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L’animale
La vera storia dell’anarchico Nikos Maziotis
Di
Enrico Papaccio
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Ispirato da una storia vera.
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PROLOGO
Erano bastati centocinquant'anni, solamente
centocinquant'anni per demolire e corrompere, petalo dopo
petalo, l'intelligenza e la speranza e poi trasformarle in oggetti
da mercato. Erano bastati centocinquant'anni, e quel sentiero
tracciato dai greci era stato cancellato.
Centinaia di milioni di morti erano stati sacrificati all'altare del
capitalismo perchè satanici profeti che fan morire moltissimi
con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro avevan
deciso che la verità era cosa per pochi eletti, e chi ne
pronunciava una diversa doveva essere annientato.
Ma nel 1989 la Grecia non poteva avere già dimenticato i
colonnelli, le minigonne vietate, i capelli corti per legge, i libri
censurati, i Papadopoulos, i Makerezos, i Ladas, il re Costantino
II e la sua fuga a Roma; non poteva avere già scordato gli
omicidi, le torture nelle caserme, la legge marziale, la violenza
della polizia, i partiti vietati e tutto quel lordume fascista della
dittatura. Nel 1989 tutto questo doveva ancora gridare per le
strade e i vicoli di Atene, nei quartieri della capitale del mondo
antico che aveva ospitato filosofi capaci, con il loro genio, di
cambiare, condizionare, evolvere, educare alla libertà della
mente metà della terra e fare invidia alla metà restante. Il
terrore di quei sette anni, la paura di quei
duemilacinquecentocinquantacinque giorni, il dolore di quelle
sessantunmilatrecentoventi ore, era per forza, per natura,
ancora vivo nelle menti e nei cuori degli eredi e figli di Pericle,
di Achille, di Omero, di Socrate. Il ricordo del Politecnico in
fiamme, della scomparsa di Panagulis e il milione di uomini e
donne al suo funerale era, necessariamente, ancora l'incubo
che turbava il sonno di un popolo così grande per sapienza e
cultura, custode dei segreti più cercati dall'umanità. Nel 1989
non cadeva solo il muro della follia che divideva il mondo in
due parti distinte ma violentate allo stesso modo con metodi
diversi ma egualmente crudeli e vigliacchi; nel 1989 non finiva
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solo un'era di oppressione e ne cominciava un'altra di
agghiacciante e schizofrenica ipocrisia. In quell'anno così
famoso nel libro della storia di fine secolo prendeva inizio
anche la triste favola d'un uomo che allora non era che un
ragazzo di soli diciott’anni, e che oggi è rinchiuso in una gabbia
dimenticata da dio dentro le viscere di una cittadina senza
strade né acqua sufficiente per tutti chiamata Domokos.
Quell’uomo, quel ragazzo, questo greco non ancora ventenne è
il protagonista della nostra storia; una storia che pretende, così
come spesso il destino impone alle cose d’accadere, d’essere
scritta per voi col sangue e con le lacrime, col dolore e con la
rabbia che solo gli ubriachi di professione, i rivoluzionari del
cazzo, i dottori in approfittologia applicata, gli esperti in
fallimento e in senso di colpa sanno mantenere vivo per le
pagine necessarie al racconto perché impegnati in una lotta
lunga una vita contro se stessi che non sanno vincere se non
ripetendosi ossessivamente che tutto finisce ma ci vuole altro
sangue, altro vino, altro vomito, e altro vino ancora. E questi
uomini, questi traditori della morale giusta, che pongono la
domanda, domandano la risposta, sanno che non esiste,
tacciono, imprecano ma la domanda continuano a portela e ti
chiedono vigliacchi se nulla ha senso la battaglia per la vita non
è forse gioco perverso, m’obbligano a domandare a voi: chi
meglio d’un alcolizzato, d’un invertito cocainomane, d’un
anarchico diabetico e cardiopatico, d’un sociopatico incapace
d’amare, d’un violento antipatico bastardo può prendersi la
briga di raccontarvi una parte della vita del nostro eroe che in
questa guerra insensata ha deciso di sacrificarsi
completamente dimostrandosi un malato anch’egli, forse d’una
malattia più nobile, forse si, forse no, chi lo sa, ma pur sempre
malato perché impegnato con tutto se stesso a tentare un
nuovo, anzi vecchio di millenni, immorale metodo per suicidarsi
con criterio: la ricerca della libertà?
Ma allora ecco che la commedia, questo suicidio, il rito della
morte auto inflitta e cercata con così tanto depravato desiderio
si prepara a compiersi, ad entrare in scena come in un teatro in
fiamme simile all’inferno, e mentre il mondo vede di nuovo
morte, di nuovo torture, di nuovo sangue innocente versato
sull’asfalto di Atene, di Salonicco, di Larissa, mentre il mondo
vede di nuovo prigioni, di nuovo, di nuovo, di nuovo, e poi vede
ancora censura, ancora repressione, ancora paura, ancora,
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ancora, ancora, e per l’ennesima volta vede violenza, per
l’ennesima volta vede menzogne, per l’ennesima volta vede
tradimento e per l’ennesima volta si spreca la parola libertà, la
parola dignità, la parola ordine, sacrificio, patria, guerra, e
libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra e
libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra, e
ordine, e libertà, libertà, libertà! e mentre nella bocca di tutti si
grida al tiranno, al mostro, al cospiratore, al criminale; e
mentre nella bocca di tutti si grida al genio, all’eroe, al santo, al
buono, al salvatore, ogni cosa, dalla più grigia alla più colorata,
dalla più insignificante alla più studiata, si mostra
semplicemente per quel che è, solamente, impietosamente
nulla.
Ma se per molti uomini il nulla non è niente, per il nostro
coraggioso eroe il nulla era la materia da plasmare, un sogno
da costruire, una realtà da dimostrare; come uno scienziato
aveva scoperto una teoria che però gli si voleva impedire di
render nota perché pericolosa, perché diversa, perché nuova,
perché probabilmente vera. Come un archeologo aveva la
certezza che la verità era lì sotto, a pochi metri dal suolo dove
camminava, una verità inconfutabile perché dimostrata dai
fatti. Ma come nei paesi ove la democrazia è un miraggio e la
corruzione una regola anch’egli era perseguitato e boicottato
per dare vantaggio ad altri, agli amici di quelli della democrazia
confusa e della corruzione regolamentata. E così su quel suolo,
su quel terreno che teneva al sicuro la verità di Nikos e le
speranze di altri come lui e che avrebbe meritato tutt’altro
trattamento, vennero stese autostrade, costruiti alberghi e
casino per permettere ai ricchi amici degli amici di andare più
velocemente negli alberghi a scoparsi le loro puttane e nei
casino a giocare i loro soldi rubati alla povera gente. Fuor di
metafora Nikos aveva un ideale, un principio politico per cui
aveva deciso di battersi a costo della vita. Aveva sentito parlare
di uguaglianza, e diavolo se se ne era convinto che
l’uguaglianza era necessaria. Aveva sentito parlare di
solidarietà, e quanto è vero iddio andava in giro dicendo che
bisognava esser solidali se si voleva essere uomini rispettabili.
Aveva sentito parlare di autogestione, e che mi venisse un
colpo se sto mentendo di capi padroni e signori era meglio non
parlare in sua presenza. Aveva sentito parlare anche di
giustizia, di pane e casa per tutti, di pace e di guerra, e che mi
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crediate o no lui la giustizia, il pane e la casa li voleva per la
pace e la felicità di tutti per davvero, ma aveva deciso che per
averli si doveva fare prima la guerra. Per questo però è ancora
troppo presto, ve lo racconterò più avanti.
Per ora sappiate che la prima volta che lo hanno arrestato
Nikos aveva appena compiuto diciannove anni. Era il 15
maggio 1991. E nel 1991 Nikos era un ragazzino. Nel 1991
Nikos era un bambinetto troppo basso per sembrare un uomo e
troppo magro anche solo per somigliarci. Se al tempo vi foste
azzardati a dirgli una cosa del genere Nikos, il bambinetto
troppo basso per sembrare un uomo e troppo magro per
somigliarci, vi avrebbe preso a pugni fino a farvi cambiare idea,
ci potete scommettere. Andava in bestia se lo si chiamava
ragazzino e non gli importava quanto fossero grossi e brutti e
sporchi, lui piegava le gambe, abbassava la testa e come
andava andava. Ma che somigliasse più ad un ragazzino non lo
dico solo io. Lo dicevano tutti che Nikos non dimostrava la sua
età, che sembrava più piccolo, un bambinetto di poco meno di
sedici anni insomma, forse sedici appena compiuti, ecco. Alle
guardie che lo vennero a prendere, alla questura che quelle
guardie le aveva mandate e al Signor Ministro Varvitsiotis che a
quella questura come a tutte le altre questure del paese dava
gli ordini, di Nikos Maziotis, di anni diciannove, residente in via
Themistokleous ad Exarchia, Atene, come di tutti gli altri, non
gl’importava nulla certamente. O forse gl’importava troppo. È
la legge, dicevano. Sono le regole, ammonivano. È così che si
fa, si giustificavano. Frasi di circostanza pronunciate e ripetute
pappagallescamente dalla polizia, da impiegati governativi, da
militari in divisa e in borghese che quelle frasi le avevano
imparate a memoria dalla televisione e dai giornali facevano da
contrabbasso alle grida strazianti della madre di Nikos, che
sola, come tutte le madri del mondo, fu capace in quel
momento di tradurre in un lamento così drammatico da farlo
somigliare ad una canzone d’amore perduto il pianto del figlio
non ancora uomo che si dibatteva e si dimenava urlando canicani-cani-maledetti-cani agli agenti che lo caricavano in
macchina per portarlo via. Ma la legge, la giustizia dei tribunali,
non vede, è cieca, lo sanno tutti. I drammi lei non li vede, si
limita a provocarli, magari ogni tanto da giusto una sbirciatina
per divertirsi oppure offendersi, ma nel migliore dei casi giudica
e basta creando un nuovo dramma nel dramma.
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Si era rifiutato di andare al militare… Che si credeva, di
passarla liscia? Un anno nel carcere militare Pavlos Melas a
Salonicco. Questa era la giusta punizione, non un giorno di
meno. E se ciò lo rendeva un prigioniero di coscienza per quei
comunisti di Amnesty International e tutte quelle associazioni
filosovietiche tanto meglio, il mondo intero doveva vedere
come la pensava la Grecia su questa marmaglia pacifista. Era
appena caduto il muro santo cielo. C’erano comunisti
dappertutto. Ovunque ti girassi vedevi bandiere rosse, bandiere
nere, bandiere rosse e nere, bandiere, bandiere e di nuovo
bandiere, sempre e solo quelle fottute bandiere. Solo
nell’ultimo anno c’erano stati in Grecia quasi millecinquecento
scioperi. Millecinquecento scioperi in un solo anno.
Millecinquecento porca di quella puttana, riuscite ad
immaginarvelo? Millecinquecento scioperi e solo
ottomilasettecentosessanta ore a disposizione. Perché sono
solo ottomilasettecentosessanta le ore in un anno, non un
minuto di più. Eppure millecinquecento volte i Greci avevano
voluto dire no, millecinquecento volte avevano voluto dire nonio, millecinquecento volte avevano voluto dire non-in-mionome.
Nikos era cresciuto in questo ambiente, in questi no, in questi
non-io, in questi non-in-mio-nome. Ed era pure per questo
motivo che Nikos doveva finire nel carcere militare Pavlos
Melas di Salonicco, questa-era-la-giusta-punizione-non-unminuto-di-meno, perché le teste calde vanno messe in riga
subito. Non si poteva tollerare. Non si doveva tollerare. Non in
Grecia.
Aveva solo quattordici anni quando partecipò alla sua prima
manifestazione. Era il 17 Novembre 1985. Ricordo il giorno
esatto perché quel giorno un ragazzino di un anno più vecchio
di Nikos, aveva si e no quindici anni, Michalis Kaltezas si
chiamava, venne ammazzato da uno di quei cani-cani-canimaledetti-cani con due colpi di pistola alla testa. Gli disse
mettiti in ginocchio, Michail si mise in ginocchio, gli disse
guardami, Michail lo guardò, gli disse hai finito di fare l’eroe,
Michail non gli disse nulla ma continuò a fissarlo dritto negli
occhi. Il cane-cane-cane-maledetto-cane gli sparò in faccia due
volte con la sua pistola d’ordinanza e lo ammazzò. Michail
Kaltezas, questo il suo nome, non finì mai più di essere un eroe.
Anche con due buchi in faccia. Anche se cadavere.
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Quella notte Atene prese fuoco. Le bottiglie Molotov
illuminavano l’aria prima di schiantarsi al suolo mostrando alle
vecchie e ai vecchi appollaiati sui balconi in un lampo di luce le
barricate costruite alla meglio dai manifestanti in rivolta
riportandogli alla mente piazza Syntagma nel ’44, quando a
combattere c’erano loro e i cani-cani-cani-maledetti-cani erano
quelli di Churchill. Le sirene della polizia che strillavano per la
città così forte da far scoppiare i timpani provocavano il pianto
dei neonati nascosti dietro i muri delle case. Le grida della
gente che supplicavano fino a far spezzare il cuore non-lotoccare-ti-prego-basta-ti-prego-basta-basta-lascialo-basta. Gli
slogan cantati fieramente che facevano ribollire il sangue e che
tutti, anche chi li sentiva per la prima volta, gridava a
squarciagola perché sentiva che quello era finalmente il suo
momento. I lacrimogeni avvolti nella carta da giornale lanciati
dai tetti dei palazzi dai poliziotti perché-così-prendono-fuocoprima-prendono-fuoco-prima-e-li-bruciamo-tutti-quei-vermi-libruciamo-tutti. I polmoni che bruciavano fino a star male. La
battaglia che osava diventare guerra-di-lunga-durata, che
provava credeva sperava di diventare rivoluzione senza
fermarsi alla semplice insurrezione. Ma questa è semantica,
letteratura, romanticismo. Quella che vide Nikos era una vera
città in rivolta, una vera città che si ribellava al sopruso, fatta di
uomini e donne vere che gridavano, di veri cassonetti in
fiamme che bruciavano, di veri eroi che tentavano di riportare il
mondo in uno stato primordiale, dove ancora non esiste il
diritto ad eleggere un padrone, dove ancora non esiste la
morale che impone agli schiavi di rimanere schiavi per sempre
dichiarando morta tutta la storia dell’evoluzione, e ‘fanculo
Darwin. Dove un uomo è un uomo e nulla di più. Dove chi parla
è ascoltato e rispettato e non deriso, umiliato e poi incarcerato
in nome di non si sa quale santa democrazia al servizio di
quegli uomini che pretendono d’essere più di semplici uomini,
più di tutti gli uomini, gli unici uomini. E allora Nikos prese in
mano un sasso e lo scagliò contro la prima vetrina che si trovò
davanti. Non perché volesse rompere quella vetrina in
particolare ma perché quella era la sua vetrina, l’unica vetrina
che potesse colpire in quel momento. Ruppe la vetrina per
riprendersi quello che gli avevano rubato, così gli avevano
spiegato che si doveva fare. Ruppe quella vetrina perché ogni
cosa, tutto, gli era stato rubato e ora lo rivoleva indietro, a
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cominciare da quella vetrina. Quando la vetrina si infranse per
scoppiare in migliaia di pezzi, quando il vetro della vetrina si
sparse per tutto il marciapiede, quando quella vetrina
scomparve cessando di esistere, Nikos, quattordicenne, così
basso da far sorridere, così magro da far pensare ad una
qualche malattia, immobile, muto, eccitato e perfino entusiasta
scopri che quella vetrina, lui, sì, proprio lui, era in grado di
romperla. Decise che non voleva nulla. Che non era quello che
lui voleva. Non voleva niente, lui. A Nikos importava un’altra
cosa. A Nikos importava che a nessuno, mai più, gli fosse
venuto in mente di portare via la felicità a qualcun’altro.
Quella notte Michail Kaltezas era morto, sepolto da un mare di
lacrime che riempirono la facoltà di chimica fino al mattino del
giorno dopo, quando le forze speciali mandate dal Signor
Ministro Kutsoiorgas (nell’85 era il Signor Kutsoiorgas il Signor
Ministro) sfollarono tutti e cinquemila gli anarchici e i ragazzi
presenti facendoli annegare in un dolore che non ha mai
smesso di soffocarci tutti.
Michail Kaltezas era morto. Ma sant'iddio era nato un altro
compagno, un altro camerata, un altro eroe, un altro Kaltezas,
un altro Panagulis, un altro Rigas Feraios: Nikos Maziotis,
residente in via Themistokleous, quartiere Exarchia, Atene. E
questa signori, questa compagni, questa camerati, è la sua
cazzo di tragedia greca. Buona lettura. E ora a me il vino, la
storia comincia.
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CAPITOLO 1
<<Corri Nikos! Corri!!>>.
<<Sto correndo, cazzo! sto correndo!>>.
<<FERMIIIII!!!!>>.
Ci stavano addosso come degli English Foxhound stanno
addosso alla volpe rossa durante una battuta di caccia. Ci
stavano braccando con un'evidenza da pugni in faccia, e lo
sapevamo. I grigi palazzoni, complici di quel senso
d'oppressione, sembravano volerci schiacciare da un momento
all'altro, esattamente come succede alla volpe rossa una volta
raggiunta la tana.
Tutto ormai sembrava perduto.
<<Prova all'Ama Lachi!!>>. Tagliò corto Nikos.
Saltellammo intorno ai tavoli scartando i verdi alberi di limoni e
piante di pomodori che li nascondono ai passanti lungo la
strada e mi gettai contro la porta a vetri del ristorante con
tanta di quella forza che se pure non fosse stata aperta l'avrei
sfondata, aiutato com'ero dall'aver corso in discesa gli ultimi
cinquanta metri.
Spinta la porta ci ritrovammo in una piccola camera nuda; di lì,
in una sala più grande ma ancora vuota di clienti. Nella foga
rovesciammo un paio di sedie attirando l'attenzione di un paio
di camerieri, i quali, guardandoci in cagnesco e infuriati come
la morte, ci mostravano il palmo della mano maledicendoci fino
alla quinta generazione, e di un terzo, grasso come un maiale,
che tentò goffamente di placcarci senza tuttavia riuscirci. Il
rumore delle sedie spinte indietro, le urla dei suoi colleghi e le
nostre non sembravano averlo raggiunto: quando entrammo in
cucina infatti sorprendemmo il cuoco a gesticolar qualcosa
contro la televisione e uscimmo dal retro senza dargli il tempo
di far nulla, tranne sbuffare infastidito come se quella fosse
l'ennesima di una lunga serie di invasioni da parte di
sconosciuti nella sua cucina. Una volta trovata la porta che
cercavamo, ossia quella che portava nel retro del ristorante, ci
ritrovammo in un piccolo cortile completamente asfaltato e
cinto da un muro. Non appena me lo vidi spuntare davanti, quel
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muro alto due metri che ci bloccava la fuga quasi mi sembrò la
fine stessa materializzatasi in quel momento dal nulla solo per
noi.
<<Che hai? Salta!!>> e sorridendo un sorriso diabolico Nikos
prese la rincorsa. Come un capriolo s'arrampicò sapra i bidoni
della spazzatura. E in un attimo, senza che me ne rendessi
conto, era già in cima al muro che mi aspettava per andare
dall'altra parte.
<<Che aspetti??>>.
Cosa aspettavo? Presi anch'io la rincorsa, e facendomi coraggio
feci tutto esattamente come lo avevo visto fare a Nikos un
attimo prima, senza però la stessa convinzione negli occhi o la
stessa agilità d'un capriolo. Nonostante tutto però, sia pure con
qualche difficoltà, ci stavo riuscendo. Ero ormai quasi in cima.
Quasi. Quasi in cima... quando qualcuno mi afferrò ad una
caviglia. Bestemmiai:
<<Cazzo!>>.
<<Ti ho preso!>> quando mi voltai e vidi il brutto muso sudato
di quel ciccione del cameriere che poco prima aveva tentato di
placcarci in sala m'infuriai a tal punto che l'avrei ucciso. Non mi
faceva paura. Mi faceva solo schifo. Lo sentivo un pò come un
intruso a un funerale che fin dal primissimo instante si ostina
tenacemente a voler sedere al fianco della sorella del defunto
perchè le donne tristi son più facili da portare a letto.
<<Mollami idiota!>> e iniziai a contorcermi e ad agitarmi,
<<mollami!! mollami!!>> ma il ciccione non voleva mollare.
Allora Nikos con un balzo si buttò giù dal muro. Senza pensare
vuotò un bidone della spazzatura grande quasi quanto lui, e
prendendolo da dietro mentre lui continuava a tenermi per la
caviglia e io a sbraitargli contro di mollarmi glielo scaraventò
contro con una tale decisione che il ciccione cadendo a terra
crollò come una montagna franando fino a terra. Allora Nikos,
con la stessa agilità di prima, usandolo come una specie di
trampolino, si arrampicò di nuovo sul muro e finalmente
potemmo buttarci dall'altra parte e continuare la nostra fuga
per tentare di metterci in salvo dalla polizia. Ci buttammo nel
vuoto senza guardare, con pieno abbandono adolescenziale
nelle nostre capacità atletiche e fiduciosa speranza di riuscire.
E in effetti così fu. Atterrammo senza difficoltà e
ricominciammo a fuggire a più non posso. Il nostro obbiettivo
era raggiungere il Politecnico; una volta dentro saremmo stati
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in salvo: la polizia non avrebbe osato inseguirci fin dentro
l'università. Eravamo però entrambi stremati. Le gambe
cominciavano a farci male. Il dolore alla milza ci faceva piegare
in due dal dolore. Sapevamo che dovevamo continuare a tutti i
costi a correre, ma ogni passo in avanti era una pugnalata allo
stomaco. Nel frattempo, non so come, quei maledetti cani
erano riusciti a capire le nostre intenzioni e a fare il giro
dell'isolato prima che noi si entrasse all'Ama Lachi e ora ci
correvano dietro ancor più incazzati di prima.
<<FERMIIII!!!>>. Dovevamo continuare a tutti i costi a correre.
A tutti I costi.
<<Eccoli! Corri Nikos! Corri!>>.
<<Sto correndo, cazzo! Sto correndo!>>.
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Centomila pugni chiusi si sarebbero dovuti stringere per le
strade di Exarchia. Duecentomila braccia armate si sarebbero
dovute ribellare nelle vie di Exarchia. Un milione di voci
avrebbero dovuto intonare gli slogan della rivoluzione nel
quartiere di Exarchia. Dieci milioni di lacrime avrebbero dovuta
bagnare le terre di Grecia per lavare via il sangue dalle piazze
di Exarchia. Un solo uomo era lì quel giorno. Un solo pugno
chiuso si strinse quella sera. Due sole braccia armate tentarono
la rivolta quel pomeriggio. Una sola voce forte come un milione
che si dispera in nome di dieci milioni di lacrime si levò verso il
cielo in segno di protesta per il sangue che sporcava la sua
terra e che le sue sole lacrime tentarono di lavare ripulendo
l’asfalto nero del suo quartiere, della sua strada, del suo paese.
La speranza di un popolo intero era nel corpo di un solo uomo.
Il pianto di Nikos arrivava fino alla fine della strada, fino al
Parlamento, fino all’università, fino al museo archeologico
nazionale, fino all’Acropoli per poi rotolare indietro per piazza
Syntagma e via via fino a via Themistokleous, nel quartiere più
ribelle di Atene, il suo quartiere, Exarchia… La disperazione di
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sua madre, il volto contratto di suo padre, la rabbia di suo
fratello sono tutt’oggi il simbolo di un rapimento legalizzato che
m’obbliga a tener la testa china sul bicchiere, punendomi
ancora dopo tanti anni in questa pulciosa taverna che puzza di
piscio e di rimorso. Quel giorno era Atene che veniva caricata in
macchina per scontare un anno nella prigione del Signor
Ministro Varvitsiotis. Quel giorno era l’umanità intera che
veniva spinta a forza dentro la volante per scontare un anno
nella galera del Signor Ministro Varvitsiotis. Quel giorno, in
quella strada di Atene, in quel quartiere di Atene, in quella città
della Grecia figlia e madre di Atene, era la libertà che veniva
messa in catene nella cella del Signor Ministro Varvitsiotis. Il
cielo grigio, stanco, noioso e immobile, vedeva il vento corrergli
via per andare a tirare tirare tirare per fermare, riportarlo
indietro, difenderlo. Lo guardavo da lontano, nascosto dietro il
muro alla fine della via all’angolo tra via Themistokleous e via
Kallidromiou mentre gridava a squarciagola contro l’ingiustizia.
Piansi quel giorno. Piansi fino a sera. Piansi fino al giorno dopo.
Piansi tutta la notte seguente. Piansi fino a sentirmi la faccia
bruciare. Piansi perché non andai ad aiutarlo, perché non andai
a tirare tirare tirare, riportarlo indietro, difenderlo come aveva
fatto solo il vento sfidando il cielo. Piansi perché solo lui, il
vento, lo aveva fatto. Solo lui aveva tentato. Perlomeno
tentato. Piansi perché mi sentii un codardo, perché eravamo
stati tutti codardi ma io più di tutti perché non andai a tirare
tirare tirare, riportarlo indietro, difenderlo. Piansi perché non
ebbi il coraggio di uscire da quel mio riparo all’angolo tra via
Themistokleous e via Kallidromous quando Nikos mi vide e con
lo sguardo mi pregò d’aiutarlo, di mostrarmi da dietro quel
muro tra via Themistokleous e via Kallidromous per urlare con
lui più forte che potevo cani-cani-cani-maledetti-cani-cani-canicani-maledetti-cani-cani-cani-cani-maledetti-cani-tornatevenea-cuccia-dal-Signor-Ministro-Varvitsiotis. Piansi, e quella sera da
vero codardo non ebbi la forza di fare altro che ubriacarmi fino
a svenire imprecando contro il cielo che non aveva aiutato il
vento, contro il vento che non aveva tirato abbastanza, contro
mio padre che non mi aveva fatto abbastanza uomo e contro
me stesso, che non sapevo far altro che ubriacarmi fino a
svenire. Mi ubriacai per vomitare l’anima codarda che mi stava
dentro e che mi aveva tenuto fermo, che non mi aveva fatto
chiudere il pugno, che non mi aveva fatto alzare il braccio
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verso quel cielo grigio come aveva fatto il vento, che solo, nella
più tetra solitudine, aveva tentato d’opporsi all’ingiustizia, per
fermarla, per riportarlo indietro, difenderlo.
Così quell’anima codarda che mi agghiacciava il sangue nelle
vene mostrandomi per la prima volta in vita mia il mio vero
volto; quell'anima codarda che mi rendeva così diverso da
Nikos, così piccolo davanti a Nikos, così debole in confronto a
Nikos; quell'anima codarda mi faceva schifo. La odiavo. Io
stesso mi odiavo. E la colpa era della mia anima. Di quella
puttana della mia anima.
Una legge malata, ancor più malata di tutte le altre, lo voleva
punire per punire tutti quanti. E io... io non avevo fatto niete. Lo
stava punendo per punire tutti quanti. E nessuno faceva niente.
Lo avrebbe punito per dire a tutti quanti che osare non è
permesso e-se-osi-conosci-la-punizione. Un governo di ladri lo
voleva criminale agli occhi del popolo. Lo stava facendo
criminale del popolo. Lo avrebbe reso criminale in nome del
popolo. E nessuno, nessuno al mondo faceva niente. Ma anzi
quel mondo che non faceva niente, che aveva smesso di
sognare, di credere nel domani, nel futuro, nell’evoluzione della
specie e che aveva tradito e pugnalato alle spalle le speranze, i
desideri, i sogni di uno dei suoi figli più puri ora lo voleva
chiuso in una prigione militare per punirlo perché aveva osato,
per renderlo criminale perché non doveva osare. Un solo pugno
chiuso si alzò verso il cielo quel giorno di maggio del 1991, ed
era il pugno di Nikos Maziotis, di anni diciannove, residente in
via Themistouclis, quartiere Exarchia, Atene.
Mi voltai terrorizzato dall’altra parte quando la volante mi
sfrecciò davanti a tutta velocità con le sirene spiegate lungo via
Themistouclis. In quel breve attimo sentii gli occhi di Nikos
addosso. In quel breve attimo della durata di forse un secondo
o anche meno un brivido gelido mi corse lungo la schiena
perché sapevo che mi stava guardando da dietro il finestrino
della volante della polizia, che mi chiedeva d’aiutarlo mentre se
ne spariva, rapito dai cani-cani-cani-maledetti-cani, da via
Themistouclis mentre io gli voltavo le spalle per la paura di
finire in gabbia con lui.
Fottuti-cani! Era tutto quello che sapevo fare per lui, gridare:
fottuti-cani! Lo avevano portato via. Cazzo-cazzo-cazzo-fottuticani-fottuti-cani. Ecco tutto quello che sapevo fare per lui:
imprecare. Dopo tutto quello che avevamo passato insieme,
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dopo tutte le risate nelle taverne, le litigate alle riunioni del
movimento, dopo tutto quel gridare, dopo tutto quel cantare,
saltare, correre, ubriacarci dopo aver gridato-cantato-saltatocorso insieme, dopo aver pianto insieme, aver protestato
insieme, dopo esserci promessi reciprocamente che non
avremmo mai smesso di sognare un mondo nuovo, dopo che
avevamo promesso al mondo che lo avremmo reso nuovo
insieme, dopo esserci chiamati compagni per la prima volta
insieme lasciandoci scappare un sorriso di soddisfazione, Nikos,
il mio amico Nikos, il compagno Nikos, lo avevano portato via e
io mi ero voltato dall’altra parte.
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Arrivò a Salonicco la sera stessa facendosi tutto il viaggio
ammanettato nel retro del furgone blindato che aveva l’ordine
di portarcelo. Era sera tardi. Le luci al neon bianche ricordavano
i corridoi di un ospedale. L'odore acre del disinfettante quasi lo
confermava. Gli fecero vuotare le tasche. Svuota-le-taschecoglione-svuota-le-tasche. Lo perquisirono. Sta-fermo-coglionesta-fermo. Gli presero le impronte. Da-qua-la-mano-coglioneda-qua. Lo spogliarono. E-sta-fermo-coglione-sta-fermo. Lo
fotografarono. Sorridi-coglione-sorridi. Lo umiliarono. Lo
picchiarono. Lo incarcerarono. Chiusero a chiave. Se ne
andarono. Benvenuto-coglione-benvenuto.
Nove mesi dei dodici previsti inizialmente. Nove mesi rubati
alla sua vita. Nove mesi dietro le sbarre a guardare il golfo di
Salonicco attraverso la gabbia. A guardare il mare, le barche
ormeggiate al porto, il traffico della città, che gli ricordavano la
vita di fuori, che gli ricordavano che quella lì fuori non era che
una gabbia più grande, più bella, più affollata ancora di quella
in cui stava ora, ma pur sempre di una maledetta fottuta
gabbia si trattava. E se lo ricordava ogni volta che guardava la
vita di fuori attraverso la gabbia. Nove mesi passati a gridare
che non si sarebbe piegato mai. Che non sarebbe mai stato dei
loro. Che potevano tenerlo in gabbia quanto volevano, mai-maimai-sarò-uno-dei-vostri. Tenetemi-rinchiuso-come-un-animalesono-un-animale-tenetemi-rinchiuso-tenetemi-rinchiuso lo si
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sentiva strillare come un ossesso per ore intere tanto che più di
una volta le guardie lo fecero tacere a modo loro. Ma Nikos
ricominciava, tenetemi-rinchiuso-come-un-animale-sono-unanimale-tenetemi-rinchiuso-mai-mai-mai-sarò-uno-dei-vostri. E
mentre Nikos gridava che era un animale, noi della gabbia di
fuori prendavamo coraggio. E mentre Nikos gridava che lo
dovevano tenere rinchiuso, noi della gabbia di fuori iniziavamo
ad ascoltarlo. E mentre Nikos gridava contro quelli che si
dicevano uomini e che umanamente lo tenevano in gabbia, le
nostre grida si univano alle sue perché mai-mai-mai-Nikossarebbe-dovuto-diventare-uno-dei-loro. Associazioni umanitarie
di tutto il pianeta chiedevano il suo rilascio. Montagne di
telegrammi, di fax, di lettere arrivavano da ogni dove
all’indirizzo di un altro Signor Ministro, il Signor Ministro
Papakonstandinou, il Ministro degli Affari Esteri, al suo
Ministero, ad Akadimias boulevard numero 1, 10671, Atene,
Grecia. Dear Minister… Monsieur le Ministre… Estimado
Ministro… E ancora Herr Minister… Gentile Ministro…
Manifestazioni del movimento studentesco protestavano per la
sua incarcerazione in tutta la Grecia, in Italia, in Francia. Nove
mesi dei dodici previsti inizialmente. Nove mesi rubati alla sua
vita. Quel che accadde in quei nove mesi dietro le mura della
prigione militare di Salonicco Nikos non ce lo volle raccontare
mai. Non lo avrebbe fatto mai. Neppure se glielo avessimo
chiesto implorandolo. Neppure se facendolo sarebbe stato
d’aiuto a qualcun altro. Il motivo è piuttosto sciocco se volete,
anzi, molto più che sciocco. Forse addirittura stupido.
Profondamente stupido. Ma Nikos aveva allora, e ancora oggi lo
mantiene, un codice d’onore tutto suo che gli vieta di
descriversi come vittima quasi che ammetterlo comporti
un’altra sconfitta, un altro dolore, un altro soffrire. In-guerranon-c’è-uomo-che-non-soffra-e-se-io-soffro-è-perché-combatto
era il massimo a cui si poteva aspirare quando si chiedeva a
Nikos della prigione. Cinquantasei giorni di sciopero della fame,
tanto fu necessario per il suo rilascio. Non-lo-voglio-faculofanculo-non-lo-voglio-portalo-via-via-via! Per cinquantasei giorni
consecutivi un ragazzino di nemmeno vent’anni e poco più di
cinquanta chili rifiutò di mangiare qualsiasi cosa gli portassero.
Non-lo-voglio-fanculo-fanculo-non-lo-voglio-portalo-via-via-via!
Un giorno di più e lo avrebbero ammazzato perché lui di
indossare quella divisa militare non ne voleva sapere. Perché
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lui, un ragazzino di nemmeno vent’anni e cinquanta chili,
piuttosto che fare il soldato, il cane-cane-cane-maledetto-cane,
piuttosto che servire gli uomini che umanamente tengono in
gabbia altri uomini, lui, l’animale, sarebbe morto di fame. E lo
avrebbe fatto urlando tenetemi-in-gabbia-sono-un-animalesono-un-animale-tenetemi-in-gabbia-mai-mai-mai-sarò-uno-deivostri.
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CAPITOLO 2
Mai-mai-mai-fu-uno-dei-loro. Nikos venne arrestato ancora una
volta nel ’94 e nel ’95. Nel ’94 perché insieme ad altri
cinquanta occupò illegalmente la facoltà di Economia e
Commercio in solidarietà con i compagni Balafas e Kabouris in
sciopero della fame da dietro le sbarre del carcere di
Korydallos; nel ’95 invece lo arrestarono insieme ad altri
cinquecento per quella che oggi ricordiamo come La Rivolta del
Politecnico, rivolta finita nel sangue sparso dalle truppe speciali
mandate contro ragazzini dai tredici ai vent’anni dal governo
socialista innamorato della libertà di Papandreou, l’americano
cresciuto in America che aderiva all’internazionale, che aveva
studiato alla Harvard University prima di prestare servizio nella
marina militare a stelle e strisce, e poi era diventato Primo
Ministro con i soldi della Casa Bianca che stranamente di sentir
chiudere le basi Nato mentre il suo compatriota gli ringhiava
contro e regalava banche a poveri immigrati come lui
rimpatriati in Grecia dal paese di Marylin Monroe e Katherine
Hepburn e che facevano carriera così in fretta da potersi
comprare squadre di calcio e giornali filo-socialisti ad appena
trentacinque anni, no, agli americani stranamente non pareva
dispiacere troppo. O forse sì, ma valli a capire tu questi
americani che la libertà loro se la comprano coi dollari e se i
dollari non bastano ci sono sempre i carri armati…
Nikos invece era un uomo più semplice e più che degli
americani lui si ricordava ancora dei morti ammazzati dalla
polizia; si ricordava ancora dei ragazzini morti con due buchi in
faccia, degli sbirri Melistas colpevoli di omicidio e rilasciati dopo
soli quattro anni perché i cani-cani-cani-maledetti-cani mandati
dal Signor Ministro Varvitsiotis sono cani-cani-cani-maledetticani e i cani-cani-cani-maledetti-cani mandati dal Signor
Ministro Varvitsiotis possono tutto perché a mandarli è il Signor
Ministro Varvitsiotis, e se le madri dei ragazzini morti
ammazzati con due buchi in faccia dalla polizia non lo
capiscono è perché non hanno capito la democrazia; Nikos si
ricordava anche dei professori uccisi dalle squadracce di
fascisti forse-amici-del-Signor-Ministro-Varvitsiotis (diciamo
forse perché il Signor Ministro Varvitsiotis è gran brava persona
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e di squadracce di fascisti non vuol sentir parlare e noi certo il
Signor-Ministro-gran-brava-persona-Varvitsiotis non lo vogliamo
contrariare di sicuro) mandate per fermare le occupazioni cheal-Signor-Ministro-gran-brava-persona-Varvitsiotis-nonpiacevano-e-allora-mandava-i-cani-cani-cani-maledetti-caniche-poi-uccidevano-i-ragazzini-con-due-buchi-in-faccia-e-se-lemadri-dei ragazzini-morti-non-capiscono-è-perché-non-hannocapito-la-democrazia; si ricordava ad esempio del Professor
Nikos Temponeras, ucciso a Petrasso perché lui con le
occupazioni era d’accordo. Ma lo sanno tutti che i professori se
sono d’accordo con gli studenti sono-solo-degli-alternativi-edella-democrazia-non-hanno-capito-nulla-ma-proprio-nulla. Si
ricordava anche dei corpi carbonizzati nel centro commerciale
di Atene morti perché i cani-cani-cani-maledetti-cani avevano
pensato bene di appiccare il fuoco per stanarli-tutti-questiragazzini-che-la-democrazia-non-l’hanno-capita-e-allora-glielaspieghiamo-noi; si ricordava di Spiros Dapergolas e di
Christoforos Marinos e di tutti gli altri manifestanti arrestati a
Salonicco; si ricordava dei manganelli sulla schiena e sulle
piante dei piedi perché se-picchi-sulle-piante-dei-piedi-queibastardi-non-camminano-per-giorni. Si ricordava di tutto Nikos,
e forse pure degli americani che i Colonnelli li avevano
sostenuti e ai Papadoupolos avevano stretto la mano con tutti
gli onori pagati-con-i-dollari-e-se-i-dollari-non-bastano-ci-sonosempre-i-carri-armati…
Se credete che Nikos fosse un delinquente perché lo
arrestarono così tante volte è perché avete una strana
concezione della giustizia e ancora non avete sentito nulla della
sua storia e non mi avete lasciato il tempo di parlare. Nikos i
dollari non li aveva e i carri armati non sapeva dove trovarli,
ma la libertà la voleva comunque e che fossero gli americani, i
colonnelli, i Karamanlis, i Papadoupolos o i Papandreou non
faceva grande differenza. Lui con quella gente non ci voleva
stare e dalle strizzatine d’occhio delle Marylin Monroe e delle
Katherine Hepburn non sapeva che farsene.
Nel 1996 finalmente si presentò l’occasione che stava
aspettando. E allora sì che tutto fece di lui un delinquente di
quelli che fan gridare nella bocca di tutti al tiranno, al mostro,
al cospiratore, al criminale; allora sì che nella bocca di tutti si
gridò al genio, all’eroe, al santo, al buono, al salvatore mentre
ogni cosa, dalla più grigia alla più colorata, dalla più
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insignificante alla più studiata, si mostrava semplicemente per
quel che era, solamente, impietosamente nulla.
Immaginatevi… Immaginatevi la cosa più bella che vi riesce
d’immaginare. Poi raddoppiatela. Moltiplicatela per cento, per
mille, per centomila. Provate ad immaginare un mare azzurro
come il cielo di Palermo o di Ischia o di una qualsiasi altra
località dell’Italia meridionale in un estate piena di sole ritratto
su di una cartolina da due soldi che per nostalgia vi ostinate a
tenere appesa alla porta del frigo perché vi fa sentire leggeri
come durante le vacanze; e immaginatevelo trasparente e così
pulito da poterci guardare attraverso senza bisogno
d’immergervi, pieno di pesci d’ogni specie che vi nuotano
diretti chissà dove dietro chissà quale scoglio; e poi
immaginatevi questo mare così perfetto che bagna spiagge
d’avorio altrettanto perfette toccate da rotoli di spuma bianca
sui quali si potrebbero scrivere come su dei fogli le più
magnifiche delle poesie mai scritte. Immaginatevi monti
disseminati di reperti archeologici dell’antichità classica e del
periodo cristiano ricoperti di pini addobbati di foglie lineari,
dritte e acute come spilli ma non pungenti ma dolci al tatto
come fili d’erba di colore verde glauco; e poi se vi riesce
immaginatevi abeti verdi bruno alti quaranta metri che toccano
nuvole capaci di disegnar ogni cosa nella fantasia dei bambini e
degli adulti mai cresciuti; e continuate con degli olivi con
cortecce grigio chiare quasi vicine ad un giallo anch’esso
bruno, ma questa volta d’un giallo bruno come il sole, come
quando dopo un’intera giornata, stanco, affaticato, dal giallo
limone del mattino sta per passare a quell’arancione prima del
tramonto; e poi immaginatevi gruppetti di capre curiose che
pascolano in prati dorati su montagne e colline dove hanno nidi
uccelli come gufi e sparvieri e cornacchie marine e che non
sono mai ripide e ostili ma gentili, lente, che v’accompagnano
fino alla cima facendovi scordare la fatica mentre attraversate
fiumi e torrenti tra cicale che friniscono acute e la brezza di un
vento caldo che arriva dal mar Egeo e che affettuoso
v’accarezza la pelle del viso. Immaginatevi questi pini, questi
abeti, questi olivi mentre vi parlano ricordando l’infanzia di
Aristotele e il passaggio dell’esercito di Serse con i suoi due
milioni di uomini passati lungo i secoli per quei sentieri di sassi
e terra marrone, polverosa, ricca dei profumi della storia.
Immaginatevi zollette di zucchero grandi come case.
21
Immaginatevi quelle zollette di zucchero che fan da casa ai
pescatori. Immaginatevele tutte uguali ma sempre diverse, con
reti appese nei giardini a ricordarvi che quella è gente che
lavora e tavoli di legno pronti per la festa della sera a spiegarvi
che di lavorare a quella gente non dispiace; immaginatevi gatti
che oziano sulla strada in viuzze costeggiate da case
imbiancate a calce e bambini che giocano su pontili tra
modeste barche di legno dipinte di blu messe a riposo dai padri
e fratelli maggiori che li guardano giocare mentre bevono e
mangiano cibi che al ristorante vi costano un occhio della testa
e che questi padri e questi fratelli hanno raccolto con le loro
mani prima di darli alle mogli e alle sorelle che quei cibi li
trasformano in-cibi-che-al-ristornate-vi-costano-un-occhio-dellatesta-e-che-questi-padri-e-questi-fratelli-maggiori-invecemangiano-dopo-averli-raccolti-con-le-loro-mani-mentreguardano-i-bambini-giocare-sul-pontile-tra-le-barche-di-legnodipinte-di-blu-messe-a-riposo.
Immaginatevi un luogo dove la gente si sveglia col sorriso e la
sera va a letto ridendo perché vive dentro a tutto questo. Poi
immaginatevi una bomba atomica che esplode come ha fatto
ad Hiroshima e a Nagasaki. Immaginatevi arsenico e mercurio
che contaminano il suolo infiltrandosi nei fiumi e nel mare.
Immaginatevi sfratti, espropri e materiali di scarto.
Immaginatevi i pini, gli abeti e gli olivi che prima vi parlavano
dell’infanzia di Aristotele e dell’esercito di Serse composto da
due milioni di uomini passati di là qualche secolo prima venire
sradicati e bruciati. Immaginatevi quindici milioni di litri
d’acqua al giorno mischiati con sette tonnellate di cianuro per
fare un buco così grande che le tonnellate di roccia fatte
esplodere al giorno sono centomila. Immaginatevi che da un
giorno all’altro le modeste barche di legno dipinte di blu non ci
sono più e i bambini nemmeno perché quella adesso non è più
casa loro ma è la casa della TVX Gold, una multinazionale
dell’oro canadese alla quale il-governo-innamorato-dellalibertà-del-socialista-americano-Papandreou-che-avevamandato-le-forze-speciali-contro-ragazzini-dai-tredici-aiventanni-ha-deciso-di-concedere-il-diritto-di-scavo-e-abbassogli-americani-e-viva-il-socialismo-e-la-libertà.
E a questo punto dovete smettere d’immaginare e dovete
mettervi nei panni di quei padri e quei fratelli, di quelle mogli e
di quelle sorelle di quei bambini che prima giocavano dove
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aveva giocato Aristotele e dove era passato Serse con il suo
esercito di due milioni di uomini qualche secolo prima e ora non
giocavano più perché-si-doveva-dare-spazio-allamultinazionale-canadese-dell’oro-TVX Gold-con-i-suoi-quindicimilioni-di-litri-d’acqua-al-giorno-mischiati-con-sette-tonnellatedi-cianuro-per-fare-un-buco-così-grande-che-le-tonnellate-diroccia-fatte-esplodere-al-giorno-sono-centomila.
Che ci siate riusciti o no questo non importa. Al vostro posto ci
riuscì Nikos a mettersi nei loro panni, e di lasciare sola quella
gente che si svegliava al mattino col sorriso e andava a dormire
la sera ridendo non ci pensava neanche. Per lui era una cosa
normale, quasi come camminare. Forse perché aveva sentito
parlare di solidarietà, e quanto è vero Iddio andava in giro
dicendo che bisognava essere solidali se si voleva essere
uomini rispettabili; o forse perché aveva sentito parlare di
uguaglianza, e diavolo se se ne era convinto che l’uguaglianza
era necessaria. Fatto sta che appena seppe cosa stava
accadendo nella baia di Strimonikòs salì sulla sua scassatissima
Fiat 125p d’un inguardabile color albicocca e gli andò a parlare
di autogestione, della stessa autogestione di cui aveva sentito
parlare lui da ragazzino. E che mi venisse un colpo se sto
mentendo di capi padroni e signori dopo quanto disse Nikos a
quella gente della baia di Strimonikòs era meglio non parlare,
ve lo assicuro.
CAPITOLO 3
Non ci si svegliava più al mattino col sorrise e non si andava
più a letto la sera ridendo nella baia. Il coprifuoco, la legge
marziale, i cani-cani-cani-maledetti-cani ad ogni angolo di
strada con i loro posti di blocco e i loro mitra; la loro terra
violentata su commissione in cambio di denaro sinonimo di
libertà per quella gente, stuprata per un poco di denaro che
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rendeva libera certa gente, derubata per avere un poco del
denaro che custodiva suo malgrado dentro di sé e ridotta ad un
paesaggio lunare come dopo lo scoppio d’una bomba atomica
per far più ricca un po’ di gente, desertico come dopo una
bomba atomica fatta esplodere da quella gente, fangoso come
dopo lo scoppio d’una bomba atomica nonostante vi vivesse
della gente; i loro fiumi prima d’acqua pulita, limpida, fresca,
ed ora inquinati e puzzolenti, che sanguinavano come i corpi
maciullati dopo lo scoppio d’una bomba atomica su di una città
piena di gente, non più azzurri ma rossi per via del mercurio e
dell’arsenico, che li facevano sanguinare, rossi come il sangue
di un moribondo prossimo alla morte, che sanguinavano feriti,
rossi come il sangue, mortalmente rossi come il sangue a
dimostrazione che la terra può sanguinare come la gente, può
morire come la gente, che la terra, la loro terra, era stata viva e
ora stava morendo colpita a morte dalla bomba atomica
lanciata dal governo democratico innamorato della libertà del
socialista Papandreou sulla gente della baia di Strimonikòs e
viva-viva-viva-la-libertà; le loro case tutte uguali ma sempre
diverse abbattute come i loro alberi e i loro uliveti che avevano
visto crescere Aristotele e fatto da cornice al passaggio dei due
milioni di uomini dell’esercito di Serse fatti bruciare e ridotti in
cenere; le loro vite tra le barche dipinte di blu svendute come i
prodotti in saldo dei discount di provincia ora, in nome della
libertà, della democrazia, di Papandreou e di chissà che altro,
avevano dovuto cedere il posto ai materiali di scarto, alle
escavatrici, alle ruspe, a giganteschi camion grandi quanto
case di tre piani, ai container-ufficio e ‘fanculo-a-quella-gente.
Nella baia di Strimonikòs non ci si svegliava più col sorriso e
non si andava più la sera a letto ridendo. Quella gente della
baia di Strimonikòs non si svegliava più col sorriso e non
andava più a letto ridendo perché sotto la loro baia, dentro il
cuore della loro baia, qualcuno aveva trovato l’oro, l’oro della
baia. E-fanculo-la-gente-perché-l’oro-bisogna-averlo-ad-ognicosto, a qualsiasi costo, anche a costo di strappare il sorriso
alla gente, la casa, la vita, la dignità, la baia, il cuore della
gente. Perché l’oro, il loro oro, il metallo giallo che aveva fatto
così ricco il famoso Re Mida da farlo morire di fame e che stava
dentro la loro bellissima terra serviva a far uscire dai palazzi di
Atene, di New York, di Londra l’entusiastico grido degli imbecilli
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eredi di Re Mida: siamo-più-ricchi-viva-viva-viva-la-libertà-echissenefrega-della-gente.
Lo sa dio cosa passò per la testa di Nikos quando parcheggiò la
sua scassatissima Fiat 125p d’un inguardabile color albicocca
davanti la sede del comitato no-miniera.
Faceva un tempo infame quel lunedì mattina. La sede del
comitato non era altro che una semplicissima casa a due piani
dipinta di bianco con l’intonaco un poco scrostato, un tetto di
tegole rosse e le inferriate alle finestre e una grossa porta in
legno a due ante in quello che una volta doveva essere stato il
centro di qualcosa e che i cartelli stradali, unici sopravvissuti
alla devastazione messa in atto dalla TVX Gold, indicavano
senza ombra di dubbio essere il centro del paese. Intorno alla
casa, probabilmente il vecchio comune dai tempi della grande
guerra o anche prima, il nulla. Macerie al posto dell’erba delle
aiuole. E il nulla. Carcasse di case in demolizione o già
demolite. E il nulla. Negozi con tristi cartelli: chiuso. E il nulla.
Una fontana spenta, arida, vuota. E sempre e solo il nulla. Un
gran puzzo di bruciato inquinava l'aria. Dalle finestre del
secondo piano pendeva uno scalcagnato e logoro lenzuolo.
Occupava tre quarti della facciata dell’edificio e arrivava fino a
coprire la parte più alta della porta d’ingresso. Sopra il
lenzuolo, a caratteri grandi, vi stava una scritta a vernice spray
nera un poco sciolta dalla nebbia e dalla pioggia: comitatocittadino-no-miniera.
Il tempo non perde tempo, e così nemmeno Nikos. Senza
esitare entrò nell’edificio, e il nulla d’un colpo sparì. Subito sulla
destra, dietro una rinsecchita scrivania di legno giallo
sommersa da volantini, giornali e opuscoletti, sistemata alla
bell’è meglio lungo un corridoio troppo stretto ma bene
illuminato e dall’aria accogliente, appassionata, lo accolse una
signora anziana, piccolina, tutta vestita di nero circondata da
altre signore anziane, piccoline e tutte vestite di nero come lei
indaffarate a far chi una cosa chi un'altra e che ti davano
l’impressione che fossero in cerca della formula magica capace
di far resuscitare un morto che non si potevano permettere di
lasciare senza vita. Energicamente, senza lasciargli il tempo di
dir nulla, la signora anziana, piccolina e tutta vestita di nero
appena lo vide, facendo tre brevi passettini come un
anatroccolo appena svegliato, gli si piazzò davanti con fare
interrogativo, evidentemente diffidente lo esaminò dall’alto in
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basso scrupolosamente, puntigliosa, severa nel suo silenzio,
sospettosa, stando bene attenta a non farsi sfuggire nessun
particolare di quel bel giovanotto mai visto prima, e ad un
tratto, senza alcun preavviso, come per magia, nel giro d’un
istante s’imbaldanzì come rassicurata da qualcosa, gli occhietti
le scintillarono, i muscoli della faccia le si rilassarono, le rughe
le si rovesciarono, e a Nikos si rivelò un delicato volto di quella
che un tempo, negli anni migliori della sua giovinezza, doveva
essere stata una donna di un fascino elegante come quella di
un cigno, e l’esame, così come era cominciato, finì.
Si fece da parte e indicando le scale lo invitò a salire al secondo
piano, quasi che al secondo piano del comitato-cittadino-nominiera non stessero aspettando che lui. Su-ragazzo-sbrigatiche-è-già-un-pezzo-che-han-cominciato-che-aspetti-va-ragazzosbrigati!-al-secondo-piano-sbrigati.
Nikos nella baia di Strimonikòs non ci era mai stato prima e non
conosceva nessuno tantomeno la signora anziana che gli aveva
detto di sbrigarsi, ma al secondo piano del comitato cittadino
no miniera ci andò eccome. E ci andò in tutta fretta quasi che
di sopra non stessero aspettando che lui, si-mi-sbrigo-sono-inritardo-ha-ragione-mi-sbrigo.
Salite le due rampe di scale, arrampicatosi per gli scalini a due
a due continuando a ripetersi si-mi-sbrigo-sono-in-ritardo-haragione-mi-sbrigo mentre fuori la pioggia scrosciava, Nikos si
trovò tra una piccola ma nutrita folla di contadini e pescatori
che discutevano, bestemmiavano, litigavano, facevano la pace,
tornavano a litigare e poi facevano la pace di nuovo stretti
come sardine in uno stanzino ancor più piccolo di una scatola di
fiammiferi mentre un signore sui settant’anni che pareva fosse
fatto di vetro, con due enormi, folti e buffi baffi e un naso a
becco di civetta (e che doveva aver visto le divise grigie delle
SS e le jeep nere del Kyp in molti dei suoi incubi giovanili)
ripeteva e ripeteva e ripeteva rivolto alla piccola ma
combattiva platea in subbuglio non-ci-arrenderemocombatteremo-non-ci-arrenderemo-combatteremo!combatteremo!
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CAPITOLO 4
I-responsabili-esistono-e-noi-li-possiamo-colpire, diceva Nikos.
Le-lotte-si-fanno-pure-per-i-figli-per-le-nuove-generazioni-per-ifigli-i-figli, diceva Nikos. Entrava nelle case che-più-che-dellecase-sono-baracche-baracche-santtodio! mentre la gente era
intenta a pranzare o a cenare o magari a far l’amore per i fatti
propri, e senza nemmeno bussare spalancava le porte c’ènessuno?-sono-Nikos-piacere-Nikos-c’è-nessuno??; nelle
locande che-più-che-delle-locande-sono-ruderi-diroccati-contetti-di-lamiera-tetti-di-lamiera!-santtodio! saliva su di un
tavolo, nero e unto fino all’inverosimile e nonostante ciò già
occupato, e senza tener di conto quel che poteva pensare il
proprietario, stando attento quel tanto che bastava a non
urtare i bicchieri di Ouzo con i piedi, a voce alta chiedeva unattimo-di-silenzio-silenzio-per-piacere-beviamo-qualcosa?-sonoNikos-piacere-Nikos; girava per il villaggio che-più-che-unvillaggio-è-un-teatro-di-guerra-un-teatro-di-guerra!-santtodio!
con un’aria ingenua che poteva essere facilmente scambiata
per quella d’un idiota, sfoggiando un sorriso involontariamente
maldestro di quelli che ti fan tenere stretta la mano di tuo figlio
mentre passeggiate al parco e uno sconosciuto vuol salutarlo
carezzandogli le guancie, e ogniqualvolta un qualche
disgraziato pescatore o una signora qualsiasi, di mezza età, di
giovane età o di età matura, ignari del pericolo, ricambiavano
per pura cortesia il suo sorriso, la trappola scattava e lui
cominciava: i-responsabili-esistono-e-noi-li-possiamo-colpiresono-Nikos-piacere-Nikos-m’invita a cena?
27
Assurdo, voi dite? È perché non conoscete Nikos. Certo poteva
sembrare assurdo. E a chi non sarebbe sembrato assurdo? ma
per quanto invadente, indelicato, tremendamente importuno
potesse sembrare sulle prime un simile comportamento, la
realtà è che Nikos compensava questa sua sfacciataggine con
l’ingenuità dei bambini che non pensano mai di dar fastidio se
la loro intenzione è quella di far del bene; e se vi degnavate di
guardarlo attentamente, dopo quel normale attimo di
disorientamento che vi produceva un sì tal bizzarro incontro, il
sorriso che prima gli avevate regalato per pura cortesia ora lo
continuavate a tenere senza nemmeno sapere il perché ma con
la forte convinzione di fare la cosa giusta; e senza nemmeno
sapere il perché gli rispondevate entra-Nikos-entra-beviamoNikos-beviamo-alle-sette-Nikos-alle-sette, e di nuovo senza
nemmeno sapere il perché aggiungevate hai-bisogno-diqualcosa-Nikos?-cosa-vuoi-bere-Nikos?-sii-puntuale-Nikos-haicapito-bene-l’indirizzo-Nikos?
Nel giro di una settimana Nikos strinse amicizia con l’anziano
signore con quei enormi folti e buffi baffi e il naso a becco di
civetta che conosceva alla perfezione le divise grigie delle SS e
le jeep nere del Kyp, con i pescatori che bestemmiavano, i
contadini che litigavano e poi facevano la pace, con i loro figli e
le loro figlie che avevano giocato tra le barche di legno dipinte
di blu messe a riposo e che ora non ci potevano giocare più. In
quella settimana che ci vogliate credere o no fece mollare due
che stavano per sposarsi e fece fidanzare altri due che di
sposarsi non ne avevano la minima intenzione. Nikos era così,
si lasciava prendere dall’entusiasmo. Si finiva con l’inebriarsi di
quello strano tipo. Gli piaceva parlare, ridere, giocare, e poi
ascoltare gli altri mentre parlavano-ridevano-giocavano
cercando il momento giusto per ricominciare di nuovo devoraccontarti-questa-lasciati-raccontare-questa-che-ridere-che-faquesta. Era un ingenuo bambino di venticinque anni a cui
hanno spiegato che per fare amicizia basta dire il proprio nome
con un sorriso e-vedi-tu-se-sono-importuno-io-sono-Nikospiacere-Nikos-vuoi-giocare-con-me?
Ma era anche molto più di questo. Era uno che aveva gridato
da dentro una prigione sono-un-animale-tenetemi-in-gabbiatenetemi-in-gabbia-sono-un-animale-un-animale. Era uno che
nello sguardo sembrava avere sempre come un vago
presentimento d’un pericolo che incombeva. Era uno che aveva
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guidato una scassatissima Fiat 125p d’un inguardabile color
albicocca per seicento chilometri solo per far sapere a degli
sconosciuti che non erano soli; che lui, e molti altri come lui,
erano dalla loro parte. Era uno che aveva guidato per sette ore
per andare a gridare insieme a quella gente lontana seicento
chilometri da casa sua e che non aveva mai visto prima: non-ciarrenderemo-combatteremo!-non-ci-arrenderemocombatteremo!-combatteremo!
E se questo per voi è assurdo, per me è straordinario.
Presto tutto divenne più complicato. Il re, o meglio, i suoi eredi,
si erano sentiti dire no. E osare, lo sappiamo bene, non è
permesso. Quello che i Governi e i Re non capiscono mai in
tempo, e che forse realizzano solamente dopo aver infilato la
testa nella ghigliottina, è che prima o poi, per quanto possano
tentare di corrompere il popolo, per quanto possano dare al
popolo tutto quel che il popolo vuole, fintanto che
pretenderanno di governarlo, di dire al popolo cosa fare, dove
andare, dove abitare, cosa mangiare, con chi parlare, come
pensare, il popolo continuerà ad osare, e lo farà sempre,
Governi, Presidenti o Re che siano. Ed è quanto accadde infatti.
Ai posti di blocco della polizia si sostituirono quelli della
popolazione civile. Può darsi pure che la situazione mutasse
qualche volta dal tragico al comico con due posti di blocco, uno
della polizia e uno del popolo, posti l’uno di fronte all’altro
provocandosi a vicenda non-è-lei-che-blocca-me-son-io-cheblocco-lei-di-qui-non-passa-non-passa-lei-passo-io-no-non-leinon-io-non passa-nessuno-tanto-meno-lei-non-è-lei-che-bloccame-son-io-che-blocco-lei, ma erano casi isolati, e a ben vedere
molto tristi, tipici dei paesi che han dichiarato guerra a se
stessi. I villaggi, difatti, spinti dalla forza della disperazione,
spinti da uno spirito di rivalsa che vedeva come obbiettivo
primario una rivoluzione prima di tutto di se stessi, in se stessi,
del loro modo di vivere, di pensare, di agire, tentavano in ogni
modo di liberarsi e autogestirsi per vincere una guerra che si
combatteva, ancor prima che nelle strade, nel loro essere
uomini capaci di agire e pensare senza sottostare a regole e
morali imposte da criminali che scrivono e cancellano diritti a
seconda dell’umore dell’economia. Le stradine di montagna, i
sentieri tra le colline, le vie e le strade di quella parte della
Mecedonia vennero bloccate: Impossibile-passare-ci-provisignor-comandante-ci-provi-impossibile-passare-ci-provi-signor-
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comandante-ci-provi. Come i Clefti prima di loro, altri uomini,
altrettanto indipendenti e innamorati della libertà, una libertà
che non vuole padroni e che non teme d’esser apostrofata
come brigante perché conscia che la libertà non ha leggi se
non quelle della libertà stessa, si riversarono nelle montagne.
Manifestazioni di milioni di uomini lunghe chilometri che
ricordavano l’esercito di Serse, davanti al Ministero, ad Atene, e
nell’antica Stagira, la patria di Aristotele, nella zona di
Olympiada, sfilavano in nome della baia di Strimonikòs e contro
la TVX Gold, contro il Governo, contro i media, contro
l’ingiustizia, la violenza, la menzogna. Tutti i comuni del
comprensorio si opponevano. Interrogazioni parlamentari (per
la verità una sola e pure nemmeno troppo indignata o accesa
ma anzi piuttosto accondiscendente del genere compagno-quacompagno-là-viva-l’internazionalismo-e-la-libertà-faremovedremo-che-brutta-cosa-che-brutta-cosa-compagno-quicompagno-lì-faremo-vedremo-non-ci-piace-non-ci-piace-chebrutta-cosa-che-brutta-cosa) tentavano di accaparrarsi il favore
della piazza provando di profittare della rabbia della gente ma
riuscendo solo a riempire fino a farlo straripare il già stracolmo
vaso della democrazia buona solo a far fare soldi ad alcuni
rubandoli agli altri con l’ultima goccia d’ipocrisia che sta in
bella mostra nei salotti di quei palazzi che han sempre dato il
via all’abuso da che son nati.
Non appena il vaso straripò un oceano di no-non-io-non-in-mionome travolse simile ad uno tsunami l’intero paese. Era il
momento di non-arrenderesi-di-combaterre-non-arrendersicombattere!-combattere!
Nikos non se lo fece ripetere due volte. Poteva andare anche lui
in montagna con gli altri, non v’è dubbio. Ma preferì salutare
tutti e così salì in macchina e se ne tornò ad Atene. Il 6
dicembre 1997, con una stretta al cuore e un tremito nervoso,
nello stato d’animo di chi sta per compiere un azione che
determinerà tutta la sua esistenza, girato attorno al palazzo per
ben tre volte in cerca del coraggio che non voleva arrivare,
cercando di assumere un atteggiamento il più normale
possibile ma diventando sempre più agitato passo dopo passo,
si fermò all’angolo di via Papadiamantopoulou, controllò l’ora,
le due, si asciugò con la manica della giacca il sudore che gli
bagnava la fronte, sorrise ironico disprezzandosi pensando fra
sé che stava sudando e-fanno-quattro-maledetti-gradi-quattro,
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si guardò intorno, nessuno in vista, si cavò lo zaino dalle spalle,
lo poggiò alla base della scalinata e via-né-né-si-si-è-fatta-èfatta-via-via-via! Era la bomba. La bomba davanti la sede del
Ministero dello Sviluppo e dell’Agricoltura del 6 dicembre 1997.
Sgusciò via indeciso, lentamente, quasi controvoglia. Quasi che
andarsene significasse rinunciare a parte dell’impresa. Quasi
che non rimanere ben saldo sul ciglio della strada, con la
schiena dritta e lo sguardo traboccante di sfida verso le finestra
del Ministro in attesa di vederlo schiacciato dal panico come lui
aveva schiacciato nel panico un intera baia, significasse
ammettere un timore che non si devono concedere mai gli eroi
di fronte al mostro che sono andati a distruggere. Alle 2 e 03
era già dentro la cabina telefonica con la cornetta in mano:
Pronto?-il-gionale-Eleutherotipia?-tra-mezzora-una-bombaesploderà-al-Ministero-dello-Sviluppo-per-il-caso-Strimonikòs!chi-siamo?-siamo-siamo-ma-che-diavolo-siamo-i-combattentiguerriglieri-del-popolo-chi-vuole-che-siamo?!
In fondo non aveva proprio mentito mentito autodefinendosi
‘’guerriglieri’’. È solo che, come posso dire, usando il plurale,
già sapeva che gli altri combattenti, anche se non c’erano
ancora, Nikos ne era fermamente convinto, un giorno ci
sarebbero stati, ecco.
La bomba comunque c’era. Non molto potente, ma c’era.
Quando uno degli uomini che stavano lì di guardia quella
mattina fu mandato a vedere se vi era motivo di allarmarsi per
quella telefonata e se vi fosse nulla di sospetto e questi tornò
correndo sbraitando all’impazzata uno-zaino-neroabbandonato-uno-zaino-nero-c’è-uno-zaino-nero-abbandonato
gli artificieri vennero chiamati immediatamente e in pochi
minuti erano sul posto, al numero 80 di Michalakopoulou
boulevard, ad esaminare da lontano lo zaino nero abbandonato.
Che-nessuno-si-avvicini-state-lontano-lontano-cazzo-lontano!
Arrivò perfino un elicottero.
Una zona di circa due chilometri quadrati che partiva dallo
stadio della squadra di calcio del Panathinaikos nel distretto di
Ampelokipi e che finiva all’altro stadio, allo stadio di tutti gli
ateniesi, il Kallimarmaron, lo stadio Panathinaiko, poco lontano
dal tempio di Zeus Olimpio, venne evacuata e chiusa al traffico.
Aspettarono mezzora, quaranta minuti, quarantacinque, un’ora.
Dall’altra parte della strada, dalle finestre dell’ospedale
universitario, i malati in compagnia delle infermiere e dei
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medici spiavano dall’alto quelli che sembravano centinaia di
minuscoli insetti velenosi rigurgitati da un formicaio in fiamme:
poliziotti con le armi in pugno e i caschi in testa saltavano giù
dal retro dei furgoni in fila indiana, veloci, marziali. Erano stati
scaraventati fuori dalle caserme di tutta Atene su ordine del
Ministro in persona. Nient’altro doveva avere la precedenza.
Sono-il-Ministro-io!-il-Ministro! Gridava, mentre si agitava come
una gallina, da dentro il suo ufficio. I militari si sparpagliarono
ordinatamente a gruppi di cinque e di dieci agli angoli dei
palazzi e dei negozi cercando riparo da un nemico invisibile. Un
nemico invisibile che tremava per la rabbia perché nessuno lo
poteva vedere. Dietro le volanti, armati di pistole, di fucili, di
mitra, i colleghi usavano le radio per impartire gli ordini; da
dietro le volanti avvertivano quelli in prima linea di stare alriparo-al-riparo-cazzo! di fermare quel tipo con la maglia nera
prendilo-vai-vai-vai, di cacciare quella-vecchia-scema-fermaquella-vecchia-scema!-ma-dove-va-quella-scema!
Tanto clamore per nulla. La bomba non esplose. Qualcosa non
aveva funzionato. Nikos aveva commesso un errore tecnico, un
maledettissimo errore tecnico. Solo-di-questo-mi-pento-solo-diquesto! Lo ripeté un’infinità di volte, in modo quasi ossessivo
durante il processo in aula, nella stessa aula dove i Colonnelli
avevano processato Panagulis vent’anni prima, quella dentro il
carcere di Korydallos: solo-di-questo-mi-pento-solo-di-questo!un-maledettissimo-errore-tecnico-solo-di-questo-mi-pento!
Al diavolo. Non importava. Non a Nikos. Non nel modo che si
potrebbe intendere. Non-è-esplosa?-che-diamine-il-mio-era-unmessaggio-politico-un-messaggio-politico. E il messaggio
politico, aveva ragione, era comunque arrivato a destinazione:
attenzione figli di puttana, la guerra, quella del popolo contro lo
Stato, è cominciata.
Non ci misero molto a risalire a Nikos tramite le sue impronte
digitali. Come uno stormo di cavallette affamate venti o trenta
uomini dell’unità anti-terrorismo armati fino ai denti
piombarono a casa sua alle quattro del mattino del 13 Gennaio
1998. Non esplodendo parte dell’impronta della sua mano
destra era rimasta incollata ad un pezzo di nastro adesivo che
serviva a tenere insieme la bomba, una custodia di cartone per
videocassette vhs con cento grammi di esplosivo al plastico.
Su-le-mani!-alza-quelle-cazzo-di-mani-alza-quelle-cazzo-dimani!-alzale-cazzo!-alzale!
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Nemmeno cinquanta giorni dopo il fallito attentato, per colpa di
quel maledettissimo errore tecnico, era di nuovo dietro le
sbarre. Quel-maledettissimo-errore-tecnico-colpa-di-quelmaledettissimo-errore-tecnico. Di nuovo, di nuovo, di nuovo e
ancora, ancora, ancora era dietro le sbarre a gridare tenetemiin-gabbia-sono-un-animale-sono-un-animale-tenetemi-ingabbia. Questa volta però, come allo zoo, l’animale, un animale
raro, di quelli che non se ne vedono più in giro e che proprio
per questo fanno notizia, veniva fotografato e filmato dai
giornalisti di tutto il mondo appostati come cecchini pronti a
fare fuoco sulla preda da dietro i banchi del tribunale riservati
alla stampa. L’assordante silenzio dentro il quale i giornali
borghesi lo avevano imbottigliato e che lo aveva avvolto
durante il suo primo arresto nel ’91, sparì. Tutti, ma proprio
tutti, a cominciare dalla CNN, volevano sapere chi era Nikos
Maziotis, il ragazzino che anni prima aveva battuto lo Stato
rifiutando di diventare uno dei suoi cani-cani-cani-maledetticani con uno sciopero della fame che lo aveva portato fuori
dalle mura della galera e che lo aveva quasi ucciso, e che ora
era diventato un pericoloso criminale, un anarchico, un
eversivo, un mostro, un terrorista.
Nel suo appartamento a Peristeri, nella zona nord di Atene, un
appartamento poco più grande di un armadio, il DAEEB, la
squadra speciale per i crimini violenti (l’antiterrorismo greco)
rinvenne quattro passamontagna, esplosivi, armi d’assalto, un
paio di pistole, un centinaio di pallottole, libri proibiti e
materiale di propaganda.
Un-pericoloso-criminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostroun-terrorista-armi-esplosivi-passamontagna-libri-libri-libri
titolavano in quei giorni inorriditi i giornali liberi e democratici
che son soliti propagandare la bellezza delle tasse-ai-poveriviva-le-tasse-ai-poveri, del capitalismo-viva-il-capitalismo e del
salario-dimezzato-all-operaio-perché-bisogna-fare-sacrificisalario-dimezzato-salario-dimezzato-viva-il-salario-dimezzato.
Giornali così liberi e democratici che sono proprietà degli
uomini più liberi e democratici di tutti. Uomini così pieni di soldi
da possedere tutto quanto e anche quei giornali liberi e
democratici. Uomini che hanno sicuramente letto tutto sulla
libertà e sulla democrazia e infatti alla democrazia dicono cosa
fare e se non fai come ti dicono loro sei un-pericolosocriminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostro-un-terrorista.
33
Uomini che hanno letto così tanti libri liberi e democratici che le
loro biblioteche sono le più libere e democratiche di tutte le
biblioteche libere e democratiche del mondo. Uomini che le
biblioteche le fanno allestite dagli arredatori pagati con i soldi
delle vendite dei loro democratici e liberi giornali e che se
siamo fortunati i libri-libri-libri-li-scelgono-per-colore-e-solo-sesi-intonano-alle-tende-mi-raccomado-le-tende.
Il giorno del processo, il quale si svolse un sette mesi e mezzo
dopo circa, più precisamente il 7 Luglio 1998, Nikos, ilpericoloso-criminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostroterrorista-armi-asplosivi-passamontagna-libri-libri-libri, si alzò in
piedi e prese la parola: “Sono stato portato qui con la forza
delle armi, ma sia chiaro che non vi temo. Di voi non ho paura.
Non ho intenzione di scusarmi o di pentirmi ma anzi rivendico
con forza le accuse che mi rivolgete contro. Avete di fronte un
rivoluzionario, un anarchico; e voi, signori giudici, siete i servi
di un sistema criminale. Non sono io sotto processo, ma voi e i
vostri padroni. Voi e io siamo su opposte barricate. Giudicatemi
pure, fate del vostro peggio, la storia non dimentica. Io
continuerò a combattervi in favore degli oppressi e dei
diseredati, per la rivoluzione in Grecia, per la giustizia in Grecia,
per la libertà in Grecia! Non è esplosa? Che diamine! Il mio era
un messaggio politico! Un messaggio politico!”
Erano almeno vent’anni (tranne che per la breve parentesi del
giugno 2004 di Dimitris Koufontinas, membro della leggendaria
organizzazione rivoluzionaria 17 Novembre amata, per stessa
ammissione di un deputato di Nuova Democrazia, dal 23,7
percento della popolazione, ossia due milioni
trecentosettantamila greci e che, dalla CIA all'EYP, gli aveva
fatti impazzire tutti i servizi segreti del mondo fin dal 1974
tanto era inafferrabile come l'aria in un bicchiere o come il
vento in montagna) che non accadeva nulla di simile, dai tempi
di Panagulis. Era il primo dopo almeno vent’anni ad assumersi
le sue responsabilità politiche senza cercare di sottrarsi alla
punizione invocata a gran voce dalla libera-democrazia-delletende-mi-raccomando-le-tende.
34
CAPITOLO 5
Alla fine del processo d’appello cominciato l’8 Gennaio 2001,
nonostante la chiara ostilità della corte nei confronti di
Maziotis, non poterono fare altro che ammettere che la pena a
quindici anni era troppo elevata: la bomba non era esplosa, non
c’erano state vittime, nessuno si era fatto male.
Decine di compagni erano andati a testimoniare in suo favore e
decine di volte erano stati interrotti dalla corte. Si-attenga-aifatti-stia-zitto-si-attenga-ai-fatti-signor-testimone-stia-zitto.
Decine di volte Nikos provò a spiegare le sue ragioni e decine di
volte venne interrotto dalla corte che di sentire le sue ragioni
non ne aveva alcuna intenzione. Si-attenga-ai-fatti-signorimputato-stia-zitto-si-attenga-ai-fatti. Decine di volte i suoi
avvocati avevano protestato e decine di volte la corte aveva
intimato loro di tacere. Stia-zitto-signor-avvocato-stia-zitto.
Il clima era così teso in aula che il giorno dopo l’inizio del
processo, il 9 Gennaio, dopo quanto era successo il giorno
precedente, dopo che il giudice aveva interrotto i testimoni,
aveva fatto allontanare dall’aula parte del pubblico venuto da
tutta la Grecia, dall’Italia e dalla Francia a sostenere l’imputato,
dopo che non aveva concesso il sacrosanto diritto all’imputato
35
di assistere al suo processo libero dalle manette e gli aveva
impedito di difendersi dalle accuse e aveva intimato ai suoi
avvocati di tacere, dopo che aveva fatto proseguire il processo
nonostante la richiesta di rinvio, Nikos, furibondo, esasperato,
si fece vincere dall’istinto. Con un balzo saltò giù dalla panca,
sfuggì al controllo dei poliziotti, e in un lampo, in un ‘’oooohh’’
di sorpresa generale del pubblico, riuscì a raggiungere il banco
dei giudici. Se la polizia non fosse intervenuta in tempo quei
giudici oggi non ci sarebbero più.
**
Arrivò l’estate. Faceva un caldo soffocante e i turisti erano
dappertutto. L’aria di Atene si fece grassa, calda come lo è solo
in agosto. Il nuovo millennio era cominciato e con lui tutta una
serie di medievali, e irragionevoli, e brutali, e odiosi attentati al
grido di Allah Akbar in giro per il mondo compiuti dai servi d’un
Dio dittatore che, se come tutti gli altri Dei ci ha creato per che
noi ci sottomettessimo a lui, se come tutti gli altri Dei ci ha
creato affinché noi si viva l’intera esistenza seguendo le sue
regole e non le nostre, se come tutti gli altri Dei ci ha creato
per che noi si passi la vita in ginocchio prostrati ai suoi piedi,
noi, sia che si sia stati creati da lui, da altri o da nessuno, noi
che siamo uomini e non schiavi, ora lo dobbiamo distruggere
per liberarci dalla sua tirannia come da tutte le altre tirannie
che ci affliggono e che ci vogliono schiavi sottomessi invece di
uomini liberi per evitare che altri-medievali-e-irragionevoli-ebrutali-e-odiosi-attentati-continuino-a-colpirci-tutti-in-nomed’un-dio-che-come-tutti-gli-altri-è-solo-un-vile-dittatore-un-viledittatore-solo-un-vile-dittatore. Di lì a poco sarebbero crollate le
Torri Gemelle dando modo agli americani di distribuire un po’ di
libertà e-se-i-dollari-non-bastano-ci-sono-sempre-i-carri-armatie-noi-i-dollari-li-abbiamo-finiti-perciò-viva-l’america-viva-i-carriarmati-viva-la-libertà.
Nel frattempo i progetti criminali su Strimonikòs vennero
fermati, addio-TVX-Gold-bentornati-bambini. Nikos, a modo suo,
aveva vinto di nuovo. Dei quindici anni, poi divenuti cinque, ne
trascorse solo tre e mezzo nel carcere di Korydallos di cui ilprimo-in-completo-isolamento-e-non-ti-dico-amico-non-ti-dicoquello-che-ho-passato.
36
CAPITOLO 6
Ai newyorchesi quel martedì mattina dovette sembrare che
piovessero uomini sulla città. Complessivamente, più di
duecento persone scelsero di gettarsi nel vuoto piuttosto che
morire bruciati dal fuoco. Un Boeing 767 della American Airlines
si era schiantato contro la Torre Nord del Word Trade Center.
Erano le 8 e 45 dell’11 settembre 2001. Alle 9 e 03 toccò alla
Torre Sud, il volo United Airlines 175 impattò fra il
settantasettesimo e l’ottantacinquesimo piano uccidendo sul
colpo seicento persone. Alle 9 e 43 un Boeing 757 colpisce il
Pentagono. Alle 10 e 03 precipita in Pennsylvania, nella
frazione di Shanksville, il volo United Airlines 93 con 44 persone
a bordo. In un solo giorno persero la vita
duemilanovecentonovantatre persone, compresi i diciannove
dirottatori. In un solo giorno duemilanovecentonovantatre
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persone compresi i diciannove dirottatori morirono per
l’ennesima volta per la parola libertà, la parola dignità, la
parola ordine, sacrificio, patria, guerra, e libertà, e dignità, e
ordine, e sacrificio, e patria, e guerra e libertà, e dignità, e
ordine, e sacrificio, e patria, e guerra, e ordine, e libertà,
libertà, libertà! In un solo giorno, in meno di ventiquattro ore,
duemilanovecentonovantatre persone compresi i diciannove
dirottatori da uomini divennero carcasse stecchite di niente;
duemilanovecentonovantatre persone compresi i diciannove
dirottatori si tramutarono in ossa marce, budella in
putrefazione, brandelli di carne ustionata e nient’altro. In meno
di millequattrocentoquaranta minuti
duemilanovecentonovantatre persone compresi i diciannove
dirottatori da uomini capaci di tutto divennero cadaveri capaci
di niente.
La nuvola di fumo nero che ricopri quel giorno la città di New
York non era che l’inizio di una tempesta che si sarebbe
abbattuta poi sull’intero nostro pianeta. Domenica 7 Ottobre,
ventisei giorni dopo il crollo delle Torri, la vendetta.
Trecentoquarantamila civili afgani, centoquattordici volte i civili
americani morti nell'attentato alle Torri Gemelle, morirono – e
continuano a morire ancora oggi dopo quindici anni di
bombardamenti - per la parola libertà, la parola dignità, la
parola ordine, sacrificio, patria, guerra, e libertà, e dignità, e
ordine, e sacrificio, e patria, e guerra e libertà, e dignità, e
ordine, e sacrificio, e patria, e guerra, e ordine, e libertà,
libertà, libertà!
Se i diciannove attentatori erano dei folli assassini assetati di
sangue, l’esercito americano è centoquattordici volte più folle e
assassino e assetato di sangue di ognuno di loro.
**
Di cosa sia fatta questa libertà che vuole gli uomini o morti o
servi o a cosa serva la libertà alla gente morta, vi prego, vi
scongiuro, abbiate la pietà di non domandarmelo.
Quell'11 settembre 2001, insieme alle due torri, la chiesa
greco-ortodossa di San Nicola di Bari fu tra le costruzioni
distrutte a New York.
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CAPITOLO 7
No-non-io-non-in-mio-nome-non-la-guerra! Nove giorni dopo gli
attentati, un sinistro discorso venne pronunciato da dentro un
Congresso degli Stati Uniti d’America riunito in seduta comune
circondato da blocchi di cemento grigio e auto della sicurezza.
George W Bush, l’uomo che dopo gli attentati ebbe un picco di
popolarità tra il popolo statunitense raggiungendo uno
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sconvolgente 84 percento, rivolgendosi ai popoli di tutta la
terra, minaccioso, gonfio di rabbia, concluse il suo intervento
con queste parole: o-con-noi-o-contro-di-noi; Pola, sdegnata,
disgustata, si alzò di scatto dal divano furiosa come il diavolo, e
con tutta quanta la voce aveva in corpo accettò la sfida
vomitata dal televisore: contro-santo-iddio-contro!
Un anno dopo lei era lì (come altre trentasei milioni di persone
in tutto il pianeta che protestavano contro l’invasione dell’Iraq),
col suo modo di fare diretto, gli occhi verde smeraldo, la pelle
rosa come una pesca, intensamente femminile, bellissima,
morbida nei lineamenti, con i suoi lunghi capelli neri come il
carbone
che
le
coprivano
le
spalle,
anch’essi
meravigliosamente morbidi, e lisci, e profumati come la
primavera che l’avvolgeva, tenuti insieme da un insignificante
elastico azzurro che le dava un’aria da bambina, circondata dai
manifestanti che le sfilavano a fianco lungo via Achernon,
davanti il Plaza Hotel, che camminava fiera, orgogliosa come
una leonessa con in braccio la bandiera rosso/nera; una
bandiera che per le sue esili braccia di donna era troppo
pesante e che la faceva barcollare come un’ubriaca portandola
ad urtare involontariamente prima di qua poi di là i compagni al
suo fianco pronti ogni volta a sorriderle divertiti, comprensivi:
non-ti-scusare-non-c’è-problema-sbandiera-sbandiera.
In un certo qual modo, quell’enorme bandiera la faceva
sembrare agli occhi di tutti più piccola e dolce ancora di quanto
in realtà non fosse… e se non ho la certezza che proprio a tutti
sembrò piccola e dolce, perlomeno posso giurare che Nikos
quel giorno sostenne d’aver visto una-dolcissima-bambinaguerriera-dolcissima-dolcissima.
Nikos amò sconfinatamente Pola fin dal primo momento che la
vide. Ad ascoltarlo parlare era facile lasciarsi convincere che
Pola
doveva essere una sorta d’eroina. Una specie di
amazzone dell’isola Paradiso uscita dai racconti dell’illuminato
poeta inglese esperto in fatti d’amore, messa lì a pochi metri
da lui di proposito da un dio molesto, dispettoso, che non
trovando altro modo di scacciar la noia aveva deciso di
osservarlo impazzire. Un dio che per divertirsi aveva deciso di
vedere Nikos colpito da un incantesimo che l’obbligava a
guardarla rapito dal desiderio d’amarla e d’essere da lei amato
all’infinito senza poterla avvicinare. Un dio che rideva
guardando Nikos diventare incapace di distogliere anche solo
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per un breve momento lo sguardo da lei; che rideva guardando
Nikos che urtava i compagni e le compagne al suo fianco pur di
non perdersi un solo istante della bellissima bambina guerriera
che sbandierava e ruggiva insieme e più di tutti gli altri no-nonio-non-in-mio-nome-non-la-guerra!-no-non-io-non-in-mio-nomenon-la-guerra!
Per tutto il percorso della manifestazione fino alla sede del
consolato USA in piazza Mavili dove finalmente ci fermammo
tutti, Nikos, che ancora un pò e si sarebbe visto esplodere il
cuore in petto, non faceva che guardarla continuando a
ripetere
una-dolcissima-bambina-guerriera-dolcissimadolcissima-una-dolcissima-bambina-guerriera-dolcissimadolcissima.
Di lì a poche settimane Nikos sconfisse anche quel dio
dispettoso e il suo perfido incantesimo. L’impossibile divenne
possibile: Pola era la sua donna, la sua fidanzata, la sua
amante, la sua compagna, la sua dolcissima-bambinaguerriera-dolcissima-dolcissima.
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CAPITOLO 8
Gli anni passarono, le lotte continuarono. In giugno, a
Salonicco, partecipò, con Pola al suo fianco, agli scontri in
occasione della riunione dei leader dell’UE. In settembre, dopo
gli arresti che avevano smembrato l’organizzazione dei
compagni delle Cellule di Fuoco, Nikos si riunì insieme a Pola,
Lambros e Kostas in un bar a Gizi, poco lontano da piazza
Argentinis, a due minuti dal Parco di Ares. Dopo un breve ma
infervorato discorso pronunciato da Nikos, Kostas, arruffandosi i
capelli, in tono diretto, a bruciapelo, gli domandò:
<<E il nome? Il nome! Hai pensato al nome? Dovremo pur farci
chiamare in qualche modo>>. Nikos sorrise felice come un
bambino. Non aspettava altro. Aveva fatto tutto quel discorso
solo per sentirsi porre quella domanda.
<<Certo che ho il nome>>. Rispose.
<<Epanastatikos Agonas, Lotta Rivoluzionaria. È tutto ieri che
ne parla>>. Disse Pola rivolgendosi a Kostas. E subito aggiunse
con un’ironia affettuosa, punzecchiandolo scherzosamente:
<<Ne ha parlato così tanto che mi ha già rotto le scatole con
questa Lotta Rivoluzionaria>> e così dicendo scoppiò a ridere
divertita insieme a Lambros.
Nikos però non si fece prendere in giro. Rimase al gioco e
sorridendo, alzando il bicchiere per brindare, concluse:
<<È il nome giusto, fidatevi. Epanastatikos Agonas, Lotta
Rivoluzionaria. Jamàs, alla salute>>.
<<Jamàs>> risposero gli altri in coro.
Il cinque dello stesso mese due bombe esplosero nei tribunali
della ex accademia. Un poliziotto rimase leggermente ferito.
Lotta Rivoluzionaria rivendicò l’azione.
42
CAPITOLO 9
Non c’è da meravigliarsi, dopotutto, che le forze di polizia non
siano composte da quegli uomini senza macchia disegnati dalla
propaganda, sia essa volontaria o non volontaria, dei film
hollywoodiani. Solamente un idiota, uno sciocco o un ingenuo
può pensarlo veramente. La verità è che il poliziotto, come
chiunque altro, o quasi, è un uomo che quando l’occasione
glielo permette è felicissimo di vendicarsi con il suo nemico. E il
nemico naturale del poliziotto, ancor prima dell’operaio, è
certamente il rivoluzionario, il ribelle. Ed è appunto naturale
che sia così. Uno, il poliziotto, è un automa che esegue gli
ordini a qualsiasi costo, anche se non vorrebbe o non è
d’accordo perché convinto, o di far comunque la cosa giusta (il
ché da l’idea della confusione mentale in cui vive) o di non
essere capace di comprendere cosa sia giusto in modo
autonomo – cosa che l’obbliga conseguentemente a doversi
affidare a qualcun altro più-in-alto-di-lui-che-sa-tutto-sa-tuttolui-sa-tutto (il ché personalmente mi rattrista moltissimo); il
secondo, il rivoluzionario, il ribelle, invece semplicemente non
riesce a concepire il concetto di sottomissione volontaria ed è
quindi tutto fuorché un automa, tutto tranne una pedina di un
gioco come potrebbe essere quello degli scacchi, ed è quindi
sintomatico che i due, per natura diversi, uno pedina
sacrificabile d’un gioco giocato da altri, e uno impegnato a che
gli uomini cessino di farsi usare come inanimate pedine d’un
gioco da tavolo, si trovino sempre a provare una reciproca
antipatia, quasi la natura volesse così per scelta, per così dire,
d’un certo stile estetico. Sarebbe perciò imbecille usare un tono
indignato, scandalizzato o falsamente sorpreso per raccontarvi
questo episodio della vita di Nikos. Dubito pure ci fosse dietro
un disegno particolarmente congegnato; e se anche ci fu, la
cosa non dovrebbe sorprendere. Nikos lo aveva detto di essere
in guerra, lo aveva accettato. In-guerra-non-c’è-uomo-che-nonsoffra-e-se-io-soffro-è-perché-combatto.
43
D’altra parte in guerra, in tutte le guerre, c’è sempre un nemico
che si difende, che attacca, che complotta, insomma che
combatte contro di voi in quella guerra. E’ ovvio. Altrimenti, è
inutile dirlo, senza un nemico che vi combatte, non ci sarebbe
alcuna guerra, alcuno scontro. Sareste solamente dei folli, degli
spostati. Ma Nikos non è Don Chisciotte e questo non è il nostro
caso. La guerra c’era, era stata dichiarata. I morti, i feriti, i
prigionieri non mancavano. La si stava combattendo da tempo.
Nikos aveva solo deciso di parteciparvi, di non restare a
guardare immobile senza far nulla per vincerla, e quindi
fermarla, perché vincere una guerra significa anche farla finire,
significa soprattutto farla finire.
E allora quel giorno, quando quelle quattro moto spuntarono
dal nulla e lo inseguirono minacciose per una decina di
chilometri per poi farlo cadere a terra (anche Nikos era in sella
ad una moto) con l’intenzione d’ammazzarlo, non solo non
deve sorprendere o scandalizzare, ma non ci deve nemmeno
far indignare più di tanto dato che, come abbiamo detto sopra,
il poliziotto, come quasi tutti gli uomini, quando gli si presenta
l’occasione, è ben felice di vendicarsi con il suo nemico. È la
guerra, sant’iddio! Di che vi meravigliate?! In-guerra-non-c’èuomo-che-non-soffra-e-se-io-soffro-è-perché-combatto.
Con tutta probabilità dovevano essere quelli dell’antiterrorismo. Lo si poteva intuire dal loro modo di guidare così
capace, professionale, così spericolato e audace, quasi che
appunto fossero abituati a quel genere di manovre. Fermare
qualcuno in moto con una moto non è semplice come farlo con
una macchina. Se poi l’intenzione è quella di farlo finire fuori
strada le cose si complicano ulteriormente perché se non stai
bene attento fuori strada ci vai anche tu, e in moto chi può dirlo
come va a finire? Ecco perché dico che erano dell’antiterrorismo: nessuno poteva fare quello che fecero loro senza
finire contro un muro a centocinquanta chilometri orari.
Nikos guidava una di quelle moto che oggi definiremmo un
oggetto d’antiquariato e che già allora, se non propriamente
d’epoca, la si poteva definire, usando un eufemismo,
comunque abbastanza vecchia da fare gola ad un qualche
collezionista precoce. Un notevole vantaggio per le quattro
moto, ben più moderne, che lo inseguivano, non pensate anche
voi? Era lenta e impacciata in confronto a qualsiasi altro mezzo
a due ruote, e a quelle quattro Honda fiammanti, agili come
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gatti e veloci come siluri, sopra ogni cosa. Era una moto Guzzi
del ’76. L’aveva chiesta in prestito a Lambros perché voleva
portare Pola fuori città a-vedere-un-po-di-Grecia-e-poi-te-lariporto-solo-un-po-di-Grecia, e Lambros, che era quel genere di
persona che ti avrebbe prestato un braccio se solo avesse
trovato il modo di riattaccarselo una volta riavuto indietro, non
esitò un momento a rispondergli si-certo-prendila-pure-vadove-vuoi-dove-vuoi-compagno-si-certo-prendila-pure-solo-staattento-è-vecchia-un-po-vecchia.
Erano da poco passate le due del pomeriggio, le strade erano
deserte come solo in Grecia possono esserlo dalle due del
pomeriggio fino alle sei della sera. Il giorno dopo avrebbe
caricato Pola sul sedile di dietro, e poi via a-vedere-un-po-diGrecia-solo-un-po-di-Grecia. Fu un colpo di fortuna, tutto
sommato, per entrambi, Pola e Nikos, e forse pure per Lambros,
che Nikos volle provarla prima di partire per quel breve viaggio
per vedere-un-po-di-grecia-solo-un-po-di-grecia insieme alla
sua dolcissima-bambina-guerriera-dolcissima-dolcissima. Se vi
fosse stata a bordo anche lei credo che sarebbe finita molto
peggio di come in realtà andarono le cose. Una moto così
vecchia non è facile da controllare, soprattutto se la guidi sulle
strade bagnate di gennaio e non sei solo. Il peso di una
seconda persona, specialmente se inesperta, sbilancia
terribilmente anche il guidatore più capace. E Nikos, come del
resto Pola, non era esattamente un pilota capace. Era invece
abbastanza goffo. Anzi direi proprio imbranato. Uno di quelli
che si becca così tanti colpi di clacson dagli automobilisti
imbestialiti in una giornata in moto in giro per la città che la
sera gli sembra di essere tornato dallo Stadio invece che dal
suo giro, tanto è rincretinito.
Iniziarono a pedinarlo appena svoltò in piazza Omonia, una
sorta di gigantesca rotonda nella zona più cosmopolita e
pittoresca di Atene piena di piazze piccole e grandi, vie
trafficate, taxi gialli e gente che va di fretta scartando i
venditori ambulanti tra le merci freschissime che riempiono i
banchi dei mercati generali. Sarebbe bastato uno sguardo
veloce per capire che quelle quattro moto non erano lì per
caso. Mancavano solo i lampeggianti, ma per il resto, messi in
posizione di ‘combattimento’ com’erano, due avanti due dietro,
era chiaro come il sole che si trattava di poliziotti in borghese.
Nikos andava in direzione di piazza Karaiskaki lungo via Agiou
45
Konstantinou, dove ha sede il Teatro Nazionale, quando capì
che qualcosa non andava:
<<Merda!>>.
Era abituato a quei pedinamenti. Era dal 2001 che non lo
mollavano un momento. Che se ne andassero al diavolo. Poi
però qualcosa lo insospettì. Iniziò a lanciare occhiate nervose
negli specchietti retrovisori, prima quello di destra, poi quello di
sinistra e di nuovo quello di destra. <<Merda! Merda! Merda!
>>. I quattro viaggiavano a circa un centinaio di metri da lui,
visibilissimi perché sulla strada deserta erano le uniche cose
che si muovessero. Non v’era dubbio che ce l’avessero con lui e
che le intenzioni non erano buone. Era tutto troppo evidente.
Troppo chiaro. Se accelerava, loro acceleravano; se decelerava,
loro deceleravano. <<Merda! Merda! Merda! Perché non mi
fermano?>>. Giunto a piazza Karaiskaki si fermò al semaforo
rosso. Lo sguardo fisso avanti, immobile. Convinto che almeno
lì lo avrebbero fermato per arrestarlo, chiuse gli occhi e ripensò
intensamente ai momenti passati con Pola, la sua bellissimabambina-guerriera-bellissima-bellissima. Dopo poco arrivarono
anche le quattro moto con in sella i poliziotti in borghese. Due
alla sua sinistra, due alla sua destra, gli occhi fissi su di lui,
impudenti, provocatori. <<Merda! Merda! Merda!>>. Non
avevano alcuna intenzione di mettergli le manette, adesso era
chiaro. Senza aspettare il verde Nikos provò a prenderli di
sorpresa e partì contro mano a tutta velocità facendosi quasi
investire da un camioncino guidato da un vecchio coi capelli
bianchi che placidamente ignaro di tutto se ne andava per la
sua strada e che nemmeno si accorse di lui. Prese Achileos
boulevard in direzione Peristeri. I quattro lo imitarono e già gli
erano di nuovo attaccati al culo. <<Merda! Merda! Merda!>>.
Sfrecciavano tutti e cinque ad almeno centotrenta chilometri
all’ora. Non c’era modo di seminarli in quel rettilineo, gli
serviva un’idea. Ma quale? Preso dall’adrenalina aveva scelto
una strada del cazzo senza pensare. E una strada più del cazzo
di quella non c’era in tutta Atene. Achileos boulevard è una
delle sette arterie principali della città. Praticamente si era
immesso in una fottuta pista da Formula Uno. Era fottuto.
Impossibile seminarli con quella merdosissima moto Guzzi del
’76. Aprì il gas a martello e come faceva da ragazzino abbassò
la testa, piegò le gambe e come-va-va-fanculo-come-va-vacome-va-va. Centotrenta. Centoquaranta. Centocinquanta.
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Centosessanta. <<Merda! Merda! Merda!>>.
Centosessantacinque. Centosessantasei. Centosessantasette.
<<Merda! Merda! Merda!>>. Passando sopra i binari, con i
quattro alle calcagna e il motore che urlava di dolore, sentiva di
non avere scampo. Doveva uscire da quella strada del cazzo.
<<Via da questa strada del cazzo! Merda! Merda! Merda! Che
idea di merda! Che idea di merda!>>. Arrivato all’incrocio di
quella che ora, superati i binari, da Achileos boulevard cambia
il nome in Athinon Boulevard svoltò in Pasti Spyrou Boulevard e
subito in via Naoussis. La strada si stringeva ad ogni metro che
percorreva. Da una cazzo di pista di Formula Uno era ora
passato ad una bastardissima via del centro. <<Merda! Merda!
Merda! Che idea di merda! Che idea di merda!>>. Nel
frattempo continuava a lanciare occhiate nervose agli
specchietti retrovisori, prima quello di destra, poi quello di
sinistra e di nuovo quello di destra. <<Merda!>>. I quattro gli
erano sempre dietro, non lo avevano perso per nemmeno un
secondo. <<Che cazzo vogliono? Merda! Che cazzo vogliono?
>>. Svoltò in via Pelis e di nuovo in via Koritas ed eccolo
ancora in Kostantinoupolos boulevard, un’altra cazzo di pista da
Formula Uno alla sinistra dei binari della vicina stazione
Larissis. <<Che idea di merda! Che idea di merda!>>. Il primo
dei quattro, forse stufo di giocare come il gatto col topo, prese
l’iniziativa e con una specie di balzò lo raggiunse in un attimo.
Era presto detto cosa volessero da lui. Il poliziotto in borghese
iniziò quella che sembrava una macabra danza della morte
attorno a Nikos. Enas-theo-treis-un-due-tre-un-due-tre. E di
nuovo enas-theo-treis-un-due-tre-un-due-tre. Ad ogni manovra
lo spingeva sempre più pericolosamente vicino al guardrail che
scintillava affilato come la lama di un coltello. << Merda!
Merda! Merda! Questo vuole decapitarmi! Merda! Merda!>>.
Gli altri tre seguirono l’esempio del primo e cominciarono a fare
altrettanto. Enas-theos-treis-un-due-tre-un-due-tre. E di nuovo
enas-theos-treis-un-due-tre-un-due-tre. Visti dalla strada Nikos
e i quattro poliziotti in borghese dovevano sembrare delle
schegge impazzite pronte a esplodere da un momento all’altro.
Centotrenta. Centoquaranta. Centocinquanta. <<Merda!
Merda! Merda!>>. Centocinquantacinque. Centocinquantasei.
Centocinquantasette. <<Merda! Merda! Merda!>>.
All’improvviso, l’idea. A ripensarci, non fu poi così un'idea di
merda. L’Inter-city Atene-Salonicco delle 12 e 04 di quel giorno,
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come spesso accade in Grecia, era partito con tre ore e mezzo
di ritardo e ora correva di pari passo con le cinque schegge
impazzite. Era l’occasione che cercava. All’incrocio tra
Kostantinoupoleos boulevard e Iera Odos boulevard in uno
strider di freni dei suoi inseguitori si lanciò ad occhi chiusi nel
bel mezzo del passaggio a livello urlando come-va-va-fanculocome-va-va-fanculo-fanculo-fanculo e, sa dio come,
miracolosamente riuscì a passarlo schivando d’un soffio il treno
che incombeva su di lui lasciando indietro i quattro. Era salvo.
Né-né-né-si-si-si-fanculo-fanculo-fanculo. Ma lo abbiamo detto
che Nikos non era un grande pilota, era piuttosto goffo. Anzi
proprio imbranato. E difatti, non appena superata la seconda
sbarra, voltandosi indietro per immortalare nella sua memoria
l’impresa in cui era riuscito (e dio solo sa come ci riuscì Nikos a
fare una cosa del genere), mentre sorrideva soddisfatto di sé,
tolse il braccio dal manubrio in segno di esultanza e cristo-cheidea-di-merda-che-idea-di-merda perse il controllo della moto
finendo rovinosamente a terra in un botto micidiale. Quando il
passaggio a livello fu di nuovo libero, i quattro, vedendo Nikos
spiaccicato sull'asfalto, svenuto, inerte, senza nemmeno
andare a controllare, probabilmente pensando di aver portato a
termine con successo il loro lavoro, ripartirono dissolvendosi
nell’orizzonte del deserto cittadino.
**
Dalle finestre del pronto soccorso dell’ospedale Evangelismos si
riescono a intravedere i fili della teleferica che salgono fino ai
piedi dell’Agios Giorgios, la basilica di fine settecento che sta in
cima alla collina del Licabetto.
Intorno a Nikos, in mezzo al via vai di gente, sistemato su di
una barella lungo il corridoio, oltre a sua madre e a suo padre e
a suo fratello, c’era Pola che lo guardava fisso senza dire una
parola.
I medici avevano detto che era stato-più-fortunato-d’unpolitico-un-politico!-avrebbe-potuto-rompersi’l’osso-del-collo-einvece!-più-fortunato-d’un-politico-un-politico! Nikos, tutto
vispo, come risorto, allegro come un bambino che si è
sbucciato un ginocchio cadendo dalla bicicletta e invece di
lagnarsi e piangere ride divertito, non riusciva a fare a meno di
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sorridere come un idiota mentre lo raccontava: I-medici-handetto-che-sono-stato-più-fortunato-d’un-politico-un-politicocapite?-un-politico!
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CAPITOLO 10
Alle 7 e 45 minuti, ogni mattina, da quarantacinque anni a
questa parte, dal lunedì al venerdì, il sovrintendente ispettore
capo Papathanasakis, classe 1949, una specie di ragnetto alto
un metro e uno sputo con due piccoli e folcloristici baffettini da
dittatore sotto il naso e la faccia perennemente contratta in
una smorfia, entra nell’edificio dietro il Politecnico in via
Bubulinas con sotto il braccio una copia appena stampata del
Kathimerini, attraversa l’enorme e squallida sala d’attesa
all’ingresso, e alle 7 e 46 è già dentro in ascensore che fuma
avidamente una sigaretta. Sale fino al 12° piano. Alle 7 e 49,
dopo aver percorso svelto, ben saldo al corrimano, una decina
di metri di corridoio senza salutare nessuno, apre la porta del
suo ufficio, entra, poggia il giornale sulla sua ordinatissima e
pulitissima scrivania e alza la cornetta del telefono:
<<Signorina Tsirca, il mio caffè>>.
Alle 7 e 55 la signorina Tsirca entra ciondolando nell’ufficio del
sovrintendente ispettore capo Papathanasakis e gli serve la sua
tazza di caffè, rigorosamente senza zucchero.
<<Senza zucchero?>>.
<<Senza zucchero!>>.
Alle 8 precise, cascasse il mondo, per il sovrintendente
ispettore capo Papathanasakis comincia il turno di lavoro. Sono
quindi vietate ai suoi uomini: telefonate personali e/o di
famigliari (tranne per le emergenze, le quali diventano tali
previa valutazione del sovrintendente ispettore capo
Papathanasakis in persona), le bevande di qualsiasi genere
(comprese le bevande alcoliche, ovviamente), il consumo di
ogni genere di cibo (non fa differenza se greco o straniero), le
pause eccessivamente prolungate al bagno (pause che non
possono durare più di cinque minuti), argomenti come il calcio,
la moglie e la suocera. Naturalmente tutto questa vale anche
per il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis, il quale
non ha né moglie né suocera e non ha il minimo interesse per il
calcio. Comunque sia il sovrintendente ispettore capo
Papathanasakis queste regole le ha sempre prese, e prende
ancora, molto seriamente. Dal 1987, a trentotto anni, quando
venne promosso sovrintendente ispettore della squadra
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antiterrorismo di Atene Nord con 15 uomini ai suoi ordini, ad
oggi, sovrintendente ispettore capo della squadra
antiterrorismo di Atene e provincia con 200 uomini sotto di lui,
Papathanasakis non ha mai dico mai disatteso ad una sola di
queste regole. Qui-si-serve-la-Grecia-signori-la-Grecia! si sente
brontolare da dentro l’ufficio di Papathanasakis quando
rimprovera uno dei suoi reo di aver disatteso ad una di queste
regole. E per fare capire bene all’interessato che non tollererà
un errore di più, è solito aprire la porta, mettersi sulla soglia e,
rivolgendosi a tutto l’ufficio, grugnisce col tono più autoritario
che gli riesce: Esigo-rispetto-per-il-mio-paese-signori-rispetto!
Papathanasakis entrò in polizia il 7 settembre 1971, all’età di
22 anni. Aveva una passione così sfrenata per i colonnelli che il
24 Luglio 1974, quando Papadoupolos si dimise in seguito al
fallito golpe di Cipro, scoppiò in lacrime come feci io quando i
cani-cani-cani-maledetti-cani portarono via Nikos da via
Themistokleous per poi sparire in via Kalimandrou mentre gli
voltavo le spalle per la paura di esser riconosciuto.
Oggi il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis ha
sessantacinque anni e fra quattro avrà raggiunto l’età utile per
la pensione. La pensione il sovrintendente ispettore capo
Papathanasakis la passerà nella sua casa-al-mare-di-Kissamoscostatami-sudore-e-sague-sudore-e-sangue, una città di
undicimila abitanti nella parte nord occidentale dell’isola di
Creta.
All’epoca dei fatti il sovrintendente ispettore capo
Papathanasakis aveva cinquantaquattro anni e una leggera
infatuazione per la signorina Tsirca, che all’epoca ne aveva
trentasette e quattro figli e oggi lavora come impiegata alle
Poste.
Il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis come primo
incarico nel 1972 aveva l’ordine di sorvegliare le discussioni
degli alunni nell’ora di ricreazione, e ancora oggi dal suo ufficio
al 12° piano di via Bubulinas non si spiega per quale motivo
tale pratica sia stata abolita. Questi-piccoli-delinquenticonfabulano-come-confabulavano-nel’71-fidatevi-fidatevi-io-loso-li-vedo-li-vedo-per-l’amor-di-dio-fidatevi-io-lo-so. Comunque
il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis ogni mattina,
dalle 10 fino alle 10 e 15, per sicurezza, passa ancora in
rassegna tutti gli studenti del Politecnico con il suo
cannocchiale modello Redfield di marca americana perché-gli-
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americani-fanno-tutto-meglio-tutto-meglio-fidatevi-fidatevi-iolo-so-fanno-tutto-meglio!-ma-soprattutto-fanno-meglio-icannochiali.
Quel pomeriggio il sovrintendente ispettore capo
Papathanasakis era rimasto in ufficio fino alle 19 costringendo
la signorina Tsirca a due ore di straordinario non pagato. Il
turno di lavoro della signorina Tsirca come quello del
sovrintendente ispettore capo Papathanasakis comincia alle 8 e
finisce alle 17 e 30. La signorina Tsirca stava per andare a
chiedere il permesso di andare a casa per preparare la cena ai
suoi bambini quando l’ascensore si aprì e il sergente Margellos
seguito dai sergenti Mantzounis, Stamos e Kanellopoulos con
l’aria di chi ha fatto bene il suo lavoro, tenendo ben stretti ai
fianchi i caschi da moto, le domandarono se era possibile
vedere il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis.
La signorina Tsirca non fece in tempo a riaccomodarsi alla sua
scrivania dopo aver fatto accomodare i quattro militari
nell'ufficio di Papathanasakis che subito la porta si spalancò di
nuovo.
D’accordo-d’accordo-endaxi-endaxi. La signorina Tsirca, sentita
la voce del suo capo, si alzò dalla sedia e, guardandosi la punta
delle scarpe, rimase in attesa di ordini. Papathanasakis però
non aveva alcunché da dirle. Parlava ai suoi uomini. D’accordod’accordo-endaxi-endaxi-tornate-domattina-siete-stati-bravi!bravi!-fidatevi-io-lo-so!-ne-riparleremo-domattina-d’accordod’accordo-endaxi-endaxi-buonasera-kalispera-buonasera.
I quattro sergenti sfilarono davanti la signorina Tsirca,
scartarono le poltroncine di falso cuoio lungo il corridoio,
risalirono in ascensore, ed ecco che il disadorno 12° piano di
via Bubulinas tornò ad essere occupato solamente dalla
signorina Tsirca, da Papathanasakis e dal ritratto del Presidente
della Repubblica.
Papathanasakis, prima di sparire nuovamente nel suo ufficio, si
rivolse alla signorina Tsirca:
<<Mi chiami l’ambasciatore americano>> e ciò detto eccolo
che nuovamente si rintanò come una tartaruga nel suo guscio.
La signorina Tsirca, invece, amareggiata per non aver avuto
ancora il permesso di andare, osservò la porta richiudersi con
una punta di fastidio. Appena la porta si chiuse, ella,
scimmiottandolo e scuotendo la testa come un pupazzo, ripeté
le parole appena pronunciate da Papathanasakis:
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<<Mi chiami l’ambasciatore americano… >>.
E tutta infastidita, nervosamente:
<<È venerdì sera, non c’è l’ambasciatore americano! È a cena
l’ambasciatore americano… LUI! I miei figli invece, poveri i miei
bambini… l’ambasciatore americano vuole!>>
E invece, sorprendentemente, dall’altra parte della cornetta
hello?-wait-a-second-please l’ambasciatore c’era.
La signorina Tsirca quella sera perse l’autobus e non riuscì ad
arrivare in tempo a casa per preparare la cena ai suoi bambini.
CAPITOLO 11
La coerenza è come una linea retta che ha principio ma non ha
fine. Essa prosegue fintanto che prosegue la coerenza. Al
contrario nel momento in cui si cessa di essere coerenti la linea
si ferma, smette di crescere, e non si muove più: si immobilizza
in attesa di ripartire.
Per alcuni coerenza è sinonimo di ottusità, per altri di agilità. La
maggioranza però pende per l’ottusità come sinonimo di
coerenza. È un errore comune, e non c’è motivo di
vergognarsene. Tendere a credere erroneamente che essere
coerenti significhi trincerarsi dentro il proprio spazio di vedute,
e lì attendere che il mondo s’accorga di noi, della giustezza del
nostro credo e delle nostre profezie succede più di qualche
volta ad ognuno. Credere erroneamente che così facendo
presto o tardi altri verranno a farci compagnia dentro la trincea,
e la trincea da trincea diverrà mondo e il mondo da mondo
diverrà un’enorme Sodoma per eretici incoerenti è
umanamente comprensibile. Per alcuni essere coerenti significa
questo. E allora forse, più di qualcuno, da qui fino alla fine del
libro taccerà Nikos di incoerenza. Dirà che Nikos non seguì la
sua stessa linea. Che è un ipocrita incoerente. Un traditore dei
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suoi stessi principi sacri. Dirà che rivolgersi all’autorità che lui
stesso definiva illegittima per denunciare pubblicamente il suo
tentato omicidio non può che delegittimarlo; non può che
dimostrare come egli stesso non crede in quel che dice perché
in un momento di pericolo per la sua vita non ha trovato di
meglio da fare che domandare aiuto a quelli che lui stesso
definiva i carnefici-da-evitare-ad-ogni-costo!-ad-ogni-costo! E
una volta detto ciò si trincererà dentro il suo proprio spazio di
vedute in attesa che il mondo s’accorga di lui, della giustezza
del suo credo e delle sue profezie.
La coerenza però è come una linea retta che ha principio ma
non ha fine. Essa prosegue fintanto che prosegue la coerenza.
Lungi dal sotterrarsi in una buca, la coerenza prosegue per la
sua strada qualsiasi cosa accada, qualsiasi ostacolo le si ponga
davanti. Anche se proseguire significa passare attraverso un
muro chiamato compromesso. Anche se proseguire significa
usare il nemico a proprio vantaggio. Perché la coerenza è come
una linea retta che ha principio ma non ha fine. Essa prosegue
fintanto che prosegue la coerenza. E l’unico modo che aveva
Nikos per dimostrarsi coerente agli occhi della storia, per
continuare a far crescere la sua linea senza sotterrarla in una
buca, era quello di testimoniare l’incoerenza del suo avversario.
Un avversario che dell’incoerenza ha fatto il suo metodo
educativo. Un avversario che impone leggi e regolamenti e che
poi non li rispetta, se non quando gli fa comodo e solo se gli fa
comodo.
E-al-diavolo!-io-il-mondo-non-l’aspetto-gli-vado-incontro!-sequelli-che-hanno-scambiato-la-coerenza-per-ottusità-dirannoche-ho-sbagliato-sono-solo-degli-inutili-idioti-inutili-idioti!-io-ilmondo-non-l’aspetto-gli-vado-incontro! Questo rispondeva
Nikos a chi gli domandava con che coraggio fosse andato lui,
anarchico, a denunciare il fatto dentro una centrale di polizia.
Se non fosse stato per Pola però Nikos non ce lo avrebbe voluto
raccontare mai. Non lo avrebbe fatto mai. Neppure se glielo
avessimo chiesto implorandolo. Neppure se facendolo sarebbe
stato d’aiuto a qualcun altro. Il motivo è piuttosto sciocco se
volete, anzi, molto più che sciocco. Forse addirittura stupido.
Profondamente stupido. Ma Nikos aveva allora, e ancora oggi lo
mantiene, un codice d’onore tutto suo che gli vieta di
descriversi come vittima quasi che ammetterlo comporti
un’altra sconfitta, un altro dolore, un altro soffrire; e sarebbe
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quindi rimasto volentieri in trincea come quegli altri inutiliidioti-inutili-idioti-diavolo-che-idioti e di sua spontanea volontà
alla centrale di polizia non ci sarebbe andato nemmeno morto.
Sono-carnefici-da-evitare-ad-ogni-costo!-ogni-costo!
Ma adesso c’era Pola a chiederglielo. Era la sua dolcissimabambina-guerriera-dolcissima-dolcissima che lo implorava.
<<Sei un maledetto idiota Nikos… non hai scelta ti dico… Se
non mi ascolti e non li denunci… ascoltami! Come pensi che
farà la gente a sapere cos’hanno tentato di fare quei cani, eh?
Me lo spieghi? Non capisci… cazzo non capisci che decidendo
di combattere ti sei assunto la responsabilità di fronte alla
rivoluzione di testimoniare ogni loro mossa a qualsiasi costo?
Anche a costo di andare contro i tuoi stessi principi… sì, stupido
idiota… anche a costo di usare i loro metodi. Che tu lo voglia
ammettere o no, oggi sono loro che scrivono la storia. Sono i
loro documenti che vengono studiati. Sono le loro dichiarazioni
che vengono ricordate. Se non farai formale denuncia… cazzo,
lo so che non vuoi! Lo capisco… ma se non farai formale
denuncia domani loro negheranno e poi… Mi ascolti?… poi la
rivoluzione avrà perso un occasione per dimostrare l’incoerenza
dei padroni… è tuo preciso dovere Nikos. Ascoltami! Non hai
scelta.>>
Mentre Pola parlava Nikos era pallido, come colpito da una
specie di torpore. Non rispondeva. Non reagiva. Lo sguardo era
assente. Qualcosa lo inquietava violentemente. Sembrava non
aver sentito una sola parola di quanto gli aveva detto Pola. Poi
d’un tratto le mani cominciarono a tremargli. Una specie di tic
nervoso s’impossessò del suo labbro inferiore. Stavano seduti
attorno al tavolo della cucina della casa di Pola, dove
convivevano da un po’, a Kalivia, sopra le colline di Glyfada,
oltre il Monte Imetto, La Montagna Pazza, quando prese a
giocherellare con la sua sbrecciata tazza di caffè. In preda
all’inquietudine, con gli occhi allucinati che gli scintillavano per
la rabbia, si ridestò improvvisamente da quello stato di
dormiveglia apparente come punto da uno spillo e con uno
scatto afferrò il polso di Pola seduta al suo fianco.
<<Quei maledetti cani mi hanno torturato.>> Pola rimase
pietrificata. Non sapeva che dire. E Nikos, capendo di non
essere compreso, come impazzito in risposta strinse ancor più
rabbiosamente il polso di lei. Per quanto Pola si sforzasse di non
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darglielo a vedere, non riusciva a nascondere una smorfia di
dolore.
<<Nikos mi fai male!>>.
<<Mi hanno torturato, capisci? E ridevano… quei cani ridevano
mentre mi torturavano.>> Nikos non la sentiva lamentarsi. Era
completamente assente, sordo, immerso in quei ricordi terribili
che non aveva mai confessato prima a nessuno. E nel mentre,
continuava a stringere sempre più forte. Sempre più forte. Con
sempre più rabbia. Pola provava a divincolarsi ma non ci
riusciva.
<<Mi fai male, Nikos! Lasciami>>.
<<Ho festeggiato il mio ventiseiesimo compleanno in una cella
senza né aria né luce. Ora ti è più chiaro?>>. <<Non c’era un
bagno o un buco dove poter fare i miei bisogni… a mano a
mano che passava il tempo la cella si ricopriva di escrementi…
la puzza era insopportabile. L’unico rimedio che avevano
pensato di adottare… e bada bene che non lo facevano per me
ma per loro perché…>> Nikos come stordito fece una breve
pausa, poi riprese il racconto. <<Li sentivo lamentarsi… cristo,
non lo dimenticherò mai! Si lamentavano perché la puzza era
così forte che attraversava i muri…>>.
<<Mollami Nikos! Mi fai male>>.
<<L’unico rimedio che avevano escogitato era una guardia che
a turno… li sentivo che se lo giocavano a sorte quei porci… e
poi imprecavano quando perdevano! Cominciavano a strillare
di tutto… e poi se la prendevano con me…>>. Sbatté il pugno
sul tavolo con una violenza inaudita terrorizzando Pola, che di lì
in avanti non fece più resistenza e si zittì del tutto.
<<Ascoltami! Era incaricata… una guardia era incaricata di
rovesciare sul pavimento un secchio pieno d’acqua ogni cinque
o sei ore… l’unico risultato che ottenevano quei cani era che
l’aria diventava più irrespirabile ancora e… cristo… l’odore si
faceva così fetido… così fetido>>.
<<In estate la cella diventava così rovente che… >> Nikos
s’interruppe. Tremava come una foglia ma si vedeva che era
deciso a continuare a tutti i costi, a vomitare fuori ogni cosa.
<<Che…>> con un filo di voce gli suggerì Pola con le lacrime
che gli rigavano le guance, invitandolo a continuare cercando
come poteva di infondergli il coraggio necessario nonostante
l’insopportabile dolore al polso. E intanto lo esaminava
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disperatamente. Era come se non lo conoscesse affatto. Come
se lo vedesse veramente per la prima volta solo ora.
<<Che… che… Cristo! Che per cercare un po’ di sollievo…
Cristo!>>. Il dolore e la collera toglievano le parole di bocca a
Nikos.
<<Ti prego continua. Dimmi cosa succedeva.>>.
<<La cella diventava così rovente che… mi dovevo stendere
nudo sul pavimento, capisci?! Mi stendevo sul mio piscio e sulla
mia merda per trovare un pò di sollievo... per non crepare dal
caldo… lo capisci questo? Lo capisci?! e rimanevo così sporco
per giorni… a volte per settimane. E loro ridevano… ridevano
quei cani… per loro tutto faceva ridere. Quei sadici si
divertivano a vedermi soffrire… Si divertivano a sbattermi la
testa contro il muro… Si divertivano a bruciarmi con le
sigarette! Si divertivano… e io dovrei andare dai loro capi?
Andare nei loro uffici con la coda fra le gambe? Per fare che
cosa? Per vederli ridere di nuovo? Per guardare i loro sorrisetti
mentre siedo davanti una delle loro scrivanie come uno
scolaretto pentito in udienza dal preside? Per fare che cosa? eh,
Pola? Rispondi! Ho sacrificato tutta la mia vita per la
rivoluzione… è da quando sono un bambino che faccio la
rivoluzione! Che combatto questi mostri! Che dovere ho io nei
confronti della rivoluzione? Eh? Che dovere, Pola? Che dovere!
Sono io che scrivo la storia… Siamo io e te che scriviamo la
storia… Sono quelli come noi che scrivono la storia… Loro sono
solo un errore della storia! Un maledetto errore del cazzo! In
nemmeno uno dei loro libri si parla di una libertà che non
preveda dei padroni a comandare su dei servi… In nemmeno
una delle loro dichiarazioni si parla del popolo come di un
gruppo di persone costituito da individui capaci di pensare
senza la supervisione di un padrone… sono loro che scrivono la
storia?! Eh, Pola? Sono loro? No, Pola! Non sono loro… Non
scrivono la storia quei maledetti. Loro scrivono la storia dei loro
padri e dei loro nonni, non dei nostri. Loro scrivono la storia che
piace a loro, che li vede sopra di noi, che li vede sopra tutti
quanti… Perché… Perché loro si credono più di semplici
uomini… si credono più di tutti gli uomini… Loro si credono gli
unici uomini, e noi per loro siamo niente. Siamo la loro merda…
E quando hanno finito di cagarci tirano lo sciacquone e tanti
saluti! Per loro noi siamo una banconota in più o in meno… Non
siamo niente per loro! Non sanno un cazzo di cos’è la storia
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quei cani. Fanculo i loro documenti e le loro dichiarazioni… Noi
abbiamo le nostre. Dobbiamo cazzo… dobbiamo avere le
nostre! Questo… è questo il nostro dovere nei confronti della
rivoluzione, Pola! Perché siamo uomini e non merde. Perché
sono solo le merde che non hanno scelta! Gli uomini non sono
nella condizione di non scegliere!! Non lo sono, gli uomini!! le
merde... sole le merde possono prendersi il lusso di non
scegliere!!>> e infine aggiunse come disperando di non esser
compreso ma sperandolo fin dentro l'angolo più buio della sua
anima: <<Come puoi chiedermi una cosa del genere? Come!
>>.
Nikos a quel punto allentò la stretta al polso, esausto, svuotato
di un fardello troppo a lungo tenuto nascosto ad orecchio
umano. Pola, poverina, d’istinto lo ritrasse in cerca di sollievo,
per massaggiarselo, liberarlo dal dolore. Ma se ne pentì
immediatamente. Ritraendo il braccio verso di sé a quel modo
lo aveva ferito, e lo capì. Mortificata per quel suo gesto, seppur
involontario, si sentì delusa da se stessa e da quanto aveva
fatto al suo uomo, seppur lo avesse fatto senza pensare, e,
lentissimamente, silenziosamente come facciamo quando
vogliamo avvicinarci ad un animale selvatico senza spaventarlo
per non farlo scappare, riavvicinò la mano a quella di lui. E
ancor più silenziosamente, lentissimamente, intrecciò le sue
dita a quelle di lui e con tutta la dolcezza di cui era capace gli
disse:
<<Scusa… ho sbagliato. Io… io…>> ancora una volta non
sapeva che dire, come rimediare. Si sentiva impotente.
Avrebbe voluto dirgli che non gli aveva chiesto di andare a
scusarsi o a pentirsi. Che non gli aveva chiesto di sottomettersi
ai suoi aguzzini. Di umiliarsi. Di chiedere scusa per qualcosa
per cui non aveva motivo di scusarsi. No, non glielo aveva
chiesto. Ma come avrebbe potuto? Come? Come poteva dirgli
che tutto quel dolore ora non centrava? Che non aveva nulla a
che vedere con quello che avevano tentato di fare quei
maledetti cani? Come poteva ribattere dopo quanto gli aveva
raccontato? Come si sarebbe sentita lei, al suo posto? Poteva
biasimarlo? Come poteva dirgli che in guerra non c’è uomo che
non soffra e se lui aveva sofferto e continuava a soffrire è
perché stava combattendo? Sarebbe stato crudele. Sì, lo
sarebbe stato. Lo sarebbe stato in modo terribile. E lei, lei che
lo amava. Lo amava fin dal primo momento, fin dal primo
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sguardo. Lo aveva amato fin’anche prima del ciao-sono-Nikospiacere-Nikos. Lo amava in maniera così totale, così assoluta,
così perfetta, così incontrollata. E lei sapeva che lui l’amava
allo stesso modo. Che i sentimenti che Nikos provava per lei
erano sinceri, sconfinatamente sinceri. Colmi d’un amore così
infinito che alcune volte finiva pure per vergognarsi di tutte
quelle esternazioni che arrivavano a sfiorare lo sconveniente
tanto erano esplicite e impudiche. La amava in modo così
carnale, così passionale. Doveva dirgli una cosa così credule?
Poteva? No. Non poteva. Non poteva dirgli nulla di così crudele
in quel momento. Anche se avrebbe voluto. Anche se sapeva di
avere ragione e che lui non aveva scelta. Che l’unica cosa da
fare era andarli a denunciare quei cani. Era quella la cosa
giusta da fare. Ma non ci riuscì. Non volle dirglielo. Non dopo
quanto le aveva raccontato Nikos.
<<Io… perdonami. Non avrei dovuto…>>
Ma inaspettatamente, tra un singhiozzo e l’altro, si sentì
rispondere:
<<Non ti scusare… anzi, sei tu che devi perdonami. Mi sono
comportato come un animale. Mi perdoni?>> e così dicendo le
riafferrò il polso e prese a baciarglielo, a carezzarglielo con
delicatezza in un impeto di tenerezza.
<<Ti ho fatto male, eh? Mi dispiace…>> Pola non disse nulla e
calò il silenzio. Voleva dirglielo che non c’era nulla da
perdonare, che non le aveva fatto poi così male. Che con i suoi
baci e le sue carezze il dolore al polso era scomparso subito,
non-mi-fa-male-amore-non-mi-fa-male. Ma le sembrava che
non ci fosse più nulla da dire. Che dirgli si-amore-mio-tiperdono sarebbe stato come fargli una ripicca, un gesto
stupidamente orgoglioso per rammentargli quel che aveva
fatto e che non avrebbe dovuto fare. Allora sfilò via la mano da
quella di Nikos e come nulla fosse accaduto spinse la sedia
indietro e si alzò da tavola.
<<Dovremmo andare a mangiare fuori questa sera… non mi va
di restare qui. Ho voglia di moussaka. Un bel piatto di sformato
di melanzane e carne a Monastiraki, cosa ne dici? Ti va, Nikos?
All’Eugenia… vuoi? Mi ci porti?>>
**
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Dopo cena, mentre erano ancora seduti al tavolo, visto che a
Pola non andava di tornare subito a casa, decisero di andare a
fare una passeggiata tranquilla tra le bancarelle. Nikos, con
tutta l’innocenza di cui era capace, la teneva per mano già fin
dall’uscita del ristorante in via Voulis, dove si trova l’Eugenia,
quando attraversarono piazza Mitropoleos e percorsero tutta
via Pandrossou fino al muro di Adriano. Lì, mentre
passeggiavano felicemente, spensierati come due adolescenti
al loro primo incontro, iniziarono a cadere le prime gocce.
Dimodoché in breve cominciò a piovigginare una pioggia
finissima, di quel tipo quasi impercettibile al tatto ma che in
pochi minuti, immancabilmente, senza che te ne accorgi,
t’inzuppa ogni volta dalla testa ai piedi. Si tolse la giacca e la
usò a mo’ d’ombrello, tirando sotto anche Pola, che gli sorrise
innamorata. Accelerarono il passo e si ritrovarono in piazza
Monastiraki: l’antico quartiere turco dominato dall’alto dal
candore abbagliante del Partenone (da lassù vi sembra di
tenera Atene in una mano, potete credermi) illuminato dai
giganteschi fari che proiettano contro il-monumento-dalleproporzioni-perfette-guardalo-Pola-guardalo-è-un-monumentodalle-proporzioni-assolutamente-perfette fasci di luce bianca e,
all’interno della piazza, sopra di un vero e proprio mosaico di
piastrelle gialle, rosse, blu e bianche s’intasano i tavoli dei caffè
che senza alcun ordine si mescolano ai banchi del mercato
delle pulci come in un bazar d’Oriente. Alla loro sinistra, sotto i
portici della moschea Tzistarakis, Pola scorse tra la folla di
gente Kostas e Lambros. Li indicò a Nikos con un gesto della
mano, ed insieme, guardandoli, scoppiarono a ridere. I due,
senza curarsi minimamente della pioggia, buffamente,
gesticolando animatamente, agitando i pugni e
immediatamente ritraendoli come pentiti, discutevano, o
perlomeno tentavano di discutere, su non so quale argomento
di-enorme-importanza-lei-non-capisce-è-im-pre-scin-di-bi-le-dienorme-importanza-lei-non-capisce con un incolpevole signore,
un vecchio molto vecchio, vestito solamente di un paio di
pantaloni neri e una camicia bianca e una sciarpa al collo che
al contrario, seduto sugli scalini riparati dall’acqua tutto
indaffarato a costruire il sedile d’una sedia intrecciando della
paglia com’era, indifferente, annuendo di tanto in tanto
distrattamente, non dava loro il men che minimo motivo per
continuare. Non era uno che dava l’idea di voler fare più cose
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contemporaneamente, questo era chiaro. Figuriamoci poi se
aveva voglia di dar retta a quei due, alla pioggia, al suo lavoro
e al freddo tutto in una volta.
<<Cosa succede ragazzi?>> si intromise Nikos divertito
mettendosi al riparo sotto i portici della Moschea insieme a
Pola.
<<Guarda un po’ chi si vede…>> rispose Kostas dopo essersi
voltato, riconoscendolo.
<<…il sopravvissuto!>>. Stupito, riconoscendolo anche lui,
esclamò Lambros. E cessando d’importunare il povero
canestraio che ormai non ce la faceva più a sopportarlo, gli
saltò addosso senza dare a Pola il tempo di mettersi in salvo,
travolgendoli entrambi.
<<E sta’ attento Lambros!>>
<<Principessa…>> si scusò Lambros passandosi una mano fra
i capelli bagnati e assumendo un tono di voce volutamente
ridicolo, facendo un altrettanto ridicolo inchino dopo aver fatto
due passi indietro liberando Nikos da quel suo abbraccio. <<Mi
perdoni! Non l’avevo vista.>>
<<Eh… Me ne sono accorta!>> osservò Pola indispettita.
<<Allora?>> insisté Nikos bonariamente non dando alcun peso
a quanto era appena accaduto, trovandolo al contrario di Pola
assai spassoso <<Che avete da agitarvi tanto?>>
<<Bah… sciocchezze>> rispose Kostas dandosi un contegno
lasciando esterrefatto Lambros.
<<Come sciocchezze?!>> impallidì Lambros tutto sconvolto.
Evidentemente la cosa doveva stargli veramente a cuore.
<<Questo signore sta intrecciando la paglia a rovescio… Lo hai
detto anche tu! vedi?>> e indicò a Nikos il canestraio con un
gesto della mano, il quale, sentendosi chiamato in causa, di
sotto le ciglia controllava cosa accadeva per capire quali
fossero le accuse, e una voltà capite si limitò a scrollar le spalle
in un gran sospiro, infastidito e irritato.
<<Intreccia da destra a sinistra invece che da sinistra a destra!
È sbagliato… bisogna intrecciare partendo sempre da sinistra, o
la sedia verrà tutta storta. È un particolare…>>
<<Im-pre-scin-di-bi-le, ti abbiamo sentito…>> lo canzonò Pola,
prendendosi la rivincita.
<<Lo è! Puoi ben dirlo… è un particolare di enorme…>>
<<E su dai… Lascia perdere! Piuttosto…>> disse Kostas serio
interrompendo Lambros. <<Tuo fratello… è passato di qua
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poco fa con tua madre… ci ha detto dell’incidente di oggi
pomeriggio. Come stai?>>
<<Qualche ammaccatura, niente di più… a proposito,
Lambros… per la moto…>>
<<Cazzate!>> s’irrigidì Lambros. <<Tutte cazzate. Era
vecchia, te l’ho detto… un catorcio… Non ha importanza. Come
stai?>>
<<Un po’ di dolore alla spalla e al ginocchio… Niente di ché.
Passerà.>> e, gravemente, disinvolto, come se fosse la cosa
più naturale e ovvia del mondo, prendendo Pola per mano
concluse: <<Domani vado al G.A.D.A., li denuncio quei
porci.>>
CAPITOLO 12
Il G.A.D.A. è un edificio a sei piani color sabbia in fondo ad
Alexandras boulevard, un enorme strada a sei corsie che sega
Atene in due, la zona est dalla zona ovest e la zona ovest dalla
zona est. Poco più in là, girato l’angolo in via Dimoutselio, c’è
l’ospedale; un edificio enorme anch’esso, ma lui, a differenza
dell’altro, è molto amato dagli ateniesi: la competenza
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dimostrata negli anni dal personale medico parla da sé. Al di
qua dell’Alexandras boulevard, di fronte alla stazione centrale
di polizia (il G.A.D.A.), si trova invece lo stadio di calcio. È
proprio lì, su di una panchina riscaldata da un innocuo sole
invernale, che ritroviamo Nikos inquieto e preoccupato fino al
tormento con un porta documenti sulle ginocchia e la forte
convinzione che i poveri non possono far altro che cercare di
vincere se non vogliono continuare a perdere.
Io-non-ci-entro-lì-dentro-cazzo-cazzo-cazzo-io-non-ci-entro-lìdentro!-quelli-sono-cani-sono-porci-sono-merde-cazzo-cazzocazzo-io-non-ci-entro-lì-dentro!-perché-ho-acconsentito-aquesta-porcata?-cazzo-cazzo-cazzo-non-ci-entro-li-dentro-nonci-entro.
Era il 10 di gennaio del 2004, e l’indomani mattina il
Panathinaikos vinse in trasferta uno a zero sullo Skoda Xanthi.
Io-non-ci-entro-lì-dentro-cazzo-cazzo-cazzo-non-ci-entro-lìdentro-io-non-ci-entro!
E invece ci entrò. E ci entrò a enormi falcate, spavaldo, sicuro,
con la schiena dritta di chi sta andando ad una cena in suo
onore ed è sicuro che tutti lo applaudiranno. Ci entrò
nonostante i bisbigli che sibilavano come fanno le vipere prima
di mordere. Ci entrò nonostante i colpetti di tosse offensivi e le
gomitate hey-guarda!-sssstt-si-l’ho-visto-taci-che-ci-sente.
Percorse sicuro l’atrio, con calma, esponendosi alle loro
occhiatacce malevole.
Arrivato davanti alla guardiola, ad alta voce, scandendo quanto
più chiaramente gli era possibile ogni singola parola per farsi
sentire da tutti, si rivolse ad un giovanotto, un contadinotto
arrivato fresco fresco dal paese, che goffamente dall’altra parte
del vetro si sistemava la divisa che lo impacciava perché di due
o forse tre taglie troppo grande:
<<Devo fare una denuncia>> gli disse Nikos.
<<Si… aspetti… certo… una denuncia… deve… deve andare…
aspetti… sì… deve andare al secondo piano, certo, al secondo
piano. Prenda quell’ascensore laggiù in fondo e poi giri a
sinistr… no… aspetti… a destra… giri a destra>> non lo aveva
riconosciuto. Forse nemmeno sapeva che Nikos era Nikos. Uscì
da quella sottospecie di acquario senz’acqua, doveva essere il
suo primo giorno, e servizievole, educatamente, vergognandosi
per via di quella divisa troppo larga sulle spalle e sui fianchi che
lo faceva sembrare così spassosamente ridicolo, tenendosi su i
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pantaloni con una mano <<Ecco… vede? Quell’ascensore
laggiù… aspetti… è proprio laggiù… aspetti… è… è…
l’accompagno!>>
<<Lasci>> rispose Nikos intenerito, pensando fra sé e sé
ancora-un-paio-d’anni-e-questo-da-quel-cucciolo-ancorainoffensivo-qual-è-mi-diventa-un-cane-rabbioso-un-canerabbioso. <<Faccio da me>> sitz-seduto-ecco-bravo-così-acuccia-bello-a-cuccia. <<Ho capito… faccio da me>> e,
autoritario, porgendogli la mano compatendolo, gli passò per la
testa uno stranissimo pensiero: stringendogliela,
rammaricandosi disturbato dalla sua stessa insensibilità, pensò
che in-fondo-sei-solo-un-cucciolo-un-cucciolo-e-basta-e-guardache-t’è-capitato-non-è-colpa-tua-perdonami-sei-solo-unosprovveduto-ecco-che-sei-perdonami. Poi però fortunatamente
tornò in sé. Era un’idea ripugnante, morbosa, molestamente
finta: solo-le-merde-non-possono-scegliere-e-lui-era-un-cane!un-cane-maledetto-cane!-ecco-che-era!-non-una-merda!-uncane!
Per un attimo ebbe addirittura paura che ancora un momento e
quel tizio avrebbe finito col baciargli la mano, rovinandosi la
reputazione per sempre. E come il vento allora sparì in un
soffio, veloce, quasi correndo, in tempo per fare quest’ultimo
favore ad un nemico che ancora non sapeva d’essere in guerra.
E se è ancora da queste parti, quel cane-cane-cane-maledettocane è bene che sappia che se oggi i suoi colleghi lo rispettano,
lo deve a Nikos Maziotis e a nessun’altro.
<<Kalimera, buongiorno.>>
<<Yossou… voglio dire… Kalimera, buongiorno a Lei.>>
rispose con deferenza lo-sprovveduto-cucciolo-sitz-sedutoecco-bravo-così-a-cuccia-bello-a-cuccia.
Quel comico inizio gli infuse ancora maggiore coraggio, e per
un decimo di secondo gli passò per la testa l’idea di prendere le
scale. Dovevano vederlo tutti che lui non aveva paura e che i
loro ridicoli e viscidi sibili da vipere non gli facevano alcun
effetto. Magari-mi-siedo-su-uno-di-quei-divanetti-e-gli-chiedoun-caffè-eh?-lo-faccio?-eh?-potrei-eh?-potrei-sedermi-e-gli-dicoche-voglio-un-caffè-anzi-un-decaffeinato-portatemi-undecaffeinato-sono-Nikos-Maziotis!-un-decaffeinato-per-Maziotis!
Ma erano solo sogni. Non-ho-tempo-belli-giocheremo-un-altravolta!-così-belli-così!-un-altra-volta!-ora-a-cuccia!-sitz!-non-hotempo!-sitz!-seduti!-sitz-belli-sitz!
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Chiamò l’ascensore, era vuoto, bene, non-mi-va-gente-intornonon-la-voglio-non-mi-va. Entrò e premette il pulsante per il
secondo piano, il-due?-dov'è-il-due?-due?-ah-eccoti!-il-due!bene-non-mi-va-gente-intorno-non-la-voglio-non-mi-va.
Quando la porta dell’ascensore si riaprì Nikos si ritrovò al
secondo piano. Dove-ha-detto-che-devo-girare?-a-sinistra?-nogira-a-destra-ha-detto—gira-a-destra. Girò a destra come gli
aveva detto di fare il cucciolo. E-adesso?-gira-a-destra!-sìbravo!-ma-poi?-io-ha-girato-ma-ora?-ah-eccolo!
<<Ufficio denuncie, desidera?>>
<<Devo fare una denuncia.>>
<<Per quale motivo?>>
Per-quale-motivo?!-come-per-quale-motivo?!-devo-fare-unadenuncia-cazzo-una-denuncia!-la-facciamo-qua?-la-facciamoqua-allo-sportello-la-denuncia?
<<Devo fare una denuncia.>> ripeté Nikos.
<<Il motivo… le ho chiesto il motivo>>
<<Il motivo lo dirò all’ufficiale incaricato. Voglio fare una
denuncia.>>
<<Deve prima dirmi il motivo, signore. È' la prassi.>>
<<La prassi è che voglio fare una denuncia. Mi faccia fare la
denuncia.>>
Il poliziotto alzò le spalle scocciato, in fondo che gl’importava a
lui? Che facesse come voleva. <<Come desidera… Mi
segua.>> Nemmeno lui sembrava che lo avesse riconosciuto.
<<Faccio il giro?>> domandò Nikos. Il poliziotto però mentre si
allontanava non riuscì a sentire la domanda, o forse non ci
provò nemmeno. Sta di fatto che non rispose. Idiota!-non-cidovevo-venire-cazzo-non-ci-dovevo-venire-è-un-idiota-cazzoun-idiota.
Fece il giro della guardiola e gli andò dietro. Ma-è-proprio-uncoglione-nemmeno-m’aspetta-mi-vuoi-aspettare?!-aspettami!ma-guarda-te!-non-ci-dovevo-venire-cazzo-non-ci-dovevovenire.
La passeggiata insieme a quel poliziotto per i corridoi del
G.A.D.A. a Nikos dovette sembrare infinita. Andavano dritti.
Giravano a destra. Entravano in una porta. Ne uscivano da
un’altra. Poi ancora dritti. Di nuovo a destra. Di nuovo a
sinistra. Dritti. Dritti. Dritti. A sinistra. A destra.
<<Si può sapere quanto manca?!>>
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<<Siamo arrivati. Attenda qui.>> e mettendo la mano sulla
maniglia, si voltò di nuovo verso Nikos <<Non si muova, mi
raccomando.>>
E-dove-vuoi-che-vado?!-è-proprio-un-coglione!-non-ci-dovevovenire-cazzo-non-ci-dovevo-venire.
Rimasto solo, come colpito da un attacco febbrile, Nikos si
dimenticò in fretta del coglione-ma-è-proprio-un-coglione.
Cominciò a provare la stessa sensazione che provano i
condannati a morte davanti al plotone d’esecuzione: la testa
cominciò a pesargli, le mani gli sudavano, si sentiva stremato,
senza più forze, un desiderio indescrivibile di andare a dormire
gli legava i pensieri. Il cuore gli palpitava in modo così
fastidioso da tagliargli il respiro restituendoglielo in insufficienti
e pressoché inutile brandelli d’aria, accentuando la sensazione
di spossatezza, di soffocamento. Che-cazzo-ci-faccio-qua?-checazzo-ci-faccio?!
Cercava in tutti i modi di distrarsi, fissando i muri tutti uguali, i
quadri insignificanti che ritraevano tutto fuorché dell’arte, gli
stipiti delle porte, i battiscopa. Ma da dietro la porta si
sentivano delle risate, e lui venne colto perfino da dei brividi
freddi, gelidamente freddi. I vestiti gli s’infradiciarono di
sudore. Gli sembrava d’essere di nuovo in quella cella. Di
essere di nuovo ricoperto dal suo piscio e dalla sua merda. Di
essere di nuovo solo, in mezzo alla puzza così-fetida-cosìfetida-cristo-non-lo-dimenticherò-mai-era-così-fetida. Era di
nuovo murato vivo dentro se stesso. E il mondo giù a odiarlo di
nuovo, giù a bruciarlo con i mozziconi delle sigarette, a
sbattergli la testa contro il muro, prendi-verme!-traditore!verme!-prendi-prendi-prendi! E giù botte. E giù botte. Sempre
più botte, sempre più violente, con sempre più ferocia. E il
mondo che umanamente tiene in gabbia altri uomini a non dir
nulla se non compagno-qua-compagno-là-che-cosa-brutta-checosa-brutta-faremo-vedremo-compagno-qui-compagno-lì-checosa-brutta-che-cosa-brutta. E il mondo che umanamente tiene
in gabbia altri uomini a non dir nulla se non che era unpericoloso-criminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostro-unterrorista. Cristo-che-idea-di-merda-che-idea-di-merda-cosa-cifaccio-qua?-cosa-ci-faccio?
Stava quasi per andarsene in preda all’orrore quando:
<<Maziotis!>> era il coglione-ma-è-proprio-un-coglione.
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<<Allora mi hai riconosciuto…>> rispose Nikos, come
confortato. <<Sono io. Che vuoi?>> gli ringhiò tornando
spavaldo, fiero come-un-animale-cazzo-un-animale.
D’improvviso cominciò a respirare più facilmente. Il senso di
spossatezza l’abbandonava per far posto a qualcos’altro, una
specie di colata di lava d’energia. Sì. Era energia. Era energia
quella. Perché?! Perché l’aveva scordato?! Lui era Nikos
Maziotis e l’altro solo uno dei tanti cani-cani-cani-maledetticani. Era pieno quel posto di cani-cani-cani-maledetti-cani, ma
erano solo cani. Erano pur sempre solo cani. Sitz-bello-a-cucciaa-cuccia-bello-a-cuccia. Era di nuovo la guerra, fanculo i ricordi,
le formalità e tutto il resto. Fanculo. Non aveva paura d’un
branco di cani rognosi. È la guerra! La guerra! Che-vuoi-sonoio-è-il-mio-nome-che-vuoi-dimmi-che-vuoi-è-il-mio-nome-sonoio-dimmi-che-vuoi.
<<Entra.>>
Entrando, un raggio di sole lo accecò per un attimo. Una parete
a vetri permetteva alla luce del giorno proveniente dall’esterno
di penetrare nella sala dalle finestre in fondo. Questa parete a
vetri divideva l’ufficio in quattro stanzini più piccoli, formando
una sorta di croce sbilenca; un po’ nella logica delle chiese di
provincia, ma con quattro stanzini e senza incenso e altari. I
due stanzini leggermente più grandi, poco più di sgabuzzini,
vicino all’ingresso, e i due più piccoli, ancor meno di tane per
topi, vicino alle finestre in fondo. Dapprincipio Nikos fu fatto
sedere su di una rovinata e scomoda panca letteralmente
attaccata all’ingresso, piena di scritte incise con dei coltellini o
forse delle chiavi, lungo il ‘’corpo della croce’’, così ché per tutti
gli altri dieci minuti che lo abbandonarono lì, ogni volta che
qualcuno doveva passare, si trovava costretto ad alzarsi dalla
panca prego-passi-non-si-scusi-non-si-scusi-passi-pure-vadavada-passi-le-dico, e poi nel primo stanzino, nella parte bassa a
sinistra ‘’della navata’’, su di una sedia altrettanto ignobile.
L’ufficio, se così lo vogliamo chiamare, era sotterrato da
centimetri di documenti e di polvere. Alle pareti vi stava
appeso un crocifisso, e su quella che doveva essere una
libreria, altrettanti documenti e altrettanta polvere. Nel centro,
quasi a sfiorare la libreria, l’arredamento era completato da
una scrivania con sopra un computer e sempre documenti e
polvere. In terra, per finire, accompagnati da altra polvere,
ancora documenti.
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<<Allora, Maziotis…>> disse il coglione-ma-è-proprio-uncoglione entrando <<eccole l’ufficiale incaricato.>> E
infiltrandosi come meglio gli riuscì tra la scrivania e la libreria,
si sedette di fronte a Nikos, si spostò in avanti, la sedia cigolò
sotto il peso, si soffregò la fronte come si ci fosse in lui un
cruccio che lo lacerava dentro nell’anima, con una mano spostò
una pila di documenti che pendeva pericolosamente verso
destra, e con l’altra schiacciava e s’infilava noci in bocca:
<<Vogliamo procedere con la pratica?>> gli domandò a bocca
piena sputacchiando, che ancora un po’ e Nikos lo avrebbe
preso a ceffoni su quel brutto muso.
**
Il giorno dopo e per alcuni giorni ancora alcuni giornali
pubblicarono degli articoletti striminziti a riguardo. Non era
inusuale che un anarchico denunciasse la violenza della polizia.
Ma che lo facesse per vie legali, questo sì che lo era.
Probabilmente fu questo a spingerli ad interessarsi alla cosa (o
forse era solo un modo per poter gridare ipocrita-ipocritaguardatelo-l’ipocrita). Comunque, quale che sia stato il motivo
che li spinse a non tacere come facevano di solito, vi furono
diverse interpretazioni, alcune delle quali molto divertenti. La
più popolare era anche quella più scontata: in quella si
sosteneva che si trattasse di una pura e semplice invenzione di
Maziotis; una provocazione da anarchici, tutto qui. Chiaro, no?
Se-sei-anarchico-è-probabile-che-menti. Perché? Perche-seianarchico. Perché-non-denunciasti-subito-la-cosa? Puttanatenon-ti-credo.
I-documenti-del-pronto-soccorso? Non-significano-niente-non-ticredo.
Che-prove-hai-a-riguardo? Sciocchezze-non-ti-credo.
Sciocchezze-da-anarchici-e-nient’altro!-Pure-e-semplicisciocchezze!-I-poliziotti-non-fanno-queste-cose-loro-sonosenza-macchia-i-poliziotti-sono-uomini-senza-macchia-senzamacchia.
Nikos mandò allora una lettera aperta al giornale Eleftherotypia
spiegando per filo e per segno come erano andati veramente i
fatti. In calce alla lettera si riservò dello spazio per uno sfogo:
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‘’La Stato e le sue infami forze di polizia hanno cercato di
spezzare la vita di un rivoluzionario che non sono riusciti a
piegare con la tortura e la prigione. Non ci sono riusciti la
settimana scorsa. Non ci riusciranno la prossima e quelle di là a
venire.’’
Dal gennaio 2004 all’aprile del 2007 Lotta Rivoluzionaria,
ostinata come una zanzara, fece esplodere una bomba ad
orologeria nella Citybank di Psihiko, assaltò la centrale di polizia
di Kallithea, provò a far saltare in aria due camioncini della
polizia antisommossa senza tuttavia riuscirci, mise una motobomba davanti la sede del Ministero delle finanze e un’altra a
Vougoraky, sparò con un lancia razzi contro l’ambasciata
americana e qualche colpo di pistola contro la centrale di
polizia nel quartiere di Perissos.
Nel 2007 attentarono di nuovo alla sua vita, allo stesso modo,
in circostanze molto simili; e Nikos… lui rifece tutto da capo:
guardiola, ascensore, secondo piano, passeggiata in compagnia
del coglione-ma-è-proprio-un-coglione, attesa nervosa,
denuncia e lettera al giornale.
Era la guerra. Cristo, la guerra! La guerra!
CAPITOLO 13
Il 6 dicembre 2008 un ragazzino di quindici anni venne
ammazzato da uno di quei cani-cani-cani-maledetti-cani mentre
festeggiava il suo onomastico nel quartiere di Exarchia. Si
chiamava Alexis Grigoropoulos. La sera stessa e per le
successive tre settimane qualsiasi cosa si potesse occupare, in
Grecia venne occupata. Università, fabbriche, scuole, sindacati,
69
piazze, strade; ma anche marciapiedi, bar, negozi, centri
commerciali: non c’era nulla che non fosse in mano ai
manifestanti in rivolta. Perfino parte di quella borghesia che
prima ci sputava addosso ora era lì con noi, a combattere per
una Grecia libera e indipendente.
Ci credevamo. Tutti ci credevano. Ogni cosa era buona per
costruire barricate. Tutti ci mettevano del loro, era la guerra!
Passami-quello-compagno-passami-quell’altro-usiamo-questocompagno-dai-compagno-dai.
Era il ’68 greco. Nelle vie di Atene eravamo convinti che la
rivoluzione fosse ad-un-passo-compagni!-ancora-un-passo-e-cisiamo-dai-compagni-dai. Le botte delle squadre antisommossa
non facevano più male dai-compagni-non-fa-male-non-fa-maleancora-un-passo!-dai-compagni-dai. Donne di cinquant’anni
con la casa al mare e 1500€ di pensione ci mandavano le figlie
con cesti pieni di roba da mangiare e da bere; figlie che in
lacrime ci riportavano i messaggi degli anziani genitori: forzaragazzi-forza!-siamo-con-voi-forza! Per tre settimane la Grecia
fu sull’orlo della libertà. Eravamo di nuovo un paese. Eravamo
tutti insieme che combattevamo per l’intero paese. Eravamo un
paese solo contro un intero mondo fatto di niente, ma eravamo
la-Grecia-la-Grecia-la-Grecia! Bastava un passo-ed-è-fattaancora-un-passo-dai-compagni-forza-compagni-dai-dai-dai! Ma
fu tutto inutile, non riuscimmo mai a fare quell’ultimo passo. La
repressione fu violentissima. Le forze del regime alla fine ci
schiacciarono. Migliaia di arresti. Centinaia di feriti. Quell’ultimo
passo, quel maledettissimo ultimo passo…
CAPITOLO 14
La crisi economica, così dicevano, era una colpa di tutti.
Abbiamo-vissuto-al-di-sopra-delle-nostre-possibilità. Dobbiamofare-sacrifici.
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Sacrifici-sacrifici-sacrifici-tutti-a-fare-sacrifici.
Le televisioni e i giornali ce lo spiegavano ogni giorno: bisognaaumentare-le-tasse-ai-poveri-viva-le-tasse-ai-poveri. È-l’unicasoluzione-possibile-il-capitalismo-viva-il-capitalismo. È-l’unicascelta-il-salario-dimezzato-all-operaio-perché-bisogna-faresacrifici-salario-dimezzato-salario-dimezzato-viva-il-salariodimezzato.
Dicevano che bisognava privatizzare-privatizzare-privatizziamoogni-cosa. Dicevano che bisogna rendere il lavoro-più-flessibile!
Che bisognava poter licenziare-bisogna-poter-licenziare.
Quel che ottennero fu un’ecatombe di povertà. Un milione
trecentomila persone senza lavoro, senza contare i lavoratori
autonomi. Un negozio su quattro chiuso per fallimento. Tre
milioni di cittadini senza copertura sanitaria. Quattrocentomila
persone a rischio di sfratto. Oltre ventimila senzatetto.
Atene era diventata la capitale europea dell’ingiustizia; e da
New York a Londra, da Parigi a Francoforte, il-simbolodell’ingiustizia-è-la-sede-della-borsa-facciamo-saltare-la-borsa!
Come facevano sempre per evitare di fare feriti tra i civili, nelle
prime ore del mattino di mercoledì 2 settembre 2009, Gournas
chiamò l’Eleftherothipia.
Pronto?-il-giornale-Eleftherothipia?-una-bomba-esploderà-difronte-la-sede-della-borsa.
Alle cinque e mezzo 47 chili di dinamite svegliano l’intero
boulevard Athinon.
**
La borsa non saltò in aria, ma il governo sì. La sera stessa il
Primo Ministro Karamanlis si dimise.
71
CAPITOLO 15
Il mondo fatto di niente finché non si ritrova di fronte
all’evidenza non muove un dito. Non lo fa mai. C’erano voluti
migliaia di suicidi, migliaia di martiri sacrificati all’altare del
dolore perché il mondo fatto di niente si ricordasse d’esser
qualcosa, almeno qualcosa. C’erano voluti gl’invasori vestiti in
nero della Troika, i tagli alle pensioni, le file allo sportello del
banco dei pegni, gli assalti ai camion di patate, la luce e il
riscaldamento staccati perché la Grecia si riscoprisse Grecia,
perché la Grecia tornasse ad esser qualcosa, almeno qualcosa.
E allora la gente per strada ricominciava ad osare-compagni!osiamo!-dobbiamo-osare!
C’erano voluti i bambini a mendicare un tozzo di pane, le file di
negozi con le serrande abbassate, i volti tristi della povertà a
chieder qualcosa-mi-dia-qualcosa-per-favore-ho-fame-ho-famemi-dia-qualcosa perché la Grecia si ricordasse d’essere fatta di
carne, perché si ricordasse d’esser fatta di sentimenti, perché
si ricordasse di non esser una cavia da laboratorio su cui si
poteva sperimentare impunemente un nuovo capitalismo
ancor più vuoto, ancor più fatto di niente e niente ancora.
Osiamo-compagni-osiamo!
Nell’ultimo anno la Grecia sembrava aver preso finalmente lo
slancio: osiamo-compagni-osiamo!-ora-e-adesso!-forzacompagni-dai!
Ma a Nikos tutto questo sembrava non importare più. Non
quella sera d’ottobre del 2009 comunque. Era fuori di sé dalla
gioia, come uscito di senno. Ballava, saltellava, esultava,
batteva le mani ah-ah-ah!-dio-oh-dio!-ah-ah-ah!
Pola lo aveva colto di sorpresa: Aspetto-un-bambino-amore-unbambino-tutto-nostro.
**
Per tutto quel mese Nikos sembrava aver intraveduto la
possibilità d’un’esistenza felice. Non faceva altro: prendeva il
telefono e chiamava. Chi-chiamo-chi-chiamo? Chiamava sua
madre: Pronto?-mamma?-sarò-papà-sarò-papà! E tirando Pola a
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sé le poggiava la cornetta del telefono sullo stomaco: fallesentire-Pola-falle-sentire. Chi-chiamo-chi-chiamo? Chiamava
suo fratello: pronto?-ascolta-qua!-fagli-sentire-Pola-fagli-sentire.
Chiamava chiamava chiamava. Avrebbe chiamato il mondo
intero. Chi-chiamo-chi-chiamo? Pronto?-mondo?-ascolta-qua!fagli-sentire-Pola-fagli-sentire!-hai-sentito-mondo?-è-mio-figlio!mio-figlio!
Era tutto un fammi-appoggiare-la-testa!-voglio-sentirlo-vogliosentire-mio-figlio!-fammi-appoggiare-la-testa-fammi-sentirevoglio-sentirlo! E Pola, piegando un angolo delle labbra
abbozzando un mezzo sorrisetto, tra il divertito e l’infastidito,
lanciandogli un'occhiata di traverso, rispondeva sono-solo-alprimo-mese-che-senti?-che-vuoi-sentire?! Ma a Nikos non
importava, chi-chiamo-chi-chiamo? Pronto?-papà!-ascolta-quaascolta-qua! E da dietro la cornetta poggiata sullo stomaco di
Pola gli spiegava che quello con cui doveva parlare non era la
pancia della sua fidanzata ma tuo-nipote!-lo-senti?-saluta-miofiglio-salutalo!-lo-senti?-lo-senti?-è-tuo-nipote!-tuo-nipote!
La sera, a letto, traboccante di tenerezza, si chinava su Pola e,
dolcemente, con delicatezza, dopo aver allungato la mano per
accarezzarle la guancia, sussurrava rivolgendosi al feto sono-iltuo-papà-mi-senti?-dì-qualcosa-sono-papà!-dì-qualcosa-figliomio-sono-papà!
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CAPITOLO 16
Notte fonda. Il cielo era nero come l'inchiostro. Mentre
percorrevano in macchina Vouliagmenis boulevard, Lambros e
Gournas discutevano dello sciopero generale indetto per
l’indomani mattina. Era il secondo dei tre scioperi selvaggi del
marzo 2010.
<<…ma perché fai quella faccia?!>>
<<Quale faccia?>>
<<Quella di uno che sa che domani morirà… e su dai,
Gournas! Mi metti una tristezza… domani ci sarà uno sciopero,
e allora? è quello che volevamo, no? dovresti essere contento e
invece te ne stai lì, tutto serio a brontolare…>>
<<Ogni volta è sempre più pericoloso…>> gli rispose
imbronciato Gournas dando un occhio distratto alla strada,
quella stessa strada che in cuor suo gli dava l'impressione di
condurlo dritto dritto nelle braccia del nemico, terrorizzandolo.
<<Ogni volta è sempre più pericoloso… gne gne gne… quanto
sei noioso!>> lo canzonò <<Sembra che tu abbia… aspetta…
Gira lì…>>
<<Dove?>> gli domandò Gournas sollevando la testa per un
attimo come risvegliato, per poi tornare imbronciato e serio a
brontolare di nuovo.
<<Ma lì... lì! Gira… veloce!>>
<<Ho visto… ho visto, ora giro.>> Gournas, quietamente, per
nulla contagiato dall'irrequietezza di Lambros, che si muoveva
tutto e saltellando sul sedile gl'intimava e-gira-gira-veloceveloce-che-la-perdi, girò il volante tranquillo con un ampio
gesto della mano, e s'infilò senza fatica in via Malastastis.
<<Bravo Gournas… dicevo… che dicevo? Ah si… sembra che
tu abbia paura di morire sul serio domani! Che vuoi che
succeda? Ti daranno qualche manganellata… evvabbè… con
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tutte quelle che hai preso in testa…>> poi d’un tratto sorrise
malizioso, qualcosa gli era balenato in testa <<Di un po’,
Gournas!>> gli disse trattenendo il fiato per non scoppiare a
ridere <<vuoi vedere che è proprio per via di tutte quelle
manganellate che sei così scemo?!>>
Gournas lo guardò, la faccia gli divenne sempre più rossa,
sempre piu rossa quando, con lo stesso entusiasmo di uno
scolaro al momento della ricreazione <<Ah! Ah! Ah!>> rise, e
rise di gusto. Rise come rideva Lambros. Felice. Spensierato.
Ma soprattutto felice. Liberamente felice. Dio quanto siamo
liberi quando ridiamo così di gusto. Entrambi risero liberi, e la
risata di libertà li rilassò.
Lambros, così diceva Gournas, riusciva sempre a farlo rilassare
prima di un’azione. Mi-stende-i-nervi, diceva. Non-prende-mainulla-sul-serio-fa-sempre-il-buffone-e-io-mi-rilasso-mi-rilassocompletamente.
Arrivarono finalmente a Dafni, un quartiere a sud di Atene. Era
notte inoltrata. In strada non c’era anima viva.
<<Qui va bene?>>
<<No, va ancora un po’ dritto… c’è troppa luce.>>
<<Lì?>> domandò ancora Gournas <<Lì va bene?>>
<<Troppa luce… troppa luce… fermati dietro l’angolo, vicino a
quei sacchetti della spazzatura. Li vedi?>>
Prima di farlo scendere dalla macchina Gournas lo trattenne
per un braccio provocando in Lambros una specie di spasmo,
che subito infastidito si divincolò dalla presa.
<<Che hai? Che c’è?>> disse Lambros allarmato.
<<Fa’ attenzione.>>
<<Mi hai messo paura…! Ti ho detto che andrà tutto bene…>>
gli rispose stizzito <<ti preoccupi troppo! E poi così porti
sfortuna… mi agiti… smettila di fare la femminuccia. Ci
vediamo domani…>>
<<Fa’ attenzione.>> ripeté Gournas facendo l'atto di
trattenerlo, come preso da un timore improvviso.
<<Promettimelo.>>
Ma Lambros era già sceso dalla macchina e gli faceva le
boccacce da dietro il finestrino: <<Femminuccia!>>
**
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Non c’era un solo istante da perdere. Schiacciò il piede
sull’acceleratore dell’automobile rubata e iniziò una folle corsa
per le vie di Dafni mentre la polizia lo inseguiva a sirene
spiegate. Lanciandosi in una via laterale si tenne stretto al
volante come per farsi forza, non pensava che la fortuna
potesse durare ancora molto. Ogni volta che a casaccio
imboccava una nuova via era come se l’aria non gli bastasse,
contraeva i muscoli in modo innaturale e per un istante finiva
involontariamente pure per chiudere gli occhi rischiando di
andare a sbattere da qualche parte.
<<Maledetto corvaccio!! Lo dicevo che Gournas mi avrebbe
portato sfortuna...>>
Imboccò una strada tutta curve con ferocia. Voleva farcela.
Doveva farcela. Non poteva farsi prendere. Ma il poveretto era
come incapace di guidare, come se si stesse azzuffando con
l’asfalto. Eppure era uno che sapeva il fatto suo. Ma era troppo
agitato per mantenere il controllo della macchina. Troppo.
Sbatté con diverse automobili parcheggiate a lato, che lo
rallentarono. Dopo mezzo chilometro, con i lampeggianti blu
che gli entravano fin dentro l’abitacolo imprecò: <<Cazzo!
Sparano!>>
Non era nelle condizioni di prendere una decisione sensata.
L’unica cosa che voleva in quel momento era prendere e
andarsene. Dimenticare tutto. Lasciar perdere. Ma era troppo
tardi.
<<Non è giusto!>> Non lo era sul serio. Doveva solo rubare
una stupidissima macchina senza farsi beccare. Solo questo
doveva fare. Niente bombe, niente rapine in banca o a porta
valori con guardie armate di Kalashnikov. Solo una stupidissima
macchina parcheggiata nella periferia di Atene. E invece ora gli
stavano sparando addosso:
<<Sparano! Sparano!!>>
Si girò sul sedile e cercò di guardare cosa stesse succedendo
dietro.
<<E ora che faccio?! Che faccio ora?!!>> sterzò e proseguì
dritto per una ventina di secondi lungo la via mentre la
macchina prendeva sempre più velocità. Un proiettile centrò in
pieno il lunotto posteriore, che esplose in centinaia di migliaia
di piccoli pezzettini di vetro. Ora i proiettili gli fischiavano sopra
la testa in un modo terrificante. Cominciò a zigzagare sperando
così di riuscire a salvarsi, ma fu un’idea pessima: l’automobile
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della polizia lo raggiunse di nuovo. E questa volta gli erano così
vicini che poteva guardarli in gola fino alle tonsille, lo stomaco
e non so poi che altro. Col paraurti anteriore provarono a
speronarlo. Una volta. Due. Alla terza la macchina sbandò
violentemente. Ma per fortuna non si capovolse e Lambros
premette di nuovo sull'acceleratore, lasciandoli indietro di
qualche metro. Dallo specchietto retrovisore gli riusciva di
vedere chiaramente i ghigni malvagi dei due poliziotti che gli
davano la caccia. Due ragazzi come lui, forse addirittura più
giovani. Uno magro, quasi bello con la pelle olivastra e i tratti
del viso così ben definiti, e l'altro più in carne, coi capelli neri e
il viso di bambino. Se avevano compiuto trent'anni dovevano
averlo fatto la settimana prima, o al massimo il mese prima.
Erano così giovani, quasi teneri. Eppure il ghigno malvagio era
ben stampato sul viso d'entrambi, come se a crescerli non
fosse stata una madre amorevole, piena di bei sorrisi e dolci
carezze, ma un folle in divisa militare il quale, con frustate e
carestia di sentimenti, gli aveva insegnato che odiare, odiare
profondamente, odiare con professionalità, odiare con
precisione, con metodo, era l'unico modo di amare.
Lambros comunque fosse aveva bisogno di un nascondiglio, di
un riparo. Da quella distanza difficilmente avrebbero sbagliato
mira un’altra volta.
Ricominciarono a sparare. BUM! BUM! BUM! Tre colpi. Tre
fortissimi colpi, uno dopo l'altro. Per quanto ancora quella
bastarda della morte gli sarebbe passata a fianco senza
accorgersi di lui?
<<Maledetti!>> Lambros si lasciò scappare un grido.
L’angoscia di venire colpito diventava sempre più una certezza.
Doveva mollare la macchina e scappare. Nascondersi magari.
Fu una questione di un istante. Schiacciò con entrambi i piedi il
freno e si scaraventò fuori dalla macchina iniziando a correre a
più non posso. La volante della polizia fece lo stesso e uno dei
due poliziotti si mise ad inseguirlo a piedi. <<Fermo o sparo!
Fermo o sparo!!>> era quello più magro, con la pelle olivastra
e i tratti del viso così ben definiti. Mentre correva Lambros
cercava di fare mente locale. Aveva preso in affitto un
appartamento a Dafni che erano almeno un paio d’anni.
Doveva pur esserci stato almeno una volta nella vita in quella
zona del quartiere. Provò, tentò in ogni modo di ricordare.
<<Dove diavolo sono?!>> Se pure ci fosse stato modo di
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mettersi in salvo, il buio non gli era d’aiuto. <<Magari… magari
un garage! o l’androne di un palazzo… cazzo dove sono?>>.
Niente. Non aveva idea di dove fosse. Correva. E più correva
più si perdeva e la paura aumentava. Non c'era nulla da
vedere. Solo lampioni. Lampioni e basta. <<Ti prego, no! Ti
prego, no!>> poi, improvvisamente, come se qualcuno lo
avesse spinto con violenza perse l’equilibrio e cadde
rovinosamente a terra. Un dolore lancinante alla schiena lo
teneva inchiodato al marciapiede. Era come se qualcuno lo
avesse pugnalato. Una volta. Due volte. Quasi nello stesso
punto. Una volta. Due volte. Con lo stesso coltello. Con due
coltelli diversi. Una volta. Due volte. Un coltello caldissimo.
Lunghissimo. Affilatissimo e che non voleva, non smetteva di
continuare a tagliargli la carne. Una volta. Due volte. Quasi
nello stesso punto.
Non aveva tempo di soffrire, diceva a se stesso, non se voleva
salvarsi dall’arresto. Doveva fuggire ad ogni costo. Tentò di
rialzarsi per continuare a scappare, ma si rese conto che la
schiena gli bruciava terribilmente. Respirava appena. La
maglietta e la giacca erano inzuppate di un liquido caldo,
appiccicaticcio. Era ancora lucido, o comunque lucido ne più ne
meno di quanto lo era stato per tutto il tempo fino a quel
momento, perciò inizialmente pensò fosse sudore. Ma si
sbagliava. Riprovò ad alzarsi più volte. Nonostante i suoi sforzi
però non gli riusciva di muoversi. In fine si rese conto.
L’angoscia inesprimibile che ti opprime subito prima della
morte e che può far sbocciare il seme della follia, in lui ebbe
l’effetto contrario, una specie di lucido presagio dalle tinte
oscure gli permise di capire quel che non vorremmo capire mai.
Lo avevano colpito. Due proiettili lo avevano colpito alla
schiena. <<Maledetti!>> sussurrò soffocando i singhiozzi
<<maledetti cani!>>.
Il sangue era sgorgato come da due fontanelle e ora formava
un’intera pozza nel quale pareva che da un momento all'altro
Lambros avrebbe cominciato a nuotarci dentro.
Tentò un ultimo, disperato tentativo di rialzarsi e ricominciare a
scappare, ricominciare a lottare, a dire no-non-io-non-in-mionome. Ma perse i sensi. Per un assurdo del destino il suo ultimo
pensiero fu per i centoquaranta milioni di ulivi della Grecia.
<<Non me li toccate... lasciate stare gli ulivi>>. Lambros era
un biologo. Non un botanico. Perchè gli ulivi? Perchè non
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qualcos'altro? Forse perchè la nostra meta è sempre
all'orizzonte e l'orizzonte della Grecia sono gli uliveti delle
campagne? Non aveva proprio senso. Nulla quella sera aveva
avuto senso. La vita non aveva senso. Nessun cazzo di senso.
Questa volta era finita. Era finita per davvero.
CAPITOLO 17
Il sovrintendente ispettore Papathanasakis aveva ricevuto
l’ordine di aspettare. Ordini del Ministro Chrysohoidis. Atene e
come lei tutta la Grecia era bloccata. I treni, gli aerei, gli
autobus, i traghetti, gli ospedali… tutto chiuso, tutto fermo,
tutti in piazza. Perfino la polizia era in sciopero. Secondo la
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televisione Al-Jazera quel giorno duecento dei millecinquecento
poliziotti addetti al servizio d’ordine passarono nelle file dei
manifestanti. Non era il momento adatto, non secondo il
Ministero dell’Ordine Pubblico.
<<Ne risponderà personalmente, GLI-ELO-ASSI-CU-RO!!! Faccia
il suo lavoro Papathanasakis… FACCIA IL SUO LAVORO!!! …e
tenga a bada i suoi uomini invece di blaterare! Stiamo
perdendo miliardi!! Tenga a bada i suoi uomini!! TEEEENGAAAA
A BADAAAA I SUOI UOMINIII!!!>>.
Il sovrintendente ispettore Papathanasakis riattaccò
amareggiato il telefono. Era avvilito e mortificato come un cane
che abbia ricevuto un calcio.
Sbuffava infastidito.
Sentiva che l'odioso stava facendo a gara con l'assurdo: cosa
centravano i suoi uomini? Che colpa aveva lui? Era tutto
sbagliato. Tutto sbagliato! Che-aspetto?-che—devo-aspettare?li-abbiamo-in-pugno-io-lo-so-lo-so-maledetto-sciopero!-io-lo-so!
Durante la notte, mentre il corpo di Lambros era ancora caldo,
quelli della normale avevano avvertito l’anti-terrorismo. C’era
qualcosa che non andava. Il morto non era un semplice
ladruncolo, era un anarchico. Un maledettissimo sporco
anarchico. Papathanasakis, appena capì che il morto era niente
popò di meno che uno degli anarchici più famosi di Atene,
Lambros Foudas, si catapultò giù dal letto e dimenticata la
stanchezza uscì di casa e in macchina da Peristeri raggiunse
Dafni dove i suoi uomini avevano già cominciato la
perquisizione. L’appartamento di Lambros venne ribaltato da
cima a fondo. ‘’È stata fortunata, ancora un po’ e ci portavamo
via i muri’’ ebbe a dire un poliziotto alla padrona di casa, che,
nonostante fosse una donnina tanto minuta e dal volto tanto
umile, come una gatta infuriata protestava per nulla intimorita
dalla divisa. Trovarono volantini di Lotta Rivoluzionaria, libri che
inneggiavano alla rivoluzione e un’agenda telefonica con, fra gli
altri, i numeri di telefono di Nikos, Pola e Gournas. Tanto
bastava, secondo il sovrintendente ispettore capo
Papathanasakis, per procedere con gli arresti. Era quello che
stavano cercando da anni: una prova. O almeno una parvenza
di prova. Qualcosa che ci potesse assimigliare insomma.
Che-aspetto??-li-ho-in-pugno-sono-miei-sono-miei!-fidatevi-iolo-so-lo-so!!
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CAPITOLO 18
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Sono-miei-sono-miei!-li-ho-presi-li-ho-presi!
Insieme a Pola, Nikos e Gournas vennero portati al 12° piano di
via Bubulinas anche Christoforos Kortesis, Sarantos
Nikitopoulos e Vaggelis Stathopoulos. Accadde ventotto giorni
dopo, il 9 aprile 2010, un venerdì sera. La colpa di questi ultimi
tre era di essere amici di Lambros, nient’altro. Nient’altro
poteva provare Papathanasakis. Solamente che erano amici
dell’anarchico morto, e che loro stessi erano anarchici. Non
aveva prove nemmeno per Pola, Nikos e Gournas. Non poteva
provare nulla. Le prove che avevano convinto il giudice
istruttore ad autorizzare gli arresti erano i volantini di Lotta
Rivoluzionaria, la comunissima agenda con i numeri di telefono,
le loro impronte su dei libri, opuscoli e… su di un dvd di
Spiderman!
Quella stessa notte, saputo degli arresti, occupammo il
politecnico.
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CAPITOLO 19
Via Bubulinas era già circondata da nervosi militari in tenuta
anti-sommossa quando i sei arrivarono. Avevano previsto che il
politecnico sarebbe stato occupato dagli studenti e si presero
con ore d’anticipo. Non era ancora mezzanotte.
La prima cosa che fecero fu trascinarli su per le scale per
fotografarli. Dodici piani a sentirsi dire: ora-ti-facciamo-unabella-foto-sorridi-mi-raccomando-sorridi-coglione-sorridi.
Oppure oh!-ma-guarda!-è-incinta!-faremo-una-foto-per-ilbambino-ti-va?-devi-sorridere-scema-sorridi.
Dopo averli fotografati, sorridi-coglione-sorridi, sorridi-scemasorridi, senza aver detto loro nulla, per quale motivo erano stati
portati lì, cosa stava accadendo o di cosa fossero accusati,
ancora frastornati e ammanettati li rinchiusero in sei diversi
stanzini uno attiguo all’altro; tutti e sei gli stanzini erano privi di
finestre. L’unica luce arrivava da una striminzita lampadina che
pendeva dal soffitto come il corpo d’un impiccato.
Brutalmente e tetramente spogli come il resto della stanza, i
muri erano ornati solo dai graffi delle unghiate dei loro
sciagurati predecessori. Erano muri sottili, vecchi e mal tenuti.
Così sottili che se vi si prestava attenzione, con un poco
d’impegno era possibile sentire il respiro affannoso di Pola, la
quale, temendo di perdere il bambino, era nel panico più
assoluto; in un certo senso un vero colpo di fortuna: il senso di
solitudine che si prova quando si viene rinchiusi dentro una
stanza contro la propria volontà, il senso di smarrimento e
d’abbandono che sopraggiungono in quei momenti terribili
moltiplicati con la frustrazione per non essere riusciti a sfuggire
all’arresto possono essere causa di un’indicibile sofferenza
psicologica. Il senso di fallimento è opprimente. Ma per loro
fortuna erano muri sottili. Il respiro affannoso di Pola era pur
sempre qualcosa a cui potersi aggrappare, un qualcosa che li
faceva sentire uniti nella sofferenza e che li spronava a non
lasciarsi abbattere dalla depressione. Per di più, verso le due
due e mezzo, attraverso quei muri vecchi e graffiati iniziarono a
filtrare gli slogan, gl’incoraggiamenti dei compagni che da
fuori, dodici piani più in basso, gl’incitavano a non mollare, a
resistere, a continuare a combattere-combattere-combattere!
83
Quei muri sottili erano la loro fonte di speranza; erano il pozzo
d’acqua fresca in quel deserto di disperazione.
Per una buona mezzora quelle stanze divennero per davvero
un’oasi, un rifugio, quasi che lì fossero più al sicuro che fuori.
Poi però da dietro le porte chiuse a chiave, ognuna piantonata
da una sua personale guardia armata e col volto coperto da
passamontagna, cominciò un via vai di gente; passi pesanti di
persone che correvano avanti e indietro rimbombavano per i
corridoi. Tutto quanto l’ufficio era in subbuglio: servi!-venduti!vermi-vermi-vermi!-che-vogliono!-che-fanno-quelli-giù?!perché-non-li-cacciano?!-vermi-vermi-vermi!
La folla si era fatta più numerosa. Agli studenti si erano
aggiunti alcuni gruppi di operai e di gente comune. A mano a
mano che il tempo passava la strada veniva invasa da una lava
di pugni chiusi che sbucava da ogni vicolo e ricopriva ogni
cosa. Chiedevano la liberazione immediata e senza condizioni
dei prigionieri.
Alle quattro, mentre le squadre anti-sommossa caricavano sulla
folla, stufi di attendere inutilmente che la situazione si
calmasse, cominciarono ugualmente ad interrogarli. Tutti e sei
contemporaneamente. Tutti e sei negli stessi stanzini dove fino
a quel momento erano rimasti soli in attesa che accadesse
qualche cosa. Tutti e sei stavano seduti sul pavimento a
marcire sotto quella lampadina che gli penzolava sopra la testa
quando le porte si spalancarono.
**
Ad un primo colpo d’occhio Nikos, guardando i tre tizi in
borghese, camicia cravatta e abito grigio, che, disarmati,
entravano uno dopo l’altro come dei bravi scolaretti, ebbe
l’impressione di non avere nulla da temere. Gli parevano
innocui, quasi timidi. Non gli incutevano la seppur minima
paura. Che-volete-sono-io-sono-l’animale-sono-Maziotis-è-ilmio-nome-che-volete!
Il terzo, l’ultimo ad entrare, addirittura, quasi inciampando sulla
sedia che portava con sé, deferente, come costernato, si scusò
entrando mi-scusi-permesso-buonasera-è-permesso?-questesedie-eh!-accidenti-a-queste-sedie…
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<<Perché sono qua?!>> ringhiò Nikos ai tre senza attendere
oltre dopo essere scattato in piedi come una molla, come se
qualcuno l’avesse strappato via dal pavimento o se questo
scottasse in modo insopportabile.
<<Al tempo, Maziotis…>> era la prima volta che un poliziotto
si rivolgeva a Nikos dandogli del lei <<…al tempo… ci lasci
entrare prima, no? Presentarci… che pensa? No? Non si usa?
Fra gli anarchici non si usa presentarsi prima?>> e senza
attendere oltre sistemò la sedia in mezzo alla stanza <<Si
sieda Maziotis… prego… non abbia paura… non le faremo alcun
male… si sieda…>>. Nikos ubbidì con malcelata impazienza. A
parlare era il primo che era entrato un attimo fa nella stanza.
Di corporatura massiccia, un’aria particolare come da erudito,
sembrava un giovane professore alla mano; di quelli che
piacciono agli studenti e che incontri in palestra o mentre fai
jogging al parco. Si rivolgeva a Nikos con un tono ambiguo, di
finta complicità. Aveva uno sguardo amichevole, come per dire
stai-tranquillo-ti-capisco-non-preoccuparti-tranquillo ma allo
stesso tempo non ispirava alcuna fiducia. Il modo in cui
stringeva i pugni mentre parlava, il volto teso, quasi nevrotico,
fece sì che Nikos rimase allerta.
<<Sono il vice-commissario Stefas del servizio anti-terrorismo.
Lui è il vice-commissario Sarafis, anche lui dell’anti-terrorismo,
e quello lì che… hey!! Allora?… quello lì che sta guardando il
telefonino incredibilmente…>> sottolineò ‘’incredibilmente’’,
dandosi un’aria da simpaticone, <<…è il vice-commissario
Zambelis>> il vice-commissario Zambelis era quello del
permesso-posso-entrare, il quale sorrise senza dir nulla.
I tre, in piedi, lo sovrastavano; gli stavano intorno
circondandolo pronti a reagire in caso di bisogno.
Continuò:
<<Non le faremo troppe domande… non ne abbiamo bisogno…
sappiamo già tutto quello che ci serve…>>.
Lo scrutò un attimo come interrogandosi su qualcosa, poi
riprese <<…Lei sa per quale motivo l’abbiamo portata qui? Ha
qualche dichiarazione da fare?>>
<<Voglio parlare con il mio avvocato.>> rispose Nikos
ignorando la domanda di Stefas e guardandolo con repulsione.
Stringeva così forte i denti che pareva un cane arrabbiato.
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<<Avrà tutto il tempo per parlare con il suo avvocato… non
dubiti… Prima però risponda alla mia domanda, sia gentile… sa
perché è qui? Ha qualche dichiarazione da fare?>>
Nikos non aveva alcuna voglia di giocare. Lo conosceva a
memoria quel teatrino. Prima si fingono gentili, ti danno del lei,
ti trattano come se tu non centrassi nulla, come se fosse tutto
un'innocuo errore a cui porre rimedio il più in fretta possibile
per lasciarti tornare a casa con-tante-scuse-sa-ci-spiace!-tantescuse, ti portano dell’acqua, ti domandano se hai bisogno di
qualche cosa… e poi… poi se rispondi come vogliono loro bene,
se no… Era meglio finirla lì, sono-Maziotis-sono-l’animale-chevuoi-dimmi-che-vuoi.
<<Senti, cane rognoso… voglio parlare con il mio avvocato!
Non ci senti?!>>
Senza che potesse vederlo arrivare, un pugno violentissimo,
ben assestato, bucandolo fino al cervello lo colpì alla nuca
scaraventandolo a terra. Il vice-commissario Sarafis, non
proprio un filantropo, il più taciturno, il quale sembrava aver
avuto una giornataccia, in quel modo volle subito mettere in
chiaro come stavano le cose, riprovaci-stronzo-bastardoriprovaci!-dì-un’altra-stronzata-del-genere!
Il vice-commissario Stefas, fingendosi risentito, nascondendo
un ghigno dietro la mano, lanciò un’occhiataccia non troppo
convinta al suo collega. <<Che cazzo fai!>> si chinò verso
Nikos e lo aiutò ad alzarsi, sempre con quel suo ipocrita staitranquillo-ti-capisco negli occhi. Nikos, con la testa che ancora
gli doleva per il pugno, appena fu di nuovo in piedi si divincolò
come dal fastidio d’una ragnatela in faccia, con una spallata
spinse in là il vice-commissario, che colto di sorpresa
s’inciampò e cadde a terra, abbassò la schiena, piegò le
gambe, e, invaso da un furore ansioso e vendicativo, con tutta
la forza che aveva in corpo si lanciò contro Sarafis sbattendolo
prima contro il muro e poi scaraventandolo a terra a sua volta
rimpiendolo di pugni, di graffi, di morsi e altri pugni ancora.
Sembrava Eracle avvinghiato a Tritone. Gli altri due in un lampo
gli furono addosso. Seguì un breve parapiglia. Nikos aveva però
le mani legate dalle manette. Per quanto ci provasse era in un
equilibrio troppo precario per potersela vedere alla pari. Venne
allora sopraffatto e rimesso di peso a sedere sulla sedia.
Il vice-commissario Sarafis rialzandosi da terra, tutto rosso in
faccia per i pugni e i graffi ricevuti da Nikos, umiliato e con gli
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occhi iniettati di sangue, gridava impazzito <<Lasciatemelo! Lo
ammazzo! Lo ammazzo!!>> Stefas però gli si parò davanti, e
quello si fermò di botto. Sembrava intenzionato a voler calmare
gli animi; riprendere da dove avevano lasciato. Dimenticare
l’accaduto e riprendere pazientemente l’interrogatorio. Staitranquillo-ti-capisco. Ma appena questi si voltò verso Nikos lo
sguardo complice di poco prima era scomparso. Al suo posto,
sulla faccia del vice-commissario, c’era qualche cosa di sinistro,
di malvagio. I suoi occhi sembravano volergli scorticare la pelle.
Fece un profondo respiro, si aggiustò la giacca, la cravatta, e
con un tono dichiaratamente minaccioso, cattivo, gli sussurrò
secco nell'orecchio:
<<Non hai nessun amico qui dentro, sia uomo, donna o cane.
Mettitelo in testa. È inutile scannarci fra noi... io ti capisco, te
l'ho detto. Non siamo diversi tu e io. Però devi darmi una mano,
capisci? Non vorrai farcelo chiedere alla tua fidanzata di là…
non è così?>>
CAPITOLO 20
Gournas, svenuto, era appeso nudo al soffitto. Il suo corpo,
interamente straziato da piaghe, lividi e bruciature, aveva
cambiato colore da un pezzo. Erano trentasei ore che lo
stavano interrogando a suon di manganellate alla testa,
manganellate ai piedi, manganellate alle braccia, alle gambe…
Rinvenne. Poco prima di svenire aveva sperato di rimanere
svenuto per sempre. Se fosse rimasto svenuto sarebbe stato in
salvo da tutte quelle botte. Ti-prego-o-cristo-cristo-ti-pregofammi-svenire, ma Cristo doveva essere da qualche altra parte,
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perchè Gournas, il povero Gournas, rinvenne. Rinvenne
eccome.
Scosse la testa, sputò il sangue che gli riempiva la bocca e
sollevò le palpebre guardandosi attorno. No, non era un incubo.
Un manrovescio lo colpì in piena faccia. Violento, spietato,
viscido. La mano del cane-cane-cane-maledetto-cane che lo
stava interrogando era dura come la pietra e sudata come le
cosce d’una puttana.
Ansimanti, grondando sudore, facendosi vento con dei giornali,
quasi come il coro d’una parrocchia, tutti e quattro i suoi
aguzzini gli gridavano <<Ammazzeremo i tuoi figli! Stupreremo
tua moglie!! Parla frocio parla!!>>
Ma Gournas, eroico, sprezzante, imperioso, col cuore che gli
martellava nel petto, i capelli arruffati, e un'espressione
cinicamente divertita li guardava attraverso gli occhi pesti e
gonfi con schifo e con repulsione. Se doveva farsi pestare a
morte, tanto valeva farla finita in fretta.
<<Porci!! Non fa male!! Cani! Cani! Cani! Non fa male! NON FA
MALEEEE!!>> Non mentiva. Non completamente. Il dolore
aveva cominciato ad abbandonarlo già dopo la prima mezzora
di schiaffi, pugni, calci.
<<NON FA MALE!! CANI! CANI! CANI! ANCORA! ANCORA!
ANCORA!>>. Li sfidava a colpirlo più forte, con più violenza,
come solo un greco può sfidare un altro greco.
<<ANCORAAAAA!!!>>.
Dopo un certo periodo di tempo il corpo perde del tutto la sua
normale sensibilità, si è come sotto una sorta di anestesia
totale; qualsiasi cosa facciano, qualunque sia il metodo che
utilizzeranno, dai manganelli alle sbarre di ferro, dai tizzoni
ardenti alla frusta, il dolore dopo mezzora diverrà centinaia di
volte meno potente di quanto proverete al primo colpo. E meno
potente ancora dopo la prima ora e così via via che il tempo
passa. Ci si fa quasi l'abitudine. Quasi. Ma se non vi lascerete
paralizzare dalla paura, se vi ribellerete al desiderio di svenire
in cerca dell’agognato sollievo, se insisterete, se continuerete a
spingere-dai-compagni-dai-non-fa-male-non-fa-male-daiiiii, alla
fine quei cani maledetti si stancheranno di mordere, e come
accadde quella domenica mattina a Gournas potrete gridare
fino a farli smettere:
<<ANCORAAA!!!>>
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CAPITOLO 21
Alle 10 e 30 di domenica 11 aprile 2010, dopo 56 ore
d’interrogatori, un corteo di auto e moto della polizia sfilò in
copertura delle sei jeep nere dei servizi segreti con dentro i
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prigionieri. Lo show per le telecamere delle televisioni venute a
celebrare la vittoria dello Stato aveva inizio. Tutto quanto il
tragitto fino al Tribunale era stato transennato. Ad ogni angolo
uomini col viso coperto da passamontagna e coi mitra pronti a
sparare presidiavano la città. Atene era diventata Hollywood.
Pericolosi-criminali-degli-anarchici-degli-eversivi-dei-mostri-deiterroristi-armi-esplosivi-passamontagna-libri-libri-libri titolavano
i quotidiani. Pericolosi-criminali-degli-anarchici-degli-eversividei-mostri-dei-terroristi-armi-esplosivi-passamontagna-librilibri-libri titolavano i telegiornali. Pericolosi-criminali-deglianarchici-degli-eversivi-dei-mostri-dei-terroristi-armi-esplosivipassamontagna-libri-libri-libri spiegavano i programmi di
approfondimento.
Quella stessa sera il governo grecò accettò il prestito del Fondo
Monetario Internazionale. I giornali e le televisioni ne
accennarono appena. Erano troppo impegnati a celebrare la
giustizia, la libertà, i carri armati...
<<Questo commissario…>> disse soddisfatto a
Papathanasakis il Ministro <<…questo, solamente questo era il
momento adatto per arrestarli.>>
CAPITOLO 22
90
La prima udienza del processo si tenne il 30 aprile 2010
nell’aula bunker del carcere di Korydallos. L’accesso alle
telecamere, sollecitato dagli avvocati degli imputati, venne
invece rigorosamente vietato dai giudici.
<<L’imputato Nikos Maziotis accetta o rifiuta le accuse?>>
<< Io sono un rivoluzionario che sta combattendo un ingiusto
regime di criminali noto con il nome di Stato e di Capitalismo.
Se c'è qui qualcuno che deve difendersi da delle accuse sono
coloro che mi stanno accusando, sono i poliziotti e i giudici che
servono i ricchi, non certo io. Io, che sono nel giusto, non ho
alcun motivo per cui dovermi scusare o difendere.>>
<<L’imputata Panayota Ruopa accetta o rifiuta le accuse?>>
<<Io sono una rivoluzionaria e non riconosco né l'autorità
vostra né quella di questo processo. I veri criminali e terroristi
siete voi e il sistema che servite: lo Stato e il Capitalismo.>>
<<L’imputato Gournas Kostas accetta o rifiuta le accuse?>>
<<Non ho intenzione di rispondere: non riconosco la validità
del procedimento in corso. È dall'età di vent'anni, da quando ho
iniziato a lavorare, che ho preso parte alla lotta di classe in
Grecia. Io sono contro questo regime, questo sistema politico,
questo sistema economico. Io non sono un terrorista. I terroristi
sono quei cani che stanno al 12° piano della questura che mi
hanno picchiato e hanno minacciato di uccidere i miei figli.>>
<<Il processo può cominciare. Prego, sedetevi.>>
**
Al pubblico ministero, il quale, seduto, stringeva la costituzione
come un prete il vangelo, gli si stava formando un’idea come
un pulcino in un uovo, quando, preoccupato di non aver nulla di
concreto da dire, gli venne concessa la parola e il malcapitato
pulcino crepò lasciandolo solo:
<<Signori giudici…>> cominciò striscinate lo sciagurato
balbettando <<sarò breve.>> e nel dirlo si schiarì la voce e
s'aggiustò ridicolmente la toga <<Gl’imputati sono criminali
dichiarati… l’hanno ammesso di loro spontanea volontà. Vanno
terrorizzando la società da oramai quasi dieci anni, dal lontano
2003. Sono nemici del popolo greco, e se ne vantano. Si fanno
un vanto di infrangere le leggi del nostro paese. Si fanno un
91
vanto… e promettono d’infrangerle ancora… se noi glielo
permetteremo. Rivendicano di appartenere ad una
organizzazione terroristica… si fanno un vanto pure di questo…
si fanno un vanto di combattere la libertà che noi difendiamo
contro la loro cieca violenza omicida… si fanno un vanto,
signori giudici… di disprezzare la nostra carta costituzionale,
baluardo della democrazia greca… si fanno un vanto, signori
giudici… incitano alla rivolta gl’ingenui nostri concittadini
contro un governo democraticamente eletto con deliranti
farneticazioni frutto dell’ignoranza in cui vivono e in cui
vogliono portarci tutti… la loro realtà semplicemente non
esiste… siamo di fronte a personaggi a dir poco tremendi…
uomini capaci di qualsiasi cosa… uomini disposti a qualsiasi
cosa pur d’imprigionarci dentro il loro caos, il loro terrificante
mondo malato… la loro anarchia.>> Premendo troppo sulla
parola ''anarchia'', scivolandoci sopra come su di una buccia di
banana, finì col sibilare come una vipera provocando le risa del
pubblico. Stizzito, disturbato per essere stato interrotto da un
errore da nulla, un'inezia, in quella che riteneva essere una
illuminante apologia della libertà, una perla di saggezza della
storia della giurisprudenza, aspettò che le risa cessassero e poi,
con alterigia, come un colpo di tuono sentenziò: <<Oggi, in
quest’aula di tribunale, noi abbiamo il dovere di ristabilire
l’ordine… abbiamo il dovere di difendere la democrazia…
abbiamo il dovere, signori giudici, di difendere la libertà.>>
I giudici, specialmente il presidente, per quanto d'accordo nella
sostanza non sembravano affatto soddisfatti di quanto aveva
detto nel complesso, e con gli occhi grigi e indagatori
sembravano implorarlo d'aggiungere qualche cosa di più di
quelle semplici banalità. Era pur sempre un tribunale quello,
mica una chiesa.
<<Signor Pubblico Ministero...>> intervenne il presidente,
<<La prego... arrivi al punto.>>
<<Il punto dice?!>> Impallidì il pubblico ministero, che non
sapeva che altro aggiungere.
<<Il punto, sì! arrivi al punto!>>
<<Ah... sì... beh, certo certo... il punto! Ovviamente!>> disse il
pubblico ministero cercando di darsi un contegno anche se
ormai era evidente anche al meno attento che era totalmente
in preda al panico.
92
<<Il punto è, signori giudici... il punto è che... che... che questi
sedicenti rivoluzionari... questi pazzi armati di mitra... ci hanno
dichiarato guerra. Hanno dichiarato guerra alla Grecia. Ci
hanno dichiarato guerra e se noi non li elimineremo loro
elimineranno noi>>.
Dopo un breve conciliabolo tra i membri della corte e un
piccolo cenno cordiale con la mano del presidente, cenno che
più che un invito ad entrare nel dibattito sembrava un invito ad
uscirne in fretta, a Nikos venne concesso di fare una
dichiarazione spontanea da dentro la gabbia degli accusati. Lo
sguardo glaciale; le labbra tremanti; pronto a prendere fuoco
come polvere da sparo; Nikos non nascondeva la sua ferocia
pronta a esplodere per difendersi da quell'accusa infamante
che lo aveva definito nemico del popolo greco. E lo chiarì:
<<Quali delle nostre azioni>> gridò nikos da dentro la gabbia
<<hanno terrorizzato la società o erano dirette contro di essa?
>> <<Quali delle nostre azioni? Forse l’attacco al Ministero
dell’Economia e del Lavoro, che è odiato dalla maggioranza
della società, e che rappresenta il luogo in cui vengono
decretate e approvate la maggior parte delle politiche
antisociali? O forse l’attacco contro la polizia antisommossa,
che ogni giorno sparge terrore nelle strade, che picchia i
dimostranti e la cui sola missione è la violenta repressione delle
lotte sociali? Ha forse qualcosa a che fare con i nostri attacchi
contro le stazioni di polizia, cha danno rifugio agli assassini
addestrati dal regime, e dove coloro che cadono nelle mani
degli sbirri vengono torturati, picchiati e uccisi su base
giornaliera? Forse l’attacco contro Voulgarakis – che era
personalmente implicato in due enormi scandali e che usava la
sua sedia di ministro per incrementare la fortuna della sua
famiglia attraverso la vendita di suoli pubblici, ha forse questo
attacco terrorizzato la società? La maggioranza delle persone
che vivono in questo paese apprezzerebbero assai di vedere
Voulgarakis, così come tutti coloro che sono implicati in simili
casi di insaziabile ladrocinio della proprietà pubblica, appesi in
Piazza Syntagma. E’ stato forse l’attacco contro l’ambasciata
U.S.A. un atto di terrorismo contro la società? Non sanno i
nostri persecutori e i loro superiori che questo attacco era stato
felicemente accolto da una vasta parte di società greca, la
quale non è particolarmente amichevole nei confronti degli
Stati Uniti? O forse l’attacco contro la multinazionale Shell – che
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per decenni ha saccheggiato le risorse naturali di molti paesi,
sfruttato intere popolazioni e contribuito alla distruzione del
paese – ha terrorizzato la popolazione? O era forse l’attacco
contro la Citibank, una delle principali bande di terroristi
finanziari internazionali, che per decenni ha giocato un ruolo
fondamentale nel processo di accumulazione di capitale,
rubando la ricchezza di molti paesi attraverso la speculazione
dei loro debiti nazionali, portandoli così ad un’irreversibile
rovina economica e sociale? Era forse un atto antisociale
attaccare questa multinazionale economica criminale, che è il
capobanda di coloro che hanno creato la crisi che stiamo
attraversando ora? O era forse l’attacco contro la Borsa
Nazionale (quel Tempio del Denaro, uno dei maggiori canali per
il saccheggio della ricchezza sociale e per il suo trasferimento
dalla base sociale alle élites economiche) un atto di terrorismo
contro la società? I soli ad essere terrorizzati da queste azioni
politiche sono state le autorità politiche ed economiche. I
criminali sono i capitalisti, che sono interessati solamente ai
loro investimenti e temono di non essere in grado di
oltrepassare i limiti della loro moderna dittatura senza dover far
fatica. Se questi attacchi costituiscono una minaccia a
qualcuno, è solo a coloro che partecipano al potere politico ed
economico, derivato dall’attuale regime e dalla schiavitù
sociale.>> detto ciò però, al contrario di quanto si aspettava,
non provò un solo atomo di piacere. Per la corte l’ingiustizia era
una trascurabilissima circostanza, quale-capitalismo-ecapitalismo!-la-legge-è-legge!-all’ingiustizia-penseremo-poi…
**
Dall’espressione che Nikos aveva sul viso mi parve ch’egli
sapesse cosa l’aspettava. Una-giusta-difesa-non-vale-nullacontro-quanti-hanno-già-deciso-di-fare-del-male, Pola glielo
diceva spesso.
94
CAPITOLO 23
6 agosto 2010, carcere di Korydallos
Mia dolcissima Pola,
Sono ormai quattro mesi che non mi permettono di avere tue
notizie. Come stai? E il bambino? Come sta nostro figlio? Mia
madre (quelle poche volte che le permettono di venire a farmi
visita) mi dice che è sano e forte. Ne sono felice. Dagli una
carezza e digli che gliela manda il suo papà. Spero di
potergliela dare presto di persona. Perdonami se ti scrivo in
caratteri così minuti ma mi hanno dato solamente un foglio e
non voglio sprecare un solo millimetro di carta. Ho così tante
cose che voglio chiederti e così poco spazio a disposizione…
Le giornate qui nel carcere passano come sai. La solitudine e la
noia dell’isolamento comunque non mi hanno demoralizzato. Il
morale qui è alto, non c’è motivo perché tu ti debba
preoccupare per me. Devi essere forte come lo devo essere
95
anche io. Non dobbiamo permettergli di piegarci. Me lo devi
promettere. Me lo prometti? Ora più che mai è nostro dovere
continuare a lottare, anche per il nostro piccolo Victor Lambros
che è appena venuto al mondo e che ha ancora una possibilità
di vivere una vita felice.
Mia dolcissima Pola, hai sofferto molto durante il parto? Mia
madre mi ha detto che sei stata molto forte e che non hai quasi
pianto. È la verità? E l’infermeria della prigione? Ti trattano
bene? Per quanto tempo ancora dovrai restare a letto? Non
farmi preoccupare. Sapere che nostro figlio è nato dietro le
sbarre di una prigione mi fa già soffrire molto. Spero che un
giorno riuscirai a perdonarmi, non era questo che volevo per te
e per lui.
Purtroppo non ho molto da raccontarti. Qui non succede mai
nulla. Non mi è permesso alcun contatto con gli altri detenuti e
i secondini a malapena mi rivolgono la parola. Spero che a te e
al bambino abbiano riservato un trattamento migliore.
Ma raccontami di lui. Non l’ho ancora mai visto e già lo amo
così immensamente. Mi somiglia? E le manine? Ha le manine
grandi come le mie? Come vorrei poterlo vedere anche solo in
fotografia… Pensi che ti permetteranno di mandarmi una sua
foto? Devi fare assolutamente domanda e mandarmene una al
più presto.
So che te lo avrà già detto un migliaio di volte anche lei, ma di
qualunque cosa hai bisogno non aver paura e chiedi pure a mia
madre. È così felice quando può rendersi utile.
L’avvocato mi ha detto che in questi mesi hai scritto un libricino
sulle condizioni delle madri detenute nelle carceri e che sei
anche riuscita a farlo pubblicare. Sono orgoglioso di te, amore
mio. Dice che ha già fatto domanda al tribunale e che forse
riuscirà a farmene avere una copia ma di non farmi illusioni, io
comunque lo spero proprio tanto.
Mi manchi moltissimo. Purtroppo non mi è permesso telefonare
se non ai familiari più stretti. Come vorrei sentire la tua voce e
quella del bambino anche solo per un istante. Ogni giorno che
passo lontano da te ti amo sempre di più. L’ultima volta che ti
ho visto in aula avevi ancora il pancione. Eri bellissima. Ancor
più bella della prima volta che ti vidi in via Achernon con
quell’enorme bandiera in mano. Quanto ho desiderato poterti
abbracciare quel giorno in tribunale. So che sei forte e che non
lo farai, ma promettimi che non ti arrenderai. Ho bisogno di
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sapere che continuerai a combattere al mio fianco. Lo sai
anche tu che non esiste l'impossibile ma che esiste solo la
paura di non riuscire, me lo dicevi sempre. Te lo ricordi? Non
facciamoci prendere dalla paura. Continuiamo a combattere.
Promettimelo.
Piccola mia, lo spazio sta cominciando a finire e io non ti ho
ancora chiesto le cose più importanti.
Hai notizie da fuori? Ti è venuto a trovare qualcuno dei
compagni? Qui mi censurano la posta, ma tu provaci
comunque a raccontarmi qualche cosa.
Ricorda sempre che delegare la propria libertà ad altri è
immorale oltre che sbagliato. Ricorda che è troppo facile, è
troppo facile dire ''scegli tu al posto mio, io te lo permetto'', è
troppo facile. Se permettessimo un tale abominio, una tale
immoralità senza far nulla che cosa saremmo? Che cosa
saremmo, mia dolcissima Pola, se lasciassimo che una cosa del
genere accadesse senza protestare la nostra contrarietà?
Senza dire '' no, questo non puoi farlo, questo non ti è
permesso, lasciare scegliere qualcunaltro al posto tuo solo
perchè sei troppo vigliacco per prenderti la responsabilità di
decidere della tua vita non ti è permesso'' che cosa seremmo?
Delegare la propria libertà ad altri non è solamente immorale e
sbagliato, è criminale. Significa lasciare che la delinquenza e
l'odio prendano il sopravvento nelle vite di tutti con la
coscienza pulita perchè tanto abbiamo detto ''scegli tu al posto
mio, io te lo permetto'' e la colpa non ci riguarderà più perchè
ha deciso un altro, anche se con il nostro consenso, avrà deciso
un altro. E allora noi potremo dire '' non sono stato io, io non
sono d'accordo, mi ha tradito, non volevo questo quando gli ho
detto ''scegli tu al posto mio, io te lo permetto'', non volevo
questo, la colpa non è mia è sua, io mi sono fidato, ero in
buona fede, la colpa è sua, la scelta sbagliata è sua, è colpa
sua se le cose vanno male, se la delinquenza e l'odio hanno
preso il sopravvento nelle nostre vite. Io ho fatto il mio dovere
di buon cittadino, ho seguito le regole. È lui che ha sbagliato,
che mi ha tradito. La colpa è sua, non mia''. Ma allora che cosa
saremmo? Che esempio daremmo ai nostri figli se invece di
prenderci la responsabilità delle nostre scelte facessimo
ricadere la colpa su qualcun altro? Non dovremmo invece
mostrare ai nostri figli, e di conseguenza al mondo che verrà,
che prenderci la responsabilità e perchè no se è il caso anche
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la colpa delle nostre scelte è l'unico modo corretto di agire?
Non credi che altrimenti saremmo noi i veri traditori di noi
stessi e perciò i veri responsabili dei loro dolori futuri?
Possiamo forse permetterci di negare un dato di fatto così
chiaro ed evidente e continuare a vivere le nostre patetiche
vite come nulla fosse, come se non ci riguardasse, come se, in
definitiva, questa verità non foss'altro che una verità di cui non
c'è bisogno di curarsi? Che genitori saremmo, mia dolcissima
Pola? Che padre sarei? Che principio della storia dell'esistenza
dei nostri figli saremmo?
Noi abbiamo il preciso dovere d'impedire che questo crimine si
compia. Abbiamo il preciso dovere di fermare la delinquenza e
l'odio, perchè se non lo faremo, se rimarremo fermi, in silenzio,
a guardare mentre dei vigliacchi danno mandato a degli
assassini di uccidere il nostro diritto ad essere considerati
colpevoli delle nostre scelte sbagliate allora saremmo la causa
della morte della felicità dei nostri figli e dei figli degli altri.
Delegare la propria libertà ad altri è un atto criminale. È un
crimine contro l'umanità. È un delitto che non ci saremmo mai
dovuti permettere. È il motivo percui oggi la felicità è solo una
commedia che finisce in dramma.
Ora lo spazio è veramente finito. A presto mia dolcissima Pola.
Con amore, sempre tuo
Nikos Maziotis
CAPITOLO 24
Come un mazzo di carte buttato per aria le vite dei rivoluzionari
sono spesso in balia del vento. Nikos e Pola dopo i 18 mesi di
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carcerazione preventiva, il 15 giugno 2012 riuscirono a darsi
alla fuga insieme al loro figlio di pochi mesi Victor Lambros.
Rimasero latitanti nel quartiere di Exarchia per quasi due anni e
mezzo, aiutati dalla solidarietà della gente nonostante i brutali
servizi di sicurezza greci, aiutati dalle divisioni dell’antiterrorismo e dalla CIA buttassero giù porte in cerca di nomi e
indirizzi nel cuore della notte e nonostante le taglie da due
milioni di dollari ciascuno fatte pendere sulle loro teste
dall’ambasciata americana.
Il 16 luglio 2014, dopo essere stato riconosciuto da un poliziotto
e ferito ad un braccio da una pallottola che gli recise un’arteria,
Nikos venne arrestato a Monastiraki e condannato ad 85 anni di
carcere da scontare in una cella sotterranea nel carcere di
massima sicurezza di tipo C di Domokos, che lui stesso
inaugurò come primo detenuto politico.
FINE… forse