LIBERTA` E COSTRIONE - Associazione San Marcellino
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LIBERTA` E COSTRIONE - Associazione San Marcellino
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna FACOLTÁ DI SCIENZE POLITICHE Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale Elaborato di Tesi in Teoria dei Processi di Socializzazione IL CONDIZIONAMENTO OPERANTE DI B.F. SKINNER COME CHIAVE DI LETTURA DI UN SERVIZIO PER SENZA DIMORA Candidato: Relatore: TRUZZI FRANCESCA Prof. GIOVANNI PIERETTI Sessione II Anno Accademico 2004/2005 1 2 INDICE Introduzione pag. 2 1. La libertà pag. 7 2. Verso l’alienazione pag. 12 3. Il ruolo del potere pag. 16 Capitolo 1: La chiave di lettura 1. Il comportamentismo pag. 19 2. Walden Due. Utopia per una nuova società pag. 22 Capitolo 2: Il contesto 1. Cenni sulle povertà pag. 29 2. L’associazione San Marcellino 2.1 Un po’ di storia pag. 31 2.2 Lo stile pag. 33 2.3 Le aree d’intervento pag. 37 Capitolo 3: I soggetti 1. Storie di vita: percorsi diversi per un destino comune verso la libertà pag. 40 2. L’opinione di un operatore pag. 60 Conclusioni Bibliografia 3 Introduzione “La libertà è un tema trattato da molti teorici, e nessuno a parte esprimere le loro tesi in merito, può vantarsi di aver dato un significato unico e inequivocabile a questo termine”. Cosi un ospite della comunità di vita “Il Ponte”, mi ha detto, quando una sera a cena ho iniziato a spiegare l’argomento del mio elaborato finale per cercare di dare agli occhi degli abitanti della comunità un senso alla mia presenza li. Io non voglio certo cercare di spiegare cos’è la libertà, vorrei solo che il mio lavoro di ricerca mi aiutasse a comprendere come, la libertà tanto acclamata dai movimenti libertari, la libertà che presuppone assenza totale di coercizione esterna in realtà non esista. La lotta per la libertà è infatti diretta non al controllo in sé stesso, ma ai controllori avversivi. E’ un modo per sottrarsi alle condizioni avversive, si esplica infatti con la lotta o la fuga, che però non hanno come focus il controllo in quanto tale, ma il modo con cui questo viene esercitato. Un bambino quindi può ribellarsi ai genitori, un cittadino può rovesciare un governo, un ecclesiastico può riformare una religione, uno studente può attaccare un insegnante ed un emarginato può sfuggire vagabondando dalla cultura, ma il fine di queste azioni non è l’anarchia, l’assenza totale di potere e controllo, ma è la contestazione del controllo “cattivo”. Contestazione che fa per cosi dire, parte del corredo biologico dell’individuo, che quando è trattato in modo avversivo tende ad agire con aggressività contro la fonte reale della stimolazione, ma anche contro ogni persona o oggetto a portata di mano. Il vandalismo può esser un esempio di contestazione aggressiva indiretta o mal diretta. Quella che possiamo chiamare letteratura della libertà è stata realizzata al fine di indurre la gente ad attaccare o a fuggire da coloro che cercano di controllarla mediante condizioni avversive. L’importanza di questi scritti sulla libertà non va comunque messa in discussione, lasciata senza aiuto e senza guida infatti 4 la gente si sottomette nel modo più assoluto alle situazioni che siano esse avversive o meno. Di alcuni contributi tradizionali si potrebbe dire che definiscono la libertà come l’assenza di controllo negativo, sottolineano cosi come la situazione viene “sentita”. Altre teorie definiscono libero l’individuo che agisce in assenza di un controllo negativo, qui l’accento viene quindi posto sul “fare ciò che si vuole”, usando le parole di John Stuart Mill : “la libertà consiste nel fare ciò che si desidera”. Si inneggia cosi la possibilità di sfuggire da condizioni di controllo avversivo, ma il sentimento di libertà che nasce non è una guida attendibile, infatti decade la sua validità non appena ci si scontra con forme di controllo non avversive che sono meno appariscenti e a volte nemmeno percepibili. Per chiarire riporto l’esempio presente nel libro “Oltre la libertà e la dignità”; Skinner ricorda come il lavoro produttivo era un tempo il risultato della punizione, si pensi allo schiavo che lavorava il più possibile per evitare le conseguenze dell’interruzione del lavoro. Oggi invece l’escamotage del controllo per il lavoro produttivo è il salario che rappresenta la forma buona delle punizioni del tempo della schiavitù; Si evidenzia cosi che l’uomo agisce per evitare conseguenze negative del suo comportamento, lo studente farà tutti i compiti per evitare le punizioni, il lavoratore lavora come stabilito per non essere licenziato. Ecco esplicato uno dei principi della teoria di Skinner, in base alle quali il comportamento si esplica in seguito a rinforzi positivi e negativi. L’intera teoria di B. F. Skinner si basa sul concetto di operant conditioning (condizionamento operante). Gli individui operano in base ad un continuo processo di condizionamento dato dall’ambiente esterno, dalla società, dalle istituzioni, dalla cultura, durante il quale incontrano speciali tipi di stimoli, chiamati rinforzi. Questi stimoli hanno l’effetto di indurre e favorire un certo tipo di comportamento. Questo è il condizionamento operante: “il comportamento è seguito da conseguenze, e la natura di queste conseguenze modifica la tendenza degli 5 organismi a ripetere o meno un determinato comportamento in futuro”. Se un comportamento è seguito da un rinforzo positivo, molto probabilmente verrà ripetuto; viceversa se è seguito da un rinforzo negativo ci sono scarse probabilità che si ripeta. Questo è il controllo, il condizionamento onnipresente che l’individuo subisce. Il Lavoro per lo svolgimento di questo elaborato è cominciato con uno studio approfondito delle teorie di Burrhus F. Skinner (1904-1990), psicologo statunitense, uno dei maggiori esponenti del comportamentismo. Tra le sue affermazioni più radicali, colpisce la concezione stessa dell’individuo. L’uomo non viene infatti da lui visto come soggetto completamente autonomo, libero e incondizionato. Skinner e cinquant’anni di comportamentismo insegnano come in realtà gli individui siano condizionati dall’ambiente sociale, culturale e naturale. Da quello che più mi ha colpito durante la lettura delle sue opere, cioè dalla tesi della coincidenza tra libertà e controllo, vista soprattutto in ambito comunitario, esempio evidente nel suo romanzo Walden Due, ho cercato di estrapolare la possibile chiave di lettura per il contesto di Sa Marcellino. In particolare volevo appunto mettere in discussione ciò che io, come molti altri, credevo che fosse la libertà, il pensiero di Skinner preso in toto è a mio avviso, troppo “radicale”, però credo sia importante tener presente che esistono certi tipi di controllo sotto i quali la gente si sente perfettamente libera. Quello che io intendo evidenziare è come l’individuo è già condizionato in partenza dal suo essere uomo. Questo mio lavoro mi ha permesso di modificare il mio modo di essere e di vedere le cose, in quanto ha ribaltato molti dei miei sensi comuni riguardo appunto, il tema del controllo e della libertà, e mi ha permesso anche di trovare il modo e il luogo di senso per un mio sviluppo identitario. 6 Nella prefazione del suo libro, “Oltre la libertà e la dignità” Skinner narra un esempio a mio avviso efficace per evidenziare come e quanto noi siamo facilmente condizionati da tutto ciò che ci circonda. Riporta l’ influenza esercitata da uno striscione con su scritto “ricordatevi della guerra aerea” posto davanti a dei professori, e a lui stesso durante una lezione in cui si discuteva di “Oltre la libertà e la dignità”, tutti gli oratori infatti hanno nominato la guerra in Vietnam. Evidenziare cosi, ciò che l’autore definisce un “atto eccellente di ingegneria comportamentale”, pone una questione a mio avviso destabilizzante, in quanto dimostra chiaramente come siamo sottilmente “controllati” e “controllabili”. Seguendo la tesi di Skinner che presuppone che la libertà senza controllo non può esistere, e che afferma anzi che un contenimento buono sia essenziale per provare la reale sensazione di libertà, vorrei , dimostrare come questa teoria sia vera più che mai in realtà come quelle comunitarie. Per trovare queste conferme ho scelto di avvicinarmi alla Fondazione e associazione San Marcellino di Genova, in specifico ho vissuto e osservato la realtà della comunità di vita “Il Ponte”, una delle tante strutture dell’Associazione, ma sono stata anche a contatto con gli operatori del centro d’ascolto, punto nevralgico dell’attività del servizio e con diversi operatori e volontari che da anni gravitano attorno a San Marcellino. Mi sono avvicinata a questa istituzione perché credo che la sua accezione di libertà corrisponda a quella che io cerco di evidenziare: “la libertà di essere sé stessi”, con i propri difetti, le proprie incapacità, le proprie bruttezze, senza per questo essere giudicati o esclusi. E’ un concetto molto evidente nella realtà della comunità “il Ponte”, dove al suo interno le persone riscoprono la ricchezza di condividere, di stare insieme, in maniera diversa, a volte con litigi, a volte facendo vedere il proprio lato peggiore, ma insieme. 7 Quando la libertà viene intesa in questo modo, il controllo diventa di conseguenza un aspetto non legato tanto alla repressione e punizione di atti violenti o illegali, ma una forma di contenimento, di monitoraggio, che si esercita più sul piano della relazione che su quello delle regole. San Marcellino opera con persone in stato di emarginazione grave e povertà estrema, persone cioè che vivono in totale assenza di libertà d’essere, di libertà di scegliere. Quello che l’associazione tende a fare è trasmettere una forma di contenimento e di auto-controllo, essenziali per riprendere in mano la propria vita e per riprovare la sensazione di libertà. Cerca infatti di trovare una via intermedia tra la figura del genitore normativo e l’interiorizzazione di questa figura, cercando di far capire cosa è giusto e cos’è sbagliato, ridando significato alle loro esistenze e tessendo una rete di legami significativi, essenziali per l’equilibrio della persona. Le regole “imposte” servono per impedire alle persone di lasciarsi vivere e di farsi del male, bevendo o vivendo allo sbando, servono per far sentire le persone importanti e ben volute, per insegnare una buona convivenza e ritmi di vita sani, e non sono create per dare impedimenti fine a sé stessi. Ecco quindi che la teoria di Skinner trova conferma nella realtà, in particolare nella realtà della comunità di vita “il Ponte”, dove attraverso l’imposizione di un controllo “buono” si cerca i fare ri-acquisire alle persone la propria libertà e la propria dignità. 8 La libertà …..facile credere che la volontà sia libera e che la persona sia libera di scegliere. Il risultato è invece il determinismo. La generazione spontanea del comportamento ha raggiunto lo stesso stadio della generazione spontanea dei bachi e dei microrganismi al tempo di Pasteur. "Libertà" significa di solito l’assenza di restrizione o coercizione, ma in modo più ampio significa una mancanza di qualsiasi determinazione anteriore: "Tutte le cose che pervengono ad essere, tranne gli atti di volontà, hanno cause". È in gioco la vistosità delle cause quando il comportamento riflesso si chiama involontario – un individuo non è libero di starnutire o non starnutire; la causa iniziante è il pepe. Il comportamento operante si chiama volontario, ma non è realmente senza causa; solo è più difficile individuare la causa. La condizione critica per l’esercizio apparente del libero arbitrio è il rinforzo positivo, in base al cui risultato un individuo si sente libero, si dichiara libero e dice di fare come gli piace o ciò che vuole e che gli garba di fare. Il ruolo peculiare attribuito alla volontà deriva dalla sua apparente spontaneità e dal suo mistero, che suggerisce che si possono produrre conseguenze senza azione fisica. E’ necessario andare oltre la dicotomia libertà e costrizioni, per molti pensatori infatti i due concetti di libertà e costrizione non possono essere intesi come fenomeni autoescludentisi. Non sono collegati da un legame quantitativo, che farebbe dipendere un aumento delle libertà da una diminuzione delle costrizioni e viceversa; queste però non agiscono all’interno di un campo d’azione a somma zero, cioè in uno spazio sociale dove ad un aumento delle costrizioni, etero e autodirette, corrisponderebbe una parallela diminuzione degli spazi di possibilità individuali. Si può semmai sostenere che quando mutano qualitativamente le forme sociali e individuali della costrizione, non potranno non subire cambiamenti le configurazioni dentro cui 9 si costituiscono spazi decisionali autonomi e, quindi, le possibilità di scelta tra diversi corsi d’azione. Ogni istituzione sociale, per quanto stabile, centralizzata e potente che sia, non crea norme in modo completamente autonomo e libero in quanto le istituzioni, come qualsiasi altra struttura sociale, non possiedono una realtà ontologica: le istituzioni “non pensano” e, pertanto anche il modo in cui esse producono norme, per essere compreso deve essere ricondotto ai meccanismi sempre variabili di funzionamento delle relazioni interindividuali e ai rapporti di potere che possono essere più o meno asimmetrici. Le norme sono l’espressione non deterministica dei rapporti di forza che agiscono all’interno di un ambiente e, quindi essendo prodotti sociali, sono costruite su e a partire da una realtà relazionale storica e contingente. Essendo prodotte socialmente, le norme possono essere più o meno interiorizzate e condivise. Possono agire a strati diversi della personalità, e contribuire in modo più o meno intenso, a costruire le identità degli individui. Il maggiore o minore grado d’interiorizzazione e condivisione delle norme influisce sul loro stesso livello di stabilità e sulla loro eventuale modificazione. Le norme, qualsiasi esse siano, non pendono come una spada di Damocle sugli individui e sui contesti sociali, ma sono in continua ridefinizione e formazione; tra le norme sociali che costringono ci sono infatti delle possibilità di evasione e possibilità di riformulazione delle stesse. Si instaura, tra le norme e la loro potenziale riformulazione, una dinamica circolare, un instabile “gioco di poteri” e dei rapporti di forza; c’è insomma relazionalità tra norma e possibilità, tra costrizioni e libertà. Non c’è costrizione se non dentro uno spazio di libertà, cosi come non ci sono libertà non innescate in un insieme di coercizioni. Costruzioni e libertà si presuppongono necessariamente, tanto da poter sostenere che “la società, è quella condizione tipicamente umana, che ci rende allo stesso tempo liberi e vincolati: perché se fossimo nell’una o nell’altra soluzione allora non 10 saremmo in società.” (Donati P. “La società è relazione” p. 8 CEDAM Padova 1998) I confine delle une aprono gli spazi delle altre, e viceversa. Libertà e costrizioni quindi si possono vedere come aspetti relazionali interdipendenti e condizionati sia dalla nostra componente biologica, sia da quella sociale. Cosi la componente chimico-biologica del nostro cervello non è che uno dei tanti fattori, per quanto importante, che intervengono nel processo di condizionamento del nostro diventare esseri sociali pensanti. Pensiamo e agiamo come soggetti sociali, al di là di semplici istinti e azioni riflesse. Siamo costrutti sociali, dove poco sembra appartenerci, forse nulla oltre la sostanza di cui siamo costituiti, ci appartiene naturalmente; ci muoviamo dunque dentro spazi-tempi determinati dal continuo e storico fluire delle relazioni umane. Agiamo come individui vincolati e costretti: interdipendenti. E’ a questo livello che si collocano, inscindibili e collegate circolarmente alle costrizioni sociali, le libertà. I nostri gradi di libertà, dove con ciò intendo riferirmi all’intensità delle azioni che ci appaiono, che percepiamo come libere, di senso di autonomia, di decisione e di distinzione, sono lo spazio della nostra percezione che è poi anche la percezione dell’altro da sé. La propria individualità non può essere vissuta come se fosse un oggetto che ci appartiene naturalmente e che può quindi esistere anche al di fuori di un contesto sociale di interdipendenze. Si evidenzia cosi che, per quanto asimmetrica una relazione possa essere, non ci troveremo mai di fronte a individui totalmente liberi o totalmente costretti, semmai ci troveremo di fronte a soggetti “diversi”, più deboli, che si trovano a sottomettersi a situazioni di assoluta mancanza di libertà, intesa come possibilità di scelta, dove ogni atteggiamento di resistenza, che postula la coscienza di possedere un certo margine di libertà individuale, viene a mancare. La prospettiva relazionale limita cosi, sia il pericolo che vede attribuire all’individuo un’illimitata capacità-possibilità di scelta, quanto il rischi opposto, secondo cui l’attore sociale non metterebbe in azioni sovradeterminate dai 11 meccanismi di funzionamento del più vasto contesto sociale e ambientale. Il rischio che è comunque importante sottolineare è l’esistenza di soggetti più deboli, che si trovano a “subire la vita”, che non sono capaci, per motivi di povertà relazionale o per problemi psichici, o perché sono semplicemente più fragili, di opporre resistenza e di agire le pratiche del sé, usando un termine di Foucalt, in maniera autonoma; Invece di rielaborarli a propria misura, questi soggetti si percepiscono inadeguati, e vedono i modelli che si trovano nella cultura imposti, invece che proposti, suggeriti dalla cultura, dalla società e dal gruppo sociale. Ci si trova cosi in situazioni dove il sentimento di inadeguatezza e il senso di inferiorità prevalgono, la forza di reagire oltre che i mezzi stessi per farlo, vengono a mancare, ci si percepisce in una situazione estrema dove non resta nient’altro che non fare scelte estreme che li conduce verso un percorso di autodistruzione e progressivo abbandono di sé. Proseguendo cosi verso la più assoluta perdita di libertà. In particolare penso alla libertà della scelta di una persona di vivere per strada, è inevitabile chiedersi se la condizione di senza dimora è una scelta o una costrizione. Ci sono due diversi punti di vista; c’è chi pensa che sia una condizione totalmente subita e chi invece filofeggia sul fatto che è una scelta pienamente libera e consapevole. Io credo che, entro limiti ben precisi si possa affermare che è una scelta vivere per strada, in quanto credo che comunque qualsiasi individuo abbia un minimo di autoderteminazione ma subito voglio sottolineare che non è soltanto una scelta fatta perché desiderata o perché considerata ottimale. Ogni persona infatti, è soggetto nella vita a compiere scelte che avrebbe preferito evitare, perché sconvenienti e portatrici di sofferenza, ma che si vede quasi costretto a fare. L’esperienza della vita si svolge con una “dotazione iniziale di risorse”, data da condizioni oggettive in cui si trova, dalle caratteristiche personali, dalle risorse economiche, sociali, culturali del suo ambiente, dalla carica affettiva che lo circonda, e ciascuno di noi ha diverse capacità di gestione di queste risorse originarie; non si può 12 quindi apriosticamente stabilire quali siano le cause principali che portano a scegliere di vivere per strada perché ogni singolo individuo ha delle proprie “chance di partenza” e delle proprie capacità di gestione di queste e delle esperienze di vita. La contraddizione quindi sta a priori, , in quanto le persone che hanno compiuto tale scelta o che l’andranno a fare sono persone che a causa di lacunosità nelle loro “dotazioni originarie”, di mancanza di significative relazioni umane, di una serie di microfratture esistenziali insostenibili, non avevano nient’altro da scegliere. Quindi soffermandomi nuovamente sulla libertà presente nella scelta di diventare “senza dimora”, ritengo necessario evidenziare che anche se apparentemente una persona sceglie consapevolmente è anche vero che è una scelta dettata da una mancanza di condizioni oggettive che permettono di compiere una scelta tra diverse alternative. Non avevano quindi altra possibilità di scelta, e io definisco questa non una libera scelta, perché una scelta senza alternative è una costrizione. Ecco quindi cosa intendo per libertà: l’esseri liberi di scegliere perché messi nelle condizioni di poter avere delle diverse chance e liberi d’essere diversi, di avere i propri limiti e le proprie peculiarità, i propri problemi e la propria “dotazione di risorse oggettive e soggettive” per affrontarli. Credo che sia emblematica la figura del senza dimora per evidenziare come, una persona che apparentemente vive al di fuori di ogni regola di ogni costrizione, non sia in realtà una persona libera ma anzi oserei dire totalmente costretta, in quanto è priva di qualsiasi risorsa oggettiva e relazionale necessaria per compire scelte, per definirsi, per vivere e per provare l’esperienza della libertà. 13 Verso l’alienazione L’uomo odierno percependosi come separato dal mondo, si sente libero ma anche solo. E questa libertà lo obbliga a fare una scelta che gli fa paura; egli ha dunque bisogno di sentirsi unito agli altri uomini, non dimentichiamo infatti che l’uomo è un animale sociale. Questo conflitto di base tra separazione e unione, tra autonomia e socialità, è comune a tutti gli uomini. Per restare in buona salute mentale, ognuno deve risolverlo; ma ognuno lo risolve in maniera differente, a seconda del suo carattere e della sua cultura. L'uomo può risolverlo: tramite l'amicizia, la tenerezza, l'amore, l'azione per bisogno di giustizia, la ricerca della verità e dell'indipendenza; oppure tramite la dipendenza, l'odio, il sadismo, il masochismo, la distruttività, il narcisismo (amore di sé, egocentrismo). Non bisogna dimenticare che uno dei primi sentimenti dell'uomo fu quello dell'ansietà esistenziale. Ogni uomo ha bisogno di riconoscersi nel suo universo naturale e sociale, ha bisogno di una bussola, di un quadro di orientamento (la stregoneria, la magia, la credenza in un Dio hanno coperto questo ruolo). Che importa che il ruolo sia falso, che alieni l'individuo, l'importante è che esso svolga la sua funzione psicologica di socializzazione con l'universo. E' per questo che le religioni e le ideologie le più irrazionali e fanatiche sono così attraenti. Più che di una bussola l'uomo ha bisogno di dare un senso alla propria vita, di avere degli scopi di vita; ma può anche votarsi completamente ad un idolo, ricercare il potere, ammassare del denaro che evolverà ad un ideale umanitario. L'uomo può trovare il sentimento d'unità, ridurre la frattura esistenziale, unirsi agli altri uomini, amarli, essendo creativo e indipendente; ma può anche cercare di sfuggire all'angoscia fondendosi con qualche cosa o con qualcuno, perdendo quindi la sua autonomia, sia per passione amorosa, religiosa o ideologica, sia esercitando una potenza assoluta sugli altri (sadismo), sia sottomettendosi totalmente agli altri (masochismo), sia infine facendo di se stesso il centro del mondo (narcisismo). L'uomo può fuggire la 14 sua separazione, cercare di dimenticare se stesso, ritrovare l'unità nel trance, nelle orge sessuali, nei rituali, nella droga, nella passione sfrenata, nella distruzione; egli può cercare la fama, identificarsi nel suo ruolo sociale, diventare un oggetto; questa è la via regressiva, la via dell'alienazione, nella quale non si afferma come individuo autonomo e perde se stesso. La nostra società, non ha saputo sviluppare una via progressiva, né la potenzialità di autonomia e di cooperazione degli individui, né la creatività individuale e sociale, sviluppa invece le potenzialità regressive; essa nasconde la noia, il disgusto di vivere, la depressione, l'aggressività, la distruttività. Eppure l'uomo ha in sé le possibilità di diventare un essere autonomo, creatore e sociale, purché le condizioni esteriori favoriscano le sue possibilità. L'aggressività, la distruttività non sono innate; esse sono una delle possibilità che la natura ha dato all'uomo per risolvere il suo problema esistenziale: la distruttività non è che l'alternativa alla creatività. Si dice che il corredo genetico di una persona, che è il prodotto dell’evoluzione della specie spieghi parte del funzionamento della sua mente, mentre la parte restante è spiegata dalla sua storia personale. Per esempio la competizione fisica o intellettuale che sia, ha determinato la comparsa di sentimenti non fisici di aggressività, i quali conducono a loro volta ad atti fisici di ostilità. A condizione che una società favorisca le potenzialità di autonomia e di creatività rendendo possibili dei legami affettivi d'uguaglianza, l'uomo perderà i suoi impulsi negativi. Il carattere mercantile della nostra civilizzazione e lo sviluppo della tecnica hanno disumanizzato i rapporti tra gli uomini; ormai si possono uccidere migliaia di persone premendo un bottone; la sessualità stessa diventa una tecnica del piacere ed il corpo una "macchina dell'amore"; non dimentichiamo che la distruzione degli ebrei da parte dei nazisti fu organizzata come una produzione di massa con recupero di materiale e riciclaggio. L'uomo cibernetico è una specie di schizofrenico in un universo di cose, un essere 15 cerebrale tagliato dalla realtà affettiva, un uomo che non avvicina gli esseri e le cose affettivamente, con il cuore, ma in termini di efficacia e di rendimento. Questo uomo può sembrare ben adatto e soddisfatto perché divide la sua follia con milioni di altri. Paradossalmente, ai nostri giorni, è la persona sana quella che rifiuta di diventare una macchina tra le macchine - che può sentirsi estranea al mondo, isolata al punto di diventare psicotica. Certo, la situazione è grave; ma si vede nascere una reazione, una rivolta, come se le forze della vita si risvegliassero nell'uomo ed egli rifiutasse di lasciarsi andare ad un controllo cattivo. E' forse anche per questo che si vedono giovani protestare contro i misfatti della civilizzazione industriale, contro l'inquinamento, contro l'autoritarismo, contro le barriere gerarchiche e le diverse segregazioni, contro la guerra. I bisogni di "qualità di vita" si fanno più pressanti. Alcuni preferiscono un lavoro interessante in miseria a delle soddisfazioni di denaro e di prestigio. L'amore della vita è stato profondamente represso in ognuno di noi, ma ciò che è stato represso continua ad esistere. L'uomo preistorico che viveva in bande come cacciatore e raccoglitore di cibo era relativamente poco distruttore e sapeva mostrarsi amico e cooperante. E' con lo sviluppo della produzione e la divisione del lavoro, con l'accumulazione di un largo surplus e la costruzione di Stati, fondati su un sistema di gerarchie e di élites, che la distruttività ha cominciato ad aumentare. E' possibile pensare che, essendo in crisi la società attuale, l'uomo arriverà a costruire una nuova forma di società nella quale nessuno si sentirà minacciato. Ma bisogna ben riconoscere che per ragioni economiche e culturali queste speranze non si realizzeranno senza difficoltà. Ciononostante è possibile costruire un mondo nuovo, ma il nuovo “umanesimo” deve essere radicale; dei cambiamenti profondi sono necessari 16 nelle strutture politiche ed economiche, nei nostri valori, nella nostra concezione degli scopi di vita e nel nostro comportamento personale. Grazie ad una migliore conoscenza dell'uomo, grazie ad una specie di fede nell'uomo e nella vita, il cambiamento personale è possibile, anche nella nostra società malata. Non si tratta di aspettare passivamente il miracolo di una rivoluzione violenta ma bisogna cominciare a cambiare la società, bisogna accelerare il cambiamento e renderlo irreversibile. La conoscenza di sé e le relazioni umane possono essere migliorate ed anche trasformate grazie all'apporto della psicologia sociale e della dinamica di gruppo, cosi come affermava E. Fromm nella sua “Speranza e Rivoluzione”: “Bisogna moltiplicare i piccoli gruppi nei quali l'individuo impara a spogliarsi delle sue antiche strutture mentali e relazionali e può mettersi a vivere l'autonomia e la cooperazione egualitaria”. L'uomo deve, in effetti, liberarsi delle antiche strutture alienanti e ricreare le nuove strutture che lo renderanno completamente umano. Non potrà non servirsi di una nuova educazione. Senza questa nuova forma di educazione, senza la moltiplicazione dei piccoli gruppi di formazione e di lavoro dove si insegna a vivere diversamente, la pratica dell'autogestione e la società libertaria resteranno allo stadio di utopia. Sono già presenti nella realtà gruppi di individui che più o meno coscientemente cercano di creare un nuovo modo di vivere, che cercano di cambiare la società. Si pensi per esempio a numerosi movimenti mondiali e in particolare all’esperienza dell’Associazione San Marcellino, che, usando le parole del Professore G. Pieretti: “dalla sua straordinaria esperienza umana concentrata sul mondo delle persone senza dimora, trova la fiducia e la certezza di una possibilità di riscatto dell’uomo, figlia della certezza che tra gli uomini non ci sono perfetti o imperfetti, né salvi e dannati ab inizio”. San Marcellino è una realtà concreta che permette di toccare con mano come sia viva e pulsante la voglia di cambiamento, fuori e 17 dentro di noi, che ha il merito di innescare una fondamentale catena tra associazioni in Italia ed Europa che condividono lo stesso mondo della vita. Ecco quindi esempi tangibili di come una pacifica e sommersa rivoluzione sia in atto, verso il cambiamento, verso una nuova dimensione umana, dove la dignità, la libertà e la centralità della persona ne sono il motore. Il ruolo del potere In quest’ottica il potere sembra essere un’esigenza pratica, non è mai individuale e pertanto non è collegabile nell’ottica contrattualistica della cessione e dell’acquisizione. Un potere dinamico ed elastico è un potere eminentemente relazionale, che pertanto non esiste al di fuori di un contesto ambientale di interdipendenze. Nel momento in cui le istituzioni collettive hanno preso (appreso) forma e contenuto, gli individui non avrebbero scelta che rimanere dentro il quadro normativo fissato dall’istituzione, salvo ricadere nel campo dei comportamenti devianti e pertanto punibili tanto dalle regole del diritto (si pensi al protagonista del film Arancia meccanica, Alex in carcere) tanto dai meccanismi informali di esclusione sociale (si pensi ad esempio all’eterno e tormentato girovagare del vagabondo o della fuga nella droga). A differenza delle teorie dell’azione, quelle sistemiche procedono invece dall’alto verso il basso (top-down), secondo una logica deterministica che spesso finisce con il considerare alla stregua di cose, le istituzioni restringendo eccessivamente i margini di scelta degli attori sociali. La prospettiva relazionale permette di superare questa dicotomia tra attore e sistema sociale per studiare i fenomeni interpersonali senza che il primato spetti al singolo o al sistema, ma semmai alla relazione che li connette rendendoli interdipendenti. Quindi Potere con la p maiuscola per definire un potere concentrato e un potere monarchico assoluto, la sovranità legittima di uno stato liberaldemocratico, l’autorità indiscussa di un leader carismatico 18 ecc. , un potere che ha quindi un centro, un fulcro dal quale si diparte un marginale potere, con la p minuscola, o meglio dei poteri periferici più o meno gerarchicamente subordinati al Potere; poteri diffusi, instabili, multiformi che determinano dispositivi concreti come per esempio carceri, cliniche, comunità che impongono o offrono all’individuo la possibilità di determinarsi. Il folle, il tossico, il senza dimora come soggetti e la follia, la tossicodipendenza e la povertà estrema come oggetti, non esistono separatamente e pertanto non possono essere considerate come due sostanze isolabili, non basta però nemmeno connetterle con un rapporto dialettico di interazione, in quanto anche ciò significherebbe trattarli come fenomeni che esistono separatamente e che solo in un secondo momento entrano in connessione. E’ necessaria pertanto una prospettiva processuale e relazionale che consideri il folle e la follia, il tossico e la tossicodipendenza ecc., interdipendenti e non isolabili; la relazione deve essere prioritaria anche all’interno delle tecnologie di potere che producono l’oggetto della follia e quindi il folle, l’irrazionale, il criminale, il malato, ecc. I poteri dunque agiscono sull’individuo, sulle essenze delle idee, sulla determinazione del comportamento, e agiscono a primo impatto sui corpi, si pensi ad esempio ai meccanismi di ammissioni alle istituzioni totali: prigione, ospedale, caserma ecc., in cui i processi di cambiamento comportamentale degli internati, passano attraverso un meticoloso lavoro sul corpo. Lo schema gerarchico non aiuta molto a comprendere le complesse e policentriche dinamiche del potere, meglio riferirsi quindi ad un potere diffuso (non equamente s’intende) impercettibile, incoglibile. Esiste una serie di ricorrenze che mette in risalto come il potere sia in parte responsabile del comportamento degli individui, per esempio i rigidi meccanismi di controllo della parola o della gestualità sono rinvenibili tanto nell’ingresso in carcere quanto nelle relazioni che si stabiliscono per esempio in una corte o in una caserma; i riti e le consuetudini determinate dai poteri, creano le definizioni di 19 normale/anormale, giusto/ingiusto, bene/male, sano/malato e queste condizionano in maniera conscia e anche inconscia l’operare degli individui, il loro comportamento, i loro principi e valori fondamentali e in generale i significati che si attribuiscono ai vari ambiti di vita (scuola, lavoro, famiglia, abitazione, tempo libero).Il rispetto delle forme cerimoniali di comportamento è vincolante per gli individui che all’interno di “spazi totali” agiscono sempre per così dire, come internati. E chi non riesce a stare all’interno di questi spazi totali si perde, per cosi dire, in un percorso di abbandono e decomposizione del sé. 20 CAPITOLO 1: LA CHIAVE DI LETTURA Il comportamentismo Il behaviorismo (o comportamentismo) è stata la corrente che fin dagli inizi del secolo ha visto registrare i maggiori consensi e i più interessanti sviluppi in rapporto al metodo, ai campi di ricerca, alle applicazioni. Essa si caratterizza per la forte ostilità nei confronti di tutte le impostazioni legate all'introspezione, al mentalismo, allo strutturalismo, alla psicoanalisi, all'associazionismo, a quelle che partono da ipotesi innatiste per sostenere che la psicologia è studio dei comportamenti osservabili. Passata da un orientamento meccanicistico (come nel caso dei riflessi condizionati di Pavlov) ad uno studio più articolato dei rapporti tra stimolo (S) e risposta (R), la scuola ha progressivamente prestato maggiore attenzione alle affinità e alle differenze del comportamento degli animali e degli uomini, alle relazioni tra apparati biologici, fisiologici, organici e modalità di comportamento, alla presenza degli elementi attivi operanti nell'individuo a livello biologico, psichico, comportamentale nei rapporti con l'ambiente. Di qui la concezione dell'apprendimento come costruzione di legami associativi tra stimoli e risposte nell'interazione con l'esterno. Tra i suoi esponenti principali E. L. Thorndike (1874-1949), J.B. Watson (1878-1950), C.L. Hull (1884-1952). Tuttavia la figura di maggior spicco è certo quella di B.F. Skinner (19041990), in quanto ha dimostrato tutte le potenzialità del comportamentismo nel campo pedagogico. Il punto di partenza della teoria di Skinner è la critica alla tesi che il pensiero ha un modo di funzionare autonomo, con proprie strutture, processi evolutivi, modalità di raccordi e di organizzazione dei dati dell'esperienza; in realtà il pensiero (come del resto anche il linguaggio e le altre funzioni superiori) è una forma di comportamento che non possiede una propria autonomia 21 interna e di cui pertanto occorre conoscere le componenti. Skinner rifiuta la posizione degli attivisti che postulano una serie di motivazioni, bisogni, interessi immediati nel fanciullo. Presupponendo invece che determinati eventi (detti "rinforzi") abbiano un valore particolare per gli individui in quanto il loro prodursi riduce o aumenta lo stato di tensione interna, il modo più efficace per promuovere un certo tipo di condotta mentale sta nel mettere a punto rinforzi con caratteristiche contingenti (contingenze di rinforzo) tali da esercitare un controllo positivo del comportamento. Normalmente nell'educazione si fa ricorso al controllo disciplinare, mentre sarebbe più proficuo rafforzare le risposte, le condotte, le azioni ecc. ritenute positive con opportuni interventi. Si possono perciò tracciare dei programmi di rinforzo che determinano la quantità, la qualità, la frequenza dei rinforzi necessari per ottenere lo stabilizzarsi di certi comportamenti. Discriminare, generalizzare, astrarre non sono per Skinner atteggiamenti del pensiero e a un certo stadio dell'età evolutiva, ma comportamenti acquisiti in seguito a una serie di operazioni nell'ambito delle quali viene favorita quella ritenuta più valida. Lo stesso dicasi per il linguaggio, per le attività espressive e creative. In generale la società cerca di raggiungere questo obiettivo usando però termini e modi impropri, anche perché esiste una difficoltà reale nel rafforzare in termini immediati e temporali i comportamenti. Si tratta invece di puntare sulla scelta appropriata di contingenze rafforzative, sulla semplificazione dei contenuti da apprendere, sul controllo immediato, sull'apprendimento individualizzato. Si rende dunque necessaria un'impostazione programmata secondo linee curricolari ben specificate, sia come gradualità di progressione sia come momenti di apprendimento e di verifica, in modo da ottenere un insieme organizzato di comportamenti che sia aperto, non ripetitivo e non meccanico. Ispirandosi al romanzo "Walden" di H. D. Thoreau (1854), Skinner propone di costruire una società in cui il rispetto della libertà e della dignità della persona 22 viene ottenuto con un sistema educativo fondato sul condizionamento operante, senza punizioni e repressioni; una società “paneducativa” che anziché punire tardivamente i comportamenti negativi, si fondi sul rinforzo precoce di quelli desiderabili. Poiché l'istruzione tradizionale, mentre presuppone che le conoscenze necessarie vengano acquisite da tutti in modo uguale, trova poi difficoltà a individualizzare l'insegnamento per adattarlo ai ritmi di ciascuno, Skinner ritiene che sia necessario progettare delle sequenze di apprendimento uguali per tutti ma nello stesso tempo in grado di individualizzarsi per le esigenze di ciascuno e di verificare accuratamente i risultati ottenuti. La pedagogia deve diventare "tecnologia dell'insegnamento", avvalendosi del supporto di tecnologie esterne. Infatti la pedagogia di Skinner, proprio presupponendo l'esame e il controllo analitico dei processi e delle strutture psichiche da formare negli allievi, privilegia la progettazione, la programmazione, l'istruzione programmata. In tale contesto si inserisce l'impiego delle macchine per insegnare: già realizzate nei primi esemplari fin dagli anni '20, Skinner le progetta, al fine di individualizzare l'insegnamento, secondo un modello a sequenza lineare. Esse si fondano sul principio di realizzare accurate sequenze di contenuti e quesiti che ogni alunno può affrontare con i propri tempi e modi, avendo la garanzia di un feedback immediato attraverso il rinforzo che segue alla risposta. E' chiaro che l'impiego di questi strumenti ai fini dell'insegnamento non si può certo inserire nella scuola tradizionale ma solo in un progetto che si propone di creare scuole modello, di formare insegnanti preparati, di semplificare e di programmare ciò che si deve apprendere, di migliorare la prestazione dei materiali utilizzati, di definire in modo più organico gli obiettivi, di costruire curricoli scolastici articolati nello spazio, nel tempo, nei contenuti, nei sistemi di verifica e di controllo. 23 Walden due. Utopia per una nuova società Per far comprendere meglio il disegno di ingegneria comportamentale di Skinner, riporto di seguito il suo progetto di comunità utopica, incarnato nel romanzo Walden Due. E’ un romanzo scritto nel 1948, riprende il romanzo Walden (vita nei boschi) di Henry David Thoreau (1854), romanzo volto a riportare l’uomo ad una sua interiore autenticità in perfetta armonia con la natura. Walden 2 è una ripresa socializzata e razionale, la descrizione del modello di vita di una piccola città in cui le regole sociali sono all’opposto di quelle vigenti negli States. Si narra della visita nella comunità-città di Burris (dal primo nome di Skinner, Burrhus) professore universitario di psicologia, e di un professore di filosofia morale, Castle, che opporrà delle contro argomentazioni polemiche, più due coppie: una affezionata allo stile di vita americano mentre l’altra molto meno. Vengono accolti dal prof. Frazier che li guiderà nel loro soggiorno. Il romanzo è soprattutto un’opera di pedagogia estesa a tutti i livelli di vita: dai bambini appena nati fino agli anziani, dai problemi individuali a quelli collettivi dove gli individui possono esprimere e sviluppare le proprie capacità intellettive, operative, creative, secondo il proprio gusto, senza l’ansia della competizione, senza il morso della gelosia (“il mostro dagli occhi verdi”), ma in cooperazione con gli altri. L’ingegneria culturale adottata si basa sui seguenti punti: • No gelosia e invidia • No competitività • No leaders • No prevaricazioni personali di alcuni su altri (“non siamo adoratori di dei”) • No imposizioni di sorta • No arricchimento 24 • No consumismo • No moda • Sì al controllo del feedback comportamentale degli individui adottando il condizionamento operante • Sì all’eliminazione di situazioni casuali • Sì al lavoro per tutti, secondo i gusti di ciascuno e poco impegnativo • Sì ai servizi socializzati (tipo grande comunità, no familiare). • Sì al matrimonio precoce • Sì a pochi figli e subito • Sì alla realizzazione professionale o artistica anche della donna • Famiglia = grande comunità • I figli sono di tutti, tutti possono fare i genitori • Educazione comunitaria (“la casa domestica non è il posto giusto per l’educazione”) L’istruzione è un punto debole del progetto di Skinner: non propone nulla di più di ciò che aveva dato la scuola attiva. Per l’educazione della condotta, si usano esercizi di autocontrollo sin dalla prima età e vige la regola dell’antipunizione (come nella psicanalisi) constatati i suoi effetti negativi a lungo termine. Nel libro è diffuso un elegante senso dell’umorismo nei confronti del “buon senso” e dei luoghi comuni. Skinner si oppone al perenne controllo del comportamento di molti da parte di pochi (Chiesa, governi, scuola, famiglia, ecc.) per mezzo di un condizionamento operato con mezzi rudimentali ma non per questo meno efficaci. Skinner ha scelto di presentare il proprio pensiero in termini di controargomentazioni che emergono principalmente fra due protagonisti del romanzo: Castle e Frazier. 25 Il tema dominante è quello della tesi fondamentale di coincidenza di libertà e controllo. L’autore ritiene pronta la scienza del comportamento. Le sue tecniche però sono attualmente nelle mani sbagliate. L’uomo non è libero, anche se ciò forse non sarà mai completamente dimostrabile. Obbiettivo della scienza del comportamento skinneriana è la felicità di tutte le persone impedendo la prevaricazione di singoli individui sugli altri assieme a quello del raggiungimento di un senso di libertà ottenuto senza coercizione e punizione. La tecnica adottata è quella del condizionamento operante. Si tratta di aspettare che la persona esibisca un determinato comportamento, che faccia già parte del suo repertorio e che quindi la persona ha la tendenza o inclinazione ad emettere, a produrre spontaneamente, cioè non in risposta a richieste altrui. A tale comportamento deve essere fatto seguire immediatamente o qualche evento che sia piacevole per la persona stessa, un evento cioè che rientri in quelle cose che ci piacciono, vogliamo che si verifichino di nuovo (rinforzo positivo), oppure la cessazione della situazione di disagio in cui il destinatario si trovasse nel momento in cui emetteva quel determinato comportamento (rinforzo negativo), l’eliminazione cioè di quelle cose che non ci piacciono, non vogliamo che si verifichino e prendiamo misure per liberarcene ( Walden 2 p.251). In entrambi i casi con la risposta immediata si ottiene un aumento della probabilità che la persona esibisca spontaneamente quel comportamento, si ottiene cioè che il suo comportamento venga rafforzato. A Walden 2 viene praticato il rinforzo positivo perché le situazioni negative sono già state eliminate per quanto possibile già a priori. Ad ogni modo controllare tramite rinforzo vuol dire instaurare una situazione in cui l'individuo “fa ciò che vuole” o meglio “tende a fare ciò che vuole” e riceve in più un premio consistente in un’esperienza che è sicuramente piacevole per lui. Il controllo tramite condizionamento operante viene sospettato di 26 manipolazione, mistificazione e autorità anonima. Frazier replica che ciononostante le persone si ritengono completamente libere, fanno ciò che realmente desiderano fare: non vi è né costrizione né rivolta. Non si lotta mai contro forze che fanno sì che essi vogliano agire nel modo in cui agiscono. La manipolazione operata dal controllore viene evitata attraverso una scrupolosa osservazione del feedback comportamentale degli individui: è l’appagamento stesso dell’individuo a dimostrare ciò che è bene e ciò che non lo è. I programmi di sviluppo sono tagliati a misura individuale dei soggetti e modificati sperimentalmente: se ci si accorge che un programma risulta troppo avanzato per un soggetto non ottenendo i risultati previsti, si ritorna ad una fase precedente. In questo modo viene rispettato il normale e soggettivo ritmo evolutivo. Il benessere del controllato è alla base del corretto programma di condizionamento. Così pure particolare attenzione riceve il gruppo in quanto secondo Skinner una corretta cooperazione sociale è indispensabile alla felicità dell’individuo. ( Per una scienza del comportamento, B.F. Skinner) Quindi la forma di controllo è compatibile con l’esperienza di libertà e il sistema skinneriano permette di scongiurare rischi manipolativi. L’obiettivo del corretto comportamento viene raggiunto unitamente alla rinuncia sistematica alla punizione ed alla repressione dei bisogni individuali assieme all’adozione di un piano mediante il quale l’educatore ottiene con sicura efficacia il massimo di realizzazione delle potenzialità individuali, compresa la capacità di stabilire relazioni di cooperazione sociale che non è qualcosa di diverso dalla felicità individuale, ma ne è condizione necessaria. (Argomentazioni Skinneriane a cura di Lucia Lumbelli p. XX). Skinner ritiene il modello di Walden 2 perfettamente applicabile anche alla società americana del 1976 come a quella del 1948: se non viene applicata è solo per motivi di cattiva volontà politica o pedagogica favorendo invece modelli che favoriscono una cultura competitiva ed opportunistica. (p. XXI) 27 Nella società descritta da B. F. Skinner nel racconto Walden Two, del 1948, tutto ciò che bisogna insegnare ai ragazzi sono le tecniche di apprendimento, poiché poi ognuno per proprio conto o assieme ai compagni che s'è scelto, coltiverà gli studi che desidera. Tanto più che la città di Walden offre in vari luoghi e in vari momenti le più diverse opportunità di sviluppare le proprie conoscenze. Come egli afferma anche nel suo saggio "Oltre la libertà e la dignità", lo scopo deve essere quello di offrire a ciascuno le conoscenze e le tecniche necessarie per padroneggiare sè stessi. Per cui nella sua comunità utopica, le lezioni di autocontrollo debbono iniziare sin dalla primissima infanzia e saranno abbastanza frequenti per molto tempo. "Dato che i nostri bambini -spiega un abitante di Walden due- restano felici, energici e curiosi, non abbiamo assolutamente bisogno di insegnar loro delle "materie". Noi insegnamo solo le tecniche del pensiero. (...)diamo ai nostri bambini delle opportunità di apprendere e una guida, (...)il resto lo imparano da soli nelle nostre biblioteche e nei nostri laboratori. (....)non vengono trascurati, ma solo raramente, per non dir mai, viene loro insegnato qualcosa. (...) Piuttosto noi diamo loro le nuove tecniche per acquisire conoscenza e pensiero" ( Walden 2 p.131-2). Perciò al di là del leggere, scrivere e far di conto, non si prevedono né programmi, né discipline fisse, né classi; tutti d'altronde si preoccupano dei bambini della città, li aiutano e sono a loro disposizione per ogni problema. Anche a Pala, nell'Isola di Huxley, 1963, al posto della famiglia vi sono centri di adozione reciproca per cui i bambini pensano ad ogni adulto come fosse suo padre o sua madre. Come tra gli Ajaoïens di Fontenelle anche in questa società, ispirata al buddhismo tantrico, l'intera società si è costituita in comunità educante e si sente responsabile per tutti i suoi membri, a tal punto che l'istruzione formale passa in secondo piano rispetto alla formazione stimolata dal contesto socializzante. Per tutte le società si può parlare in un modo o in un altro di comunitarismo utopico nel senso che il bene comune, anzi della comunità, è il bene supremo 28 cui tutti vanno educati sin da piccoli, e dunque il sentimento di appartenenza alla comunità è il più forte rispetto a qualsiasi altro. Altre volte, si pensi per esempio alle comunità di vita o di riabilitazione, dove ormai le persone presenti hanno un certo tipo di educazione e di stile di condotta, il senso di appartenenza viene man mano insegnato e rappresenta poi il vero collante della comunità stessa e il “farmaco” adatto per i problemi esistenziali delle persone che ne fanno parte. Dato che vi è esclusa ogni coercizione forzata, l'educazione è lo strumento principe cui ci si affida, ma quando invece non si ha davanti un foglio bianco da educare diventa di cruciale importanza sviluppare un forte senso di appartenenza basandosi sulla costruzione di una relazione di fiducia e di aiuto. Sempre si ribadisce il concetto che è più importante orientare a certi valori che non far apprendere nozioni. Nella società odierna però la realtà è ben diversa; un forte individualismo fa da valore fondamentale nell’esistenza dell’individuo. Non è più il senso di appartenenza ad una comunità o ad una società il motore che fa si che l’individuo si comporti conformemente. Il condizionamento viene attuato in maniera sottile attraverso i Mass-media, le mode, i luoghi comuni, la cultura. E’ inverosimile pensare come nella realtà non ci sia un naturale senso di coesione, ma che ci sia una specie di lotta di sopravvivenza, e chi vince è chi riesce a stare tra i binari di ciò che a priori viene definito normale - che poi nient’altro è che il comportamento più diffuso - chi non riesce a stare tra i margini viene definito un deviante un diverso, un malato, un pazzo, ecc. nessuno si pone l’interrogativo se questa persona sta bene o male, se è cosi per sua scelta o perché tante microfratture nella sua esistenza gli hanno fatto credere che per lui non c’era che quella soluzione. “Chi non ci sta dentro” viene etichettato e man mano escluso. Allora c’è qualcosa che non va, bisogna allargare gli orizzonti e capire che le persone sono esseri fragili e vulnerabili che la nostra libertà d’essere, di fare, di apparire e di scegliere è intaccata da sottili meccanismi di controllo che non lasciano scampo o meglio 29 non permettono all’individuo una piena realizzazione di sé. Con questo non intendo dire che non ci devono essere meccanismi di controllo o meglio di contenimento, anzi credo che questi siano necessari, ma intendo dire che il controllo affinché sia buono deve essere esercitato per il bene comune non per interessi privati, deve inoltre svilupparsi attorno all’individualità di ognuno, deve prevedere diversità tra un controllato e l’altro. Le regole quindi devono, a mio avviso, avere un senso chiare e preciso; devono delineare dove inizia e dove finisce il margine di libertà di ogni individuo, per facilitare quindi la convivenza civile e per dare all’individuo, la sensazione di essere protetti e non controllati. 30 CAPITOLO 2: IL CONTESTO 1. Cenni sulle povertà Prima di parlare dell’Associazione San Marcellino di Genova credo sia utile alla comprensione cercare di dare un volto al contesto in cui opera, e credo che sia quindi necessario dare una più precisa spiegazione di cosa s’intende per povertà. La situazione stessa di definizione della povertà è un problema; la maggior parte delle persone infatti crede che i poveri si caratterizzino per una più o meno assoluta privazione materiale, stereotipo che perde immediatamente di validità se facciamo caso alle persone che si presentano a chiedere aiuto in qualsiasi servizio sociale; vediamo infatti persone normali, nel senso che non si differenziano nel loro apparire, dalla maggior parte delle persone; si presentano infatti ben vestiti, con cellulare e altri “optionals” il quale possesso a mio avviso, sta appunto ad evidenziare come non siano i beni materiali a mancare a queste persone. Solitamente si valuta la povertà non come fenomeno multidimensionale ma come povertà economica. Questo tipo di interpretazione però, è valida solo in parte, il concetto di povertà infatti ha subito e tutt’ora inevitabilmente subisce modificazioni, si muove infatti di pari passo con la trasformazione della città e delle sue tradizionali forme di tessuto connettivo. La società, imperniata dei valori, delle regole, delle caratteristiche del sistema capitalistico, racchiude in sé meccanismi subdoli e meno appariscenti di esclusione sociale che prima non erano presenti. Innanzitutto è necessario concepire la povertà come un processo , come , usando le parole del professore Guidicini, lo stato finale di immobilità ormai del tutto priva di autonomia strategica. Non è uno stato d’essere ma una sequenza verso il basso che passa attraverso più situazioni. 31 Meglio quindi servirsi di una terminologia specifica e parlare di povertà urbana estrema, ed evidenziarla come “una sequenza di rotture biografiche che interessano sia la personalità, sia il tessuto sociale” (G.Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, Pg 81). Parlare di povertà significa quindi carenza o mancanza di beni materiali, ma vuol dire anche addentrarsi in una situazione che vede soggetti incapaci e riluttanti al provvedere a se stessi, e sottolineare cosi anche la presenza di più o meno numerosi eventi destabilizzanti aventi effetto di microfratture dell’equilibrio individuale e che via via fanno perdere il senso stesso della vita. E’ come se la società elevasse un muro, ponesse un alinea di separazione che definisce deviante e non deviante, normale e anormale, malattia e integrità, stigmatizzando cosi le persone e rendendo ancora più difficile l’accettazione delle proprie debolezze e fragilità. La pena non è quindi un supplizio, ma è la perdita di un diritto, di un bene: la libertà di scelta e il diritto di ognuno di essere messo nelle condizioni minime necessarie per compiere scelte e decisioni. La persona che grava in stato di povertà diventa altro da sé, e segue un processo deformativo che ha effetti sul corpo e sulla mente. Una persona povera che si trova a vivere in strada, perde coscienza di sé stesso, perde la sua identità, viene stigmatizzato; la sua nuova forma viene data dal suo essere “barbone”, uomo che vive per strada, ha cosi inizio la sua “lobotomia celebrale” il suo cammino verso la perdita di ogni appartenenza e del senso di sé, verso la spersonalizzazione. La società, toglie a mio avviso la possibilità di “libero arbitrio” nel senso che fornendo un assistenza che deve essere solo richiesta e creando una linea di confine tra normale e anormale, fa si che alcuni individui siano costretti a scelte estreme di degradazione. Si inserisce a questo punto il “gioco delle alleanze, dove vince chi riesce a tessere la rete di relazioni primarie e 32 secondarie più solide e funzionali. La vita si svolge all’interno di una rete complessa di interdipendenze, dove si sviluppano forme “buone” di controllo e condizionamento auto e etero imposto, l’integrità di una persona si mantiene e si sviluppa all’interno di un insieme intricato di relazioni plurime e policentriche, che costituiscono sedi di appello cui fare ricorso e affidamento nei momenti “troppo” duri della vita. Se queste reti relazionali vengono a mancare, quando l’individuo per i motivi più disparati si trova a non farcela da solo, inizia l’inesorabile percorso di abbandono e decomposizione del sé, un percorso che porta alla povertà estrema. 2. San Marcellino 2.1 Un po’ di storia L’associazione San Marcellino è legata ad un particolare stile d’intervento che attraverso gli anni si è andato evolvendo a favore di quelle persone che, per le loro difficoltà, si trovano a dover gravitare attorno alla piccola chiesa di San Macellino, nel cuore del centro storico genovese. L’associazione di fatto si situa in linea di continuità con la veneranda Opera di carità denominata “La messa del povero”, nata nel 1945 per iniziativa di un padre gesuita, P. Paolo Lampedosa. Ai margini del centro storico della città di Genova, quest’uomo sensibile , alla vista delle tante macerie che ricoprivano la città vecchia dopo i bombardamenti della guerra, toccato, colpito, commosso dalla sofferenza di tanta gente, decise di aprire la porta della vecchia chiesetta di San Marcellino. Dietro l’invito del Padre Lampedosa varcarono la porta della chiesa le persone più diverse, gente che aveva perso tutto con la guerra, bisognosi delle cose più disparate come un aiuto alimentare, una foto, una buona parola o anche solo di un po’ di compagnia. 33 Accanto a queste persone se ne insinuavano altre che avevano scoperto una possibilità concreta e semplice di rendersi utili, di fare qualcosa di buono per chi ne aveva bisogno. Nelle foto di archivio si rivedono persone dignitose composte fra i banchi della chiesa e anche impegnata in momenti di festa, gita, pellegrinaggi. Nel 1963 Padre Giuseppe Carena S.J. prende il posto di Padre Lampedosa improvvisamente deceduto. Ormai l’attività dell’associazione già esistente da diversi anni è diventata punto di riferimento per le persone e per le famiglie, che per le più disparate motivazioni si trovano a gravitare attorno al centro storico di Genova. Padre Carena decise, in quel periodo, di muoversi soprattutto a sostegno delle famiglie provenienti dal sud Italia che si trovavano a vivere nel fatiscente centro storico, dove trovavano alloggiamenti a basso costo. Si creano attività rivolte ai bambini e ai ragazzi appartenenti a queste famiglie migrate per mancanza di beni e di mezzi in situazioni di povertà diffusa, cosi facendo si costituisce un modo di agire rivolto all’aiuto dell’intero nucleo. Attorno all’attività dell’associazione gravitano molti volontari, chiamati collaboratori, che poi prendendo spunto dall’esperienza di San Marcellino sviluppano diverse associazioni e cooperative che operano nel campo dei minori, alcune delle quali ancora presenti nel territorio genovese. La figura di Padre Carena risulta cruciale da molti punti di vista; prosegue infatti le attività assistenziali quali l’ambulatorio medico, il sostegno alimentare ed economico, la distribuzione di indumenti ecc., oltre a questo però inizia una rilevante attività di osservazione, di registrazione, infatti documenta e scrive tutto ciò che man mano viene a conoscere delle singole storie di vita delle persone in difficoltà. Fa questo in assenza di giudizi morali sulle condizioni di vita dei singoli e delle famiglie. Importante è anche il suo ruolo di tramite tra le persone in difficoltà e il resto della città, pone infatti a tutta la città il problema dei più deboli inviando un foglio informativo che tutt’oggi viene inviato a circa quattromila indirizzi. 34 La messa domenicale è forse ciò che ha caratterizzato e caratterizza le attività di San Marcellino, proprio in questo momento di preghiera, ma anche di incontro e di aiuto, è stato possibile per Padre Alberto Remondini e Padre Nicola Gay, osservare, conoscere, comprendere ed affrontare le situazioni difficili dell’emigrazione, della tossicodipendenza, dell’alcolismo e dell’essere senza dimora. Dall’inizio degli anni ’80 l’associazione rivolge le sue attività principalmente a favore di homeless che gravano in condizioni di povertà estrema e pur non escludendo le altre problematiche si strutturano a partire dal centro d’ascolto servizi ad hoc: dormitori, accoglienze notturne, comunità, mense, laboratori. 2.2 Lo stile L’Associazione San Marcellino ci ricorda: “di fronte al disagio abbiamo imparato tante cose, ma ancora tante abbiamo da impararne. Più la situazione è difficile e più occorre essere preparati: abbiamo iniziato come un gruppo di volontariato e non vogliamo trasformarci in una fredda squadra di tecnici dell’aiuto; Cerchiamo però di dare grande attenzione all’integrazione tra buona preparazione e buone motivazioni perché le persone preparate siano anche ben motivate e perché le persone motivate si preparino adeguatamente”. “In quest’ ultimi anni ci siamo ritrovati accano alle persone della strada ed abbiamo cominciato ad incontrarle cercando di dare spazio agli stimoli che, come singoli o come gruppo, ricevevamo da loro: in questo modo è nato anche il nostro stile, che non è stato frutto di un’idea precostituita ma del desiderio di incontrare, di comprendere e poi di intervenire. A partire dall’ascolto dei bisogni immediati (un letto, un pasto, vestiario, una doccia) abbiamo cercato di avvicinarsi ai bisogni più profondi, raramente espressi: rileggendo successi e fallimenti abbiamo trovato la strada che è quella di oggi, che sappiamo non essere quella definitiva, perché sarà continuamente 35 rivista a partire da nuove riletture del vissuto e adeguandosi ai repentini cambiamenti della società. Il nostro stile consiste perciò nel lasciarsi emotivamente toccare da queste persone e la riflessione sulla nostra esperienza di servizio ci induce ad affermare che non bisogna accontentarsi di inventare risposte adeguate al disagio ma, anche e prima di tutto bisogna lasciarsi cambiare dall’incontro, cambiare mentalità, guardare noi stessi e gli altri in un modo più umano, più vicino al cuore, più vero”. (sanmarcellino.ge.it) Quando si pensa alla condizione di senza dimora, quello che magari più colpisce è il fatto che queste persone non abbiano una casa dove ripararsi dove dormire dove prendersi cura di sé, ma in realtà l’essere senza dimora presuppone anche l’assenza di un luogo degli affetti, di relazioni significative, di simboli che sono elementi necessari per la definizione della nostra identità. Quindi lo stile d’intervento dell’associazione non intende lavorare solo sul problema dell’essere senza casa, ma parte dalla condizione di desaffiliation (R. Castel), l’esperienza ha messo in evidenza come il problema sia multidimensionale e articolato, comprende infatti molte diverse problematiche psico-fisiche che mettono a repentaglio lo sviluppo del sentimento di appartenenza sociale, innescando o aggravando itinerari di destrutturazione dell’identità. Partendo dal presupposto che ogni essere umano è tale in quanto animale sociale, e che la sua forza sta anche nell’aggregazione e nella socialità, nella sua capacità di tessere relazioni, legami, appartenenze, si evidenzia come queste persone, che per diversi motivi si trovano a vivere un progressivo distacco nei confronti dell’appartenenza sociale e delle reti sociali primarie e secondarie (famiglia, istituzioni ecc.) , scivolano in una via di non ritorno, verso un percorso di abbandono e decomposizione del sé. Il rapporto con questo “realtà parallela” ha messo in risalto che è necessario intervenire con una logica multidimensionale e che non si deve ridurre la problematica ad un mero insieme di necessità. La risposta al bisogno quindi dev’essere vista non tanto come finalità ma come strumento e mezzo 36 attraverso cui mettere a punto un progetto di accompagnamento, che contrasti la cronicizzazione e che porti l’individuo a rinegoziare la propria identità verso una maggiore emancipazione. Occorrono anni e anni perché le persone possano ritrovare il loro equilibrio, i tempi sono quelli dettati dalla storia personale e i progetti ne vengono condizionati. Non esiste una meta ideale a cui si mira, può essere l’autonomia parziale o totale, un inserimento lavorativo o a volte anche solo un accompagnamento sulla strada che per scelta o per forza si trovano a percorrere. Nell’accompagnarli molto spesso è più che sufficiente stare in ascolto, essere presenti e rispettare le differenze individuali. E’ preferibile aspettare che sia la persona a parlare, a chiedere, a confidare; non si deve cadere nella trappola del “dare per scontato” e in quella di creare situazioni troppo rigide e predeterminate. Massimo rispetto dunque per le esigenze e i tempi di ciascuno. Ci si può riferire al concetto di “addomesticamento” presente nel racconto di De Saint-Exupery, Il Piccolo Principe, addomesticamento che richiede tempo, costanza e pazienza nel cominciare a fidarsi dell’altro attraverso piccoli passi. Addomesticare, cosi come viene spiegato al piccolo principe, è una cosa da molti dimenticata; vuol dire creare dei legami, vuol dire riconoscere di avere bisogno uno dell’altro, vuol dire creare dei riti. Ecco quindi evidenziarsi lo stile di San Marcellino nel prendersi cura delle persone. Occorre tempo, occorre un tempo di “addomesticamento reciproco” in cui far crescere e maturare la fiducia perché possa prendere campo l’aiuto, la comprensione, la tenerezza, l’affetto e perché possa innescarsi una relazione significativa che aiuti a far ritornare le persone ad una condizione di vita sostenibile. Si cerca di conoscere la persona al di là del suo problema più evidente. Questo permette di vedere la persona sola senza casa, senza lavoro, come una persona segnata dai suoi problemi, dalle sue debolezze, da una serie di microfratture, ma anche come fonte preziosa di ricchezze e risorse ancora 37 inespresse. Per questo agli operatori è richiesto un enorme lavoro di relazione e uno sforzo per lavorare in pieno con le persone per le persone, offrendo loro principalmente una relazione. Gli operatori cercano di valorizzare negli utenti le capacità residue di cui ancora dispongono. Ciò è strettamente connesso ad una logica progettuale, con la quale è possibile costruire insieme alla persona in stato di bisogno, un progetto non rigido e determinato, che porta ad un certo cammino e ad alcuni fondamentali cambiamenti che possono migliorare la qualità della vita, verificati nei coordinamenti che San Marcellino attua secondo una logica di lavoro di rete. Ecco quindi evidenziarsi il reale oggetto di lavoro: prima del bisogno c’è la persona nella sua interezza, importante è quindi il ruolo di mediazione tra individuo e sistema sociale: “crediamo che la persona che viene esclusa o si auto-esclude, necessiti di uno spazio e di un tempo dove tentare di riconciliare il conflitto che una volta esposto genera solamente violenza, autodistruzione, morte”. Incontrare una persona nella sua interezza, e non solo il suo bisogno, si evidenzia nei fatti con la “regola” di dover passare dal centro d’ascolto per un colloquio individuale con un operatore per poter accedere alle strutture, il senso è che deve esserci un incontro significativo tra due persone e non solo tra una domanda e un’offerta. Non viene erogato solo un servizio, ma quello che viene innescato nell’incontrarsi, è un processo di rinegoziazione di sé, attraverso un’esperienza educativa, cioè una situazione in cui i protagonisti - operatori, utenti - possano dare un senso a quello che stanno vivendo, una situazione dove c’è un condizionamento operante che l’associazione cerca di fare sull’individuo, trasmettendo la sua filosofia, e mettendo delle regole, delle norme di condotta, che costituiscono i punti fermi necessari alla persona di strada affinché riprenda la sua dignità e la sua libertà. L’universo dell’utenza mostra caratteristiche eterogenee, e nega l’esistenza di percorsi e di carriere definite. Se vogliamo evidenziare un comune 38 denominatore tra le diverse storie di vita, questo è sicuramente l’incapacità di stare dentro ad una realtà normale. La tipologia di interventi che San Marcellino offre, indica che non ci sono routine consolidate, ma che per ogni persona ci sono dei singoli interventi, contro le “macro risposte che sono etichettanti, spersonalizzanti ed emarginanti”. Si cerca di superare l’ottica del mero assistenzialismo, cosi in voga nelle strutture pubbliche ed evidentemente non valido, si cerca quindi di far cambiare alla persona il proprio “cattivo” modo di vivere proponendo un “contratto”, una relazione importante correlata di servizi e attività. Il rapporto che si viene ad instaurare non è dettato a priori da logiche di bisogno e risposta ad esso, ma è la persona stessa che lo sceglie,che detta i tempi e le modalità della relazione. Credo che a si possa parlare di condizionamento operante, anche per quanto riguarda il servizio con le persone di San Marcellino, utilizzando l’esempio dell’associazione viene cosi esaltato il “buono” del condizionare altre persone. San Marcellino lavora con le persone che gravano in situazioni di povertà estrema e le condiziona con il suo stile e la sua filosofia, fa si che queste, riprendano affiliazione e senso di sé, attraverso una relazione importante che dà consigli e suggerimenti per ritornare a vivere un’esistenza degna di essere chiamata Vita. 2.3 Le aree di intervento Fra i senza dimora le problematiche emergenti sono principalmente: • L’alloggiamento • Il lavoro • La salute • Le dipendenze • La socializzazione Nell’affrontarle è necessario non porsi in una posizione a priori critica, ma chiedersi “come mai questa persona si è lasciata andare fino a questo punto, 39 come mai è cosi mal ridotta”, nel fare ciò occorre essere pazienti ed adattarsi i tempi degli altri, diversi da persona a persona e diversi perché sono il risultato di singole storie di vita. In ogni individuo che si trova a rivolgersi a San Marcellino, i problemi della casa, del lavoro, dell’alcool, delle relazioni e quello sanitario a suo tempo hanno creato e stanno ancora creando sofferenza. Accanto ai servizi offerti, si cerca di organizzare interventi che spaziano in cinque aree. L’accoglienza è la parola d’ordine a San Marcellino, fa parte del tentativo di offrire alle persone uno spazio ed un tempo per negoziare la propria identità. Faccio riferimento in particolare all’area accoglienza del centro d’ascolto, dove un volontario gestisce la sala d’attesa e accoglie chi arriva. Per i frequentatori è importante qui, essere riconosciuti, chiamati per nome, valorizzati, se si è attenti a curare il momento dell’accoglienza, anche e soprattutto nelle modalità di approccio, allora la persona riscopre la possibilità di scoprirsi “voluta bene” e degna di attenzione e di stima. In particolare una buona accoglienza permette alla persona di cambiare in positivo l’idea che ha di sé, la persona deve sentirsi amata da qualcuno, deve percepire un’attenzione e un riconoscimento da parte degli altri, che lei non riesce a darsi da sé stessa. Essere ben accolti aiuta quindi le persone senza dimora a riacquisire l’importanza della socializzazione, dello stare insieme e del fidarsi dell’altro; condizioni essenziali per la buona riuscita dell’accompagnamento verso la libertà e la dignità personale, infatti solo cosi scatterà il desiderio di una rinnovata conoscenza di se stessi e di una rinnovata gestione e organizzazione della propria esistenza. E’ importante quindi accogliere e poi saper ascoltare. All’inizio infatti le persone si rivolgono al servizio portando i loro problemi e i loro bisogni quali il mangiare, il dormire, aiuti economici ecc. sta agli operatori, con gli strumenti a disposizione, convertire la richiesta iniziale in una vera relazione d’aiuto, e creare quel rapporto significativo di comprensione dell’altro, che permetta di leggere oltre la richiesta iniziale, e di cercare i reali problemi, mancanze, 40 bisogni. Dietro al problema alloggiamento, c’è infatti, oltre alla necessità di un posto caldo, pulito e protetto dove dormire, il bisogno di una dimora, di un proprio luogo degli affetti , delle relazioni significative, di simboli che sono elementi fondanti della propria identità. Anche dietro una dipendenza che necessariamente dobbiamo curare, c’è un problema altro che ha portato a abusare di una determinata sostanza legale o meno. Il problema non sta nella sostanza, o meglio non solo in quella, il problema sta a monte, è, un malessere esistenziale che ti porta a vivere nell’oblio dello sballo, che ti porta a riuscire a vivere solo alterato. E’ importante aiutare chi si trova in difficoltà, soprattutto con un tipo di aiuto che porti la persona a percepire il suo reale problema, ed è necessario non fermarsi al solo problema “apparente” ma andare a fondo e chiedersi “Perché”. CAPITOLO 3: I SOGGETTI 41 1. Storie di vita: percorsi diversi per un destino comune verso la libertà. I percorsi biografici sotto esposti, hanno lo scopo di evidenziare come la libertà intesa come “fare quello che si vuole”, impregnata dalla filosofia del vivi e lascia vivere, si dimostra estremamente pericolosa e addirittura dannosa. Se non c’è una qualche forma di controllo auto o etero imposto, se manca un’effettiva disponibilità di risorse oggettive e soggettive, se non c’è un senso del limite e una concreta conoscenza di sé stessi e se è assente un sistema interiorizzato di norme, infatti, le persone lasciate allo “stato brado”, perdono dignità e restano faticosamente aggrappati al limite della sopravvivenza, iniziando un percorso di inesorabile abbandono e decomposizione del sé, senza contenimento alcuno, verso l’autodistruzione e scegliendo per contingenze e non per libera volontà. La logica comunitaria e nello specifico la realtà del Ponte, comunità residenziale della più vasta realtà di San Marcellino, sono un esempio di concreta e piena coincidenza di libertà e controllo. Le persone che seguono un percorso di reinserimento con l’associazione, sono consapevoli della loro esigenza di essere aiutati ma sono anche coscienti che deve nascere da loro la voglia di cambiamento. Il loro non è semplicemente un seguire i comandi, le regole, ma è, seguire delle indicazioni “terapeutiche” date da persone con più capacità e maggiore esperienza, essenziali per rientrare in porto e riprendere sé stessi e nel modo possibile maggiore libertà ed autonomia. La persona è, attraverso piccoli passi, aiutata ad uscire da una situazione in cui è spesso assente una dimensione temporale e un certo autocontrollo. Le regole presenti non sono semplicemente imposte, ma sono nate prendendo e dando senso al contesto in cui si formano. Non sono quindi divieti e costrizioni fine a se stessi, ma sono una forma di contenimento essenziale. I 42 progetti che intendono promuovere l’autonomia e la libertà e la dignità, riconsegnano alla persona il senso e l’importanza della propria vita Questo emerge dai racconti biografici degli ospiti che aiutano a vedere e a capire come questi individui abbiano riacquistato dignità e libertà solo dopo l’inserimento in questa “istituzione totale” che li impone, regole e norme comportamentali da rispettare. Piero si presenta per la prima volta a San Marcellino nel novembre del 1987, molto intimorito, chiede un posto dove poter dormire, varie volte è stato al dormitorio pubblico “Massoero”, ma ora non avendo più la residenza a Genova non può più essere ospitato li. Fa molta fatica a parlare di sé, racconta velocemente che ha lavorato come barista e cosi ha cominciato a bere, che è stato sposato, e che ad un certo punto ha perso lavoro e moglie. Dopo di questa prima sfuggente “apparizione”, Piero non si è più visto, fino al giugno del 1995. Si presenta come un tipo trasandato vestito di jeans e fa pensare ad uno scaricatore in porto, al tipico uomo da bar. Non fa in tempo a sedersi che precisa di essere un ex detenuto. Da quando è uscito dal carcere (circa quattro mesi) è stato in una pensione, pagandosela con dei precedenti risparmi, da allora cerca lavoro, ma senza risultati. Inizialmente si presenta alquanto scostante e sembra menefreghista, la sua richiesta è chiara: “Cerco aiuto per non finire per strada, un posto dove dormire che mi dia la tranquillità necessaria per riuscire a trovare lavoro e ritrovare l’autonomia”. Spiega di essere un tipo chiuso, di avere difficoltà a parlare con gli altri di sé ed esprime la sua convinzione che parlare dei suoi problemi non porterà a nulla in quanto non glieli risolveranno gli altri. Dice di non essere alcolista, ammette che lo è stato, ma che ormai, il problema è risolto; ha smesso in carcere perchè si era reso conto che bevendo non poteva andare lontano. 43 Passano le settimane, la sua ricerca di lavoro è in vana, si sente addosso l’etichetta di ex carcerato, che gli impedisce di trovare un’occupazione. Si sente un uomo senza possibilità, accusa fastidio nell’essere giudicato e pensa che il suo passato ormai gli precluda ogni possibilità di cambiamento, la gabbia del suo passato gli toglie la libertà, lo priva d’ogni possibilità di scelta, in questo periodo Piero non si sente libero perché privato delle ricchezze della “normalità”: casa, lavoro, amicizie, famiglia. Nel settembre 1995 è stato inserito nel laboratorio di pulizie, il suo umore e la sua salute migliorano di giorno in giorno, dice di stare meglio soprattutto perché, con qualche ora occupata, la giornata sembra meno dura. Ammette anche di non bere più quei bicchieri che ogni tanto si sentiva costretto a bere perché la vita gli pesava troppo. Molto soddisfatto del suo piccolo impegno quotidiano, ha cominciato a progettare il domani, pensa a una casa rendendosi però conto che anche a causa dei suoi 55 anni non è cosi semplice inserirsi nel mercato del lavoro e trovare un’occupazione che gli permetta di mantenersi autonomamente, ha quindi una costante sfiducia di fondo verso la possibilità di migliorare la sua situazione. E’ il maggio del 1997, Piero è da qualche giorno uscito dal carcere, dorme al Massoero, si ripresenta a San Marcellino ed è convinto di ricominciare da dove era arrivato. E’ molto prudente nell’esprimere i suoi progetti , dice che per il momento preferirebbe uscire dal dormitorio pubblico perché in quella struttura si sente abbandonato a se stesso, si sente in pericolo perché nessuna regola viene fatta rispettare e da questo capisce che non c’è nessuna attenzione verso di lui e verso gli altri ospiti. Nel 1998 Piero viene inserito nella comunità di riabilitazione “il Boschetto”, dove si inserisce subito nel migliore dei modi e recupera forza e buon umore. Durante una delle riunioni settimanali, fa emergere le sue difficoltà, che riguardano per esempio il rispetto degli altri compagni, la tolleranza e l’accettazione delle osservazioni e delle critiche; dal suo modo di descrivere 44 una vita comunitaria ideale traspare l’attaccamento ad un impianto valoriale segnato dai trascorsi di carcere e dal tempo passato nella Legione straniera prima come fante e poi come infermiere, dove non facendo né osservazioni, né critiche agli altri si ha il diritto di non riceverne mai e dove le inadempienze e le carenze di qualcuno vengono subito coperte da altri. Nella dimensione comunitaria una concezione simile della convivenza si scontra con il lavoro di scambio e arricchimento che quotidianamente avviene tra gli ospiti. Le modalità di relazionarsi di Piero, frutto molto probabilmente di esperienze povere d’opportunità di vera condivisione, lo condizionano molto, ma non sembrano rappresentare un ostacolo al suo progetto con San Marcellino e alla sua voglia di andare avanti e alla scelta concordata di passare alla comunità di vita “Il Ponte” piuttosto che in un alloggio. Questa scelta appare dettata dal suo bisogno e dalla sua voglia di socialità, di condivisione, di famiglia. Il 31 maggio 1999, si trasferisce in comunità dove prende subito possesso dei suoi spazi, mostrando lo sviluppo di un forte senso d’appartenenza con le strutture, e con la più ampia realtà di San Marcellino, cosa evidenziata anche dalla sua scrupolosa puntualità nel presentarsi ai colloqui settimanali; padroneggia in cucina, luogo a lui preferito, dove riscatta la sua identità perduta, riprendendo coscienza di se stesso e delle sue capacità. Quando gli chiedo di spiegarmi secondo lui che significa l’essere libero, mi dice: “Ero solo, orfano di guerra, sono stato affidato ad una zia materna che sposò un militare di Messina e ci trasferimmo li, dove ho frequentato le scuole dei Salesiani fino alla prima liceo, quando a causa di litigi violenti con il marito della zia, presi l’unica via che mi sembrava possibile per sfuggire da una situazione ormai insopportabile, e mi arruolai in marina. Dopo tre anni di Legione straniera venni espulso e approdai cosi a Genova, dopo un paio di anni come barista cambiai professione e cominciai a fare il ladro e poi la vita trascorse fine a se stessa, quasi a me estranea, ogni giorno agivo mosso da 45 necessità impellenti, conducevo un’esistenza sregolata e senza senso, abbandonato a me stesso, ai miei problemi e alle mie debolezze; senza nessuno che mi prendesse per mano e mi consigliasse trasmettendomi un piccolo insieme di regole a vivere dignitosamente libero. Quando mi sono ritrovato in strada dopo tanti anni di carcere e di Legione straniera, mi sembrava che non mi rimanesse altra scelta, altra possibilità, se non vivere per strada, arrangiandosi a stento con qualche lavoretto illegale, io oggi invece sono libero, mi sento libero perché ho scelto io di stare qui, perché ho ritrovato forza e serenità, aiuto e compagnia; perchè in questa istituzione io mi sento libero di scegliere, sono libero di essere me stesso nel rispetto della mia persona e delle altre a me vicine e sono contento di sottostare alle poche e fondamentali regole che San Marcellino ci dà, perché sono queste regole che mi hanno tolto dalla rovina, che mi hanno fatto rientrare in porto!” Aldo si presenta al Centro d’ascolto per la prima volta nell’aprile del 1988 e dice di trovarsi a Genova da 4 anni. Inizialmente ospitato da una cognata, poi a casa di un amico e poi si è ritrovato a vivere in stazione perchè “l’ospite dopo un po’ pesa”. Ha una completa o quasi, assenza di rapporti con parenti o con amici e comunque non ha nessuna relazione importante che gli dia la possibilità di chiedere aiuto. Il suo primo bisogno espresso è di tipo alloggiativo e chiede qualche soldo, dopo questa prima richiesta non si è più presentato a San Marcellino fino al novembre del 1993, quando si ripresenta fingendo di essere nuovo. Confida di avere moglie e tre figli, è certo però che la sua famiglia non voglia avere a che fare con lui, perché non ha un lavoro. Dice di essere in giro da tre mesi e di trovarsi per la prima volta in una situazione del genere. I suoi racconti non coincidono, forse la realtà è troppo dura da ricordare per lui, forse ha vergogna di ammettere il suo passato, chissà, è comunque 46 evidente il suo processo di abbandono, non ha lavoro, dorme dove gli capita, è trasandato, rifiuta di stare al Massoero perché dice di “non voler stare con quelli là”, chiede ospitalità all’Angolo. Man mano che il rapporto va avanti, Aldo racconta la sua verità: dice di vivere da 40 anni a Genova, che ha lasciato il lavoro su pressione della moglie che voleva tornare al “paesello”, da li non è più riuscito ad inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro. Ha 3 figli con i quali ha buoni rapporti ma contatti occasionali, racconta di non essere mai stato in una situazione agiata, ma che con il lavoro che aveva riusciva a “campare”. Dai suoi racconti emerge la sua incapacità a prendersi le responsabilità, non è mai colpa sua, accusa la crisi lavorativa, la moglie cattiva ecc. Escono lunghi periodi passati al Massoero, alle stazioni e sui treni. Ormai la sua condizione di senza dimora è conclamata e ha evidenti problemi di alcoolismo, che però minimizza, secondo lui, infatti, il suo unico problema è la mancanza di lavoro, che lui considera la chiave per la stabilità e per l’autonomia. Gentile e ambiguo, ha un atteggiamento sottomesso e un modo di rapportarsi che impedisce un reale contatto, continua comunque il rapporto tra Aldo e San Marcellino, che permette di capire che dietro quell’uomo che ride, scherza e fa battute in realtà c’è una persona sensibile e affettiva, che racconta agli altri e a sé stesso bugie perché è meno doloroso rimuovere la realtà passata piuttosto che rielaborarla. Nel frattempo gli anni scorrono, Aldo ha una borsa lavoro di cui sembra più che soddisfatto, sta frequentando un Club per alcolisti in trattamento e sta cercando di ritrovare l’equilibrio e di progettare il futuro, dopo anni passati al Gradino e all’Angolo, nel 2000, viene trasferito al Boschetto. All’inizio reagisce con aggressività verso il gruppo, fa fatica a mantenere regolarmente i suoi impegni e a creare contatto con il resto degli ospiti. Passa al Boschetto tre anni, durante i quali si rivela la sua adeguatezza a vivere in una situazione comunitaria piuttosto che in un alloggio, emerge infatti sempre più, il suo 47 bisogno di essere aiutato e controllato. Soffre la solitudine, è pervaso da un senso di inadeguatezza e inferiorità e per questo non è in grado di crearsi autonomamente relazioni importanti, inoltre, forse a causa dell’abuso di alcool, ha subito un precoce deterioramento mentale, La soluzione che si prospetta ottimale per lui e per i suoi 56 anni è la comunità Il Ponte dove tutt’ora risiede. Parlandomi del suo passato Aldo fa molta confusione, dice una cosa e subito dopo l’esatto contrario, riesco però ad entrare in confidenza con lui, così mi racconta che nella vita ha tanto sofferto per i suoi errori, che l’alcool e il suo senso di inferiorità gli hanno precluso molte scelte. Mi dice di essersi sentito abbandonato nel momento del bisogno dalla sua famiglia, e che ha vagato per molto tempo senza mete, bevendo e ancora bevendo per tutto il giorno, per non pensare, per cercare di attutire il dolore vivo più che mai al solo pensiero di essere solo, di non potere per vergogna e per orgoglio chiedere aiuto ai figli, di non potere tornare a casa perché troppi pregiudizi gravavano su di lui. Aldo pensa di non essere mai stato veramente libero, dice che non ha mai capito cosa voleva dalla vita e che solo da quando sta a San Marcellino crede di aver scoperto se stesso e di essere scampato da una situazione senza via di uscita. Vede le regole come essenziali per la formazione dell’individuo e per il suo sviluppo, vede la vita in comunità libera e dignitosa, mentre ricorda il suo passato in strada come un periodo buio, iniziato per forza maggiore e non per scelta e dove era completamente condizionato e dipendente. Gianni è seguito dal Centro d’ascolto di San Marcellino dal 1986. Accolto in un momento di grave difficoltà, non aveva né casa, né qualcuno che lo potesse aiutare e al quale fare riferimento. Confida che non ha mai visto il padre e che la madre è morta quando lui era piccolo, ma in realtà questo non è vero, non vede e non sente la madre da tantissimo tempo perché con lei 48 aveva dei grossi problemi di incomprensione a causa dei quali preferiva pensarla morta. Si è trasferito in giovane età a Roma con il fratello, dove si è sperperato tutti i suoi risparmi, vaga per l’Italia, prima ad Ancona, poi Asti, Torino e arriva a Genova dove riesce a sviluppare una forte conoscenza del territorio e instaura rapporti con molti enti assistenziali. E’ ormai a tutti gli effetti un senza dimora ed ha problemi con l’alcool, è terribilmente fobico, molto rigido e chiuso, nervoso, aggressivo, dice di avere una casa in Lazio lasciatagli dai parenti ma lui non la vuole, non gli interessa anche perché non riesce a vivere sotto un tetto. Gianni non riesce a stare in luoghi chiusi, dice di soffrire di claustrofobia, e questo non gli permette di trovare lavoro e lo costringe a dormire per strada, la sua fobia infatti gli impedisce di riuscire ad entrare in un posto chiuso anche solo per riposarsi; forse i suoi disturbi derivano da un evento traumatizzante; all’età di 24 anni ha perso la giovane amata, morta all’improvviso a causa di un brutto male. Continua a dormire in strada, sotto qualche portico, E’ inserito per la prima volta nell’anno 1992 al dormitorio L’angolo e nel 1996 è trasferito in un’altra accoglienza notturna, sempre dell’associazione, sembra cominci ad accettare di stare con altre persone sotto lo stesso tetto. A periodi alterni frequenta il Centro d’ascolto dove è aiutato ad affrontare le difficoltà dovute a frequenti momenti di depressione legati per lo più, al suo precario stato di salute, che lo portano a bere e a vagare in città. Nel 1998 il suo senso di appartenenza con la realtà di San Marcellino è forte, e lui inizia a mostrare interesse per trasferirsi in comunità, vorrebbe andare al Ponte perché dice di sentire il bisogno di essere aiutato e contenuto e perché non vuole rimanere solo. Anche se ammette che quando è con altre persone è scontroso, maleducato, prepotente e che non sa accettare critiche o consigli, sceglie la vita di comunità, perché alla fine dietro alla sua dura 49 apparenza c’è una persona fragile e sensibile che ha molto bisogno di attenzione e di affetto. Gianni mi dice che le regole di San Marcellino e più in generale, della società servono per delineare ed evidenziare gli spazi di libertà che ogni persona ha, dice: “la libertà senza regole non può esistere”. Secondo lui nessuno è libero se non ha un controllo alla base che gli fa capire che cosa è bene e cosa è male, che insegna a rispettare sé stessi e gli altri. Le regole per lui sono essenziali, innanzitutto per mantenere l’ordine e poi perché il controllo è l’unico mezzo che permette alle persone di farsi una coscienza, una guida interiore che aiuta a vivere. Giorgio si presenta al Centro di ascolto nel 1998, dal 1983 è senza casa e senza dimora, racconta di essere stato cacciato dalla moglie e che da allora è senza lavoro, senza casa e senza dimora, e passa il tempo facendo lunghe, lunghissime passeggiate “qua e là”. Giorgio al momento del primo colloquio ha già 62 anni e da 15 vive per strada, dormendo in stazione e al dormitorio pubblico. Si presenta chiedendo assistenza: un alloggio e qualche spiccio. Da anni ristagna in questa situazione; immobile, aspetta rassegnato e con atteggiamento passivo. E’ convinto che siano gli altri a doverlo aiutare, che è lo Stato che ha il dovere di trovargli una famiglia, cioè che è la legge che deve garantirgli quei diritti e quel minimo essenziale perché lui possa provvedere a sé stesso e a farsi una famiglia. Quando affronta certi argomenti appare ansioso e impaziente, è convinto che sia suo diritto non essere costretto a chiedere ed essere però ugualmente aiutato. Questo suo modo di percepire il suo diritto all’assistenza è in netto contrasto con la logica assistenziale attualmente in auge; in Italia infatti per ricevere aiuti e assistenza sociale, è necessario chiedere! 50 Il suo particolare modo di vedere la sua situazione e di pretendere aiuto, lo hanno fatto gravitare in questo non spazio esistenziale, è effettivamente una persona con qualche deficit mentale, ma questo non può giustificare l’omertà dell’assistenza pubblica che lascia vivere cosi queste persone, che per mentalità, per orgoglio o per incapacità non riescono a chiedere e si sentono abbandonate da tutti e pian piano abbandonano se stessi. Passa qualche anno al dormitorio “Il Gradino” dove dice di stare bene e dove si adatta scrupolosamente a regole ed orari. Più il tempo passa e più Giorgio ritorna in ottima forma, non è particolarmente reattivo però esprime la sua esigenza di vivere in un contesto protetto, dove possa essere contenuto e seguito. Dice che le regole non gli danno fastidio, ma anzi gli piace seguirle e il dover rientrare in dormitorio ad una specifica ora gli da un forte senso di appartenenza, perché dice “mi sembra che qualcuno mi aspetti, e questo mi fa sentire accolto, ben voluto e importante”. Si barcamena tra atteggiamenti di disponibilità e di chiusura, è ripetitivo e fatica molto ad uscire dai suoi schemi mentali, non accetta consigli se non dall’autorità, dice che vuole ragionare con la sua testa ma poi in realtà si abbandona agli altri. Ammette di non sentirsi adatto a combattere “là fuori, dove il mondo è troppo cattivo, competitivo e veloce”. Quando arriva il sussidio, appare spaventato piuttosto che contento, reazione strana visto che sembrava aspettasse quello per progettare il suo futuro. Il ricevere un contributo economico continuativo, fa emergere la sua paura al cambiamento, la sua paura di essere nuovamente abbandonato a se stesso: “…ho paura di essere lasciato libero, in balia di me stesso e delle avversità del mondo, non riesco a mettere dei paletti nella mia vita, da solo non riesco a pensare ad un domani, da solo cammino e ancora cammino perché non so che altro fare…”. Me lo immagino attraversare il mondo, lo vedo passeggiare senza meta per posti che solo lui avrà il tempo di raggiungere, e al suo rientro 51 gli chiedo: dove sei stato di bello oggi Giorgio? Risponde: “dalla foce a Boccadasse e poi indietro, come sempre, come ogni giorno.” Il suo comportamento è sempre uguale, tutto in lui è immutabile, innanzitutto il sorriso che non è mai pieno ma sempre un po’ forzato, quasi come se la felicità non appartenesse al suo cielo vitale; è uguale ogni giorno, nel modo di vestire e nelle cose che fa, credo che il suo essere scrupolosamente routinario lo aiuti a trovare in un certo senso, la sua stabilità. Sembra essersi fermato agli anni ’40/’50, rispetto alla percezione che ha di lui e della sua vita, anni in cui i film erano bellissimi, la musica straordinaria, la società ordinata e a misura d’uomo, insomma sembra essersi fermato nel periodo dove aveva un’esistenza degna e serena. Gli viene proposto uno “stage” alla comunità “il Boschetto”, dove può “giocare alla famiglia”, dove cioè può imparare a gestire se stesso in rapporto con altre persone e a seguire regole, compiti e doveri precisi. Accetta anche se preferirebbe la soluzione dell’alloggio per avere maggiore autonomia, si rende comunque conto che per lui è ancora prematuro trovarsi solo in una casa e gestire poi tutte le incombenze che ne deriverebbero, sembra pian piano accettare l’idea che forse la via della comunità e in specifico “Il Ponte”, comunità residenziale, sarebbe la più adeguata alla sua persona e alle sue esigenze. Dopo 1 anno in comunità riabilitativa infatti, accorda con il suo operatore, il trasferimento al Ponte, dove tutt’ora con la precisione di un orologio vive tra i suoi riti, le sue abitudini e i suoi doveri di buon coinquilino. Parlare con lui non è stato facile. E’ una persona ermetica e sfuggente, il tono emotivo è quasi assente nelle sue parole, parla per frasi fatte, manierismi; quando durante una cena in comunità ho parlato di me e del motivo della mia presenza li, Giorgio mi ha detto che per capire cos’è la libertà e per capire se gli individui sono liberi devo guardarmi attorno e vedere quante sono le cose che una persona sceglie di fare perché vuole e quante ne fa per necessità, per dovere, per caso, per forza maggiore. Mi dice che lui ha smesso di 52 sentirsi libero proprio quando apparentemente non aveva più regole e legami che lo portassero a fare o dire qualcosa, “la mia libertà è finita quando sono stato lasciato solo senza nessuno che mi desse consigli e indicazioni”, le regole sono per lui necessarie per percepirsi libero e per fare delle scelte, “senza delle regole io non sono nessuno, mi alzo alla mattina e non so cosa fare, senza l’insieme di norme che San Marcellino ha costruito per noi non mi sarebbe restato nient’altro che camminare…”. Franco ha iniziato a frequentare il Centro d’ascolto nel febbraio 1987. Dopo diversi tentativi di accoglienza naufragati a causa del suo alcolismo e degli accentuati tratti paranoici, nel febbraio del 1996 comincia a discutere per un reale cambiamento, intraprendendo, con l’aiuto dell’Associazione San Marcellino, un percorso di reinserimento sociale: accetta di avere una residenza stabile e di conseguenza un documento d’identità valido, inizia a frequentare il servizio di salute mentale, partecipa con regolarità al CAT (club per alcolisti in trattamento), inizia una pratica per l’invalidità civile e si iscrive al collocamento. Molto gradualmente le cose migliorano: il suo problema con l’alcol viene tenuto a freno, i suoi tratti paranoici non compromettono la relazione d’aiuto e in virtù di tali cambiamenti nel 1999 viene inserito nella nostra comunità residenziale, che si presenta per un soggetto come lui la soluzione più adatta perché concede da un lato maggiore libertà e autonomia ma, dall’altro assicura contenimento e controllo, necessari per mantenere la “rotta”. In questa dimensione il Signor Franco ha risposto positivamente sia alla maggiore responsabilità richiesta dalla stretta convivenza con gli altri ospiti, che dalla maggiore responsabilità richiesta dalla maggiore autonomia e libertà che la comunità offre ai suoi ospiti: ha le chiavi di casa, deve rispettare gli orari, gli ospiti sono chiamati a gestire spesa, pulizie, cucina ecc. Franco mi racconta di sé e del suo passato: sua madre è morta tre mesi dopo il parto, il padre si è subito risposato, è stato lui secondo Franco a far morire 53 sua madre. Ha sempre avuto con la figura paterna un rapporto conflittuale, che a causa dei problemi di alcolismo del padre, sfociava spesso in liti violente. La situazione si era fatta insopportabile, cosi a sedici anni decide di scappare di casa dove però ritorna. Dopo pochi anni, però, scappa ancora, poi ritorna e riscappa, resta su questa altalena fino al 1980 quando approda a Genova, fa il delinquente, ruba e spaccia e per questo passa in tutto 10 o 12 anni di carcere, che li segnano l’esistenza. Dice che si sente costretto a fare queste cose, perché non sapeva in che altro modo guadagnarsi da vivere. Non trovava lavoro e dopo i primi arresti era praticamente diventato impossibile trovare occupazione. Confida che passa dei momenti di grave sofferenza quando pensa alla sua famiglia, alla sua casa, al suo paese; ammette che quando era solo e non contenuto da San Marcellino, beveva per attutire, almeno momentaneamente, i dolori provocati dai ricordi e dalla poca fiducia nella vita e in se stesso. Da quando ha accettato di farsi aiutare dall’associazione, è contento di sé stesso ed è sempre più soddisfatto della sua scelta di “vita buona”. Ammette che è stato difficile accettare le regole e la convivenza con altre persone diverse da lui, ma sottolinea l’importanza di stare in un posto tranquillo e sicuro quale il Ponte dove si sente a casa sua. Franco si accende particolarmente al suono della parola libertà, questo è comprensibile, in quanto il suo essere è stato segnato da anni di reclusione e quindi di privazione della libertà fisica, “non era nessuno là dentro, solo un numero, solo un delinquente che doveva essere punito per le sue malefatte; mi volevano rendere uguale agli altri nel modo di pensare, di agire e di essere, mi hanno costretto a tagliare i capelli e questo è stato una delle cose che più mi ha fatto sentire sottomesso e una nullità in quanto, insieme ai miei capelli se ne andava anche la libertà di essere me stesso, con le mie problematiche, i miei difetti, le mie particolarità ma anche con quel poco di buono che avevo; se ne andava cosi, la mia libertà di essere Franco, diverso 54 dagli altri, con bisogni e problemi diversi ma non per questo meno importante”. I suoi racconti sono evidentemente segnati dal carcere e da anni di vita di strada: “sono sempre stato un ribelle, un diverso, mi sono trovato a delinquere perché mi sembrava che fosse l’unica cosa che ero all’altezza di fare, perché era l’unica via disponibile, la più facile, non me ne importava niente delle regole e degli altri, perché nessuno rispettava me e il mio modo di essere. Da quando sono a San Marcellino, ho imparato molte cose, innanzi tutto ho iniziato a conoscere, capire ed accettare me stesso e poi ho capito il senso delle costrizioni dell’associazione, che sono costruite attorno a noi per proteggerci e per aiutarci”. “Le regole non vengono imposte, ma spiegate e per questo acquistano un significato preciso e viene naturale e piacevole seguirle. Per esempio, alla sera, dobbiamo rientrare in comunità entro una certa ora , ogni tanto sbuffo per questo, ma poi sono felice perché sento che qualcuno si preoccupa di me, perché so che c’è qualcuno che mi aspetta, che aspetta proprio me, con le mie battutacce, con i miei modi sgarbati, con le mie lune, aspetta me, Franco diverso ma non per questo, meno importante”. Le semplici regole di civile convivenza e il contenimento esercitato dalla comunità su Franco hanno senza dubbio raggiunto il loro scopo, hanno fatto in modo che si sviluppasse in lui un forte senso di appartenenza e d’identità, e lo facessero sentire amato,e voluto da quella che oggi lui considera la sua famiglia. “Sono libero perché ogni giorno scelgo io cosa fare e non scelgo per necessità ma per volere; per me la libertà è poter fare ciò che si vuole, è poter fare delle cose coscienti del perché si fanno, e non perché qualcuno ti da degli ordini, la libertà è l’assenza di dipendenze, l’alcolista e il drogato, cosi come le persone che vivono per strada, i depressi e gli eterni insoddisfatti, sono schiavi, persone deboli, che hanno scelto non quello che volevano, ma quello che apparentemente li restava da fare”. “Io sono libero, 55 libero di essere, di fare, di amare e di essere amato, di rispettare e di essere rispettato, sono libero di scegliere”. Enzo ha 57 anni dal 1997 è seguito da un operatore di San Marcellino, inizialmente chiede aiuto per trovare un alloggio. Racconta di essere stato cresciuto dal fratello del padre e sua moglie, dall’età di 1 anno, da quando mori sua madre. Dice che con loro è riuscito a passare una buona infanzia, a differenza dei suoi fratelli, anche se prova ancora un po’ di rabbia per il fatto che, gli zii, non gli hanno permesso di sposarsi e di essere autonomo. Nel 1978 gli zii hanno cominciato ad avere problemi di salute, cosi lui si è visto costretto a lasciare il lavoro per accudirli, nel 1993 sono entrambi morti, e in quel momento la situazione è precipitata. Enzo si è trovato solo, uomo di mezza età non in grado di badare da solo a sé stesso, di curarsi da sé perché ha sempre avuto qualcuno che, in salute e in malattia, gli indicava che fare e come farlo. Vive per molto tempo nella casa dov’è cresciuto, divenuta ormai una capanna sporca, senza luce, gas, acqua. Quando si presenta al Servizio, chiede un posto dove dormire, spiegando che ormai la sua casa se n’è andata insieme ai suoi parenti defunti. E’ molto depresso, piange spesso, è amorfo, taciturno, non cura la sua persona, è sporco, mal vestito. Emergono subito la sua incapacità a stare da solo e i suoi problemi psichici. Nel 1999 gli viene proposto “il Boschetto”, subito non ne è entusiasta, ma dice “almeno posso stare a casa quando voglio e almeno ho compagnia”. Accetta il trasferimento, con la consapevolezza che per il futuro gli potrà essere utile sviluppare delle abilità nella cura della casa, in cucina, e nella cura di sé stesso. Il suo comportamento esprime una grande pigrizia che lo porta a non curarsi, non ha infatti una carenza di capacità, ma una forte tendenza a trascurarsi, tendenza che coinvolge la persona, i suo oggetti personali e i suoi progetti per il futuro. E’ poco autonomo, ha bisogno di continui stimoli, naviga sempre 56 nel suo nulla esistenziale, dice di annoiarsi nel fare sempre la solita vita, ma non è motivato a fare alcunché. Comprende i rischi che lui dovrebbe affrontare se decidesse di vivere da solo: impigrirsi sempre più, guardare troppa televisione, non uscire, non parlare, trascurare sé e le cose; per questo decide a suo malgrado di passare al “Ponte”. Li, ha un atteggiamento da istituzionalizzato, è immobile, lamentoso, questo potrebbe essere il frutto di una forte condizione depressiva. Enzo crede di non essere mai stato libero: “ho sempre vissuto condizionato da chi mi ha allevato. Quando avevo deciso di prendere il volo, mi hanno tagliato le ali e cosi sono stato costretto a vegetare all’interno delle quattro mura di casa, finché un giorno, sono rimasto solo, e li che potevo fare? Non sapevo più cosa volevo, cosa pensare, dove andare, chi cercare, ero solo e molto triste, cosi mi sono lasciato scorrere la vita addosso, finché il mio patrimonio è finito e la consapevolezza di non farcela da solo, mi ha costretto a chiedere aiuto”. “Il contenimento per me è essenziale, se non avessi trovato con San Marcellino il mio spazio, mi sarei lasciato morire, perché la vita che da solo posso svolgere in realtà non è molto diversa dalla morte. Ho bisogno che mi venga imposto tutto, dall’ora del rientro a quanto posso stare davanti alla televisione; grazie a Dio non sono capitato in cattive mani, ma anzi ho trovato aiuto da persone con esperienza, che mi insegnano trasmettendomi delle regole necessarie per condurre la mia esistenza, rispettando i miei ritmi e le mie diversità”. Angelo, nel gennaio del 1989 si presenta per la prima volta a San Marcellino, chiedendo un posto dove dormire, perché non sa dove andare. Racconta che, negli ultimi anni, ha girato l’Italia in cerca di lavoro senza ottenere risultati. Ha solo 35 anni, ma è evidentemente in uno stato avanzato di abbandono di sé. 57 Nel 1987 ha perso il lavoro a causa di un intervento di riduzione del personale, da quel momento non è più riuscito a pagare l’affitto ed è stato sfrattato, da allora vive per strada. Ha perso il padre durante la prima adolescenza e da allora è stato costretto da necessità economiche a lavorare. Originario del sud Italia, dove ha vissuto fino a 9 anni, quando si è trasferito a Genova con la sua numerosa famiglia per cercare di vivere una vita più dignitosa. Ha tre fratelli più giovani tossicodipendenti, in carcere per furti e spaccio, e due sorelle che sembrano essere adeguatamente sistemate. Si sposato e dopo anni di matrimonio nel 1987 ha divorziato. Inizialmente racconta che quando ha perso il lavoro ha cominciato a bere, e per questo sono cominciati i problemi con sua moglie che dopo poco ha chiesto la separazione. In realtà il suo rapporto problematico con l’alcool è iniziato precedentemente, infatti quando acquista più fiducia nell’operatore racconta che, gli piaceva passare le giornate al bar con amici bevendo molto, e che alcune volte si trovava coinvolto in risse violente causate per lo più, dal suo stato alterato dall’alcool. E’ stato più volte carcerato per reati “leggeri”: piccoli furti, ubriachezza molesta, liti violente. La moglie vive a Genova e anche la figlia di 9 anni, che dopo la separazione, è stata data in adozione perchè entrambi i genitori sono stati giudicati non adatti al loro ruolo. Da quello che racconta, e dal modo in cui lo fa, emerge che è una persona che necessita di essere riconosciuto meritevole e che ha bisogno di essere incoraggiata e gradualmente ri-educata con attenzione e cura. Non trova il lavoro, ma vista la sua giovane età, sembra rischioso chiedere un sussidio, che potrebbe portare alla cronicizzazione del suo stato di disoccupato. Man mano che la relazione va avanti, emergono le sue turbe psichiche; è depresso, si sente perseguitato, ha paura che qualcuno trami alle sue spalle 58 per toglierli anche la possibilità di vedere la figlia, rifiuta le proposte di colloqui con una psichiatra, soffre di nevrosi croniche e ha anche tentato il suicidio. La vita sembra insostenibile per lui; non riesce a rielaborare il passato - “per me quello che è stato, stato, l’unica cosa importante è quello che verrà” – si colpevolizza, ogni minimo cambiamento lo mette in ansia, e si rifugia sempre nel bere. L’accompagnamento continua, e i risultati iniziano a vedersi: è inserito nel laboratorio pulizie, frequenta il Cat (club per alcolisti in trattamento), per aiutarsi a non bere, prende l’Antabuse, farmaco che rende tossica anche la minima ingestione di alcolici e frequenta il servizio di salute mentale. E’ il 1996, mantiene le sue stranezze, ma comincia a rendersi conto che non può passare l’intera vita in dormitorio, e con sorprendente lucidità comincia a fare richieste e progetti per il futuro. “Sto vivendo un buon periodo, tutto sembra andare bene, riesco a fare qualche lavoretto, ho un letto, un piatto di minestra calda, qualcuno con cui parlare, mi sto curando e tutto questo nella massima libertà”. Nel 1998 si trasferisce al Boschetto, dove sembra stare bene, anche se spesso ha delle ricadute nell’alcool e nella depressione. Quando parlo con lui mi dice: “Mi sto rendendo conto, a mio malgrado, di non essere in grado di controllarmi, di darmi dei freni. Ho capito che non so gestire la piena libertà e che anzi, questa è dannosa per me. Grazie a San Marcellino, ho imparato ad accettare l’importanza delle regole e del controllo, necessari per vivere senza dipendenze, in maniera equilibrata nonostante le continue difficoltà, e per riuscire a condividere con altri il peso dell’esistenza”. Per questo anche se passano gli anni e sicuramente i suoi progressi sono evidenti, gli viene proposto il Ponte, struttura dove tutt’ora risiede, dove può vivere con maggiore autonomia, restando comunque in un ambiente protetto. 59 Simone è nato a Genova nel 1946, è conosciuto dal Centro d’Ascolto dal marzo 1987, quando si presenta veramente malconcio, dicendo di essere proprio a terra perché da sette anni ha perso il lavoro. E’ andato via di casa dopo la morte della madre, a causa di conflitti con il fratello, che sembra disprezzarlo, e da allora vive in condizioni di precarietà, sia dal punto di vista alloggiativo (camere in affitto, ospite d’amici, dormitori, autobus) che dal punto di vista economico, da quando è disoccupato infatti vive di questua. Fa la richiesta di essere inserito in un’accoglienza notturna e di trasferire presso il Centro d’Ascolto la residenza anagrafica necessaria per rifare i documenti. Ha avuto rapporti saltuari con San Marcellino, finalizzati ad ottenere soldi o lettere di richiesta d’ospitalità per il dormitorio pubblico, fino al 1996, quando a dicembre si presenta con la richiesta di essere ospitato al Gradino, accoglienza notturna dell’Associazione, in quanto in seguito ad un’aggressione, nella quale è stato ferito ad un fianco, non vuole più stare al Massoero. Vuole un riparo, inteso non solo come ospitalità, ma anche come luogo protetto. Simone ha evidenti problemi con l’alcool e come compromesso alla sua entrata in dormitorio, ha accettato di frequentare un club per alcolisti in trattamento e di prendere l’Antabuse. Durante i suoi primi giorni al Gradino, emerge chiaramente la sua difficoltà a rapportarsi con gli altri ospiti, dice che vorrebbe essere più spigliato e socievole, ma che a causa della sua malattia (soffre di nanismo), la quale fatica molto ad accettare, non riesce nemmeno a parlare con disinvoltura con le persone. Tende in genere a svalutarsi, questo emerge nelle sue battute, nelle cose che dice, è per questo da subito stato necessario fargli capire che a San Marcellino lui è accettato cosi com’è ed è stato avviato con lui, un percorso verso l’acquisizione di maggior sicurezza di sé. Lavora presso 60 laboratori, prima nelle pulizie e poi in lavanderia; è molto corretto e svolge con puntualità i suoi impegni. In questo periodo, si sente contento e più sicuro di sé: “qui non mi sento giudicato, ma accettato e apprezzato per quello che sono, sono felice perché a 50 anni questa esperienza sta segnando una svolta nella mia vita e sono sicuro più che mai di voler continuare su questa strada” A fine ’98, viene trasferito al Boschetto, il cambiamento lo destabilizza e durante una chiacchierata emerge la sua difficoltà a comprendere la situazione, si chiede infatti come mai non riesce ad essere sereno neanche in questo momento in cui ha smesso di bere, lavora, ha un posto dove stare e persone che lo accettano. A dicembre 1999 “fugge” dalla comunità, quando torna nel 2000, pentito si giustifica dicendo che non reggeva più il clima di tensione tra gli ospiti. Chiede un posto dove dormire perché da mesi dorme sull’autobus e non ce la fa più. Tutto ricomincia da capo, e questo fa capire come all’interno della progettualità di San Marcellino, ci sia il più ampio margine possibile di libertà di sbagliare, di scegliere. Dopo qualche anno passato presso l’accoglienza notturna e ricominciata l’attività in laboratorio lavanderia, Simone chiede di passare alla comunità “Il Ponte”, perché ha paura di allontanarsi da San Marcellino e di rimanere solo. Viene prima inserito al Boschetto, dove qualche anno “gioca alla famiglia”. Nel giugno del 2006 si trasferisce al Ponte. Nell’occasioni che ho avuto di parlare con Simone, è emerso la sua grande difficoltà ad accettarsi: “ho sempre vissuto sotto gli sguardi indiscreti delle persone, ho subito giudizi, ho fatto pietà, ribrezzo. Il mio apparire mi ha da sempre condizionato” - “da quando ho San Marcellino al mio fianco, mi sento accettato,ho acquistato maggiore sicurezza e autostima e mi sento più libero. Libertà che tra l’altro si dimostra nei fatti, perché molte volte sono “scappato”, ma ogni volta mi si è data la possibilità di ricominciare. Questo mi ha fatto 61 capire di non essere sotto giudizio alcuno, di non subire critiche gratuite, mi ha fatto appunto scoprire la sensazione di poter essere libero di essere me stesso, con i miei pregi, i miei difetti e le mie debolezze”. Per lui le regole non rappresentano un problema ma anzi; “vivere in un contesto con delle regole precise, mi ha fatto scoprire l’importanza di una vita regolare e equilibrata. Inoltre mi sento protetto e contenuto e anche nei periodi più duri sento il dovere di comportarmi bene perché c’è qualcuno che si preoccupa per me”. 2. L’opinione di un operatore. Riporto di seguito l’intervista da me fatta a Ribotti Federico, operatore di San Marcellino, fino a qualche anno fa responsabile della comunità “il Ponte” e adesso responsabile dell’area alloggi assistiti. L’utilità di questa intervista è da ricercarsi nei contenuti e nei significati che parole come libertà, controllo, logica comunitaria, hanno in una persona che da anni lavora nell’ambito dell’esclusione sociale grave nella povertà estrema. E soprattutto le risposte si rilevano importanti, in quanto esprimono con chiarezza il significato che ho cercato di far emergere dei concetti apparentemente opposti ma, in realtà interdipendenti, di libertà e controllo. Mi chiedevo come quando e perché avete scelto San Marcellino? Nel 1996 ho cominciato a fare volontariato per l’associazione invogliato dai racconti di un amico che faceva l’obiettore di coscienza a SM. Da tempo sentivo la voglia di partecipare attivamente, di vedere dal vero, di uscire dalla prospettiva filtrata dei media o dei racconti di altri sul mondo del disagio, di provarmi in un ruolo educativo, di scoprire i miei lati più “umani”, un vago senso di fastidio per il mondo che produce e funziona nonostante tutto e tutti, un’idea di società come comunità di persone interconnesse e interdipendenti, 62 la ricerca di un luogo identitario più sano e reale, il sano realismo della sofferenza contro la finta prospettiva di una vita comoda, un senso di giustizia terrena…un calderone di buoni propositi, molti dei quali hanno trovato qualche risposta nel mondo delle persone sulla strada. Com‘è il vostro rapporto con SM e con gli utenti? L’istituzione SM si è coerentemente sviluppata con l’idea di accoglienza data alle persone in difficoltà negli anni. Sarebbe assurdo (ma accade) che con gli utenti ci si ponga in maniera attenta e accogliente e chi ci lavora si senta in maniera differente. L’Associazione rappresenta per me un luogo di senso e sviluppo identitario notevole. Il tramite, in pratica, per accedere e partecipare ad una comunità di persone (che ci lavorano, che frequentano, che chiedono) che personalmente in questo momento è più che un semplice luogo di lavoro. Se un domani non lavorassi più a San Marcellino rimarrei comunque legato alla comunità e alle persone. E’ in qualche modo inevitabile se si vuole fare un buon lavoro con queste persone che un passaggio di questo tipo venga in qualche modo fatto. Questo per restituire alle persone che la richiesta che facciamo loro di appartenenza e di affiliazione alla comunità (nella prospettiva di ricostruzione dell’io) è la nostra stessa ricerca, che è un percorso che facciamo con loro. E’ importante altresì che lo teniamo a mente per evitare di interpretare in maniera errata il ruolo educativo. Cosa vuol dire accoglienza? Significa lasciare aperta la porta del confronto reciproco. Giocarsi nell’incontro con l’altro in maniera totale, senza impedire che l’altro ci induca al cambiamento personale. Essere accoglienti significa accettare l’altro in quanto persona degna, a prescindere dai suoi atti passati, dal suo aspetto esteriore e dai pregiudizi sulla persona. Accoglienza è anche non accettare 63 comportamenti che non vadano nella direzione di rispettare se stessi e il prossimo. Cos’è la libertà e cos’è il controllo usando come chiave di lettura l’esperienza con San Marcellino? Credo che l’accezione migliore per la parola libertà usata nell’ambito dell’Associazione sia “libertà di essere se stessi”. Ricollegandomi al concetto di accoglienza, la libertà che conquistano queste persone è quella di poter essere se stessi, con i propri difetti, le proprie incapacità, le proprie bruttezze, senza per questo esserne giudicati o esclusi. E’ un concetto molto evidente nella comunità del Ponte dove l’esperienza di anni ha dimostrato a queste persone che nonostante le crisi, nonostante i litigi, nonostante abbiano fatto vedere il peggio di se, continuiamo a stare insieme, magari in maniera diversa, ma insieme. La porta aperta al Centro di Ascolto ha questo significato, l’esserci nonostante tutto. Se la libertà è intesa in questo modo, il controllo di conseguenza diventa un aspetto non legato tanto alla prevenzione/repressione di atti violenti per se o per gli altri, ma una forma di monitoraggio degli aspetti relazionali e dei legami che la persona riesce a costruire e mantenere, per valutare se il servizio, lo strumento in atto per aiutare la persona è congruente con il suo percorso, per eventualmente valutare con la persona (per quanto possibile) soluzioni alternative. La fiducia nell’Associazione e, per la proprietà transitiva, negli altri ospiti dell’Associazione assicurano una sufficiente autonomia sul piano dell’autocontrollo (contenimento); cosicché in comunità si esercitano pochissimi atti esplicitamente nella direzione del controllo della situazione, ma si lascia che siano le persone stesse a riportare i problemi che sorgono, stimolando in questo modo le stesse a interiorizzare il genitore altrimenti esercitato dalla figura del leader (presente per altro non più di 15 ore la 64 settimana in comunità). Il contenimento in questo modo si esercita sul piano della relazione più che sul piano delle regole. Ri-acquisizione della libertà tramite il controllo/contenimento. E’ una via possibile/utile? La percezione delle persone presenti in comunità è quella di una osservazione dall’alto da parte dell’istituzione, anche nei momenti di nonpresenza fisica. Alcuni inizialmente pensavano avessimo piazzato all’interno della struttura delle “microspie e telecamere” per tenerli d’occhio in ogni momento. Oggi sanno che nessuno li guarda durante il giorno ma continuano a pensare che qualunque cosa avvenga all’interno della comunità sia nota all’istituzione (operatori, dirigenti, volontari). Questa forma di autocontenimento potrebbe essere vista semplicemente come un passo intermedio tra la figura reale di un genitore normativo (che ti dice cose devi e cosa non devi fare e ti osserva nei tuoi comportamenti) e l’interiorizzazione del genitore nella consapevolezza del cosa è giusto e cosa sbagliato. Nulla di diverso probabilmente da ciò che succede nell’età adolescenziale e nell’esperienza delle prime forme di autonomia. L’importanza di questa forma di contenimento sta nella percezione non oppressiva che fornisce; sicuramente i soggetti paranoidi soffrono maggiormente per l’assenza fisica ed è inevitabile un maggior impegno nei loro confronti per sopperire a tale assenza con la “presenza relazionale”. Cos’è la logica comunitaria in San Marcellino? Con gli strumenti comunitari si tende a fornire una simulazione di realtà in un contenitore protettivo per le persone. Sia il Boschetto (la comunità terapeutica) che il Ponte (la comunità residenziale) sono state pensate per simulare, quando e dove possibile, le esperienze di casa, di convivenza, di rapporto con l’autorità, di quotidianità; tale simulazione fornisce però anche 65 gli strumenti per analizzare e verificare con le persone l’esperienza in corso. Si tengono riunioni settimanali e colloqui individuali per gestire con le persone l’andamento della vita comunitaria e i problemi che da essa sembrano sorgere. Spesso si parla di “giocare alla famiglia”, così come i laboratori di educazione al lavoro cercano di “giocare al lavoro”, nell’idea che la prima forma di educazione passa ai bambini attraverso il gioco dove sperimentano e si sperimentano all’interno di nuovi contesti e di nuovi ruoli. I percorsi degli ospiti del Ponte hanno nelle loro diversità punti in comune? Quali? Se si intende i percorsi di vita delle persone i punti in comune sono quelli riscontrabili in tutte le persone “simbolicamente”. Mancanza di punti di riferimento nelle età dello sviluppo e carenza (conseguentemente) di quella dose di “carezze” (transazionalmente parlando) che sia in negativo che in positivo determinano lo sviluppo di una identità. Ricordo sempre quando al Ponte una sera nacque una partecipata discussione sulla “mamma”. Il concetto comune era < se avessi oggi la mamma con me…> ; considerando che alcuni di loro non hanno mai visto la loro madre la cosa risulta perlomeno curiosa. In questo senso la comunità (di San Marcellino in senso lato) cerca di sopperire a queste mancanze ricominciano un percorso di affiliazione, nel senso letterale del termine, di rigenitorializzazione, per permettere (meglio tardi che mai) la costruzione dell’io o il suo consolidamento (a seconda dei punti di partenza). In base alla tua esperienza cosa porta un individuo a “scegliere” o “subire” la vita di strada? 66 Credo che un individuo “scelga” la vita di strada in seguito alla distruzione di tutte le alternative per lui possibili. La persona sceglie la strada perché non c’è altro di meglio che riesca a fare. L’ambiente (assenza di stimoli esterni) e la mancanza di alcune capacità relazionali e/o intellettuali si autoalimentano in un circuito perverso di progressiva distruzione delle alternative possibili fino alla scelta estrema (amartica) della vita in strada. Le scarse risorse (economiche, familiari,…) contribuiscono al mancato sviluppo relazionaleintellettuale, le carenze relazionali-intellettuali contribuiscono a loro volta a peggiorare il quadro di riferimento e le risorse in un rincorrersi di eventi distruttivi. 67 Conclusioni. L’appeal delle città è diventato ambiguo e controverso. Sfiducia, inquietudine e insicurezza investono la forma urbana e la quotidianità del vissuto personale, questo è a mio avviso dovuto principalmente alla deprivazione di comunità forti e di un sistema di appartenenze e di norme stabili ed efficaci. Il vivere urbano non è solo lo spazio scenico dell’agire dei soggetti ma, diventa anche, luogo di sparizione e di trasformazione degli individui. Sfuma il riferimento ad un sistema di regole e con esso anche il riferimento ad uno “schema guida”. L’uomo è lasciato solo, in balia delle incertezze e dei repentini cambiamenti, in una concorrenza spietata, dove è solo il più forte a sopravvivere. Sfiducia, incertezza, solitudine, diffidenza e rifiuto diventano tratti caratterizzanti l’ideologia dell’uomo urbano. Credo che questa situazione d’insicurezza urbano, unita a una serie di microfratture nel vissuto, diano inizio a percorsi di impoverimento e di distaccamento da sé e dalla realtà circostante. La città appare come luogo di complessità ma, attorno e all’interno di essa si sviluppano condizioni di vita alternative. Alcune di esse, non sono a mio avviso degne di essere chiamate alternative di vita, mi riferisco per esempio alla fuga nella droga, nel consumo sfrenato, nel cibo o ancora all’eterno vagabondare. L’esempio più evidente di questa “fuga” è la scelta di vivere sulla strada. Sono convinta del fatto che una persona sia costretta a scegliere di vivere “on the road” in seguito alla distruzione di tutte le alternative possibili. La persona 68 sceglie la strada perché non c’è altro di meglio che riesca a fare. Le scarse risorse, familiari ed economiche, eventi traumatizzanti, problemi fisici o psichici, anni di carcere, dipendenze contribuiscono al mancato sviluppo relazionale - intellettuale, e queste carenze contribuiscono a loro volta a portare a fondo la barca dell’esistenza già di per sé, in balia di tempeste. L’esperienza di chi da anni lavora a contatto con persone senza dimora, mette in evidenza come questi individui, per i motivi più disparati, segnino un progressivo distacco nei confronti dell’appartenenza sociale e dei riferimenti istituzionali quali la famiglia, il lavoro, gli affetti, scivolando verso un’area di non ritorno per quel che riguarda la loro partecipazione attiva e consapevole al corpo sociale. Sono “presenze” che irrompono e si contestualizzano in una rappresentazione della città come estensione di non-luoghi. In tutto ciò, appare evidente che il bisogno d’appartenenza dev’essere colmato in modi “non tradizionali”, ecco nascere nuovi percorsi d’appartenenza, organizzati attorno a nuove modalità di condivisione e attorno a nuove regole e forme di controllo e contenimento; mi riferisco in particolare a soluzioni/alternative di tipo comunitario. Importante è infatti la capacità di queste strutture di riuscire a coinvolgere l’individuo, di riuscire a spaccare le impermeabilizzazioni che si sono venute a creare nel tempo sui soggetti. All’interno di una comunità c’è la riappropriazione di sé stessi, di nuove modalità di vita, di un’insieme di regole essenziali per l’esercizio consapevole delle proprie libertà; e c’è inoltre, la riscoperta del valore di ogni singolo individuo con le sue diversità, con le sue debolezze e le sue forze, l’accettazione dell’altro e di sé. Qui in specifico ho fatto riferimento alla Comunità di vita “il Ponte”, struttura appartenente alla più ampia realtà di San Marcellino che da molti anni accoglie persone senza casa e senza dimora, che gravavano in situazioni di povertà estrema che dopo un percorso di riabilitazione non si dimostrano adatti a vivere da soli, in piena autonomia. Chi inizia un percorso d’inserimento con l’associazione San Marcellino, entra in una “terapia” basata 69 su relazioni profonde e significative, inizia un nuovo percorso di vita verso la riacquisizione delle libertà e della dignità. Concepisco la logica comunitaria come specchio della tesi di B.F.Skinner, che afferma la piena coincidenza di libertà e controllo. Questa affermazione è riscontrabile, vera più che mai, nella quotidianità del Ponte, dove le persone sono soggette a semplici, precise e chiare regole ma nel contempo si percepiscono, a loro dire, pienamente liberi; Liberi di essere diversi, liberi di scegliere in assenza di contingenze, liberi di essere più deboli ma per questo non meno importanti, liberi da dipendenze e da sofferenze. Non intendo mitizzare questa realtà, in quanto non è la pillola magica per un’esistenza senza sofferenza, ma, quello che voglio mettere in risalto, è come sia possibile attraverso una serie di regole che fanno da contenimento, rendere migliore e più dignitosa la vita di alcune persone. Credo sia necessario dare un’esplicazione migliore di ciò che intendo per libertà e per controllo; Faccio un esempio astratto, perché credo che possa dare voce ai miei pensieri più di mille parole. Immaginiamo il mare, una barca e un porto; il mare rappresenta la libertà, sempre in balia delle onde, dei pericoli, delle tempeste, la barca è l’uomo, e il porto rappresenta il contenimento, la forma di controllo buono, che assicura stabilità, punti di riferimento e sicurezza alla barca, ma non per questo preclude il suo accesso al mare, alla libertà ma, anzi, ne fa riscoprire la bellezza e l’importanza. Nella realtà possiamo pensare, il mare aperto come la società, l’individuo la barca e la comunità “Il Ponte” il porto sicuro, magari solo per un attracco in caso di emergenza per poi ripartire verso nuovi orizzonti oppure come porto do ormeggio fisso, perché ormai la barca è fragile e accidentata per allontanarsi troppo in mare aperto. 70 Bibliografia B.F. SKINNER “Oltre la liberta’ e la dignita’ ”, Arnoldo Mondatori Ed. , 1973 B.F. SKINNER “Walden due.Utopia per una nuova società”,NuovaItalia, 2002 B.F. SKINNER “Scienza e comportamento”, Arnoldo Mondatori Editore, 1969 L. LUMBELLI “Argomentazioni skinneriane”, G.PIERETTI “Per una cultura dell’essenzialità”, FrancoAngeli, Milano 1996 P.GUIDICINI, G.PIERETTI, M.BERGAMASCHI (a cura di) “Gli esclusi dal territorio”, FrancoAngeli, Milano 1997 P. GUIDICINI, G. PIERETTI “Città globale e città degli esclusi”, FrancoAngeli, Milano 1998 P. GUIDICINI, G. PIERETTI “San Patrignano. Terapia ambientale ed effetto città”, FrancoAngeli, Milano 1996 C. LANDUZZI “L’inquietudine urbana”, FrancoAngeli, 1999 D. DE LUISE (a cura di) “San Marcellino: operare con le persone senza dimora”, FrancoAngeli, Milano 2005 ASSOCIAZIONE SAN MARCELLINO “San Marcellino 1998” P.P. PASOLINI “Scritti corsari”, Garzanti 2004 G. PIAZZI, “La ragazza e il direttore”, Franco Angeli, Milano, 1997 F.BONADONNA “Il nome del barbone. Vite di strada e povertà estreme in Italia”, Derive Approdi, Roma 2001 DE SAINT-EXUPERY “Il piccolo principe”, Bompiani, Milano 1997 E. GOFFMAN “Asylums. Le istituzioni totali:i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Edizioni di comunità, Torino 2001 71 B.MALINOWSKI “Argonauti del pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva”, Newton Compton, Roma 1995 A.MEO “Vite in bilico.Sociologia delle reazioni ad eventi spiazzanti”, Liguori, Napoli 2000 N. ELIAS “La società di corte”, Il Mulino, Bologna, 1969 P. DONATI “La società è relazione” CEDAM Padova R. ESCOBAR, “Metamorfosi della paura”, Il Mulino, Bologna, 1997 E. CANETTI, “Massa e potere”, Adelphi, Milano 1981 Www.sanmarcellino.ge.it 72