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SEBASTIANO ADDAMO
IL GIUDIZIO DELLA SERA
A cura di Sarah Zappulla Muscarà
ROMANZI
E RACCONTI
Realizzazione editoriale: studio g.due s.r.l.
ISBN 978-88-452-6072-8
© 2008 RCS Libri S.p.A.
Via Mecenate 91 - 20138 Milano
I edizione Tascabili Bompiani giugno 2008
“Il mondo può essere descritto e rappresentato
a patto che si descriva e rappresenti come
un mondo che può essere cambiato”.
Bertold Brecht
“La letteratura è la più assoluta forma
che la verità possa assumere”.
Leonardo Sciascia
Come i neofiti dell’oscuro
di Sarah Zappulla Muscarà
“Il giudizio della sera. Chi ripensa all’opera della sua giornata e della sua vita, quando è arrivato stanco alla fine, giunge di
solito ad una malinconica considerazione: tuttavia la colpa di
ciò non sta nel giorno e nella vita, bensì nella stanchezza. Immersi nell’attività, non abbiamo di solito il tempo per esprimere giudizi sulla vita e sull’esistenza, e neppure quando siamo
nel pieno del godimento: ma se una volta arriviamo a far ciò,
non diamo più ragione a colui che ha aspettato il settimo giorno e il riposo per trovare molto bello tutto ciò che esiste, – egli
ha perduto il momento migliore”. Così Friedrich Nietzsche
con la frantumazione, l’ambiguità, l’immediatezza dell’intuizione dell’aforisma che è, osserva Sebastiano Addamo, “come
il lampo nella notte: la illumina vivissimamente, ma subito dopo rende il buio più denso e compatto”.
Dettato da acre riflessione critica sulla condizione della società italiana sconvolta dalla drammaticità degli eventi bellici
del secondo conflitto mondiale, dall’esigenza di fornire una
risposta all’angoscia nichilista e all’inquietudine esistenziale
scaturite dal disfacimento etico, ideologico e religioso dell’Occidente, metafora della negazione della cultura dei padri,
dell’alienazione e della reificazione, Il giudizio della sera (apparso per la prima volta nel 1974, per i tipi di Garzanti) è dolente allegoria della variegata fenomenologia umana contemporanea sospesa in perpetuo travaglio tra bene e male, luce e
buio, slancio vitale e meditazione sul nulla. Una dialettica di
antinomie tesa a superare il pessimismo, il male di vivere, la
crisi del potere con i suoi frutti avvelenati, per affermare l’esiIII
genza di un radicale rinnovamento, di un energico ribaltamento di valori, contrapporre con Albert Camus al mito di Sisifo l’uomo in rivolta, addomesticare l’“assurdo”, sancire la fine di un’epoca e il palesarsi di un’altra. Per non perdere “il
momento migliore”. Fosse pure quello del “parricidio”.
Sorretto da salda cultura filosofica e letteraria, lucida, cartesiana razionalità, sfiduciata visione del mondo, Sebastiano
Addamo, d’impervia e contratta malinconia, ripercorre, con
occhi invasi di smagato, irredimibile risentimento, il viaggio di
conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti siciliani,
braccati dai demoni di una città e di un presente di illusori miraggi, che si traduce in una vera e propria discesa agli inferi.
Al Bildungsroman, romanzo di formazione, in Il giudizio
della sera si affianca, in termini manifesti, la prospettiva dell’autobiografia. Gino, alter ego dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni, e Morico, abbandonata Lentini per seguire gli studi liceali a Catania, avviano un tortuoso processo di crescita
attraverso l’impatto con le due traumatiche esperienze della
sessualità e della guerra.
Stagliata sullo sfondo delle tiepide atmosfere serotine di
un “ridolente autunno”, immota nel pantano di un’atavica,
secolare ignavia, sonnecchiante in “quel tempo friabile”, in
quella vita “eterna”, ingannata dalle menzogne del fascismo,
oltraggiata dalla crescente miseria, violata dalle bombe, Catania, dapprima “tenera e profonda”, poi “tetra e raggomitolata”, è teatro del rituale di morte e risurrezione di una cultura
e di una società, scenario apocalittico di una “laica Pasqua”
(Vincenzo Consolo), di un canto del cigno di quel “mondo
borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria
morte”. Quel “mondo borghese” che s’accampa con insistenza opaco nella narrativa successiva dello scrittore, da Un uomo fidato a I mandarini calvi a Palinsesti borghesi.
L’istintualità esuberante, il febbrile desiderio di sperimentazione dei giovani protagonisti fortemente collide con la
IV
sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina
soffocata dal giogo del fascismo e della guerra, segnata dal degrado materiale e morale. Ma è un mesto picarismo la brama
di conoscenza filtrata dalla spasmodica ricerca del sesso. Alle
scorribande notturne, alle ricognizioni fugaci, ai primi acerbi
approcci si alternano malinconiche riflessioni, enigmatici
dubbi, dilanianti interrogativi da cui erompe l’aspirazione al
cambiamento che si fa rabbia, l’energia distruttrice che si fa
ribellione, l’apertura alla speranza che si fa attesa palingenetica. La storia “è solo un’occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta vigile”, ancora con Camus. È il cruento trapasso generazionale dall’“era dei Padri” all’“età del
parricidio”. L’acquisizione della maturità – “imparare il mondo” – di Gino si consuma infatti tra le macerie di una umanità
corrotta e corruttrice, sotto un bombardamento che si traduce in atto di accusa di ogni totalitarismo familiare, politico,
etico, dando corpo all’ansia di annientamento sottesa al tragico sentimento della “morte immanente”.
Scaturita dall’incandescente rovello filosofico sul disagio
della civiltà conseguente alla crisi dei sistemi di valore, l’analitica esistenziale di Addamo, nel solco del pensiero di autori a lui
cari, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra i principali, ma pure intrisa della linfa
della consuetudine mediterranea alla riflessione, si dispiega in
termini demistificanti. Una demistificazione di pregiudizievoli,
vetusti retaggi culturali finalizzata al conseguimento del senso
autentico dell’individualità al di là di ogni pastoia. È la “lacerazione del velo di Maya” di cui parla Schopenhauer, la necessità
di sollevare la spessa coltre di inibizioni, districare l’intricata
tramatura di falsi miti che bloccano, mortificandone lo spirito
dionisiaco, le pulsioni vitali e la tensione conoscitiva verso l’essenza più profonda dell’uomo.
Si dipana nei meandri della geografia dell’“oscuro” l’itinerario gnoseologico tracciato dall’autore secondo cui l’uomo è
V
“origine e nulla” e la contemporaneità “il luogo per ogni anacronismo”. In un’epoca lacerata dal nicciano grido “Dio è
morto”, compito dello scrittore non è “tranquillizzare”, bensì “inquietare”, scuotere dal torpore di metafisiche certezze,
ma soprattutto, “contaminandosi con la laidezza quotidiana,
fraternamente coinvolta nella rissa giornaliera degli uomini”,
rivelare “l’oscurità che è nell’uomo, nei suoi gesti, nel suo tessuto emozionale” e restituire infine “la vigile inquietudine
per una realtà altra”. In precario equilibrio sull’incerto discrimine fra narrazione realista e saggio filosofico, percorso da
un sentimento di “laica trascendenza”, Il giudizio della sera è
animato da quella spinta verso l’“oltre” che è a un tempo
deiezione del principio heideggeriano dell’“essere” e dolorosa coscienza del nulla, dell’“essere-per-la-morte”.
Acuita da vigile percezione sensoriale, l’attività euristica
dei giovani adolescenti approda alla sinistra consapevolezza
del potere “nientificante” della morte. È soprattutto l’odorato
ad incidere più profondamente nella sfera psichica penetrando fino alle radici della vita. “Il naso, che è veicolo o tramite”
presiede infatti alla scoperta dell’orrore per la condizione stessa dell’esistere. Agente di un processo di trasferimento di senso che rinvia a precisi significati metaforici, l’odore acquista
un’importanza primaria nel modello di scepsi delineato da
Addamo, che scoperchia il maleodorante quartiere di San Berillo, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto”, “odore
di putrefazione e di liquami infetti”. L’odore tristo, fetido, turpe, individua “l’evento”, eccita gli impulsi sessuali, palesa la
guerra. Ne guizzano funebri lampi di “cedimento, corruzione,
abominio, disordine e talvolta anche rivolta” (Oltre le figure).
Il puzzo, che già con Dante “’l profondo abisso gitta”, è sublimazione di “terrori senza speranza”. Evoca “l’oscuro, l’infero”. Certifica il decesso. È l’“olor de la muerte” di Ernest Hemingway. Ha valenza teologica, testimoniando il “giudizio di
Dio”, secondo Fedor Dostoevskij.
VI
Un nauseabondo, funereo lezzo di decomposizione soffia
nel quartiere di San Berillo, “regno delle prostitute”, “vecchie, giovani, scarmigliate e feroci”, “melma oscena, tenebrosa e virulenta di un torrente che però […] nasceva certo dall’Es singhiozzante e spasmodico, ma certo pure dal mondo
stesso dove la merce governa più che esservi governata”. Labirinto che si accende nell’oscurità diramandosi in vicoli bui,
sordidi, disfatti, via delle Finanze, via Coppola, via Maddem,
via Di Prima, via Rapisarda, via Di Sangiuliano, pullulanti di
protettori, ruffiani, deboli, perdenti, deturpati da immedicabili ferite, ammorbati dalla miseria, dal fetore, dal disordine.
“Prima forma di baratto” la prostituzione, secondo l’annotazione di Carl Marx posta in epigrafe al romanzo. E Walter
Benjamin: “L’ambiente oggettivo degli uomini assume sempre più scopertamente la fisionomia della merce”. Fedele all’istanza lukacsiana dell’arte come “rispecchiamento”, Addamo denuncia, con l’incedere serpeggiante della corruzione, la
mercificazione, l’alienazione, le distorsioni della logica capitalistica che, come avverte Alain Robbe-Grillet, conducono
alla progressiva reificazione ed eclisse della persona di fronte
al predominio acquisito, per contro, dalle cose. E così se le
“puttane” divengono “oggetti, merce, e mezzi di merce”, gli
aranceti, immagine della conquista della verghiana “roba” da
parte dei contadini proletari, ma pure “ruolo”, “status”, “filosofia e visione della vita”, perdono l’attributo di prodotti
trasfigurandosi in “esseri vivi e volitivi”, in venerati “feticci”,
l’odore del loro succo in “odore di sangue, odore di fatiche e
di miseria”.
All’universo derelitto, emarginato delle prostitute l’autore
guarda con scettico disincanto e implicazione empatica, sempre tuttavia con tormentato sentimento della tragicità della
vita e della morte. Quello stesso sotteso alla descrizione, permeata di plastica sensibilità pittorica, della Visita medica di
Henri de Toulouse Lautrec nel racconto Lo zio Isidoro, conVII
fluito nella silloge Palinsesti borghesi: “Le solite puttane che il
mostriciattolo sapeva raccogliere. Le puttane stavano con la
veste rialzata in attesa della visita periodica: i volti guardai,
ma soprattutto le pance delle due donne, dove niente dava
adito alla pietà […] e nemmeno all’orrore, ma c’era la giovinezza e la vecchiaia, la ferocia di quel volto di ragazza che non
guardava verso nessuna parte sicura soltanto di sé, la sua pancia tesa e tonda come un cocomero che a passarci l’unghia si
spacca; e la fine di tutto segnata sull’altro volto, la fine di tutto segnata da quella pancia che sbandava da tutti i lati, la stanchezza d’una memoria che non ha più orizzonti”. Una bruciante pietas, una teologia negativa, in cui Addamo si carica
del dramma dell’uomo orfano di Dio, promana dalla sua pagina: “Una pietà anche eccessiva vale sempre più della crudeltà assoluta”. Scrive Fedor Dostoevskij: “Uomo, uomo,
non si può vivere del tutto senza pietà”. E Georges Rouault,
a proposito della potente bellezza che trasuda dalla feroce
crudezza del polittico dell’Altare di Isenheim: “Per rifare il
terribile crocifisso di Matthias Grünewald, che con le sue mani contratte, i piedi torti, rattrappiti, fa piegare la croce, per
rinnovare il dramma in una parola, bisognerebbe avere ancora in cuore una fede simile alla sua”.
Persuaso con Leonardo Sciascia che la letteratura è “luogo
di svelamento della realtà anche morale”, in linea con il principio dell’“ethos della scrittura”, cifra di tutta l’opera sua, Sebastiano Addamo, dinnanzi alla decadenza della carne e all’abbrutimento morale, si fa veemente difensore del valore
supremo della dignità: “Soltanto avanti negli anni avrei imparato che anche una puttana fa parte della razza umana, ed è
questa a secernere se stessa e il proprio contrario, secerne bile e amore e sventura; il terrore e i sogni; la spada e l’ostensorio; il male e il bene; secerne anche dignità, e perciò essa – la
dignità – si può trovare dappertutto, innocente sempre e sempre colpevole in ogni luogo”. Con tassativa asciuttezza, ne La
VIII