuale, e queste carenze contribuiscono a loro volta a
portare a fondo la barca dell’esistenza già di per sé, in balia di tempeste.
L’esperienza di chi da anni lavora a contatto con persone senza dimora,
mette in evidenza come questi individui, per i motivi più disparati, segnino un
progressivo distacco nei confronti dell’appartenenza sociale e dei riferimenti
istituzionali quali la famiglia, il lavoro, gli affetti, scivolando verso un’area di
non ritorno per quel che riguarda la loro partecipazione attiva e consapevole
al corpo sociale. Sono “presenze” che irrompono e si contestualizzano in una
rappresentazione della città come estensione di non-luoghi. In tutto ciò,
appare evidente che il bisogno d’appartenenza dev’essere colmato in modi
“non tradizionali”, ecco nascere nuovi percorsi d’appartenenza, organizzati
attorno a nuove modalità di condivisione e attorno a nuove regole e forme di
controllo e contenimento; mi riferisco in particolare a soluzioni/alternative di
tipo comunitario. Importante è infatti la capacità di queste strutture di riuscire
a coinvolgere l’individuo, di riuscire a spaccare le impermeabilizzazioni che si
sono venute a creare nel tempo sui soggetti. All’interno di una comunità c’è la
riappropriazione di sé stessi, di nuove modalità di vita, di un’insieme di regole
essenziali per l’esercizio consapevole delle proprie libertà; e c’è inoltre, la
riscoperta del valore di ogni singolo individuo con le sue diversità, con le sue
debolezze e le sue forze, l’accettazione dell’altro e di sé.
Qui in specifico ho fatto riferimento alla Comunità di vita “il Ponte”, struttura
appartenente alla più ampia realtà di San Marcellino che da molti anni
accoglie persone senza casa e senza dimora, che gravavano in situazioni di
povertà estrema che dopo un percorso di riabilitazione non si dimostrano
adatti a vivere da soli, in piena autonomia. Chi inizia un percorso
d’inserimento con l’associazione San Marcellino, entra in una “terapia” basata
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su relazioni profonde e significative, inizia un nuovo percorso di vita verso la
riacquisizione delle libertà e della dignità.
Concepisco la logica comunitaria come specchio della tesi di B.F.Skinner,
che afferma la piena coincidenza di libertà e controllo. Questa affermazione è
riscontrabile, vera più che mai, nella quotidianità del Ponte, dove le persone
sono soggette a semplici, precise e chiare regole ma nel contempo si
percepiscono, a loro dire, pienamente liberi; Liberi di essere diversi, liberi di
scegliere in assenza di contingenze, liberi di essere più deboli ma per questo
non meno importanti, liberi da dipendenze e da sofferenze. Non intendo
mitizzare questa realtà, in quanto non è la pillola magica per un’esistenza
senza sofferenza, ma, quello che voglio mettere in risalto, è come sia
possibile attraverso una serie di regole che fanno da contenimento, rendere
migliore e più dignitosa la vita di alcune persone.
Credo sia necessario dare un’esplicazione migliore di ciò che intendo per
libertà e per controllo; Faccio un esempio astratto, perché credo che possa
dare voce ai miei pensieri più di mille parole. Immaginiamo il mare, una barca
e un porto; il mare rappresenta la libertà, sempre in balia delle onde, dei
pericoli, delle tempeste, la barca è l’uomo, e il porto rappresenta il
contenimento, la forma di controllo buono, che assicura stabilità, punti di
riferimento e sicurezza alla barca, ma non per questo preclude il suo accesso
al mare, alla libertà ma, anzi, ne fa riscoprire la bellezza e l’importanza.
Nella realtà possiamo pensare, il mare aperto come la società, l’individuo la
barca e la comunità “Il Ponte” il porto sicuro, magari solo per un attracco in
caso di emergenza per poi ripartire verso nuovi orizzonti oppure come porto
do ormeggio fisso, perché ormai la barca è fragile e accidentata per
allontanarsi troppo in mare aperto.
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