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Commentary, 22 febbraio 2016
OLTRE LA MOTIVAZIONE SOCIO-ECONOMICA,
IL FASCINO DEL CALIFFATO
TRA LE SECONDE GENERAZIONI IN EUROPA
* Il contributo è stato elaborato nell'ambito del progetto "”Conoscere il meticciato. Governare il cambiamento” della Fondazione Oasis.
VIVIANA PREMAZZI
N
el mese di aprile 2015, le Nazioni Unite hanno
stimato che con l’escalation del conflitto siriano, l’afflusso totale di combattenti stranieri è
aumentato da 700-1.400 a metà del 2012 a 22.000 nei
primi mesi del 20151, di cui circa 4.000 dall’Europa occidentale. Gli europei che sono andati a combattere in
Siria e Iraq, secondo gli esperti, sono quasi tutti musulmani che hanno pochi legami specifici con la Siria (famigliari o personali)2 o con i movimenti dell’islamismo
politico tradizionale. Scarsa e lacunosa è, inoltre, la loro
conoscenza dei conflitti in Medio Oriente. Nondimeno
L’International Centre for the Study of Radicalisation and Political
Violence (Icsr) ha pubblicato le stime nel mese di aprile e dicembre
2013, e dati aggiornati erano stati preparati per la risoluzione 2178
del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel settembre 2014,
dato che ICSR era consulente. Gli ultimi dati aggiornati sono stati
pubblicati a inizio 2015. Secondo l’ICSR, i dati includono le stime
per 50 paesi per cui erano disponibili dati e/o stime governative
affidabili. Con l'eccezione di alcuni paesi del Medio Oriente, tutti i
risultati si basano sui dati del secondo semestre del 2014 e si riferiscono al numero totale di persone che sono partite per la Siria e
l’Iraq durante tutto il periodo del conflitto.
http://icsr.info/2015/01/foreign-fighter-total-syriairaq-now-exceeds20000-surpasses-afghanistan-conflict-1980s
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Diverso il caso della Libia dove molti combattenti avevano legami
famigliari, come sottolinea Brian McQuinn, ricercatore
all’Università di Oxford che ha svolto diverse ricerche sul campo a
Misurata, in Libia.
©ISPI2016
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rilevante è la scoperta (o la riscoperta) della religione e
dei conflitti religiosi all’interno del mondo musulmano e
la loro rielaborazione sulla base di una percezione del
tutto personale di un conflitto fondamentalmente confessionale dove i sunniti hanno bisogno di stare uniti al fine
di arrestare l’avanzata del nemico (sciita).
Molteplici, quindi, sono i fattori che agiscono
sull’adozione del messaggio dello Stato islamico (Is) fino
a spingere giovani uomini e donne a partire per la Siria e
l’Iraq per combattere o diventare mogli e madri di combattenti. La scelta di partire non ha spesso una sola causa
o motivazione e non bastano i fattori sociali ed economici
a spiegare un gesto così radicale, così come problemi
psichici o “lavaggi del cervello”. In particolare, la mancata integrazione delle seconde e terze generazioni spiega
solo una marginale parte del fenomeno, così come collegare i nuovi arrivi di musulmani in Europa all’afflusso
dei terroristi o dei foreign fighters di ritorno, rischia di
alimentare forme di discriminazione ed esclusione che
possono portare allo sviluppo di identità reattive e sentimenti di odio e rivalsa contro l’Occidente.
Cosa spinge dunque la seconda (o terza) generazione
(born-again/reborn Muslim) a lasciare tutto e ad andare a
combattere per l’Is? Cosa cercano e/o cosa non trovano
nelle società europee?
Viviana Premazzi, junior researcher Forum Internazionale ed Europeo di ricerche sull'Immigrazione (FIERI), rice rcatrice per la Fondazione Oasis nel progetto “Conoscere il meticciato. Governare il cambiamento ”
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Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo.
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Oggi più che mai, la motivazione socio-economica, il
divario tra nativi e immigrati in termini di occupazione e
di istruzione e di discriminazione sul posto di lavoro non
basta più: altri, forse più importanti, motivi stanno
emergendo e dovrebbero essere discussi e considerati per
efficaci programmi di de- e contro-radicalizzazione.
listi o dell’islam politico, o anche della stessa al-Qaida,
infatti, è che, oggi, Is offre ai giovani che non riescono a
trovare un loro posto nelle società occidentali, sia per
ragioni socio-economiche sia per motivazioni legate ai
valori e agli stili di vita, non solo una causa per cui
combattere che li fa sentire parte della comunità dei credenti, ma anche un luogo fisico in cui possono essere
cittadini a pieno titolo e veri musulmani.
Secondo Farhad Khosrokhavar, infatti, al malessere sociale e identitario di molti giovani europei, il jihadismo ha
proposto due invenzioni dalla portata straordinaria: «la
figura del neo-martire, vale a dire una morte sacra che
incarna una delirante ed estrema ricerca di se stessi e la
neo-Umma, il riferimento a una comunità musulmana
globale che non è mai esistita storicamente, ma che per
questi ragazzi turbati e incerti assume i connotati di un
accogliente rimedio alle loro inquietudini»3.
Se alcuni sono effettivamente mossi da un disagio sociale
ed economico, questo deve spingere ancora di più i diversi attori, istituzionali e non, a lavorare a livello locale e
nazionale per un’effettiva inclusione, eguali opportunità e
inserimento nel mercato del lavoro. Allo stesso tempo,
per contrastare il fascino del messaggio “noi vs loro”,
“nostri valori vs loro valori”, è importante anche presentare esempi di una riuscita inte(g)razione, modelli ed
esempi di successo delle seconde e terze generazioni
musulmane nei diversi paesi europei. In questo senso è
importante lanciare messaggi positivi e propositivi utili a
combattere la propaganda dell’Is, usando tutti i canali a
disposizione, mass media, social network, ma anche
scuole e altri luoghi di aggregazione. Ugualmente è importante non considerare il malessere di questi giovani
come una rivolta nichilistica o una rivolta semplicemente
“contro qualcosa”. È vero che è una rivolta contro il relativismo e contro la perdita di valori dell’Occidente, ma
è una rivolta che domanda certezze e cerca qualcosa in
cui credere, qualcosa per cui valga la pena vivere e morire, è una rivolta, espressione di una ricerca – malata – di
senso che chiede un ribaltamento di valori o semplicemente chiede dei valori chiari, qualcosa che possa orientare e dare senso all’esistenza.
Ancora più importante, ciò che criticano delle società in
cui vivono, infatti, non è solo la discriminazione e la deprivazione economica (se ne sono vittime), ma anche la
perdita dei valori delle società occidentali (il ruolo delle
donne, l’uso di droghe, alcol, i matrimoni gay…). Come
Oliver Roy mette in evidenza4, le seconde generazioni
hanno condiviso la cultura giovanile della loro generazione fino a quando hanno deciso di (ri)convertirsi alla
religione dei loro padri, ma nella sua versione più radicale.
L’islam proclamato e vissuto dagli jihadisti è la strada
giusta da seguire per essere un buon musulmano e lo
Stato islamico è l’unico posto al mondo dove si può essere dei buoni musulmani. Il fascino e la forza del messaggio di Is rispetto a quella di altri gruppi fondamenta
Guido Caldiron, Il sociologo Khosrokhavar: giovani tra banlieue e
radicalismo, «Il Manifesto», 22.11.2015.
http://ilmanifesto.info/giovani-tra-banlieue-e-radicalismo/
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Olivier Roy, Le djihadisme est une révolte générationnelle et nihiliste, «Le Monde», 24.11.2015.
http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/11/24/le-djihadisme-une-r
evolte-generationnelle-et-nihiliste_4815992_3232.html
©ISPI2016
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