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1 L’animale La vera storia dell’anarchico Nikos Maziotis Di Enrico Papaccio 2 Ispirato da una storia vera. 3 PROLOGO Erano bastati centocinquant'anni, solamente centocinquant'anni per demolire e corrompere, petalo dopo petalo, l'intelligenza e la speranza e poi trasformarle in oggetti da mercato. Erano bastati centocinquant'anni, e quel sentiero tracciato dai greci era stato cancellato. Centinaia di milioni di morti erano stati sacrificati all'altare del capitalismo perchè satanici profeti che fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro avevan deciso che la verità era cosa per pochi eletti, e chi ne pronunciava una diversa doveva essere annientato. Ma nel 1989 la Grecia non poteva avere già dimenticato i colonnelli, le minigonne vietate, i capelli corti per legge, i libri censurati, i Papadopoulos, i Makerezos, i Ladas, il re Costantino II e la sua fuga a Roma; non poteva avere già scordato gli omicidi, le torture nelle caserme, la legge marziale, la violenza della polizia, i partiti vietati e tutto quel lordume fascista della dittatura. Nel 1989 tutto questo doveva ancora gridare per le strade e i vicoli di Atene, nei quartieri della capitale del mondo antico che aveva ospitato filosofi capaci, con il loro genio, di cambiare, condizionare, evolvere, educare alla libertà della mente metà della terra e fare invidia alla metà restante. Il terrore di quei sette anni, la paura di quei duemilacinquecentocinquantacinque giorni, il dolore di quelle sessantunmilatrecentoventi ore, era per forza, per natura, ancora vivo nelle menti e nei cuori degli eredi e figli di Pericle, di Achille, di Omero, di Socrate. Il ricordo del Politecnico in fiamme, della scomparsa di Panagulis e il milione di uomini e donne al suo funerale era, necessariamente, ancora l'incubo che turbava il sonno di un popolo così grande per sapienza e cultura, custode dei segreti più cercati dall'umanità. Nel 1989 non cadeva solo il muro della follia che divideva il mondo in due parti distinte ma violentate allo stesso modo con metodi diversi ma egualmente crudeli e vigliacchi; nel 1989 non finiva 4 solo un'era di oppressione e ne cominciava un'altra di agghiacciante e schizofrenica ipocrisia. In quell'anno così famoso nel libro della storia di fine secolo prendeva inizio anche la triste favola d'un uomo che allora non era che un ragazzo di soli diciott’anni, e che oggi è rinchiuso in una gabbia dimenticata da dio dentro le viscere di una cittadina senza strade né acqua sufficiente per tutti chiamata Domokos. Quell’uomo, quel ragazzo, questo greco non ancora ventenne è il protagonista della nostra storia; una storia che pretende, così come spesso il destino impone alle cose d’accadere, d’essere scritta per voi col sangue e con le lacrime, col dolore e con la rabbia che solo gli ubriachi di professione, i rivoluzionari del cazzo, i dottori in approfittologia applicata, gli esperti in fallimento e in senso di colpa sanno mantenere vivo per le pagine necessarie al racconto perché impegnati in una lotta lunga una vita contro se stessi che non sanno vincere se non ripetendosi ossessivamente che tutto finisce ma ci vuole altro sangue, altro vino, altro vomito, e altro vino ancora. E questi uomini, questi traditori della morale giusta, che pongono la domanda, domandano la risposta, sanno che non esiste, tacciono, imprecano ma la domanda continuano a portela e ti chiedono vigliacchi se nulla ha senso la battaglia per la vita non è forse gioco perverso, m’obbligano a domandare a voi: chi meglio d’un alcolizzato, d’un invertito cocainomane, d’un anarchico diabetico e cardiopatico, d’un sociopatico incapace d’amare, d’un violento antipatico bastardo può prendersi la briga di raccontarvi una parte della vita del nostro eroe che in questa guerra insensata ha deciso di sacrificarsi completamente dimostrandosi un malato anch’egli, forse d’una malattia più nobile, forse si, forse no, chi lo sa, ma pur sempre malato perché impegnato con tutto se stesso a tentare un nuovo, anzi vecchio di millenni, immorale metodo per suicidarsi con criterio: la ricerca della libertà? Ma allora ecco che la commedia, questo suicidio, il rito della morte auto inflitta e cercata con così tanto depravato desiderio si prepara a compiersi, ad entrare in scena come in un teatro in fiamme simile all’inferno, e mentre il mondo vede di nuovo morte, di nuovo torture, di nuovo sangue innocente versato sull’asfalto di Atene, di Salonicco, di Larissa, mentre il mondo vede di nuovo prigioni, di nuovo, di nuovo, di nuovo, e poi vede ancora censura, ancora repressione, ancora paura, ancora, 5 ancora, ancora, e per l’ennesima volta vede violenza, per l’ennesima volta vede menzogne, per l’ennesima volta vede tradimento e per l’ennesima volta si spreca la parola libertà, la parola dignità, la parola ordine, sacrificio, patria, guerra, e libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra e libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra, e ordine, e libertà, libertà, libertà! e mentre nella bocca di tutti si grida al tiranno, al mostro, al cospiratore, al criminale; e mentre nella bocca di tutti si grida al genio, all’eroe, al santo, al buono, al salvatore, ogni cosa, dalla più grigia alla più colorata, dalla più insignificante alla più studiata, si mostra semplicemente per quel che è, solamente, impietosamente nulla. Ma se per molti uomini il nulla non è niente, per il nostro coraggioso eroe il nulla era la materia da plasmare, un sogno da costruire, una realtà da dimostrare; come uno scienziato aveva scoperto una teoria che però gli si voleva impedire di render nota perché pericolosa, perché diversa, perché nuova, perché probabilmente vera. Come un archeologo aveva la certezza che la verità era lì sotto, a pochi metri dal suolo dove camminava, una verità inconfutabile perché dimostrata dai fatti. Ma come nei paesi ove la democrazia è un miraggio e la corruzione una regola anch’egli era perseguitato e boicottato per dare vantaggio ad altri, agli amici di quelli della democrazia confusa e della corruzione regolamentata. E così su quel suolo, su quel terreno che teneva al sicuro la verità di Nikos e le speranze di altri come lui e che avrebbe meritato tutt’altro trattamento, vennero stese autostrade, costruiti alberghi e casino per permettere ai ricchi amici degli amici di andare più velocemente negli alberghi a scoparsi le loro puttane e nei casino a giocare i loro soldi rubati alla povera gente. Fuor di metafora Nikos aveva un ideale, un principio politico per cui aveva deciso di battersi a costo della vita. Aveva sentito parlare di uguaglianza, e diavolo se se ne era convinto che l’uguaglianza era necessaria. Aveva sentito parlare di solidarietà, e quanto è vero iddio andava in giro dicendo che bisognava esser solidali se si voleva essere uomini rispettabili. Aveva sentito parlare di autogestione, e che mi venisse un colpo se sto mentendo di capi padroni e signori era meglio non parlare in sua presenza. Aveva sentito parlare anche di giustizia, di pane e casa per tutti, di pace e di guerra, e che mi 6 crediate o no lui la giustizia, il pane e la casa li voleva per la pace e la felicità di tutti per davvero, ma aveva deciso che per averli si doveva fare prima la guerra. Per questo però è ancora troppo presto, ve lo racconterò più avanti. Per ora sappiate che la prima volta che lo hanno arrestato Nikos aveva appena compiuto diciannove anni. Era il 15 maggio 1991. E nel 1991 Nikos era un ragazzino. Nel 1991 Nikos era un bambinetto troppo basso per sembrare un uomo e troppo magro anche solo per somigliarci. Se al tempo vi foste azzardati a dirgli una cosa del genere Nikos, il bambinetto troppo basso per sembrare un uomo e troppo magro per somigliarci, vi avrebbe preso a pugni fino a farvi cambiare idea, ci potete scommettere. Andava in bestia se lo si chiamava ragazzino e non gli importava quanto fossero grossi e brutti e sporchi, lui piegava le gambe, abbassava la testa e come andava andava. Ma che somigliasse più ad un ragazzino non lo dico solo io. Lo dicevano tutti che Nikos non dimostrava la sua età, che sembrava più piccolo, un bambinetto di poco meno di sedici anni insomma, forse sedici appena compiuti, ecco. Alle guardie che lo vennero a prendere, alla questura che quelle guardie le aveva mandate e al Signor Ministro Varvitsiotis che a quella questura come a tutte le altre questure del paese dava gli ordini, di Nikos Maziotis, di anni diciannove, residente in via Themistokleous ad Exarchia, Atene, come di tutti gli altri, non gl’importava nulla certamente. O forse gl’importava troppo. È la legge, dicevano. Sono le regole, ammonivano. È così che si fa, si giustificavano. Frasi di circostanza pronunciate e ripetute pappagallescamente dalla polizia, da impiegati governativi, da militari in divisa e in borghese che quelle frasi le avevano imparate a memoria dalla televisione e dai giornali facevano da contrabbasso alle grida strazianti della madre di Nikos, che sola, come tutte le madri del mondo, fu capace in quel momento di tradurre in un lamento così drammatico da farlo somigliare ad una canzone d’amore perduto il pianto del figlio non ancora uomo che si dibatteva e si dimenava urlando canicani-cani-maledetti-cani agli agenti che lo caricavano in macchina per portarlo via. Ma la legge, la giustizia dei tribunali, non vede, è cieca, lo sanno tutti. I drammi lei non li vede, si limita a provocarli, magari ogni tanto da giusto una sbirciatina per divertirsi oppure offendersi, ma nel migliore dei casi giudica e basta creando un nuovo dramma nel dramma. 7 Si era rifiutato di andare al militare… Che si credeva, di passarla liscia? Un anno nel carcere militare Pavlos Melas a Salonicco. Questa era la giusta punizione, non un giorno di meno. E se ciò lo rendeva un prigioniero di coscienza per quei comunisti di Amnesty International e tutte quelle associazioni filosovietiche tanto meglio, il mondo intero doveva vedere come la pensava la Grecia su questa marmaglia pacifista. Era appena caduto il muro santo cielo. C’erano comunisti dappertutto. Ovunque ti girassi vedevi bandiere rosse, bandiere nere, bandiere rosse e nere, bandiere, bandiere e di nuovo bandiere, sempre e solo quelle fottute bandiere. Solo nell’ultimo anno c’erano stati in Grecia quasi millecinquecento scioperi. Millecinquecento scioperi in un solo anno. Millecinquecento porca di quella puttana, riuscite ad immaginarvelo? Millecinquecento scioperi e solo ottomilasettecentosessanta ore a disposizione. Perché sono solo ottomilasettecentosessanta le ore in un anno, non un minuto di più. Eppure millecinquecento volte i Greci avevano voluto dire no, millecinquecento volte avevano voluto dire nonio, millecinquecento volte avevano voluto dire non-in-mionome. Nikos era cresciuto in questo ambiente, in questi no, in questi non-io, in questi non-in-mio-nome. Ed era pure per questo motivo che Nikos doveva finire nel carcere militare Pavlos Melas di Salonicco, questa-era-la-giusta-punizione-non-unminuto-di-meno, perché le teste calde vanno messe in riga subito. Non si poteva tollerare. Non si doveva tollerare. Non in Grecia. Aveva solo quattordici anni quando partecipò alla sua prima manifestazione. Era il 17 Novembre 1985. Ricordo il giorno esatto perché quel giorno un ragazzino di un anno più vecchio di Nikos, aveva si e no quindici anni, Michalis Kaltezas si chiamava, venne ammazzato da uno di quei cani-cani-canimaledetti-cani con due colpi di pistola alla testa. Gli disse mettiti in ginocchio, Michail si mise in ginocchio, gli disse guardami, Michail lo guardò, gli disse hai finito di fare l’eroe, Michail non gli disse nulla ma continuò a fissarlo dritto negli occhi. Il cane-cane-cane-maledetto-cane gli sparò in faccia due volte con la sua pistola d’ordinanza e lo ammazzò. Michail Kaltezas, questo il suo nome, non finì mai più di essere un eroe. Anche con due buchi in faccia. Anche se cadavere. 8 Quella notte Atene prese fuoco. Le bottiglie Molotov illuminavano l’aria prima di schiantarsi al suolo mostrando alle vecchie e ai vecchi appollaiati sui balconi in un lampo di luce le barricate costruite alla meglio dai manifestanti in rivolta riportandogli alla mente piazza Syntagma nel ’44, quando a combattere c’erano loro e i cani-cani-cani-maledetti-cani erano quelli di Churchill. Le sirene della polizia che strillavano per la città così forte da far scoppiare i timpani provocavano il pianto dei neonati nascosti dietro i muri delle case. Le grida della gente che supplicavano fino a far spezzare il cuore non-lotoccare-ti-prego-basta-ti-prego-basta-basta-lascialo-basta. Gli slogan cantati fieramente che facevano ribollire il sangue e che tutti, anche chi li sentiva per la prima volta, gridava a squarciagola perché sentiva che quello era finalmente il suo momento. I lacrimogeni avvolti nella carta da giornale lanciati dai tetti dei palazzi dai poliziotti perché-così-prendono-fuocoprima-prendono-fuoco-prima-e-li-bruciamo-tutti-quei-vermi-libruciamo-tutti. I polmoni che bruciavano fino a star male. La battaglia che osava diventare guerra-di-lunga-durata, che provava credeva sperava di diventare rivoluzione senza fermarsi alla semplice insurrezione. Ma questa è semantica, letteratura, romanticismo. Quella che vide Nikos era una vera città in rivolta, una vera città che si ribellava al sopruso, fatta di uomini e donne vere che gridavano, di veri cassonetti in fiamme che bruciavano, di veri eroi che tentavano di riportare il mondo in uno stato primordiale, dove ancora non esiste il diritto ad eleggere un padrone, dove ancora non esiste la morale che impone agli schiavi di rimanere schiavi per sempre dichiarando morta tutta la storia dell’evoluzione, e ‘fanculo Darwin. Dove un uomo è un uomo e nulla di più. Dove chi parla è ascoltato e rispettato e non deriso, umiliato e poi incarcerato in nome di non si sa quale santa democrazia al servizio di quegli uomini che pretendono d’essere più di semplici uomini, più di tutti gli uomini, gli unici uomini. E allora Nikos prese in mano un sasso e lo scagliò contro la prima vetrina che si trovò davanti. Non perché volesse rompere quella vetrina in particolare ma perché quella era la sua vetrina, l’unica vetrina che potesse colpire in quel momento. Ruppe la vetrina per riprendersi quello che gli avevano rubato, così gli avevano spiegato che si doveva fare. Ruppe quella vetrina perché ogni cosa, tutto, gli era stato rubato e ora lo rivoleva indietro, a 9 cominciare da quella vetrina. Quando la vetrina si infranse per scoppiare in migliaia di pezzi, quando il vetro della vetrina si sparse per tutto il marciapiede, quando quella vetrina scomparve cessando di esistere, Nikos, quattordicenne, così basso da far sorridere, così magro da far pensare ad una qualche malattia, immobile, muto, eccitato e perfino entusiasta scopri che quella vetrina, lui, sì, proprio lui, era in grado di romperla. Decise che non voleva nulla. Che non era quello che lui voleva. Non voleva niente, lui. A Nikos importava un’altra cosa. A Nikos importava che a nessuno, mai più, gli fosse venuto in mente di portare via la felicità a qualcun’altro. Quella notte Michail Kaltezas era morto, sepolto da un mare di lacrime che riempirono la facoltà di chimica fino al mattino del giorno dopo, quando le forze speciali mandate dal Signor Ministro Kutsoiorgas (nell’85 era il Signor Kutsoiorgas il Signor Ministro) sfollarono tutti e cinquemila gli anarchici e i ragazzi presenti facendoli annegare in un dolore che non ha mai smesso di soffocarci tutti. Michail Kaltezas era morto. Ma sant'iddio era nato un altro compagno, un altro camerata, un altro eroe, un altro Kaltezas, un altro Panagulis, un altro Rigas Feraios: Nikos Maziotis, residente in via Themistokleous, quartiere Exarchia, Atene. E questa signori, questa compagni, questa camerati, è la sua cazzo di tragedia greca. Buona lettura. E ora a me il vino, la storia comincia. 10 CAPITOLO 1 <<Corri Nikos! Corri!!>>. <<Sto correndo, cazzo! sto correndo!>>. <<FERMIIIII!!!!>>. Ci stavano addosso come degli English Foxhound stanno addosso alla volpe rossa durante una battuta di caccia. Ci stavano braccando con un'evidenza da pugni in faccia, e lo sapevamo. I grigi palazzoni, complici di quel senso d'oppressione, sembravano volerci schiacciare da un momento all'altro, esattamente come succede alla volpe rossa una volta raggiunta la tana. Tutto ormai sembrava perduto. <<Prova all'Ama Lachi!!>>. Tagliò corto Nikos. Saltellammo intorno ai tavoli scartando i verdi alberi di limoni e piante di pomodori che li nascondono ai passanti lungo la strada e mi gettai contro la porta a vetri del ristorante con tanta di quella forza che se pure non fosse stata aperta l'avrei sfondata, aiutato com'ero dall'aver corso in discesa gli ultimi cinquanta metri. Spinta la porta ci ritrovammo in una piccola camera nuda; di lì, in una sala più grande ma ancora vuota di clienti. Nella foga rovesciammo un paio di sedie attirando l'attenzione di un paio di camerieri, i quali, guardandoci in cagnesco e infuriati come la morte, ci mostravano il palmo della mano maledicendoci fino alla quinta generazione, e di un terzo, grasso come un maiale, che tentò goffamente di placcarci senza tuttavia riuscirci. Il rumore delle sedie spinte indietro, le urla dei suoi colleghi e le nostre non sembravano averlo raggiunto: quando entrammo in cucina infatti sorprendemmo il cuoco a gesticolar qualcosa contro la televisione e uscimmo dal retro senza dargli il tempo di far nulla, tranne sbuffare infastidito come se quella fosse l'ennesima di una lunga serie di invasioni da parte di sconosciuti nella sua cucina. Una volta trovata la porta che cercavamo, ossia quella che portava nel retro del ristorante, ci ritrovammo in un piccolo cortile completamente asfaltato e cinto da un muro. Non appena me lo vidi spuntare davanti, quel 11 muro alto due metri che ci bloccava la fuga quasi mi sembrò la fine stessa materializzatasi in quel momento dal nulla solo per noi. <<Che hai? Salta!!>> e sorridendo un sorriso diabolico Nikos prese la rincorsa. Come un capriolo s'arrampicò sapra i bidoni della spazzatura. E in un attimo, senza che me ne rendessi conto, era già in cima al muro che mi aspettava per andare dall'altra parte. <<Che aspetti??>>. Cosa aspettavo? Presi anch'io la rincorsa, e facendomi coraggio feci tutto esattamente come lo avevo visto fare a Nikos un attimo prima, senza però la stessa convinzione negli occhi o la stessa agilità d'un capriolo. Nonostante tutto però, sia pure con qualche difficoltà, ci stavo riuscendo. Ero ormai quasi in cima. Quasi. Quasi in cima... quando qualcuno mi afferrò ad una caviglia. Bestemmiai: <<Cazzo!>>. <<Ti ho preso!>> quando mi voltai e vidi il brutto muso sudato di quel ciccione del cameriere che poco prima aveva tentato di placcarci in sala m'infuriai a tal punto che l'avrei ucciso. Non mi faceva paura. Mi faceva solo schifo. Lo sentivo un pò come un intruso a un funerale che fin dal primissimo instante si ostina tenacemente a voler sedere al fianco della sorella del defunto perchè le donne tristi son più facili da portare a letto. <<Mollami idiota!>> e iniziai a contorcermi e ad agitarmi, <<mollami!! mollami!!>> ma il ciccione non voleva mollare. Allora Nikos con un balzo si buttò giù dal muro. Senza pensare vuotò un bidone della spazzatura grande quasi quanto lui, e prendendolo da dietro mentre lui continuava a tenermi per la caviglia e io a sbraitargli contro di mollarmi glielo scaraventò contro con una tale decisione che il ciccione cadendo a terra crollò come una montagna franando fino a terra. Allora Nikos, con la stessa agilità di prima, usandolo come una specie di trampolino, si arrampicò di nuovo sul muro e finalmente potemmo buttarci dall'altra parte e continuare la nostra fuga per tentare di metterci in salvo dalla polizia. Ci buttammo nel vuoto senza guardare, con pieno abbandono adolescenziale nelle nostre capacità atletiche e fiduciosa speranza di riuscire. E in effetti così fu. Atterrammo senza difficoltà e ricominciammo a fuggire a più non posso. Il nostro obbiettivo era raggiungere il Politecnico; una volta dentro saremmo stati 12 in salvo: la polizia non avrebbe osato inseguirci fin dentro l'università. Eravamo però entrambi stremati. Le gambe cominciavano a farci male. Il dolore alla milza ci faceva piegare in due dal dolore. Sapevamo che dovevamo continuare a tutti i costi a correre, ma ogni passo in avanti era una pugnalata allo stomaco. Nel frattempo, non so come, quei maledetti cani erano riusciti a capire le nostre intenzioni e a fare il giro dell'isolato prima che noi si entrasse all'Ama Lachi e ora ci correvano dietro ancor più incazzati di prima. <<FERMIIII!!!>>. Dovevamo continuare a tutti i costi a correre. A tutti I costi. <<Eccoli! Corri Nikos! Corri!>>. <<Sto correndo, cazzo! Sto correndo!>>. ** Centomila pugni chiusi si sarebbero dovuti stringere per le strade di Exarchia. Duecentomila braccia armate si sarebbero dovute ribellare nelle vie di Exarchia. Un milione di voci avrebbero dovuto intonare gli slogan della rivoluzione nel quartiere di Exarchia. Dieci milioni di lacrime avrebbero dovuta bagnare le terre di Grecia per lavare via il sangue dalle piazze di Exarchia. Un solo uomo era lì quel giorno. Un solo pugno chiuso si strinse quella sera. Due sole braccia armate tentarono la rivolta quel pomeriggio. Una sola voce forte come un milione che si dispera in nome di dieci milioni di lacrime si levò verso il cielo in segno di protesta per il sangue che sporcava la sua terra e che le sue sole lacrime tentarono di lavare ripulendo l’asfalto nero del suo quartiere, della sua strada, del suo paese. La speranza di un popolo intero era nel corpo di un solo uomo. Il pianto di Nikos arrivava fino alla fine della strada, fino al Parlamento, fino all’università, fino al museo archeologico nazionale, fino all’Acropoli per poi rotolare indietro per piazza Syntagma e via via fino a via Themistokleous, nel quartiere più ribelle di Atene, il suo quartiere, Exarchia… La disperazione di 13 sua madre, il volto contratto di suo padre, la rabbia di suo fratello sono tutt’oggi il simbolo di un rapimento legalizzato che m’obbliga a tener la testa china sul bicchiere, punendomi ancora dopo tanti anni in questa pulciosa taverna che puzza di piscio e di rimorso. Quel giorno era Atene che veniva caricata in macchina per scontare un anno nella prigione del Signor Ministro Varvitsiotis. Quel giorno era l’umanità intera che veniva spinta a forza dentro la volante per scontare un anno nella galera del Signor Ministro Varvitsiotis. Quel giorno, in quella strada di Atene, in quel quartiere di Atene, in quella città della Grecia figlia e madre di Atene, era la libertà che veniva messa in catene nella cella del Signor Ministro Varvitsiotis. Il cielo grigio, stanco, noioso e immobile, vedeva il vento corrergli via per andare a tirare tirare tirare per fermare, riportarlo indietro, difenderlo. Lo guardavo da lontano, nascosto dietro il muro alla fine della via all’angolo tra via Themistokleous e via Kallidromiou mentre gridava a squarciagola contro l’ingiustizia. Piansi quel giorno. Piansi fino a sera. Piansi fino al giorno dopo. Piansi tutta la notte seguente. Piansi fino a sentirmi la faccia bruciare. Piansi perché non andai ad aiutarlo, perché non andai a tirare tirare tirare, riportarlo indietro, difenderlo come aveva fatto solo il vento sfidando il cielo. Piansi perché solo lui, il vento, lo aveva fatto. Solo lui aveva tentato. Perlomeno tentato. Piansi perché mi sentii un codardo, perché eravamo stati tutti codardi ma io più di tutti perché non andai a tirare tirare tirare, riportarlo indietro, difenderlo. Piansi perché non ebbi il coraggio di uscire da quel mio riparo all’angolo tra via Themistokleous e via Kallidromous quando Nikos mi vide e con lo sguardo mi pregò d’aiutarlo, di mostrarmi da dietro quel muro tra via Themistokleous e via Kallidromous per urlare con lui più forte che potevo cani-cani-cani-maledetti-cani-cani-canicani-maledetti-cani-cani-cani-cani-maledetti-cani-tornatevenea-cuccia-dal-Signor-Ministro-Varvitsiotis. Piansi, e quella sera da vero codardo non ebbi la forza di fare altro che ubriacarmi fino a svenire imprecando contro il cielo che non aveva aiutato il vento, contro il vento che non aveva tirato abbastanza, contro mio padre che non mi aveva fatto abbastanza uomo e contro me stesso, che non sapevo far altro che ubriacarmi fino a svenire. Mi ubriacai per vomitare l’anima codarda che mi stava dentro e che mi aveva tenuto fermo, che non mi aveva fatto chiudere il pugno, che non mi aveva fatto alzare il braccio 14 verso quel cielo grigio come aveva fatto il vento, che solo, nella più tetra solitudine, aveva tentato d’opporsi all’ingiustizia, per fermarla, per riportarlo indietro, difenderlo. Così quell’anima codarda che mi agghiacciava il sangue nelle vene mostrandomi per la prima volta in vita mia il mio vero volto; quell'anima codarda che mi rendeva così diverso da Nikos, così piccolo davanti a Nikos, così debole in confronto a Nikos; quell'anima codarda mi faceva schifo. La odiavo. Io stesso mi odiavo. E la colpa era della mia anima. Di quella puttana della mia anima. Una legge malata, ancor più malata di tutte le altre, lo voleva punire per punire tutti quanti. E io... io non avevo fatto niete. Lo stava punendo per punire tutti quanti. E nessuno faceva niente. Lo avrebbe punito per dire a tutti quanti che osare non è permesso e-se-osi-conosci-la-punizione. Un governo di ladri lo voleva criminale agli occhi del popolo. Lo stava facendo criminale del popolo. Lo avrebbe reso criminale in nome del popolo. E nessuno, nessuno al mondo faceva niente. Ma anzi quel mondo che non faceva niente, che aveva smesso di sognare, di credere nel domani, nel futuro, nell’evoluzione della specie e che aveva tradito e pugnalato alle spalle le speranze, i desideri, i sogni di uno dei suoi figli più puri ora lo voleva chiuso in una prigione militare per punirlo perché aveva osato, per renderlo criminale perché non doveva osare. Un solo pugno chiuso si alzò verso il cielo quel giorno di maggio del 1991, ed era il pugno di Nikos Maziotis, di anni diciannove, residente in via Themistouclis, quartiere Exarchia, Atene. Mi voltai terrorizzato dall’altra parte quando la volante mi sfrecciò davanti a tutta velocità con le sirene spiegate lungo via Themistouclis. In quel breve attimo sentii gli occhi di Nikos addosso. In quel breve attimo della durata di forse un secondo o anche meno un brivido gelido mi corse lungo la schiena perché sapevo che mi stava guardando da dietro il finestrino della volante della polizia, che mi chiedeva d’aiutarlo mentre se ne spariva, rapito dai cani-cani-cani-maledetti-cani, da via Themistouclis mentre io gli voltavo le spalle per la paura di finire in gabbia con lui. Fottuti-cani! Era tutto quello che sapevo fare per lui, gridare: fottuti-cani! Lo avevano portato via. Cazzo-cazzo-cazzo-fottuticani-fottuti-cani. Ecco tutto quello che sapevo fare per lui: imprecare. Dopo tutto quello che avevamo passato insieme, 15 dopo tutte le risate nelle taverne, le litigate alle riunioni del movimento, dopo tutto quel gridare, dopo tutto quel cantare, saltare, correre, ubriacarci dopo aver gridato-cantato-saltatocorso insieme, dopo aver pianto insieme, aver protestato insieme, dopo esserci promessi reciprocamente che non avremmo mai smesso di sognare un mondo nuovo, dopo che avevamo promesso al mondo che lo avremmo reso nuovo insieme, dopo esserci chiamati compagni per la prima volta insieme lasciandoci scappare un sorriso di soddisfazione, Nikos, il mio amico Nikos, il compagno Nikos, lo avevano portato via e io mi ero voltato dall’altra parte. ** Arrivò a Salonicco la sera stessa facendosi tutto il viaggio ammanettato nel retro del furgone blindato che aveva l’ordine di portarcelo. Era sera tardi. Le luci al neon bianche ricordavano i corridoi di un ospedale. L'odore acre del disinfettante quasi lo confermava. Gli fecero vuotare le tasche. Svuota-le-taschecoglione-svuota-le-tasche. Lo perquisirono. Sta-fermo-coglionesta-fermo. Gli presero le impronte. Da-qua-la-mano-coglioneda-qua. Lo spogliarono. E-sta-fermo-coglione-sta-fermo. Lo fotografarono. Sorridi-coglione-sorridi. Lo umiliarono. Lo picchiarono. Lo incarcerarono. Chiusero a chiave. Se ne andarono. Benvenuto-coglione-benvenuto. Nove mesi dei dodici previsti inizialmente. Nove mesi rubati alla sua vita. Nove mesi dietro le sbarre a guardare il golfo di Salonicco attraverso la gabbia. A guardare il mare, le barche ormeggiate al porto, il traffico della città, che gli ricordavano la vita di fuori, che gli ricordavano che quella lì fuori non era che una gabbia più grande, più bella, più affollata ancora di quella in cui stava ora, ma pur sempre di una maledetta fottuta gabbia si trattava. E se lo ricordava ogni volta che guardava la vita di fuori attraverso la gabbia. Nove mesi passati a gridare che non si sarebbe piegato mai. Che non sarebbe mai stato dei loro. Che potevano tenerlo in gabbia quanto volevano, mai-maimai-sarò-uno-dei-vostri. Tenetemi-rinchiuso-come-un-animalesono-un-animale-tenetemi-rinchiuso-tenetemi-rinchiuso lo si 16 sentiva strillare come un ossesso per ore intere tanto che più di una volta le guardie lo fecero tacere a modo loro. Ma Nikos ricominciava, tenetemi-rinchiuso-come-un-animale-sono-unanimale-tenetemi-rinchiuso-mai-mai-mai-sarò-uno-dei-vostri. E mentre Nikos gridava che era un animale, noi della gabbia di fuori prendavamo coraggio. E mentre Nikos gridava che lo dovevano tenere rinchiuso, noi della gabbia di fuori iniziavamo ad ascoltarlo. E mentre Nikos gridava contro quelli che si dicevano uomini e che umanamente lo tenevano in gabbia, le nostre grida si univano alle sue perché mai-mai-mai-Nikossarebbe-dovuto-diventare-uno-dei-loro. Associazioni umanitarie di tutto il pianeta chiedevano il suo rilascio. Montagne di telegrammi, di fax, di lettere arrivavano da ogni dove all’indirizzo di un altro Signor Ministro, il Signor Ministro Papakonstandinou, il Ministro degli Affari Esteri, al suo Ministero, ad Akadimias boulevard numero 1, 10671, Atene, Grecia. Dear Minister… Monsieur le Ministre… Estimado Ministro… E ancora Herr Minister… Gentile Ministro… Manifestazioni del movimento studentesco protestavano per la sua incarcerazione in tutta la Grecia, in Italia, in Francia. Nove mesi dei dodici previsti inizialmente. Nove mesi rubati alla sua vita. Quel che accadde in quei nove mesi dietro le mura della prigione militare di Salonicco Nikos non ce lo volle raccontare mai. Non lo avrebbe fatto mai. Neppure se glielo avessimo chiesto implorandolo. Neppure se facendolo sarebbe stato d’aiuto a qualcun altro. Il motivo è piuttosto sciocco se volete, anzi, molto più che sciocco. Forse addirittura stupido. Profondamente stupido. Ma Nikos aveva allora, e ancora oggi lo mantiene, un codice d’onore tutto suo che gli vieta di descriversi come vittima quasi che ammetterlo comporti un’altra sconfitta, un altro dolore, un altro soffrire. In-guerranon-c’è-uomo-che-non-soffra-e-se-io-soffro-è-perché-combatto era il massimo a cui si poteva aspirare quando si chiedeva a Nikos della prigione. Cinquantasei giorni di sciopero della fame, tanto fu necessario per il suo rilascio. Non-lo-voglio-faculofanculo-non-lo-voglio-portalo-via-via-via! Per cinquantasei giorni consecutivi un ragazzino di nemmeno vent’anni e poco più di cinquanta chili rifiutò di mangiare qualsiasi cosa gli portassero. Non-lo-voglio-fanculo-fanculo-non-lo-voglio-portalo-via-via-via! Un giorno di più e lo avrebbero ammazzato perché lui di indossare quella divisa militare non ne voleva sapere. Perché 17 lui, un ragazzino di nemmeno vent’anni e cinquanta chili, piuttosto che fare il soldato, il cane-cane-cane-maledetto-cane, piuttosto che servire gli uomini che umanamente tengono in gabbia altri uomini, lui, l’animale, sarebbe morto di fame. E lo avrebbe fatto urlando tenetemi-in-gabbia-sono-un-animalesono-un-animale-tenetemi-in-gabbia-mai-mai-mai-sarò-uno-deivostri. 18 CAPITOLO 2 Mai-mai-mai-fu-uno-dei-loro. Nikos venne arrestato ancora una volta nel ’94 e nel ’95. Nel ’94 perché insieme ad altri cinquanta occupò illegalmente la facoltà di Economia e Commercio in solidarietà con i compagni Balafas e Kabouris in sciopero della fame da dietro le sbarre del carcere di Korydallos; nel ’95 invece lo arrestarono insieme ad altri cinquecento per quella che oggi ricordiamo come La Rivolta del Politecnico, rivolta finita nel sangue sparso dalle truppe speciali mandate contro ragazzini dai tredici ai vent’anni dal governo socialista innamorato della libertà di Papandreou, l’americano cresciuto in America che aderiva all’internazionale, che aveva studiato alla Harvard University prima di prestare servizio nella marina militare a stelle e strisce, e poi era diventato Primo Ministro con i soldi della Casa Bianca che stranamente di sentir chiudere le basi Nato mentre il suo compatriota gli ringhiava contro e regalava banche a poveri immigrati come lui rimpatriati in Grecia dal paese di Marylin Monroe e Katherine Hepburn e che facevano carriera così in fretta da potersi comprare squadre di calcio e giornali filo-socialisti ad appena trentacinque anni, no, agli americani stranamente non pareva dispiacere troppo. O forse sì, ma valli a capire tu questi americani che la libertà loro se la comprano coi dollari e se i dollari non bastano ci sono sempre i carri armati… Nikos invece era un uomo più semplice e più che degli americani lui si ricordava ancora dei morti ammazzati dalla polizia; si ricordava ancora dei ragazzini morti con due buchi in faccia, degli sbirri Melistas colpevoli di omicidio e rilasciati dopo soli quattro anni perché i cani-cani-cani-maledetti-cani mandati dal Signor Ministro Varvitsiotis sono cani-cani-cani-maledetticani e i cani-cani-cani-maledetti-cani mandati dal Signor Ministro Varvitsiotis possono tutto perché a mandarli è il Signor Ministro Varvitsiotis, e se le madri dei ragazzini morti ammazzati con due buchi in faccia dalla polizia non lo capiscono è perché non hanno capito la democrazia; Nikos si ricordava anche dei professori uccisi dalle squadracce di fascisti forse-amici-del-Signor-Ministro-Varvitsiotis (diciamo forse perché il Signor Ministro Varvitsiotis è gran brava persona 19 e di squadracce di fascisti non vuol sentir parlare e noi certo il Signor-Ministro-gran-brava-persona-Varvitsiotis non lo vogliamo contrariare di sicuro) mandate per fermare le occupazioni cheal-Signor-Ministro-gran-brava-persona-Varvitsiotis-nonpiacevano-e-allora-mandava-i-cani-cani-cani-maledetti-caniche-poi-uccidevano-i-ragazzini-con-due-buchi-in-faccia-e-se-lemadri-dei ragazzini-morti-non-capiscono-è-perché-non-hannocapito-la-democrazia; si ricordava ad esempio del Professor Nikos Temponeras, ucciso a Petrasso perché lui con le occupazioni era d’accordo. Ma lo sanno tutti che i professori se sono d’accordo con gli studenti sono-solo-degli-alternativi-edella-democrazia-non-hanno-capito-nulla-ma-proprio-nulla. Si ricordava anche dei corpi carbonizzati nel centro commerciale di Atene morti perché i cani-cani-cani-maledetti-cani avevano pensato bene di appiccare il fuoco per stanarli-tutti-questiragazzini-che-la-democrazia-non-l’hanno-capita-e-allora-glielaspieghiamo-noi; si ricordava di Spiros Dapergolas e di Christoforos Marinos e di tutti gli altri manifestanti arrestati a Salonicco; si ricordava dei manganelli sulla schiena e sulle piante dei piedi perché se-picchi-sulle-piante-dei-piedi-queibastardi-non-camminano-per-giorni. Si ricordava di tutto Nikos, e forse pure degli americani che i Colonnelli li avevano sostenuti e ai Papadoupolos avevano stretto la mano con tutti gli onori pagati-con-i-dollari-e-se-i-dollari-non-bastano-ci-sonosempre-i-carri-armati… Se credete che Nikos fosse un delinquente perché lo arrestarono così tante volte è perché avete una strana concezione della giustizia e ancora non avete sentito nulla della sua storia e non mi avete lasciato il tempo di parlare. Nikos i dollari non li aveva e i carri armati non sapeva dove trovarli, ma la libertà la voleva comunque e che fossero gli americani, i colonnelli, i Karamanlis, i Papadoupolos o i Papandreou non faceva grande differenza. Lui con quella gente non ci voleva stare e dalle strizzatine d’occhio delle Marylin Monroe e delle Katherine Hepburn non sapeva che farsene. Nel 1996 finalmente si presentò l’occasione che stava aspettando. E allora sì che tutto fece di lui un delinquente di quelli che fan gridare nella bocca di tutti al tiranno, al mostro, al cospiratore, al criminale; allora sì che nella bocca di tutti si gridò al genio, all’eroe, al santo, al buono, al salvatore mentre ogni cosa, dalla più grigia alla più colorata, dalla più 20 insignificante alla più studiata, si mostrava semplicemente per quel che era, solamente, impietosamente nulla. Immaginatevi… Immaginatevi la cosa più bella che vi riesce d’immaginare. Poi raddoppiatela. Moltiplicatela per cento, per mille, per centomila. Provate ad immaginare un mare azzurro come il cielo di Palermo o di Ischia o di una qualsiasi altra località dell’Italia meridionale in un estate piena di sole ritratto su di una cartolina da due soldi che per nostalgia vi ostinate a tenere appesa alla porta del frigo perché vi fa sentire leggeri come durante le vacanze; e immaginatevelo trasparente e così pulito da poterci guardare attraverso senza bisogno d’immergervi, pieno di pesci d’ogni specie che vi nuotano diretti chissà dove dietro chissà quale scoglio; e poi immaginatevi questo mare così perfetto che bagna spiagge d’avorio altrettanto perfette toccate da rotoli di spuma bianca sui quali si potrebbero scrivere come su dei fogli le più magnifiche delle poesie mai scritte. Immaginatevi monti disseminati di reperti archeologici dell’antichità classica e del periodo cristiano ricoperti di pini addobbati di foglie lineari, dritte e acute come spilli ma non pungenti ma dolci al tatto come fili d’erba di colore verde glauco; e poi se vi riesce immaginatevi abeti verdi bruno alti quaranta metri che toccano nuvole capaci di disegnar ogni cosa nella fantasia dei bambini e degli adulti mai cresciuti; e continuate con degli olivi con cortecce grigio chiare quasi vicine ad un giallo anch’esso bruno, ma questa volta d’un giallo bruno come il sole, come quando dopo un’intera giornata, stanco, affaticato, dal giallo limone del mattino sta per passare a quell’arancione prima del tramonto; e poi immaginatevi gruppetti di capre curiose che pascolano in prati dorati su montagne e colline dove hanno nidi uccelli come gufi e sparvieri e cornacchie marine e che non sono mai ripide e ostili ma gentili, lente, che v’accompagnano fino alla cima facendovi scordare la fatica mentre attraversate fiumi e torrenti tra cicale che friniscono acute e la brezza di un vento caldo che arriva dal mar Egeo e che affettuoso v’accarezza la pelle del viso. Immaginatevi questi pini, questi abeti, questi olivi mentre vi parlano ricordando l’infanzia di Aristotele e il passaggio dell’esercito di Serse con i suoi due milioni di uomini passati lungo i secoli per quei sentieri di sassi e terra marrone, polverosa, ricca dei profumi della storia. Immaginatevi zollette di zucchero grandi come case. 21 Immaginatevi quelle zollette di zucchero che fan da casa ai pescatori. Immaginatevele tutte uguali ma sempre diverse, con reti appese nei giardini a ricordarvi che quella è gente che lavora e tavoli di legno pronti per la festa della sera a spiegarvi che di lavorare a quella gente non dispiace; immaginatevi gatti che oziano sulla strada in viuzze costeggiate da case imbiancate a calce e bambini che giocano su pontili tra modeste barche di legno dipinte di blu messe a riposo dai padri e fratelli maggiori che li guardano giocare mentre bevono e mangiano cibi che al ristorante vi costano un occhio della testa e che questi padri e questi fratelli hanno raccolto con le loro mani prima di darli alle mogli e alle sorelle che quei cibi li trasformano in-cibi-che-al-ristornate-vi-costano-un-occhio-dellatesta-e-che-questi-padri-e-questi-fratelli-maggiori-invecemangiano-dopo-averli-raccolti-con-le-loro-mani-mentreguardano-i-bambini-giocare-sul-pontile-tra-le-barche-di-legnodipinte-di-blu-messe-a-riposo. Immaginatevi un luogo dove la gente si sveglia col sorriso e la sera va a letto ridendo perché vive dentro a tutto questo. Poi immaginatevi una bomba atomica che esplode come ha fatto ad Hiroshima e a Nagasaki. Immaginatevi arsenico e mercurio che contaminano il suolo infiltrandosi nei fiumi e nel mare. Immaginatevi sfratti, espropri e materiali di scarto. Immaginatevi i pini, gli abeti e gli olivi che prima vi parlavano dell’infanzia di Aristotele e dell’esercito di Serse composto da due milioni di uomini passati di là qualche secolo prima venire sradicati e bruciati. Immaginatevi quindici milioni di litri d’acqua al giorno mischiati con sette tonnellate di cianuro per fare un buco così grande che le tonnellate di roccia fatte esplodere al giorno sono centomila. Immaginatevi che da un giorno all’altro le modeste barche di legno dipinte di blu non ci sono più e i bambini nemmeno perché quella adesso non è più casa loro ma è la casa della TVX Gold, una multinazionale dell’oro canadese alla quale il-governo-innamorato-dellalibertà-del-socialista-americano-Papandreou-che-avevamandato-le-forze-speciali-contro-ragazzini-dai-tredici-aiventanni-ha-deciso-di-concedere-il-diritto-di-scavo-e-abbassogli-americani-e-viva-il-socialismo-e-la-libertà. E a questo punto dovete smettere d’immaginare e dovete mettervi nei panni di quei padri e quei fratelli, di quelle mogli e di quelle sorelle di quei bambini che prima giocavano dove 22 aveva giocato Aristotele e dove era passato Serse con il suo esercito di due milioni di uomini qualche secolo prima e ora non giocavano più perché-si-doveva-dare-spazio-allamultinazionale-canadese-dell’oro-TVX Gold-con-i-suoi-quindicimilioni-di-litri-d’acqua-al-giorno-mischiati-con-sette-tonnellatedi-cianuro-per-fare-un-buco-così-grande-che-le-tonnellate-diroccia-fatte-esplodere-al-giorno-sono-centomila. Che ci siate riusciti o no questo non importa. Al vostro posto ci riuscì Nikos a mettersi nei loro panni, e di lasciare sola quella gente che si svegliava al mattino col sorriso e andava a dormire la sera ridendo non ci pensava neanche. Per lui era una cosa normale, quasi come camminare. Forse perché aveva sentito parlare di solidarietà, e quanto è vero Iddio andava in giro dicendo che bisognava essere solidali se si voleva essere uomini rispettabili; o forse perché aveva sentito parlare di uguaglianza, e diavolo se se ne era convinto che l’uguaglianza era necessaria. Fatto sta che appena seppe cosa stava accadendo nella baia di Strimonikòs salì sulla sua scassatissima Fiat 125p d’un inguardabile color albicocca e gli andò a parlare di autogestione, della stessa autogestione di cui aveva sentito parlare lui da ragazzino. E che mi venisse un colpo se sto mentendo di capi padroni e signori dopo quanto disse Nikos a quella gente della baia di Strimonikòs era meglio non parlare, ve lo assicuro. CAPITOLO 3 Non ci si svegliava più al mattino col sorrise e non si andava più a letto la sera ridendo nella baia. Il coprifuoco, la legge marziale, i cani-cani-cani-maledetti-cani ad ogni angolo di strada con i loro posti di blocco e i loro mitra; la loro terra violentata su commissione in cambio di denaro sinonimo di libertà per quella gente, stuprata per un poco di denaro che 23 rendeva libera certa gente, derubata per avere un poco del denaro che custodiva suo malgrado dentro di sé e ridotta ad un paesaggio lunare come dopo lo scoppio d’una bomba atomica per far più ricca un po’ di gente, desertico come dopo una bomba atomica fatta esplodere da quella gente, fangoso come dopo lo scoppio d’una bomba atomica nonostante vi vivesse della gente; i loro fiumi prima d’acqua pulita, limpida, fresca, ed ora inquinati e puzzolenti, che sanguinavano come i corpi maciullati dopo lo scoppio d’una bomba atomica su di una città piena di gente, non più azzurri ma rossi per via del mercurio e dell’arsenico, che li facevano sanguinare, rossi come il sangue di un moribondo prossimo alla morte, che sanguinavano feriti, rossi come il sangue, mortalmente rossi come il sangue a dimostrazione che la terra può sanguinare come la gente, può morire come la gente, che la terra, la loro terra, era stata viva e ora stava morendo colpita a morte dalla bomba atomica lanciata dal governo democratico innamorato della libertà del socialista Papandreou sulla gente della baia di Strimonikòs e viva-viva-viva-la-libertà; le loro case tutte uguali ma sempre diverse abbattute come i loro alberi e i loro uliveti che avevano visto crescere Aristotele e fatto da cornice al passaggio dei due milioni di uomini dell’esercito di Serse fatti bruciare e ridotti in cenere; le loro vite tra le barche dipinte di blu svendute come i prodotti in saldo dei discount di provincia ora, in nome della libertà, della democrazia, di Papandreou e di chissà che altro, avevano dovuto cedere il posto ai materiali di scarto, alle escavatrici, alle ruspe, a giganteschi camion grandi quanto case di tre piani, ai container-ufficio e ‘fanculo-a-quella-gente. Nella baia di Strimonikòs non ci si svegliava più col sorriso e non si andava più la sera a letto ridendo. Quella gente della baia di Strimonikòs non si svegliava più col sorriso e non andava più a letto ridendo perché sotto la loro baia, dentro il cuore della loro baia, qualcuno aveva trovato l’oro, l’oro della baia. E-fanculo-la-gente-perché-l’oro-bisogna-averlo-ad-ognicosto, a qualsiasi costo, anche a costo di strappare il sorriso alla gente, la casa, la vita, la dignità, la baia, il cuore della gente. Perché l’oro, il loro oro, il metallo giallo che aveva fatto così ricco il famoso Re Mida da farlo morire di fame e che stava dentro la loro bellissima terra serviva a far uscire dai palazzi di Atene, di New York, di Londra l’entusiastico grido degli imbecilli 24 eredi di Re Mida: siamo-più-ricchi-viva-viva-viva-la-libertà-echissenefrega-della-gente. Lo sa dio cosa passò per la testa di Nikos quando parcheggiò la sua scassatissima Fiat 125p d’un inguardabile color albicocca davanti la sede del comitato no-miniera. Faceva un tempo infame quel lunedì mattina. La sede del comitato non era altro che una semplicissima casa a due piani dipinta di bianco con l’intonaco un poco scrostato, un tetto di tegole rosse e le inferriate alle finestre e una grossa porta in legno a due ante in quello che una volta doveva essere stato il centro di qualcosa e che i cartelli stradali, unici sopravvissuti alla devastazione messa in atto dalla TVX Gold, indicavano senza ombra di dubbio essere il centro del paese. Intorno alla casa, probabilmente il vecchio comune dai tempi della grande guerra o anche prima, il nulla. Macerie al posto dell’erba delle aiuole. E il nulla. Carcasse di case in demolizione o già demolite. E il nulla. Negozi con tristi cartelli: chiuso. E il nulla. Una fontana spenta, arida, vuota. E sempre e solo il nulla. Un gran puzzo di bruciato inquinava l'aria. Dalle finestre del secondo piano pendeva uno scalcagnato e logoro lenzuolo. Occupava tre quarti della facciata dell’edificio e arrivava fino a coprire la parte più alta della porta d’ingresso. Sopra il lenzuolo, a caratteri grandi, vi stava una scritta a vernice spray nera un poco sciolta dalla nebbia e dalla pioggia: comitatocittadino-no-miniera. Il tempo non perde tempo, e così nemmeno Nikos. Senza esitare entrò nell’edificio, e il nulla d’un colpo sparì. Subito sulla destra, dietro una rinsecchita scrivania di legno giallo sommersa da volantini, giornali e opuscoletti, sistemata alla bell’è meglio lungo un corridoio troppo stretto ma bene illuminato e dall’aria accogliente, appassionata, lo accolse una signora anziana, piccolina, tutta vestita di nero circondata da altre signore anziane, piccoline e tutte vestite di nero come lei indaffarate a far chi una cosa chi un'altra e che ti davano l’impressione che fossero in cerca della formula magica capace di far resuscitare un morto che non si potevano permettere di lasciare senza vita. Energicamente, senza lasciargli il tempo di dir nulla, la signora anziana, piccolina e tutta vestita di nero appena lo vide, facendo tre brevi passettini come un anatroccolo appena svegliato, gli si piazzò davanti con fare interrogativo, evidentemente diffidente lo esaminò dall’alto in 25 basso scrupolosamente, puntigliosa, severa nel suo silenzio, sospettosa, stando bene attenta a non farsi sfuggire nessun particolare di quel bel giovanotto mai visto prima, e ad un tratto, senza alcun preavviso, come per magia, nel giro d’un istante s’imbaldanzì come rassicurata da qualcosa, gli occhietti le scintillarono, i muscoli della faccia le si rilassarono, le rughe le si rovesciarono, e a Nikos si rivelò un delicato volto di quella che un tempo, negli anni migliori della sua giovinezza, doveva essere stata una donna di un fascino elegante come quella di un cigno, e l’esame, così come era cominciato, finì. Si fece da parte e indicando le scale lo invitò a salire al secondo piano, quasi che al secondo piano del comitato-cittadino-nominiera non stessero aspettando che lui. Su-ragazzo-sbrigatiche-è-già-un-pezzo-che-han-cominciato-che-aspetti-va-ragazzosbrigati!-al-secondo-piano-sbrigati. Nikos nella baia di Strimonikòs non ci era mai stato prima e non conosceva nessuno tantomeno la signora anziana che gli aveva detto di sbrigarsi, ma al secondo piano del comitato cittadino no miniera ci andò eccome. E ci andò in tutta fretta quasi che di sopra non stessero aspettando che lui, si-mi-sbrigo-sono-inritardo-ha-ragione-mi-sbrigo. Salite le due rampe di scale, arrampicatosi per gli scalini a due a due continuando a ripetersi si-mi-sbrigo-sono-in-ritardo-haragione-mi-sbrigo mentre fuori la pioggia scrosciava, Nikos si trovò tra una piccola ma nutrita folla di contadini e pescatori che discutevano, bestemmiavano, litigavano, facevano la pace, tornavano a litigare e poi facevano la pace di nuovo stretti come sardine in uno stanzino ancor più piccolo di una scatola di fiammiferi mentre un signore sui settant’anni che pareva fosse fatto di vetro, con due enormi, folti e buffi baffi e un naso a becco di civetta (e che doveva aver visto le divise grigie delle SS e le jeep nere del Kyp in molti dei suoi incubi giovanili) ripeteva e ripeteva e ripeteva rivolto alla piccola ma combattiva platea in subbuglio non-ci-arrenderemocombatteremo-non-ci-arrenderemo-combatteremo!combatteremo! 26 CAPITOLO 4 I-responsabili-esistono-e-noi-li-possiamo-colpire, diceva Nikos. Le-lotte-si-fanno-pure-per-i-figli-per-le-nuove-generazioni-per-ifigli-i-figli, diceva Nikos. Entrava nelle case che-più-che-dellecase-sono-baracche-baracche-santtodio! mentre la gente era intenta a pranzare o a cenare o magari a far l’amore per i fatti propri, e senza nemmeno bussare spalancava le porte c’ènessuno?-sono-Nikos-piacere-Nikos-c’è-nessuno??; nelle locande che-più-che-delle-locande-sono-ruderi-diroccati-contetti-di-lamiera-tetti-di-lamiera!-santtodio! saliva su di un tavolo, nero e unto fino all’inverosimile e nonostante ciò già occupato, e senza tener di conto quel che poteva pensare il proprietario, stando attento quel tanto che bastava a non urtare i bicchieri di Ouzo con i piedi, a voce alta chiedeva unattimo-di-silenzio-silenzio-per-piacere-beviamo-qualcosa?-sonoNikos-piacere-Nikos; girava per il villaggio che-più-che-unvillaggio-è-un-teatro-di-guerra-un-teatro-di-guerra!-santtodio! con un’aria ingenua che poteva essere facilmente scambiata per quella d’un idiota, sfoggiando un sorriso involontariamente maldestro di quelli che ti fan tenere stretta la mano di tuo figlio mentre passeggiate al parco e uno sconosciuto vuol salutarlo carezzandogli le guancie, e ogniqualvolta un qualche disgraziato pescatore o una signora qualsiasi, di mezza età, di giovane età o di età matura, ignari del pericolo, ricambiavano per pura cortesia il suo sorriso, la trappola scattava e lui cominciava: i-responsabili-esistono-e-noi-li-possiamo-colpiresono-Nikos-piacere-Nikos-m’invita a cena? 27 Assurdo, voi dite? È perché non conoscete Nikos. Certo poteva sembrare assurdo. E a chi non sarebbe sembrato assurdo? ma per quanto invadente, indelicato, tremendamente importuno potesse sembrare sulle prime un simile comportamento, la realtà è che Nikos compensava questa sua sfacciataggine con l’ingenuità dei bambini che non pensano mai di dar fastidio se la loro intenzione è quella di far del bene; e se vi degnavate di guardarlo attentamente, dopo quel normale attimo di disorientamento che vi produceva un sì tal bizzarro incontro, il sorriso che prima gli avevate regalato per pura cortesia ora lo continuavate a tenere senza nemmeno sapere il perché ma con la forte convinzione di fare la cosa giusta; e senza nemmeno sapere il perché gli rispondevate entra-Nikos-entra-beviamoNikos-beviamo-alle-sette-Nikos-alle-sette, e di nuovo senza nemmeno sapere il perché aggiungevate hai-bisogno-diqualcosa-Nikos?-cosa-vuoi-bere-Nikos?-sii-puntuale-Nikos-haicapito-bene-l’indirizzo-Nikos? Nel giro di una settimana Nikos strinse amicizia con l’anziano signore con quei enormi folti e buffi baffi e il naso a becco di civetta che conosceva alla perfezione le divise grigie delle SS e le jeep nere del Kyp, con i pescatori che bestemmiavano, i contadini che litigavano e poi facevano la pace, con i loro figli e le loro figlie che avevano giocato tra le barche di legno dipinte di blu messe a riposo e che ora non ci potevano giocare più. In quella settimana che ci vogliate credere o no fece mollare due che stavano per sposarsi e fece fidanzare altri due che di sposarsi non ne avevano la minima intenzione. Nikos era così, si lasciava prendere dall’entusiasmo. Si finiva con l’inebriarsi di quello strano tipo. Gli piaceva parlare, ridere, giocare, e poi ascoltare gli altri mentre parlavano-ridevano-giocavano cercando il momento giusto per ricominciare di nuovo devoraccontarti-questa-lasciati-raccontare-questa-che-ridere-che-faquesta. Era un ingenuo bambino di venticinque anni a cui hanno spiegato che per fare amicizia basta dire il proprio nome con un sorriso e-vedi-tu-se-sono-importuno-io-sono-Nikospiacere-Nikos-vuoi-giocare-con-me? Ma era anche molto più di questo. Era uno che aveva gridato da dentro una prigione sono-un-animale-tenetemi-in-gabbiatenetemi-in-gabbia-sono-un-animale-un-animale. Era uno che nello sguardo sembrava avere sempre come un vago presentimento d’un pericolo che incombeva. Era uno che aveva 28 guidato una scassatissima Fiat 125p d’un inguardabile color albicocca per seicento chilometri solo per far sapere a degli sconosciuti che non erano soli; che lui, e molti altri come lui, erano dalla loro parte. Era uno che aveva guidato per sette ore per andare a gridare insieme a quella gente lontana seicento chilometri da casa sua e che non aveva mai visto prima: non-ciarrenderemo-combatteremo!-non-ci-arrenderemocombatteremo!-combatteremo! E se questo per voi è assurdo, per me è straordinario. Presto tutto divenne più complicato. Il re, o meglio, i suoi eredi, si erano sentiti dire no. E osare, lo sappiamo bene, non è permesso. Quello che i Governi e i Re non capiscono mai in tempo, e che forse realizzano solamente dopo aver infilato la testa nella ghigliottina, è che prima o poi, per quanto possano tentare di corrompere il popolo, per quanto possano dare al popolo tutto quel che il popolo vuole, fintanto che pretenderanno di governarlo, di dire al popolo cosa fare, dove andare, dove abitare, cosa mangiare, con chi parlare, come pensare, il popolo continuerà ad osare, e lo farà sempre, Governi, Presidenti o Re che siano. Ed è quanto accadde infatti. Ai posti di blocco della polizia si sostituirono quelli della popolazione civile. Può darsi pure che la situazione mutasse qualche volta dal tragico al comico con due posti di blocco, uno della polizia e uno del popolo, posti l’uno di fronte all’altro provocandosi a vicenda non-è-lei-che-blocca-me-son-io-cheblocco-lei-di-qui-non-passa-non-passa-lei-passo-io-no-non-leinon-io-non passa-nessuno-tanto-meno-lei-non-è-lei-che-bloccame-son-io-che-blocco-lei, ma erano casi isolati, e a ben vedere molto tristi, tipici dei paesi che han dichiarato guerra a se stessi. I villaggi, difatti, spinti dalla forza della disperazione, spinti da uno spirito di rivalsa che vedeva come obbiettivo primario una rivoluzione prima di tutto di se stessi, in se stessi, del loro modo di vivere, di pensare, di agire, tentavano in ogni modo di liberarsi e autogestirsi per vincere una guerra che si combatteva, ancor prima che nelle strade, nel loro essere uomini capaci di agire e pensare senza sottostare a regole e morali imposte da criminali che scrivono e cancellano diritti a seconda dell’umore dell’economia. Le stradine di montagna, i sentieri tra le colline, le vie e le strade di quella parte della Mecedonia vennero bloccate: Impossibile-passare-ci-provisignor-comandante-ci-provi-impossibile-passare-ci-provi-signor- 29 comandante-ci-provi. Come i Clefti prima di loro, altri uomini, altrettanto indipendenti e innamorati della libertà, una libertà che non vuole padroni e che non teme d’esser apostrofata come brigante perché conscia che la libertà non ha leggi se non quelle della libertà stessa, si riversarono nelle montagne. Manifestazioni di milioni di uomini lunghe chilometri che ricordavano l’esercito di Serse, davanti al Ministero, ad Atene, e nell’antica Stagira, la patria di Aristotele, nella zona di Olympiada, sfilavano in nome della baia di Strimonikòs e contro la TVX Gold, contro il Governo, contro i media, contro l’ingiustizia, la violenza, la menzogna. Tutti i comuni del comprensorio si opponevano. Interrogazioni parlamentari (per la verità una sola e pure nemmeno troppo indignata o accesa ma anzi piuttosto accondiscendente del genere compagno-quacompagno-là-viva-l’internazionalismo-e-la-libertà-faremovedremo-che-brutta-cosa-che-brutta-cosa-compagno-quicompagno-lì-faremo-vedremo-non-ci-piace-non-ci-piace-chebrutta-cosa-che-brutta-cosa) tentavano di accaparrarsi il favore della piazza provando di profittare della rabbia della gente ma riuscendo solo a riempire fino a farlo straripare il già stracolmo vaso della democrazia buona solo a far fare soldi ad alcuni rubandoli agli altri con l’ultima goccia d’ipocrisia che sta in bella mostra nei salotti di quei palazzi che han sempre dato il via all’abuso da che son nati. Non appena il vaso straripò un oceano di no-non-io-non-in-mionome travolse simile ad uno tsunami l’intero paese. Era il momento di non-arrenderesi-di-combaterre-non-arrendersicombattere!-combattere! Nikos non se lo fece ripetere due volte. Poteva andare anche lui in montagna con gli altri, non v’è dubbio. Ma preferì salutare tutti e così salì in macchina e se ne tornò ad Atene. Il 6 dicembre 1997, con una stretta al cuore e un tremito nervoso, nello stato d’animo di chi sta per compiere un azione che determinerà tutta la sua esistenza, girato attorno al palazzo per ben tre volte in cerca del coraggio che non voleva arrivare, cercando di assumere un atteggiamento il più normale possibile ma diventando sempre più agitato passo dopo passo, si fermò all’angolo di via Papadiamantopoulou, controllò l’ora, le due, si asciugò con la manica della giacca il sudore che gli bagnava la fronte, sorrise ironico disprezzandosi pensando fra sé che stava sudando e-fanno-quattro-maledetti-gradi-quattro, 30 si guardò intorno, nessuno in vista, si cavò lo zaino dalle spalle, lo poggiò alla base della scalinata e via-né-né-si-si-è-fatta-èfatta-via-via-via! Era la bomba. La bomba davanti la sede del Ministero dello Sviluppo e dell’Agricoltura del 6 dicembre 1997. Sgusciò via indeciso, lentamente, quasi controvoglia. Quasi che andarsene significasse rinunciare a parte dell’impresa. Quasi che non rimanere ben saldo sul ciglio della strada, con la schiena dritta e lo sguardo traboccante di sfida verso le finestra del Ministro in attesa di vederlo schiacciato dal panico come lui aveva schiacciato nel panico un intera baia, significasse ammettere un timore che non si devono concedere mai gli eroi di fronte al mostro che sono andati a distruggere. Alle 2 e 03 era già dentro la cabina telefonica con la cornetta in mano: Pronto?-il-gionale-Eleutherotipia?-tra-mezzora-una-bombaesploderà-al-Ministero-dello-Sviluppo-per-il-caso-Strimonikòs!chi-siamo?-siamo-siamo-ma-che-diavolo-siamo-i-combattentiguerriglieri-del-popolo-chi-vuole-che-siamo?! In fondo non aveva proprio mentito mentito autodefinendosi ‘’guerriglieri’’. È solo che, come posso dire, usando il plurale, già sapeva che gli altri combattenti, anche se non c’erano ancora, Nikos ne era fermamente convinto, un giorno ci sarebbero stati, ecco. La bomba comunque c’era. Non molto potente, ma c’era. Quando uno degli uomini che stavano lì di guardia quella mattina fu mandato a vedere se vi era motivo di allarmarsi per quella telefonata e se vi fosse nulla di sospetto e questi tornò correndo sbraitando all’impazzata uno-zaino-neroabbandonato-uno-zaino-nero-c’è-uno-zaino-nero-abbandonato gli artificieri vennero chiamati immediatamente e in pochi minuti erano sul posto, al numero 80 di Michalakopoulou boulevard, ad esaminare da lontano lo zaino nero abbandonato. Che-nessuno-si-avvicini-state-lontano-lontano-cazzo-lontano! Arrivò perfino un elicottero. Una zona di circa due chilometri quadrati che partiva dallo stadio della squadra di calcio del Panathinaikos nel distretto di Ampelokipi e che finiva all’altro stadio, allo stadio di tutti gli ateniesi, il Kallimarmaron, lo stadio Panathinaiko, poco lontano dal tempio di Zeus Olimpio, venne evacuata e chiusa al traffico. Aspettarono mezzora, quaranta minuti, quarantacinque, un’ora. Dall’altra parte della strada, dalle finestre dell’ospedale universitario, i malati in compagnia delle infermiere e dei 31 medici spiavano dall’alto quelli che sembravano centinaia di minuscoli insetti velenosi rigurgitati da un formicaio in fiamme: poliziotti con le armi in pugno e i caschi in testa saltavano giù dal retro dei furgoni in fila indiana, veloci, marziali. Erano stati scaraventati fuori dalle caserme di tutta Atene su ordine del Ministro in persona. Nient’altro doveva avere la precedenza. Sono-il-Ministro-io!-il-Ministro! Gridava, mentre si agitava come una gallina, da dentro il suo ufficio. I militari si sparpagliarono ordinatamente a gruppi di cinque e di dieci agli angoli dei palazzi e dei negozi cercando riparo da un nemico invisibile. Un nemico invisibile che tremava per la rabbia perché nessuno lo poteva vedere. Dietro le volanti, armati di pistole, di fucili, di mitra, i colleghi usavano le radio per impartire gli ordini; da dietro le volanti avvertivano quelli in prima linea di stare alriparo-al-riparo-cazzo! di fermare quel tipo con la maglia nera prendilo-vai-vai-vai, di cacciare quella-vecchia-scema-fermaquella-vecchia-scema!-ma-dove-va-quella-scema! Tanto clamore per nulla. La bomba non esplose. Qualcosa non aveva funzionato. Nikos aveva commesso un errore tecnico, un maledettissimo errore tecnico. Solo-di-questo-mi-pento-solo-diquesto! Lo ripeté un’infinità di volte, in modo quasi ossessivo durante il processo in aula, nella stessa aula dove i Colonnelli avevano processato Panagulis vent’anni prima, quella dentro il carcere di Korydallos: solo-di-questo-mi-pento-solo-di-questo!un-maledettissimo-errore-tecnico-solo-di-questo-mi-pento! Al diavolo. Non importava. Non a Nikos. Non nel modo che si potrebbe intendere. Non-è-esplosa?-che-diamine-il-mio-era-unmessaggio-politico-un-messaggio-politico. E il messaggio politico, aveva ragione, era comunque arrivato a destinazione: attenzione figli di puttana, la guerra, quella del popolo contro lo Stato, è cominciata. Non ci misero molto a risalire a Nikos tramite le sue impronte digitali. Come uno stormo di cavallette affamate venti o trenta uomini dell’unità anti-terrorismo armati fino ai denti piombarono a casa sua alle quattro del mattino del 13 Gennaio 1998. Non esplodendo parte dell’impronta della sua mano destra era rimasta incollata ad un pezzo di nastro adesivo che serviva a tenere insieme la bomba, una custodia di cartone per videocassette vhs con cento grammi di esplosivo al plastico. Su-le-mani!-alza-quelle-cazzo-di-mani-alza-quelle-cazzo-dimani!-alzale-cazzo!-alzale! 32 Nemmeno cinquanta giorni dopo il fallito attentato, per colpa di quel maledettissimo errore tecnico, era di nuovo dietro le sbarre. Quel-maledettissimo-errore-tecnico-colpa-di-quelmaledettissimo-errore-tecnico. Di nuovo, di nuovo, di nuovo e ancora, ancora, ancora era dietro le sbarre a gridare tenetemiin-gabbia-sono-un-animale-sono-un-animale-tenetemi-ingabbia. Questa volta però, come allo zoo, l’animale, un animale raro, di quelli che non se ne vedono più in giro e che proprio per questo fanno notizia, veniva fotografato e filmato dai giornalisti di tutto il mondo appostati come cecchini pronti a fare fuoco sulla preda da dietro i banchi del tribunale riservati alla stampa. L’assordante silenzio dentro il quale i giornali borghesi lo avevano imbottigliato e che lo aveva avvolto durante il suo primo arresto nel ’91, sparì. Tutti, ma proprio tutti, a cominciare dalla CNN, volevano sapere chi era Nikos Maziotis, il ragazzino che anni prima aveva battuto lo Stato rifiutando di diventare uno dei suoi cani-cani-cani-maledetticani con uno sciopero della fame che lo aveva portato fuori dalle mura della galera e che lo aveva quasi ucciso, e che ora era diventato un pericoloso criminale, un anarchico, un eversivo, un mostro, un terrorista. Nel suo appartamento a Peristeri, nella zona nord di Atene, un appartamento poco più grande di un armadio, il DAEEB, la squadra speciale per i crimini violenti (l’antiterrorismo greco) rinvenne quattro passamontagna, esplosivi, armi d’assalto, un paio di pistole, un centinaio di pallottole, libri proibiti e materiale di propaganda. Un-pericoloso-criminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostroun-terrorista-armi-esplosivi-passamontagna-libri-libri-libri titolavano in quei giorni inorriditi i giornali liberi e democratici che son soliti propagandare la bellezza delle tasse-ai-poveriviva-le-tasse-ai-poveri, del capitalismo-viva-il-capitalismo e del salario-dimezzato-all-operaio-perché-bisogna-fare-sacrificisalario-dimezzato-salario-dimezzato-viva-il-salario-dimezzato. Giornali così liberi e democratici che sono proprietà degli uomini più liberi e democratici di tutti. Uomini così pieni di soldi da possedere tutto quanto e anche quei giornali liberi e democratici. Uomini che hanno sicuramente letto tutto sulla libertà e sulla democrazia e infatti alla democrazia dicono cosa fare e se non fai come ti dicono loro sei un-pericolosocriminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostro-un-terrorista. 33 Uomini che hanno letto così tanti libri liberi e democratici che le loro biblioteche sono le più libere e democratiche di tutte le biblioteche libere e democratiche del mondo. Uomini che le biblioteche le fanno allestite dagli arredatori pagati con i soldi delle vendite dei loro democratici e liberi giornali e che se siamo fortunati i libri-libri-libri-li-scelgono-per-colore-e-solo-sesi-intonano-alle-tende-mi-raccomado-le-tende. Il giorno del processo, il quale si svolse un sette mesi e mezzo dopo circa, più precisamente il 7 Luglio 1998, Nikos, ilpericoloso-criminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostroterrorista-armi-asplosivi-passamontagna-libri-libri-libri, si alzò in piedi e prese la parola: “Sono stato portato qui con la forza delle armi, ma sia chiaro che non vi temo. Di voi non ho paura. Non ho intenzione di scusarmi o di pentirmi ma anzi rivendico con forza le accuse che mi rivolgete contro. Avete di fronte un rivoluzionario, un anarchico; e voi, signori giudici, siete i servi di un sistema criminale. Non sono io sotto processo, ma voi e i vostri padroni. Voi e io siamo su opposte barricate. Giudicatemi pure, fate del vostro peggio, la storia non dimentica. Io continuerò a combattervi in favore degli oppressi e dei diseredati, per la rivoluzione in Grecia, per la giustizia in Grecia, per la libertà in Grecia! Non è esplosa? Che diamine! Il mio era un messaggio politico! Un messaggio politico!” Erano almeno vent’anni (tranne che per la breve parentesi del giugno 2004 di Dimitris Koufontinas, membro della leggendaria organizzazione rivoluzionaria 17 Novembre amata, per stessa ammissione di un deputato di Nuova Democrazia, dal 23,7 percento della popolazione, ossia due milioni trecentosettantamila greci e che, dalla CIA all'EYP, gli aveva fatti impazzire tutti i servizi segreti del mondo fin dal 1974 tanto era inafferrabile come l'aria in un bicchiere o come il vento in montagna) che non accadeva nulla di simile, dai tempi di Panagulis. Era il primo dopo almeno vent’anni ad assumersi le sue responsabilità politiche senza cercare di sottrarsi alla punizione invocata a gran voce dalla libera-democrazia-delletende-mi-raccomando-le-tende. 34 CAPITOLO 5 Alla fine del processo d’appello cominciato l’8 Gennaio 2001, nonostante la chiara ostilità della corte nei confronti di Maziotis, non poterono fare altro che ammettere che la pena a quindici anni era troppo elevata: la bomba non era esplosa, non c’erano state vittime, nessuno si era fatto male. Decine di compagni erano andati a testimoniare in suo favore e decine di volte erano stati interrotti dalla corte. Si-attenga-aifatti-stia-zitto-si-attenga-ai-fatti-signor-testimone-stia-zitto. Decine di volte Nikos provò a spiegare le sue ragioni e decine di volte venne interrotto dalla corte che di sentire le sue ragioni non ne aveva alcuna intenzione. Si-attenga-ai-fatti-signorimputato-stia-zitto-si-attenga-ai-fatti. Decine di volte i suoi avvocati avevano protestato e decine di volte la corte aveva intimato loro di tacere. Stia-zitto-signor-avvocato-stia-zitto. Il clima era così teso in aula che il giorno dopo l’inizio del processo, il 9 Gennaio, dopo quanto era successo il giorno precedente, dopo che il giudice aveva interrotto i testimoni, aveva fatto allontanare dall’aula parte del pubblico venuto da tutta la Grecia, dall’Italia e dalla Francia a sostenere l’imputato, dopo che non aveva concesso il sacrosanto diritto all’imputato 35 di assistere al suo processo libero dalle manette e gli aveva impedito di difendersi dalle accuse e aveva intimato ai suoi avvocati di tacere, dopo che aveva fatto proseguire il processo nonostante la richiesta di rinvio, Nikos, furibondo, esasperato, si fece vincere dall’istinto. Con un balzo saltò giù dalla panca, sfuggì al controllo dei poliziotti, e in un lampo, in un ‘’oooohh’’ di sorpresa generale del pubblico, riuscì a raggiungere il banco dei giudici. Se la polizia non fosse intervenuta in tempo quei giudici oggi non ci sarebbero più. ** Arrivò l’estate. Faceva un caldo soffocante e i turisti erano dappertutto. L’aria di Atene si fece grassa, calda come lo è solo in agosto. Il nuovo millennio era cominciato e con lui tutta una serie di medievali, e irragionevoli, e brutali, e odiosi attentati al grido di Allah Akbar in giro per il mondo compiuti dai servi d’un Dio dittatore che, se come tutti gli altri Dei ci ha creato per che noi ci sottomettessimo a lui, se come tutti gli altri Dei ci ha creato affinché noi si viva l’intera esistenza seguendo le sue regole e non le nostre, se come tutti gli altri Dei ci ha creato per che noi si passi la vita in ginocchio prostrati ai suoi piedi, noi, sia che si sia stati creati da lui, da altri o da nessuno, noi che siamo uomini e non schiavi, ora lo dobbiamo distruggere per liberarci dalla sua tirannia come da tutte le altre tirannie che ci affliggono e che ci vogliono schiavi sottomessi invece di uomini liberi per evitare che altri-medievali-e-irragionevoli-ebrutali-e-odiosi-attentati-continuino-a-colpirci-tutti-in-nomed’un-dio-che-come-tutti-gli-altri-è-solo-un-vile-dittatore-un-viledittatore-solo-un-vile-dittatore. Di lì a poco sarebbero crollate le Torri Gemelle dando modo agli americani di distribuire un po’ di libertà e-se-i-dollari-non-bastano-ci-sono-sempre-i-carri-armatie-noi-i-dollari-li-abbiamo-finiti-perciò-viva-l’america-viva-i-carriarmati-viva-la-libertà. Nel frattempo i progetti criminali su Strimonikòs vennero fermati, addio-TVX-Gold-bentornati-bambini. Nikos, a modo suo, aveva vinto di nuovo. Dei quindici anni, poi divenuti cinque, ne trascorse solo tre e mezzo nel carcere di Korydallos di cui ilprimo-in-completo-isolamento-e-non-ti-dico-amico-non-ti-dicoquello-che-ho-passato. 36 CAPITOLO 6 Ai newyorchesi quel martedì mattina dovette sembrare che piovessero uomini sulla città. Complessivamente, più di duecento persone scelsero di gettarsi nel vuoto piuttosto che morire bruciati dal fuoco. Un Boeing 767 della American Airlines si era schiantato contro la Torre Nord del Word Trade Center. Erano le 8 e 45 dell’11 settembre 2001. Alle 9 e 03 toccò alla Torre Sud, il volo United Airlines 175 impattò fra il settantasettesimo e l’ottantacinquesimo piano uccidendo sul colpo seicento persone. Alle 9 e 43 un Boeing 757 colpisce il Pentagono. Alle 10 e 03 precipita in Pennsylvania, nella frazione di Shanksville, il volo United Airlines 93 con 44 persone a bordo. In un solo giorno persero la vita duemilanovecentonovantatre persone, compresi i diciannove dirottatori. In un solo giorno duemilanovecentonovantatre 37 persone compresi i diciannove dirottatori morirono per l’ennesima volta per la parola libertà, la parola dignità, la parola ordine, sacrificio, patria, guerra, e libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra e libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra, e ordine, e libertà, libertà, libertà! In un solo giorno, in meno di ventiquattro ore, duemilanovecentonovantatre persone compresi i diciannove dirottatori da uomini divennero carcasse stecchite di niente; duemilanovecentonovantatre persone compresi i diciannove dirottatori si tramutarono in ossa marce, budella in putrefazione, brandelli di carne ustionata e nient’altro. In meno di millequattrocentoquaranta minuti duemilanovecentonovantatre persone compresi i diciannove dirottatori da uomini capaci di tutto divennero cadaveri capaci di niente. La nuvola di fumo nero che ricopri quel giorno la città di New York non era che l’inizio di una tempesta che si sarebbe abbattuta poi sull’intero nostro pianeta. Domenica 7 Ottobre, ventisei giorni dopo il crollo delle Torri, la vendetta. Trecentoquarantamila civili afgani, centoquattordici volte i civili americani morti nell'attentato alle Torri Gemelle, morirono – e continuano a morire ancora oggi dopo quindici anni di bombardamenti - per la parola libertà, la parola dignità, la parola ordine, sacrificio, patria, guerra, e libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra e libertà, e dignità, e ordine, e sacrificio, e patria, e guerra, e ordine, e libertà, libertà, libertà! Se i diciannove attentatori erano dei folli assassini assetati di sangue, l’esercito americano è centoquattordici volte più folle e assassino e assetato di sangue di ognuno di loro. ** Di cosa sia fatta questa libertà che vuole gli uomini o morti o servi o a cosa serva la libertà alla gente morta, vi prego, vi scongiuro, abbiate la pietà di non domandarmelo. Quell'11 settembre 2001, insieme alle due torri, la chiesa greco-ortodossa di San Nicola di Bari fu tra le costruzioni distrutte a New York. 38 CAPITOLO 7 No-non-io-non-in-mio-nome-non-la-guerra! Nove giorni dopo gli attentati, un sinistro discorso venne pronunciato da dentro un Congresso degli Stati Uniti d’America riunito in seduta comune circondato da blocchi di cemento grigio e auto della sicurezza. George W Bush, l’uomo che dopo gli attentati ebbe un picco di popolarità tra il popolo statunitense raggiungendo uno 39 sconvolgente 84 percento, rivolgendosi ai popoli di tutta la terra, minaccioso, gonfio di rabbia, concluse il suo intervento con queste parole: o-con-noi-o-contro-di-noi; Pola, sdegnata, disgustata, si alzò di scatto dal divano furiosa come il diavolo, e con tutta quanta la voce aveva in corpo accettò la sfida vomitata dal televisore: contro-santo-iddio-contro! Un anno dopo lei era lì (come altre trentasei milioni di persone in tutto il pianeta che protestavano contro l’invasione dell’Iraq), col suo modo di fare diretto, gli occhi verde smeraldo, la pelle rosa come una pesca, intensamente femminile, bellissima, morbida nei lineamenti, con i suoi lunghi capelli neri come il carbone che le coprivano le spalle, anch’essi meravigliosamente morbidi, e lisci, e profumati come la primavera che l’avvolgeva, tenuti insieme da un insignificante elastico azzurro che le dava un’aria da bambina, circondata dai manifestanti che le sfilavano a fianco lungo via Achernon, davanti il Plaza Hotel, che camminava fiera, orgogliosa come una leonessa con in braccio la bandiera rosso/nera; una bandiera che per le sue esili braccia di donna era troppo pesante e che la faceva barcollare come un’ubriaca portandola ad urtare involontariamente prima di qua poi di là i compagni al suo fianco pronti ogni volta a sorriderle divertiti, comprensivi: non-ti-scusare-non-c’è-problema-sbandiera-sbandiera. In un certo qual modo, quell’enorme bandiera la faceva sembrare agli occhi di tutti più piccola e dolce ancora di quanto in realtà non fosse… e se non ho la certezza che proprio a tutti sembrò piccola e dolce, perlomeno posso giurare che Nikos quel giorno sostenne d’aver visto una-dolcissima-bambinaguerriera-dolcissima-dolcissima. Nikos amò sconfinatamente Pola fin dal primo momento che la vide. Ad ascoltarlo parlare era facile lasciarsi convincere che Pola doveva essere una sorta d’eroina. Una specie di amazzone dell’isola Paradiso uscita dai racconti dell’illuminato poeta inglese esperto in fatti d’amore, messa lì a pochi metri da lui di proposito da un dio molesto, dispettoso, che non trovando altro modo di scacciar la noia aveva deciso di osservarlo impazzire. Un dio che per divertirsi aveva deciso di vedere Nikos colpito da un incantesimo che l’obbligava a guardarla rapito dal desiderio d’amarla e d’essere da lei amato all’infinito senza poterla avvicinare. Un dio che rideva guardando Nikos diventare incapace di distogliere anche solo 40 per un breve momento lo sguardo da lei; che rideva guardando Nikos che urtava i compagni e le compagne al suo fianco pur di non perdersi un solo istante della bellissima bambina guerriera che sbandierava e ruggiva insieme e più di tutti gli altri no-nonio-non-in-mio-nome-non-la-guerra!-no-non-io-non-in-mio-nomenon-la-guerra! Per tutto il percorso della manifestazione fino alla sede del consolato USA in piazza Mavili dove finalmente ci fermammo tutti, Nikos, che ancora un pò e si sarebbe visto esplodere il cuore in petto, non faceva che guardarla continuando a ripetere una-dolcissima-bambina-guerriera-dolcissimadolcissima-una-dolcissima-bambina-guerriera-dolcissimadolcissima. Di lì a poche settimane Nikos sconfisse anche quel dio dispettoso e il suo perfido incantesimo. L’impossibile divenne possibile: Pola era la sua donna, la sua fidanzata, la sua amante, la sua compagna, la sua dolcissima-bambinaguerriera-dolcissima-dolcissima. 41 CAPITOLO 8 Gli anni passarono, le lotte continuarono. In giugno, a Salonicco, partecipò, con Pola al suo fianco, agli scontri in occasione della riunione dei leader dell’UE. In settembre, dopo gli arresti che avevano smembrato l’organizzazione dei compagni delle Cellule di Fuoco, Nikos si riunì insieme a Pola, Lambros e Kostas in un bar a Gizi, poco lontano da piazza Argentinis, a due minuti dal Parco di Ares. Dopo un breve ma infervorato discorso pronunciato da Nikos, Kostas, arruffandosi i capelli, in tono diretto, a bruciapelo, gli domandò: <<E il nome? Il nome! Hai pensato al nome? Dovremo pur farci chiamare in qualche modo>>. Nikos sorrise felice come un bambino. Non aspettava altro. Aveva fatto tutto quel discorso solo per sentirsi porre quella domanda. <<Certo che ho il nome>>. Rispose. <<Epanastatikos Agonas, Lotta Rivoluzionaria. È tutto ieri che ne parla>>. Disse Pola rivolgendosi a Kostas. E subito aggiunse con un’ironia affettuosa, punzecchiandolo scherzosamente: <<Ne ha parlato così tanto che mi ha già rotto le scatole con questa Lotta Rivoluzionaria>> e così dicendo scoppiò a ridere divertita insieme a Lambros. Nikos però non si fece prendere in giro. Rimase al gioco e sorridendo, alzando il bicchiere per brindare, concluse: <<È il nome giusto, fidatevi. Epanastatikos Agonas, Lotta Rivoluzionaria. Jamàs, alla salute>>. <<Jamàs>> risposero gli altri in coro. Il cinque dello stesso mese due bombe esplosero nei tribunali della ex accademia. Un poliziotto rimase leggermente ferito. Lotta Rivoluzionaria rivendicò l’azione. 42 CAPITOLO 9 Non c’è da meravigliarsi, dopotutto, che le forze di polizia non siano composte da quegli uomini senza macchia disegnati dalla propaganda, sia essa volontaria o non volontaria, dei film hollywoodiani. Solamente un idiota, uno sciocco o un ingenuo può pensarlo veramente. La verità è che il poliziotto, come chiunque altro, o quasi, è un uomo che quando l’occasione glielo permette è felicissimo di vendicarsi con il suo nemico. E il nemico naturale del poliziotto, ancor prima dell’operaio, è certamente il rivoluzionario, il ribelle. Ed è appunto naturale che sia così. Uno, il poliziotto, è un automa che esegue gli ordini a qualsiasi costo, anche se non vorrebbe o non è d’accordo perché convinto, o di far comunque la cosa giusta (il ché da l’idea della confusione mentale in cui vive) o di non essere capace di comprendere cosa sia giusto in modo autonomo – cosa che l’obbliga conseguentemente a doversi affidare a qualcun altro più-in-alto-di-lui-che-sa-tutto-sa-tuttolui-sa-tutto (il ché personalmente mi rattrista moltissimo); il secondo, il rivoluzionario, il ribelle, invece semplicemente non riesce a concepire il concetto di sottomissione volontaria ed è quindi tutto fuorché un automa, tutto tranne una pedina di un gioco come potrebbe essere quello degli scacchi, ed è quindi sintomatico che i due, per natura diversi, uno pedina sacrificabile d’un gioco giocato da altri, e uno impegnato a che gli uomini cessino di farsi usare come inanimate pedine d’un gioco da tavolo, si trovino sempre a provare una reciproca antipatia, quasi la natura volesse così per scelta, per così dire, d’un certo stile estetico. Sarebbe perciò imbecille usare un tono indignato, scandalizzato o falsamente sorpreso per raccontarvi questo episodio della vita di Nikos. Dubito pure ci fosse dietro un disegno particolarmente congegnato; e se anche ci fu, la cosa non dovrebbe sorprendere. Nikos lo aveva detto di essere in guerra, lo aveva accettato. In-guerra-non-c’è-uomo-che-nonsoffra-e-se-io-soffro-è-perché-combatto. 43 D’altra parte in guerra, in tutte le guerre, c’è sempre un nemico che si difende, che attacca, che complotta, insomma che combatte contro di voi in quella guerra. E’ ovvio. Altrimenti, è inutile dirlo, senza un nemico che vi combatte, non ci sarebbe alcuna guerra, alcuno scontro. Sareste solamente dei folli, degli spostati. Ma Nikos non è Don Chisciotte e questo non è il nostro caso. La guerra c’era, era stata dichiarata. I morti, i feriti, i prigionieri non mancavano. La si stava combattendo da tempo. Nikos aveva solo deciso di parteciparvi, di non restare a guardare immobile senza far nulla per vincerla, e quindi fermarla, perché vincere una guerra significa anche farla finire, significa soprattutto farla finire. E allora quel giorno, quando quelle quattro moto spuntarono dal nulla e lo inseguirono minacciose per una decina di chilometri per poi farlo cadere a terra (anche Nikos era in sella ad una moto) con l’intenzione d’ammazzarlo, non solo non deve sorprendere o scandalizzare, ma non ci deve nemmeno far indignare più di tanto dato che, come abbiamo detto sopra, il poliziotto, come quasi tutti gli uomini, quando gli si presenta l’occasione, è ben felice di vendicarsi con il suo nemico. È la guerra, sant’iddio! Di che vi meravigliate?! In-guerra-non-c’èuomo-che-non-soffra-e-se-io-soffro-è-perché-combatto. Con tutta probabilità dovevano essere quelli dell’antiterrorismo. Lo si poteva intuire dal loro modo di guidare così capace, professionale, così spericolato e audace, quasi che appunto fossero abituati a quel genere di manovre. Fermare qualcuno in moto con una moto non è semplice come farlo con una macchina. Se poi l’intenzione è quella di farlo finire fuori strada le cose si complicano ulteriormente perché se non stai bene attento fuori strada ci vai anche tu, e in moto chi può dirlo come va a finire? Ecco perché dico che erano dell’antiterrorismo: nessuno poteva fare quello che fecero loro senza finire contro un muro a centocinquanta chilometri orari. Nikos guidava una di quelle moto che oggi definiremmo un oggetto d’antiquariato e che già allora, se non propriamente d’epoca, la si poteva definire, usando un eufemismo, comunque abbastanza vecchia da fare gola ad un qualche collezionista precoce. Un notevole vantaggio per le quattro moto, ben più moderne, che lo inseguivano, non pensate anche voi? Era lenta e impacciata in confronto a qualsiasi altro mezzo a due ruote, e a quelle quattro Honda fiammanti, agili come 44 gatti e veloci come siluri, sopra ogni cosa. Era una moto Guzzi del ’76. L’aveva chiesta in prestito a Lambros perché voleva portare Pola fuori città a-vedere-un-po-di-Grecia-e-poi-te-lariporto-solo-un-po-di-Grecia, e Lambros, che era quel genere di persona che ti avrebbe prestato un braccio se solo avesse trovato il modo di riattaccarselo una volta riavuto indietro, non esitò un momento a rispondergli si-certo-prendila-pure-vadove-vuoi-dove-vuoi-compagno-si-certo-prendila-pure-solo-staattento-è-vecchia-un-po-vecchia. Erano da poco passate le due del pomeriggio, le strade erano deserte come solo in Grecia possono esserlo dalle due del pomeriggio fino alle sei della sera. Il giorno dopo avrebbe caricato Pola sul sedile di dietro, e poi via a-vedere-un-po-diGrecia-solo-un-po-di-Grecia. Fu un colpo di fortuna, tutto sommato, per entrambi, Pola e Nikos, e forse pure per Lambros, che Nikos volle provarla prima di partire per quel breve viaggio per vedere-un-po-di-grecia-solo-un-po-di-grecia insieme alla sua dolcissima-bambina-guerriera-dolcissima-dolcissima. Se vi fosse stata a bordo anche lei credo che sarebbe finita molto peggio di come in realtà andarono le cose. Una moto così vecchia non è facile da controllare, soprattutto se la guidi sulle strade bagnate di gennaio e non sei solo. Il peso di una seconda persona, specialmente se inesperta, sbilancia terribilmente anche il guidatore più capace. E Nikos, come del resto Pola, non era esattamente un pilota capace. Era invece abbastanza goffo. Anzi direi proprio imbranato. Uno di quelli che si becca così tanti colpi di clacson dagli automobilisti imbestialiti in una giornata in moto in giro per la città che la sera gli sembra di essere tornato dallo Stadio invece che dal suo giro, tanto è rincretinito. Iniziarono a pedinarlo appena svoltò in piazza Omonia, una sorta di gigantesca rotonda nella zona più cosmopolita e pittoresca di Atene piena di piazze piccole e grandi, vie trafficate, taxi gialli e gente che va di fretta scartando i venditori ambulanti tra le merci freschissime che riempiono i banchi dei mercati generali. Sarebbe bastato uno sguardo veloce per capire che quelle quattro moto non erano lì per caso. Mancavano solo i lampeggianti, ma per il resto, messi in posizione di ‘combattimento’ com’erano, due avanti due dietro, era chiaro come il sole che si trattava di poliziotti in borghese. Nikos andava in direzione di piazza Karaiskaki lungo via Agiou 45 Konstantinou, dove ha sede il Teatro Nazionale, quando capì che qualcosa non andava: <<Merda!>>. Era abituato a quei pedinamenti. Era dal 2001 che non lo mollavano un momento. Che se ne andassero al diavolo. Poi però qualcosa lo insospettì. Iniziò a lanciare occhiate nervose negli specchietti retrovisori, prima quello di destra, poi quello di sinistra e di nuovo quello di destra. <<Merda! Merda! Merda! >>. I quattro viaggiavano a circa un centinaio di metri da lui, visibilissimi perché sulla strada deserta erano le uniche cose che si muovessero. Non v’era dubbio che ce l’avessero con lui e che le intenzioni non erano buone. Era tutto troppo evidente. Troppo chiaro. Se accelerava, loro acceleravano; se decelerava, loro deceleravano. <<Merda! Merda! Merda! Perché non mi fermano?>>. Giunto a piazza Karaiskaki si fermò al semaforo rosso. Lo sguardo fisso avanti, immobile. Convinto che almeno lì lo avrebbero fermato per arrestarlo, chiuse gli occhi e ripensò intensamente ai momenti passati con Pola, la sua bellissimabambina-guerriera-bellissima-bellissima. Dopo poco arrivarono anche le quattro moto con in sella i poliziotti in borghese. Due alla sua sinistra, due alla sua destra, gli occhi fissi su di lui, impudenti, provocatori. <<Merda! Merda! Merda!>>. Non avevano alcuna intenzione di mettergli le manette, adesso era chiaro. Senza aspettare il verde Nikos provò a prenderli di sorpresa e partì contro mano a tutta velocità facendosi quasi investire da un camioncino guidato da un vecchio coi capelli bianchi che placidamente ignaro di tutto se ne andava per la sua strada e che nemmeno si accorse di lui. Prese Achileos boulevard in direzione Peristeri. I quattro lo imitarono e già gli erano di nuovo attaccati al culo. <<Merda! Merda! Merda!>>. Sfrecciavano tutti e cinque ad almeno centotrenta chilometri all’ora. Non c’era modo di seminarli in quel rettilineo, gli serviva un’idea. Ma quale? Preso dall’adrenalina aveva scelto una strada del cazzo senza pensare. E una strada più del cazzo di quella non c’era in tutta Atene. Achileos boulevard è una delle sette arterie principali della città. Praticamente si era immesso in una fottuta pista da Formula Uno. Era fottuto. Impossibile seminarli con quella merdosissima moto Guzzi del ’76. Aprì il gas a martello e come faceva da ragazzino abbassò la testa, piegò le gambe e come-va-va-fanculo-come-va-vacome-va-va. Centotrenta. Centoquaranta. Centocinquanta. 46 Centosessanta. <<Merda! Merda! Merda!>>. Centosessantacinque. Centosessantasei. Centosessantasette. <<Merda! Merda! Merda!>>. Passando sopra i binari, con i quattro alle calcagna e il motore che urlava di dolore, sentiva di non avere scampo. Doveva uscire da quella strada del cazzo. <<Via da questa strada del cazzo! Merda! Merda! Merda! Che idea di merda! Che idea di merda!>>. Arrivato all’incrocio di quella che ora, superati i binari, da Achileos boulevard cambia il nome in Athinon Boulevard svoltò in Pasti Spyrou Boulevard e subito in via Naoussis. La strada si stringeva ad ogni metro che percorreva. Da una cazzo di pista di Formula Uno era ora passato ad una bastardissima via del centro. <<Merda! Merda! Merda! Che idea di merda! Che idea di merda!>>. Nel frattempo continuava a lanciare occhiate nervose agli specchietti retrovisori, prima quello di destra, poi quello di sinistra e di nuovo quello di destra. <<Merda!>>. I quattro gli erano sempre dietro, non lo avevano perso per nemmeno un secondo. <<Che cazzo vogliono? Merda! Che cazzo vogliono? >>. Svoltò in via Pelis e di nuovo in via Koritas ed eccolo ancora in Kostantinoupolos boulevard, un’altra cazzo di pista da Formula Uno alla sinistra dei binari della vicina stazione Larissis. <<Che idea di merda! Che idea di merda!>>. Il primo dei quattro, forse stufo di giocare come il gatto col topo, prese l’iniziativa e con una specie di balzò lo raggiunse in un attimo. Era presto detto cosa volessero da lui. Il poliziotto in borghese iniziò quella che sembrava una macabra danza della morte attorno a Nikos. Enas-theo-treis-un-due-tre-un-due-tre. E di nuovo enas-theo-treis-un-due-tre-un-due-tre. Ad ogni manovra lo spingeva sempre più pericolosamente vicino al guardrail che scintillava affilato come la lama di un coltello. << Merda! Merda! Merda! Questo vuole decapitarmi! Merda! Merda!>>. Gli altri tre seguirono l’esempio del primo e cominciarono a fare altrettanto. Enas-theos-treis-un-due-tre-un-due-tre. E di nuovo enas-theos-treis-un-due-tre-un-due-tre. Visti dalla strada Nikos e i quattro poliziotti in borghese dovevano sembrare delle schegge impazzite pronte a esplodere da un momento all’altro. Centotrenta. Centoquaranta. Centocinquanta. <<Merda! Merda! Merda!>>. Centocinquantacinque. Centocinquantasei. Centocinquantasette. <<Merda! Merda! Merda!>>. All’improvviso, l’idea. A ripensarci, non fu poi così un'idea di merda. L’Inter-city Atene-Salonicco delle 12 e 04 di quel giorno, 47 come spesso accade in Grecia, era partito con tre ore e mezzo di ritardo e ora correva di pari passo con le cinque schegge impazzite. Era l’occasione che cercava. All’incrocio tra Kostantinoupoleos boulevard e Iera Odos boulevard in uno strider di freni dei suoi inseguitori si lanciò ad occhi chiusi nel bel mezzo del passaggio a livello urlando come-va-va-fanculocome-va-va-fanculo-fanculo-fanculo e, sa dio come, miracolosamente riuscì a passarlo schivando d’un soffio il treno che incombeva su di lui lasciando indietro i quattro. Era salvo. Né-né-né-si-si-si-fanculo-fanculo-fanculo. Ma lo abbiamo detto che Nikos non era un grande pilota, era piuttosto goffo. Anzi proprio imbranato. E difatti, non appena superata la seconda sbarra, voltandosi indietro per immortalare nella sua memoria l’impresa in cui era riuscito (e dio solo sa come ci riuscì Nikos a fare una cosa del genere), mentre sorrideva soddisfatto di sé, tolse il braccio dal manubrio in segno di esultanza e cristo-cheidea-di-merda-che-idea-di-merda perse il controllo della moto finendo rovinosamente a terra in un botto micidiale. Quando il passaggio a livello fu di nuovo libero, i quattro, vedendo Nikos spiaccicato sull'asfalto, svenuto, inerte, senza nemmeno andare a controllare, probabilmente pensando di aver portato a termine con successo il loro lavoro, ripartirono dissolvendosi nell’orizzonte del deserto cittadino. ** Dalle finestre del pronto soccorso dell’ospedale Evangelismos si riescono a intravedere i fili della teleferica che salgono fino ai piedi dell’Agios Giorgios, la basilica di fine settecento che sta in cima alla collina del Licabetto. Intorno a Nikos, in mezzo al via vai di gente, sistemato su di una barella lungo il corridoio, oltre a sua madre e a suo padre e a suo fratello, c’era Pola che lo guardava fisso senza dire una parola. I medici avevano detto che era stato-più-fortunato-d’unpolitico-un-politico!-avrebbe-potuto-rompersi’l’osso-del-collo-einvece!-più-fortunato-d’un-politico-un-politico! Nikos, tutto vispo, come risorto, allegro come un bambino che si è sbucciato un ginocchio cadendo dalla bicicletta e invece di lagnarsi e piangere ride divertito, non riusciva a fare a meno di 48 sorridere come un idiota mentre lo raccontava: I-medici-handetto-che-sono-stato-più-fortunato-d’un-politico-un-politicocapite?-un-politico! 49 CAPITOLO 10 Alle 7 e 45 minuti, ogni mattina, da quarantacinque anni a questa parte, dal lunedì al venerdì, il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis, classe 1949, una specie di ragnetto alto un metro e uno sputo con due piccoli e folcloristici baffettini da dittatore sotto il naso e la faccia perennemente contratta in una smorfia, entra nell’edificio dietro il Politecnico in via Bubulinas con sotto il braccio una copia appena stampata del Kathimerini, attraversa l’enorme e squallida sala d’attesa all’ingresso, e alle 7 e 46 è già dentro in ascensore che fuma avidamente una sigaretta. Sale fino al 12° piano. Alle 7 e 49, dopo aver percorso svelto, ben saldo al corrimano, una decina di metri di corridoio senza salutare nessuno, apre la porta del suo ufficio, entra, poggia il giornale sulla sua ordinatissima e pulitissima scrivania e alza la cornetta del telefono: <<Signorina Tsirca, il mio caffè>>. Alle 7 e 55 la signorina Tsirca entra ciondolando nell’ufficio del sovrintendente ispettore capo Papathanasakis e gli serve la sua tazza di caffè, rigorosamente senza zucchero. <<Senza zucchero?>>. <<Senza zucchero!>>. Alle 8 precise, cascasse il mondo, per il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis comincia il turno di lavoro. Sono quindi vietate ai suoi uomini: telefonate personali e/o di famigliari (tranne per le emergenze, le quali diventano tali previa valutazione del sovrintendente ispettore capo Papathanasakis in persona), le bevande di qualsiasi genere (comprese le bevande alcoliche, ovviamente), il consumo di ogni genere di cibo (non fa differenza se greco o straniero), le pause eccessivamente prolungate al bagno (pause che non possono durare più di cinque minuti), argomenti come il calcio, la moglie e la suocera. Naturalmente tutto questa vale anche per il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis, il quale non ha né moglie né suocera e non ha il minimo interesse per il calcio. Comunque sia il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis queste regole le ha sempre prese, e prende ancora, molto seriamente. Dal 1987, a trentotto anni, quando venne promosso sovrintendente ispettore della squadra 50 antiterrorismo di Atene Nord con 15 uomini ai suoi ordini, ad oggi, sovrintendente ispettore capo della squadra antiterrorismo di Atene e provincia con 200 uomini sotto di lui, Papathanasakis non ha mai dico mai disatteso ad una sola di queste regole. Qui-si-serve-la-Grecia-signori-la-Grecia! si sente brontolare da dentro l’ufficio di Papathanasakis quando rimprovera uno dei suoi reo di aver disatteso ad una di queste regole. E per fare capire bene all’interessato che non tollererà un errore di più, è solito aprire la porta, mettersi sulla soglia e, rivolgendosi a tutto l’ufficio, grugnisce col tono più autoritario che gli riesce: Esigo-rispetto-per-il-mio-paese-signori-rispetto! Papathanasakis entrò in polizia il 7 settembre 1971, all’età di 22 anni. Aveva una passione così sfrenata per i colonnelli che il 24 Luglio 1974, quando Papadoupolos si dimise in seguito al fallito golpe di Cipro, scoppiò in lacrime come feci io quando i cani-cani-cani-maledetti-cani portarono via Nikos da via Themistokleous per poi sparire in via Kalimandrou mentre gli voltavo le spalle per la paura di esser riconosciuto. Oggi il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis ha sessantacinque anni e fra quattro avrà raggiunto l’età utile per la pensione. La pensione il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis la passerà nella sua casa-al-mare-di-Kissamoscostatami-sudore-e-sague-sudore-e-sangue, una città di undicimila abitanti nella parte nord occidentale dell’isola di Creta. All’epoca dei fatti il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis aveva cinquantaquattro anni e una leggera infatuazione per la signorina Tsirca, che all’epoca ne aveva trentasette e quattro figli e oggi lavora come impiegata alle Poste. Il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis come primo incarico nel 1972 aveva l’ordine di sorvegliare le discussioni degli alunni nell’ora di ricreazione, e ancora oggi dal suo ufficio al 12° piano di via Bubulinas non si spiega per quale motivo tale pratica sia stata abolita. Questi-piccoli-delinquenticonfabulano-come-confabulavano-nel’71-fidatevi-fidatevi-io-loso-li-vedo-li-vedo-per-l’amor-di-dio-fidatevi-io-lo-so. Comunque il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis ogni mattina, dalle 10 fino alle 10 e 15, per sicurezza, passa ancora in rassegna tutti gli studenti del Politecnico con il suo cannocchiale modello Redfield di marca americana perché-gli- 51 americani-fanno-tutto-meglio-tutto-meglio-fidatevi-fidatevi-iolo-so-fanno-tutto-meglio!-ma-soprattutto-fanno-meglio-icannochiali. Quel pomeriggio il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis era rimasto in ufficio fino alle 19 costringendo la signorina Tsirca a due ore di straordinario non pagato. Il turno di lavoro della signorina Tsirca come quello del sovrintendente ispettore capo Papathanasakis comincia alle 8 e finisce alle 17 e 30. La signorina Tsirca stava per andare a chiedere il permesso di andare a casa per preparare la cena ai suoi bambini quando l’ascensore si aprì e il sergente Margellos seguito dai sergenti Mantzounis, Stamos e Kanellopoulos con l’aria di chi ha fatto bene il suo lavoro, tenendo ben stretti ai fianchi i caschi da moto, le domandarono se era possibile vedere il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis. La signorina Tsirca non fece in tempo a riaccomodarsi alla sua scrivania dopo aver fatto accomodare i quattro militari nell'ufficio di Papathanasakis che subito la porta si spalancò di nuovo. D’accordo-d’accordo-endaxi-endaxi. La signorina Tsirca, sentita la voce del suo capo, si alzò dalla sedia e, guardandosi la punta delle scarpe, rimase in attesa di ordini. Papathanasakis però non aveva alcunché da dirle. Parlava ai suoi uomini. D’accordod’accordo-endaxi-endaxi-tornate-domattina-siete-stati-bravi!bravi!-fidatevi-io-lo-so!-ne-riparleremo-domattina-d’accordod’accordo-endaxi-endaxi-buonasera-kalispera-buonasera. I quattro sergenti sfilarono davanti la signorina Tsirca, scartarono le poltroncine di falso cuoio lungo il corridoio, risalirono in ascensore, ed ecco che il disadorno 12° piano di via Bubulinas tornò ad essere occupato solamente dalla signorina Tsirca, da Papathanasakis e dal ritratto del Presidente della Repubblica. Papathanasakis, prima di sparire nuovamente nel suo ufficio, si rivolse alla signorina Tsirca: <<Mi chiami l’ambasciatore americano>> e ciò detto eccolo che nuovamente si rintanò come una tartaruga nel suo guscio. La signorina Tsirca, invece, amareggiata per non aver avuto ancora il permesso di andare, osservò la porta richiudersi con una punta di fastidio. Appena la porta si chiuse, ella, scimmiottandolo e scuotendo la testa come un pupazzo, ripeté le parole appena pronunciate da Papathanasakis: 52 <<Mi chiami l’ambasciatore americano… >>. E tutta infastidita, nervosamente: <<È venerdì sera, non c’è l’ambasciatore americano! È a cena l’ambasciatore americano… LUI! I miei figli invece, poveri i miei bambini… l’ambasciatore americano vuole!>> E invece, sorprendentemente, dall’altra parte della cornetta hello?-wait-a-second-please l’ambasciatore c’era. La signorina Tsirca quella sera perse l’autobus e non riuscì ad arrivare in tempo a casa per preparare la cena ai suoi bambini. CAPITOLO 11 La coerenza è come una linea retta che ha principio ma non ha fine. Essa prosegue fintanto che prosegue la coerenza. Al contrario nel momento in cui si cessa di essere coerenti la linea si ferma, smette di crescere, e non si muove più: si immobilizza in attesa di ripartire. Per alcuni coerenza è sinonimo di ottusità, per altri di agilità. La maggioranza però pende per l’ottusità come sinonimo di coerenza. È un errore comune, e non c’è motivo di vergognarsene. Tendere a credere erroneamente che essere coerenti significhi trincerarsi dentro il proprio spazio di vedute, e lì attendere che il mondo s’accorga di noi, della giustezza del nostro credo e delle nostre profezie succede più di qualche volta ad ognuno. Credere erroneamente che così facendo presto o tardi altri verranno a farci compagnia dentro la trincea, e la trincea da trincea diverrà mondo e il mondo da mondo diverrà un’enorme Sodoma per eretici incoerenti è umanamente comprensibile. Per alcuni essere coerenti significa questo. E allora forse, più di qualcuno, da qui fino alla fine del libro taccerà Nikos di incoerenza. Dirà che Nikos non seguì la sua stessa linea. Che è un ipocrita incoerente. Un traditore dei 53 suoi stessi principi sacri. Dirà che rivolgersi all’autorità che lui stesso definiva illegittima per denunciare pubblicamente il suo tentato omicidio non può che delegittimarlo; non può che dimostrare come egli stesso non crede in quel che dice perché in un momento di pericolo per la sua vita non ha trovato di meglio da fare che domandare aiuto a quelli che lui stesso definiva i carnefici-da-evitare-ad-ogni-costo!-ad-ogni-costo! E una volta detto ciò si trincererà dentro il suo proprio spazio di vedute in attesa che il mondo s’accorga di lui, della giustezza del suo credo e delle sue profezie. La coerenza però è come una linea retta che ha principio ma non ha fine. Essa prosegue fintanto che prosegue la coerenza. Lungi dal sotterrarsi in una buca, la coerenza prosegue per la sua strada qualsiasi cosa accada, qualsiasi ostacolo le si ponga davanti. Anche se proseguire significa passare attraverso un muro chiamato compromesso. Anche se proseguire significa usare il nemico a proprio vantaggio. Perché la coerenza è come una linea retta che ha principio ma non ha fine. Essa prosegue fintanto che prosegue la coerenza. E l’unico modo che aveva Nikos per dimostrarsi coerente agli occhi della storia, per continuare a far crescere la sua linea senza sotterrarla in una buca, era quello di testimoniare l’incoerenza del suo avversario. Un avversario che dell’incoerenza ha fatto il suo metodo educativo. Un avversario che impone leggi e regolamenti e che poi non li rispetta, se non quando gli fa comodo e solo se gli fa comodo. E-al-diavolo!-io-il-mondo-non-l’aspetto-gli-vado-incontro!-sequelli-che-hanno-scambiato-la-coerenza-per-ottusità-dirannoche-ho-sbagliato-sono-solo-degli-inutili-idioti-inutili-idioti!-io-ilmondo-non-l’aspetto-gli-vado-incontro! Questo rispondeva Nikos a chi gli domandava con che coraggio fosse andato lui, anarchico, a denunciare il fatto dentro una centrale di polizia. Se non fosse stato per Pola però Nikos non ce lo avrebbe voluto raccontare mai. Non lo avrebbe fatto mai. Neppure se glielo avessimo chiesto implorandolo. Neppure se facendolo sarebbe stato d’aiuto a qualcun altro. Il motivo è piuttosto sciocco se volete, anzi, molto più che sciocco. Forse addirittura stupido. Profondamente stupido. Ma Nikos aveva allora, e ancora oggi lo mantiene, un codice d’onore tutto suo che gli vieta di descriversi come vittima quasi che ammetterlo comporti un’altra sconfitta, un altro dolore, un altro soffrire; e sarebbe 54 quindi rimasto volentieri in trincea come quegli altri inutiliidioti-inutili-idioti-diavolo-che-idioti e di sua spontanea volontà alla centrale di polizia non ci sarebbe andato nemmeno morto. Sono-carnefici-da-evitare-ad-ogni-costo!-ogni-costo! Ma adesso c’era Pola a chiederglielo. Era la sua dolcissimabambina-guerriera-dolcissima-dolcissima che lo implorava. <<Sei un maledetto idiota Nikos… non hai scelta ti dico… Se non mi ascolti e non li denunci… ascoltami! Come pensi che farà la gente a sapere cos’hanno tentato di fare quei cani, eh? Me lo spieghi? Non capisci… cazzo non capisci che decidendo di combattere ti sei assunto la responsabilità di fronte alla rivoluzione di testimoniare ogni loro mossa a qualsiasi costo? Anche a costo di andare contro i tuoi stessi principi… sì, stupido idiota… anche a costo di usare i loro metodi. Che tu lo voglia ammettere o no, oggi sono loro che scrivono la storia. Sono i loro documenti che vengono studiati. Sono le loro dichiarazioni che vengono ricordate. Se non farai formale denuncia… cazzo, lo so che non vuoi! Lo capisco… ma se non farai formale denuncia domani loro negheranno e poi… Mi ascolti?… poi la rivoluzione avrà perso un occasione per dimostrare l’incoerenza dei padroni… è tuo preciso dovere Nikos. Ascoltami! Non hai scelta.>> Mentre Pola parlava Nikos era pallido, come colpito da una specie di torpore. Non rispondeva. Non reagiva. Lo sguardo era assente. Qualcosa lo inquietava violentemente. Sembrava non aver sentito una sola parola di quanto gli aveva detto Pola. Poi d’un tratto le mani cominciarono a tremargli. Una specie di tic nervoso s’impossessò del suo labbro inferiore. Stavano seduti attorno al tavolo della cucina della casa di Pola, dove convivevano da un po’, a Kalivia, sopra le colline di Glyfada, oltre il Monte Imetto, La Montagna Pazza, quando prese a giocherellare con la sua sbrecciata tazza di caffè. In preda all’inquietudine, con gli occhi allucinati che gli scintillavano per la rabbia, si ridestò improvvisamente da quello stato di dormiveglia apparente come punto da uno spillo e con uno scatto afferrò il polso di Pola seduta al suo fianco. <<Quei maledetti cani mi hanno torturato.>> Pola rimase pietrificata. Non sapeva che dire. E Nikos, capendo di non essere compreso, come impazzito in risposta strinse ancor più rabbiosamente il polso di lei. Per quanto Pola si sforzasse di non 55 darglielo a vedere, non riusciva a nascondere una smorfia di dolore. <<Nikos mi fai male!>>. <<Mi hanno torturato, capisci? E ridevano… quei cani ridevano mentre mi torturavano.>> Nikos non la sentiva lamentarsi. Era completamente assente, sordo, immerso in quei ricordi terribili che non aveva mai confessato prima a nessuno. E nel mentre, continuava a stringere sempre più forte. Sempre più forte. Con sempre più rabbia. Pola provava a divincolarsi ma non ci riusciva. <<Mi fai male, Nikos! Lasciami>>. <<Ho festeggiato il mio ventiseiesimo compleanno in una cella senza né aria né luce. Ora ti è più chiaro?>>. <<Non c’era un bagno o un buco dove poter fare i miei bisogni… a mano a mano che passava il tempo la cella si ricopriva di escrementi… la puzza era insopportabile. L’unico rimedio che avevano pensato di adottare… e bada bene che non lo facevano per me ma per loro perché…>> Nikos come stordito fece una breve pausa, poi riprese il racconto. <<Li sentivo lamentarsi… cristo, non lo dimenticherò mai! Si lamentavano perché la puzza era così forte che attraversava i muri…>>. <<Mollami Nikos! Mi fai male>>. <<L’unico rimedio che avevano escogitato era una guardia che a turno… li sentivo che se lo giocavano a sorte quei porci… e poi imprecavano quando perdevano! Cominciavano a strillare di tutto… e poi se la prendevano con me…>>. Sbatté il pugno sul tavolo con una violenza inaudita terrorizzando Pola, che di lì in avanti non fece più resistenza e si zittì del tutto. <<Ascoltami! Era incaricata… una guardia era incaricata di rovesciare sul pavimento un secchio pieno d’acqua ogni cinque o sei ore… l’unico risultato che ottenevano quei cani era che l’aria diventava più irrespirabile ancora e… cristo… l’odore si faceva così fetido… così fetido>>. <<In estate la cella diventava così rovente che… >> Nikos s’interruppe. Tremava come una foglia ma si vedeva che era deciso a continuare a tutti i costi, a vomitare fuori ogni cosa. <<Che…>> con un filo di voce gli suggerì Pola con le lacrime che gli rigavano le guance, invitandolo a continuare cercando come poteva di infondergli il coraggio necessario nonostante l’insopportabile dolore al polso. E intanto lo esaminava 56 disperatamente. Era come se non lo conoscesse affatto. Come se lo vedesse veramente per la prima volta solo ora. <<Che… che… Cristo! Che per cercare un po’ di sollievo… Cristo!>>. Il dolore e la collera toglievano le parole di bocca a Nikos. <<Ti prego continua. Dimmi cosa succedeva.>>. <<La cella diventava così rovente che… mi dovevo stendere nudo sul pavimento, capisci?! Mi stendevo sul mio piscio e sulla mia merda per trovare un pò di sollievo... per non crepare dal caldo… lo capisci questo? Lo capisci?! e rimanevo così sporco per giorni… a volte per settimane. E loro ridevano… ridevano quei cani… per loro tutto faceva ridere. Quei sadici si divertivano a vedermi soffrire… Si divertivano a sbattermi la testa contro il muro… Si divertivano a bruciarmi con le sigarette! Si divertivano… e io dovrei andare dai loro capi? Andare nei loro uffici con la coda fra le gambe? Per fare che cosa? Per vederli ridere di nuovo? Per guardare i loro sorrisetti mentre siedo davanti una delle loro scrivanie come uno scolaretto pentito in udienza dal preside? Per fare che cosa? eh, Pola? Rispondi! Ho sacrificato tutta la mia vita per la rivoluzione… è da quando sono un bambino che faccio la rivoluzione! Che combatto questi mostri! Che dovere ho io nei confronti della rivoluzione? Eh? Che dovere, Pola? Che dovere! Sono io che scrivo la storia… Siamo io e te che scriviamo la storia… Sono quelli come noi che scrivono la storia… Loro sono solo un errore della storia! Un maledetto errore del cazzo! In nemmeno uno dei loro libri si parla di una libertà che non preveda dei padroni a comandare su dei servi… In nemmeno una delle loro dichiarazioni si parla del popolo come di un gruppo di persone costituito da individui capaci di pensare senza la supervisione di un padrone… sono loro che scrivono la storia?! Eh, Pola? Sono loro? No, Pola! Non sono loro… Non scrivono la storia quei maledetti. Loro scrivono la storia dei loro padri e dei loro nonni, non dei nostri. Loro scrivono la storia che piace a loro, che li vede sopra di noi, che li vede sopra tutti quanti… Perché… Perché loro si credono più di semplici uomini… si credono più di tutti gli uomini… Loro si credono gli unici uomini, e noi per loro siamo niente. Siamo la loro merda… E quando hanno finito di cagarci tirano lo sciacquone e tanti saluti! Per loro noi siamo una banconota in più o in meno… Non siamo niente per loro! Non sanno un cazzo di cos’è la storia 57 quei cani. Fanculo i loro documenti e le loro dichiarazioni… Noi abbiamo le nostre. Dobbiamo cazzo… dobbiamo avere le nostre! Questo… è questo il nostro dovere nei confronti della rivoluzione, Pola! Perché siamo uomini e non merde. Perché sono solo le merde che non hanno scelta! Gli uomini non sono nella condizione di non scegliere!! Non lo sono, gli uomini!! le merde... sole le merde possono prendersi il lusso di non scegliere!!>> e infine aggiunse come disperando di non esser compreso ma sperandolo fin dentro l'angolo più buio della sua anima: <<Come puoi chiedermi una cosa del genere? Come! >>. Nikos a quel punto allentò la stretta al polso, esausto, svuotato di un fardello troppo a lungo tenuto nascosto ad orecchio umano. Pola, poverina, d’istinto lo ritrasse in cerca di sollievo, per massaggiarselo, liberarlo dal dolore. Ma se ne pentì immediatamente. Ritraendo il braccio verso di sé a quel modo lo aveva ferito, e lo capì. Mortificata per quel suo gesto, seppur involontario, si sentì delusa da se stessa e da quanto aveva fatto al suo uomo, seppur lo avesse fatto senza pensare, e, lentissimamente, silenziosamente come facciamo quando vogliamo avvicinarci ad un animale selvatico senza spaventarlo per non farlo scappare, riavvicinò la mano a quella di lui. E ancor più silenziosamente, lentissimamente, intrecciò le sue dita a quelle di lui e con tutta la dolcezza di cui era capace gli disse: <<Scusa… ho sbagliato. Io… io…>> ancora una volta non sapeva che dire, come rimediare. Si sentiva impotente. Avrebbe voluto dirgli che non gli aveva chiesto di andare a scusarsi o a pentirsi. Che non gli aveva chiesto di sottomettersi ai suoi aguzzini. Di umiliarsi. Di chiedere scusa per qualcosa per cui non aveva motivo di scusarsi. No, non glielo aveva chiesto. Ma come avrebbe potuto? Come? Come poteva dirgli che tutto quel dolore ora non centrava? Che non aveva nulla a che vedere con quello che avevano tentato di fare quei maledetti cani? Come poteva ribattere dopo quanto gli aveva raccontato? Come si sarebbe sentita lei, al suo posto? Poteva biasimarlo? Come poteva dirgli che in guerra non c’è uomo che non soffra e se lui aveva sofferto e continuava a soffrire è perché stava combattendo? Sarebbe stato crudele. Sì, lo sarebbe stato. Lo sarebbe stato in modo terribile. E lei, lei che lo amava. Lo amava fin dal primo momento, fin dal primo 58 sguardo. Lo aveva amato fin’anche prima del ciao-sono-Nikospiacere-Nikos. Lo amava in maniera così totale, così assoluta, così perfetta, così incontrollata. E lei sapeva che lui l’amava allo stesso modo. Che i sentimenti che Nikos provava per lei erano sinceri, sconfinatamente sinceri. Colmi d’un amore così infinito che alcune volte finiva pure per vergognarsi di tutte quelle esternazioni che arrivavano a sfiorare lo sconveniente tanto erano esplicite e impudiche. La amava in modo così carnale, così passionale. Doveva dirgli una cosa così credule? Poteva? No. Non poteva. Non poteva dirgli nulla di così crudele in quel momento. Anche se avrebbe voluto. Anche se sapeva di avere ragione e che lui non aveva scelta. Che l’unica cosa da fare era andarli a denunciare quei cani. Era quella la cosa giusta da fare. Ma non ci riuscì. Non volle dirglielo. Non dopo quanto le aveva raccontato Nikos. <<Io… perdonami. Non avrei dovuto…>> Ma inaspettatamente, tra un singhiozzo e l’altro, si sentì rispondere: <<Non ti scusare… anzi, sei tu che devi perdonami. Mi sono comportato come un animale. Mi perdoni?>> e così dicendo le riafferrò il polso e prese a baciarglielo, a carezzarglielo con delicatezza in un impeto di tenerezza. <<Ti ho fatto male, eh? Mi dispiace…>> Pola non disse nulla e calò il silenzio. Voleva dirglielo che non c’era nulla da perdonare, che non le aveva fatto poi così male. Che con i suoi baci e le sue carezze il dolore al polso era scomparso subito, non-mi-fa-male-amore-non-mi-fa-male. Ma le sembrava che non ci fosse più nulla da dire. Che dirgli si-amore-mio-tiperdono sarebbe stato come fargli una ripicca, un gesto stupidamente orgoglioso per rammentargli quel che aveva fatto e che non avrebbe dovuto fare. Allora sfilò via la mano da quella di Nikos e come nulla fosse accaduto spinse la sedia indietro e si alzò da tavola. <<Dovremmo andare a mangiare fuori questa sera… non mi va di restare qui. Ho voglia di moussaka. Un bel piatto di sformato di melanzane e carne a Monastiraki, cosa ne dici? Ti va, Nikos? All’Eugenia… vuoi? Mi ci porti?>> ** 59 Dopo cena, mentre erano ancora seduti al tavolo, visto che a Pola non andava di tornare subito a casa, decisero di andare a fare una passeggiata tranquilla tra le bancarelle. Nikos, con tutta l’innocenza di cui era capace, la teneva per mano già fin dall’uscita del ristorante in via Voulis, dove si trova l’Eugenia, quando attraversarono piazza Mitropoleos e percorsero tutta via Pandrossou fino al muro di Adriano. Lì, mentre passeggiavano felicemente, spensierati come due adolescenti al loro primo incontro, iniziarono a cadere le prime gocce. Dimodoché in breve cominciò a piovigginare una pioggia finissima, di quel tipo quasi impercettibile al tatto ma che in pochi minuti, immancabilmente, senza che te ne accorgi, t’inzuppa ogni volta dalla testa ai piedi. Si tolse la giacca e la usò a mo’ d’ombrello, tirando sotto anche Pola, che gli sorrise innamorata. Accelerarono il passo e si ritrovarono in piazza Monastiraki: l’antico quartiere turco dominato dall’alto dal candore abbagliante del Partenone (da lassù vi sembra di tenera Atene in una mano, potete credermi) illuminato dai giganteschi fari che proiettano contro il-monumento-dalleproporzioni-perfette-guardalo-Pola-guardalo-è-un-monumentodalle-proporzioni-assolutamente-perfette fasci di luce bianca e, all’interno della piazza, sopra di un vero e proprio mosaico di piastrelle gialle, rosse, blu e bianche s’intasano i tavoli dei caffè che senza alcun ordine si mescolano ai banchi del mercato delle pulci come in un bazar d’Oriente. Alla loro sinistra, sotto i portici della moschea Tzistarakis, Pola scorse tra la folla di gente Kostas e Lambros. Li indicò a Nikos con un gesto della mano, ed insieme, guardandoli, scoppiarono a ridere. I due, senza curarsi minimamente della pioggia, buffamente, gesticolando animatamente, agitando i pugni e immediatamente ritraendoli come pentiti, discutevano, o perlomeno tentavano di discutere, su non so quale argomento di-enorme-importanza-lei-non-capisce-è-im-pre-scin-di-bi-le-dienorme-importanza-lei-non-capisce con un incolpevole signore, un vecchio molto vecchio, vestito solamente di un paio di pantaloni neri e una camicia bianca e una sciarpa al collo che al contrario, seduto sugli scalini riparati dall’acqua tutto indaffarato a costruire il sedile d’una sedia intrecciando della paglia com’era, indifferente, annuendo di tanto in tanto distrattamente, non dava loro il men che minimo motivo per continuare. Non era uno che dava l’idea di voler fare più cose 60 contemporaneamente, questo era chiaro. Figuriamoci poi se aveva voglia di dar retta a quei due, alla pioggia, al suo lavoro e al freddo tutto in una volta. <<Cosa succede ragazzi?>> si intromise Nikos divertito mettendosi al riparo sotto i portici della Moschea insieme a Pola. <<Guarda un po’ chi si vede…>> rispose Kostas dopo essersi voltato, riconoscendolo. <<…il sopravvissuto!>>. Stupito, riconoscendolo anche lui, esclamò Lambros. E cessando d’importunare il povero canestraio che ormai non ce la faceva più a sopportarlo, gli saltò addosso senza dare a Pola il tempo di mettersi in salvo, travolgendoli entrambi. <<E sta’ attento Lambros!>> <<Principessa…>> si scusò Lambros passandosi una mano fra i capelli bagnati e assumendo un tono di voce volutamente ridicolo, facendo un altrettanto ridicolo inchino dopo aver fatto due passi indietro liberando Nikos da quel suo abbraccio. <<Mi perdoni! Non l’avevo vista.>> <<Eh… Me ne sono accorta!>> osservò Pola indispettita. <<Allora?>> insisté Nikos bonariamente non dando alcun peso a quanto era appena accaduto, trovandolo al contrario di Pola assai spassoso <<Che avete da agitarvi tanto?>> <<Bah… sciocchezze>> rispose Kostas dandosi un contegno lasciando esterrefatto Lambros. <<Come sciocchezze?!>> impallidì Lambros tutto sconvolto. Evidentemente la cosa doveva stargli veramente a cuore. <<Questo signore sta intrecciando la paglia a rovescio… Lo hai detto anche tu! vedi?>> e indicò a Nikos il canestraio con un gesto della mano, il quale, sentendosi chiamato in causa, di sotto le ciglia controllava cosa accadeva per capire quali fossero le accuse, e una voltà capite si limitò a scrollar le spalle in un gran sospiro, infastidito e irritato. <<Intreccia da destra a sinistra invece che da sinistra a destra! È sbagliato… bisogna intrecciare partendo sempre da sinistra, o la sedia verrà tutta storta. È un particolare…>> <<Im-pre-scin-di-bi-le, ti abbiamo sentito…>> lo canzonò Pola, prendendosi la rivincita. <<Lo è! Puoi ben dirlo… è un particolare di enorme…>> <<E su dai… Lascia perdere! Piuttosto…>> disse Kostas serio interrompendo Lambros. <<Tuo fratello… è passato di qua 61 poco fa con tua madre… ci ha detto dell’incidente di oggi pomeriggio. Come stai?>> <<Qualche ammaccatura, niente di più… a proposito, Lambros… per la moto…>> <<Cazzate!>> s’irrigidì Lambros. <<Tutte cazzate. Era vecchia, te l’ho detto… un catorcio… Non ha importanza. Come stai?>> <<Un po’ di dolore alla spalla e al ginocchio… Niente di ché. Passerà.>> e, gravemente, disinvolto, come se fosse la cosa più naturale e ovvia del mondo, prendendo Pola per mano concluse: <<Domani vado al G.A.D.A., li denuncio quei porci.>> CAPITOLO 12 Il G.A.D.A. è un edificio a sei piani color sabbia in fondo ad Alexandras boulevard, un enorme strada a sei corsie che sega Atene in due, la zona est dalla zona ovest e la zona ovest dalla zona est. Poco più in là, girato l’angolo in via Dimoutselio, c’è l’ospedale; un edificio enorme anch’esso, ma lui, a differenza dell’altro, è molto amato dagli ateniesi: la competenza 62 dimostrata negli anni dal personale medico parla da sé. Al di qua dell’Alexandras boulevard, di fronte alla stazione centrale di polizia (il G.A.D.A.), si trova invece lo stadio di calcio. È proprio lì, su di una panchina riscaldata da un innocuo sole invernale, che ritroviamo Nikos inquieto e preoccupato fino al tormento con un porta documenti sulle ginocchia e la forte convinzione che i poveri non possono far altro che cercare di vincere se non vogliono continuare a perdere. Io-non-ci-entro-lì-dentro-cazzo-cazzo-cazzo-io-non-ci-entro-lìdentro!-quelli-sono-cani-sono-porci-sono-merde-cazzo-cazzocazzo-io-non-ci-entro-lì-dentro!-perché-ho-acconsentito-aquesta-porcata?-cazzo-cazzo-cazzo-non-ci-entro-li-dentro-nonci-entro. Era il 10 di gennaio del 2004, e l’indomani mattina il Panathinaikos vinse in trasferta uno a zero sullo Skoda Xanthi. Io-non-ci-entro-lì-dentro-cazzo-cazzo-cazzo-non-ci-entro-lìdentro-io-non-ci-entro! E invece ci entrò. E ci entrò a enormi falcate, spavaldo, sicuro, con la schiena dritta di chi sta andando ad una cena in suo onore ed è sicuro che tutti lo applaudiranno. Ci entrò nonostante i bisbigli che sibilavano come fanno le vipere prima di mordere. Ci entrò nonostante i colpetti di tosse offensivi e le gomitate hey-guarda!-sssstt-si-l’ho-visto-taci-che-ci-sente. Percorse sicuro l’atrio, con calma, esponendosi alle loro occhiatacce malevole. Arrivato davanti alla guardiola, ad alta voce, scandendo quanto più chiaramente gli era possibile ogni singola parola per farsi sentire da tutti, si rivolse ad un giovanotto, un contadinotto arrivato fresco fresco dal paese, che goffamente dall’altra parte del vetro si sistemava la divisa che lo impacciava perché di due o forse tre taglie troppo grande: <<Devo fare una denuncia>> gli disse Nikos. <<Si… aspetti… certo… una denuncia… deve… deve andare… aspetti… sì… deve andare al secondo piano, certo, al secondo piano. Prenda quell’ascensore laggiù in fondo e poi giri a sinistr… no… aspetti… a destra… giri a destra>> non lo aveva riconosciuto. Forse nemmeno sapeva che Nikos era Nikos. Uscì da quella sottospecie di acquario senz’acqua, doveva essere il suo primo giorno, e servizievole, educatamente, vergognandosi per via di quella divisa troppo larga sulle spalle e sui fianchi che lo faceva sembrare così spassosamente ridicolo, tenendosi su i 63 pantaloni con una mano <<Ecco… vede? Quell’ascensore laggiù… aspetti… è proprio laggiù… aspetti… è… è… l’accompagno!>> <<Lasci>> rispose Nikos intenerito, pensando fra sé e sé ancora-un-paio-d’anni-e-questo-da-quel-cucciolo-ancorainoffensivo-qual-è-mi-diventa-un-cane-rabbioso-un-canerabbioso. <<Faccio da me>> sitz-seduto-ecco-bravo-così-acuccia-bello-a-cuccia. <<Ho capito… faccio da me>> e, autoritario, porgendogli la mano compatendolo, gli passò per la testa uno stranissimo pensiero: stringendogliela, rammaricandosi disturbato dalla sua stessa insensibilità, pensò che in-fondo-sei-solo-un-cucciolo-un-cucciolo-e-basta-e-guardache-t’è-capitato-non-è-colpa-tua-perdonami-sei-solo-unosprovveduto-ecco-che-sei-perdonami. Poi però fortunatamente tornò in sé. Era un’idea ripugnante, morbosa, molestamente finta: solo-le-merde-non-possono-scegliere-e-lui-era-un-cane!un-cane-maledetto-cane!-ecco-che-era!-non-una-merda!-uncane! Per un attimo ebbe addirittura paura che ancora un momento e quel tizio avrebbe finito col baciargli la mano, rovinandosi la reputazione per sempre. E come il vento allora sparì in un soffio, veloce, quasi correndo, in tempo per fare quest’ultimo favore ad un nemico che ancora non sapeva d’essere in guerra. E se è ancora da queste parti, quel cane-cane-cane-maledettocane è bene che sappia che se oggi i suoi colleghi lo rispettano, lo deve a Nikos Maziotis e a nessun’altro. <<Kalimera, buongiorno.>> <<Yossou… voglio dire… Kalimera, buongiorno a Lei.>> rispose con deferenza lo-sprovveduto-cucciolo-sitz-sedutoecco-bravo-così-a-cuccia-bello-a-cuccia. Quel comico inizio gli infuse ancora maggiore coraggio, e per un decimo di secondo gli passò per la testa l’idea di prendere le scale. Dovevano vederlo tutti che lui non aveva paura e che i loro ridicoli e viscidi sibili da vipere non gli facevano alcun effetto. Magari-mi-siedo-su-uno-di-quei-divanetti-e-gli-chiedoun-caffè-eh?-lo-faccio?-eh?-potrei-eh?-potrei-sedermi-e-gli-dicoche-voglio-un-caffè-anzi-un-decaffeinato-portatemi-undecaffeinato-sono-Nikos-Maziotis!-un-decaffeinato-per-Maziotis! Ma erano solo sogni. Non-ho-tempo-belli-giocheremo-un-altravolta!-così-belli-così!-un-altra-volta!-ora-a-cuccia!-sitz!-non-hotempo!-sitz!-seduti!-sitz-belli-sitz! 64 Chiamò l’ascensore, era vuoto, bene, non-mi-va-gente-intornonon-la-voglio-non-mi-va. Entrò e premette il pulsante per il secondo piano, il-due?-dov'è-il-due?-due?-ah-eccoti!-il-due!bene-non-mi-va-gente-intorno-non-la-voglio-non-mi-va. Quando la porta dell’ascensore si riaprì Nikos si ritrovò al secondo piano. Dove-ha-detto-che-devo-girare?-a-sinistra?-nogira-a-destra-ha-detto—gira-a-destra. Girò a destra come gli aveva detto di fare il cucciolo. E-adesso?-gira-a-destra!-sìbravo!-ma-poi?-io-ha-girato-ma-ora?-ah-eccolo! <<Ufficio denuncie, desidera?>> <<Devo fare una denuncia.>> <<Per quale motivo?>> Per-quale-motivo?!-come-per-quale-motivo?!-devo-fare-unadenuncia-cazzo-una-denuncia!-la-facciamo-qua?-la-facciamoqua-allo-sportello-la-denuncia? <<Devo fare una denuncia.>> ripeté Nikos. <<Il motivo… le ho chiesto il motivo>> <<Il motivo lo dirò all’ufficiale incaricato. Voglio fare una denuncia.>> <<Deve prima dirmi il motivo, signore. È' la prassi.>> <<La prassi è che voglio fare una denuncia. Mi faccia fare la denuncia.>> Il poliziotto alzò le spalle scocciato, in fondo che gl’importava a lui? Che facesse come voleva. <<Come desidera… Mi segua.>> Nemmeno lui sembrava che lo avesse riconosciuto. <<Faccio il giro?>> domandò Nikos. Il poliziotto però mentre si allontanava non riuscì a sentire la domanda, o forse non ci provò nemmeno. Sta di fatto che non rispose. Idiota!-non-cidovevo-venire-cazzo-non-ci-dovevo-venire-è-un-idiota-cazzoun-idiota. Fece il giro della guardiola e gli andò dietro. Ma-è-proprio-uncoglione-nemmeno-m’aspetta-mi-vuoi-aspettare?!-aspettami!ma-guarda-te!-non-ci-dovevo-venire-cazzo-non-ci-dovevovenire. La passeggiata insieme a quel poliziotto per i corridoi del G.A.D.A. a Nikos dovette sembrare infinita. Andavano dritti. Giravano a destra. Entravano in una porta. Ne uscivano da un’altra. Poi ancora dritti. Di nuovo a destra. Di nuovo a sinistra. Dritti. Dritti. Dritti. A sinistra. A destra. <<Si può sapere quanto manca?!>> 65 <<Siamo arrivati. Attenda qui.>> e mettendo la mano sulla maniglia, si voltò di nuovo verso Nikos <<Non si muova, mi raccomando.>> E-dove-vuoi-che-vado?!-è-proprio-un-coglione!-non-ci-dovevovenire-cazzo-non-ci-dovevo-venire. Rimasto solo, come colpito da un attacco febbrile, Nikos si dimenticò in fretta del coglione-ma-è-proprio-un-coglione. Cominciò a provare la stessa sensazione che provano i condannati a morte davanti al plotone d’esecuzione: la testa cominciò a pesargli, le mani gli sudavano, si sentiva stremato, senza più forze, un desiderio indescrivibile di andare a dormire gli legava i pensieri. Il cuore gli palpitava in modo così fastidioso da tagliargli il respiro restituendoglielo in insufficienti e pressoché inutile brandelli d’aria, accentuando la sensazione di spossatezza, di soffocamento. Che-cazzo-ci-faccio-qua?-checazzo-ci-faccio?! Cercava in tutti i modi di distrarsi, fissando i muri tutti uguali, i quadri insignificanti che ritraevano tutto fuorché dell’arte, gli stipiti delle porte, i battiscopa. Ma da dietro la porta si sentivano delle risate, e lui venne colto perfino da dei brividi freddi, gelidamente freddi. I vestiti gli s’infradiciarono di sudore. Gli sembrava d’essere di nuovo in quella cella. Di essere di nuovo ricoperto dal suo piscio e dalla sua merda. Di essere di nuovo solo, in mezzo alla puzza così-fetida-cosìfetida-cristo-non-lo-dimenticherò-mai-era-così-fetida. Era di nuovo murato vivo dentro se stesso. E il mondo giù a odiarlo di nuovo, giù a bruciarlo con i mozziconi delle sigarette, a sbattergli la testa contro il muro, prendi-verme!-traditore!verme!-prendi-prendi-prendi! E giù botte. E giù botte. Sempre più botte, sempre più violente, con sempre più ferocia. E il mondo che umanamente tiene in gabbia altri uomini a non dir nulla se non compagno-qua-compagno-là-che-cosa-brutta-checosa-brutta-faremo-vedremo-compagno-qui-compagno-lì-checosa-brutta-che-cosa-brutta. E il mondo che umanamente tiene in gabbia altri uomini a non dir nulla se non che era unpericoloso-criminale-un-anarchico-un-eversivo-un-mostro-unterrorista. Cristo-che-idea-di-merda-che-idea-di-merda-cosa-cifaccio-qua?-cosa-ci-faccio? Stava quasi per andarsene in preda all’orrore quando: <<Maziotis!>> era il coglione-ma-è-proprio-un-coglione. 66 <<Allora mi hai riconosciuto…>> rispose Nikos, come confortato. <<Sono io. Che vuoi?>> gli ringhiò tornando spavaldo, fiero come-un-animale-cazzo-un-animale. D’improvviso cominciò a respirare più facilmente. Il senso di spossatezza l’abbandonava per far posto a qualcos’altro, una specie di colata di lava d’energia. Sì. Era energia. Era energia quella. Perché?! Perché l’aveva scordato?! Lui era Nikos Maziotis e l’altro solo uno dei tanti cani-cani-cani-maledetticani. Era pieno quel posto di cani-cani-cani-maledetti-cani, ma erano solo cani. Erano pur sempre solo cani. Sitz-bello-a-cucciaa-cuccia-bello-a-cuccia. Era di nuovo la guerra, fanculo i ricordi, le formalità e tutto il resto. Fanculo. Non aveva paura d’un branco di cani rognosi. È la guerra! La guerra! Che-vuoi-sonoio-è-il-mio-nome-che-vuoi-dimmi-che-vuoi-è-il-mio-nome-sonoio-dimmi-che-vuoi. <<Entra.>> Entrando, un raggio di sole lo accecò per un attimo. Una parete a vetri permetteva alla luce del giorno proveniente dall’esterno di penetrare nella sala dalle finestre in fondo. Questa parete a vetri divideva l’ufficio in quattro stanzini più piccoli, formando una sorta di croce sbilenca; un po’ nella logica delle chiese di provincia, ma con quattro stanzini e senza incenso e altari. I due stanzini leggermente più grandi, poco più di sgabuzzini, vicino all’ingresso, e i due più piccoli, ancor meno di tane per topi, vicino alle finestre in fondo. Dapprincipio Nikos fu fatto sedere su di una rovinata e scomoda panca letteralmente attaccata all’ingresso, piena di scritte incise con dei coltellini o forse delle chiavi, lungo il ‘’corpo della croce’’, così ché per tutti gli altri dieci minuti che lo abbandonarono lì, ogni volta che qualcuno doveva passare, si trovava costretto ad alzarsi dalla panca prego-passi-non-si-scusi-non-si-scusi-passi-pure-vadavada-passi-le-dico, e poi nel primo stanzino, nella parte bassa a sinistra ‘’della navata’’, su di una sedia altrettanto ignobile. L’ufficio, se così lo vogliamo chiamare, era sotterrato da centimetri di documenti e di polvere. Alle pareti vi stava appeso un crocifisso, e su quella che doveva essere una libreria, altrettanti documenti e altrettanta polvere. Nel centro, quasi a sfiorare la libreria, l’arredamento era completato da una scrivania con sopra un computer e sempre documenti e polvere. In terra, per finire, accompagnati da altra polvere, ancora documenti. 67 <<Allora, Maziotis…>> disse il coglione-ma-è-proprio-uncoglione entrando <<eccole l’ufficiale incaricato.>> E infiltrandosi come meglio gli riuscì tra la scrivania e la libreria, si sedette di fronte a Nikos, si spostò in avanti, la sedia cigolò sotto il peso, si soffregò la fronte come si ci fosse in lui un cruccio che lo lacerava dentro nell’anima, con una mano spostò una pila di documenti che pendeva pericolosamente verso destra, e con l’altra schiacciava e s’infilava noci in bocca: <<Vogliamo procedere con la pratica?>> gli domandò a bocca piena sputacchiando, che ancora un po’ e Nikos lo avrebbe preso a ceffoni su quel brutto muso. ** Il giorno dopo e per alcuni giorni ancora alcuni giornali pubblicarono degli articoletti striminziti a riguardo. Non era inusuale che un anarchico denunciasse la violenza della polizia. Ma che lo facesse per vie legali, questo sì che lo era. Probabilmente fu questo a spingerli ad interessarsi alla cosa (o forse era solo un modo per poter gridare ipocrita-ipocritaguardatelo-l’ipocrita). Comunque, quale che sia stato il motivo che li spinse a non tacere come facevano di solito, vi furono diverse interpretazioni, alcune delle quali molto divertenti. La più popolare era anche quella più scontata: in quella si sosteneva che si trattasse di una pura e semplice invenzione di Maziotis; una provocazione da anarchici, tutto qui. Chiaro, no? Se-sei-anarchico-è-probabile-che-menti. Perché? Perche-seianarchico. Perché-non-denunciasti-subito-la-cosa? Puttanatenon-ti-credo. I-documenti-del-pronto-soccorso? Non-significano-niente-non-ticredo. Che-prove-hai-a-riguardo? Sciocchezze-non-ti-credo. Sciocchezze-da-anarchici-e-nient’altro!-Pure-e-semplicisciocchezze!-I-poliziotti-non-fanno-queste-cose-loro-sonosenza-macchia-i-poliziotti-sono-uomini-senza-macchia-senzamacchia. Nikos mandò allora una lettera aperta al giornale Eleftherotypia spiegando per filo e per segno come erano andati veramente i fatti. In calce alla lettera si riservò dello spazio per uno sfogo: 68 ‘’La Stato e le sue infami forze di polizia hanno cercato di spezzare la vita di un rivoluzionario che non sono riusciti a piegare con la tortura e la prigione. Non ci sono riusciti la settimana scorsa. Non ci riusciranno la prossima e quelle di là a venire.’’ Dal gennaio 2004 all’aprile del 2007 Lotta Rivoluzionaria, ostinata come una zanzara, fece esplodere una bomba ad orologeria nella Citybank di Psihiko, assaltò la centrale di polizia di Kallithea, provò a far saltare in aria due camioncini della polizia antisommossa senza tuttavia riuscirci, mise una motobomba davanti la sede del Ministero delle finanze e un’altra a Vougoraky, sparò con un lancia razzi contro l’ambasciata americana e qualche colpo di pistola contro la centrale di polizia nel quartiere di Perissos. Nel 2007 attentarono di nuovo alla sua vita, allo stesso modo, in circostanze molto simili; e Nikos… lui rifece tutto da capo: guardiola, ascensore, secondo piano, passeggiata in compagnia del coglione-ma-è-proprio-un-coglione, attesa nervosa, denuncia e lettera al giornale. Era la guerra. Cristo, la guerra! La guerra! CAPITOLO 13 Il 6 dicembre 2008 un ragazzino di quindici anni venne ammazzato da uno di quei cani-cani-cani-maledetti-cani mentre festeggiava il suo onomastico nel quartiere di Exarchia. Si chiamava Alexis Grigoropoulos. La sera stessa e per le successive tre settimane qualsiasi cosa si potesse occupare, in Grecia venne occupata. Università, fabbriche, scuole, sindacati, 69 piazze, strade; ma anche marciapiedi, bar, negozi, centri commerciali: non c’era nulla che non fosse in mano ai manifestanti in rivolta. Perfino parte di quella borghesia che prima ci sputava addosso ora era lì con noi, a combattere per una Grecia libera e indipendente. Ci credevamo. Tutti ci credevano. Ogni cosa era buona per costruire barricate. Tutti ci mettevano del loro, era la guerra! Passami-quello-compagno-passami-quell’altro-usiamo-questocompagno-dai-compagno-dai. Era il ’68 greco. Nelle vie di Atene eravamo convinti che la rivoluzione fosse ad-un-passo-compagni!-ancora-un-passo-e-cisiamo-dai-compagni-dai. Le botte delle squadre antisommossa non facevano più male dai-compagni-non-fa-male-non-fa-maleancora-un-passo!-dai-compagni-dai. Donne di cinquant’anni con la casa al mare e 1500€ di pensione ci mandavano le figlie con cesti pieni di roba da mangiare e da bere; figlie che in lacrime ci riportavano i messaggi degli anziani genitori: forzaragazzi-forza!-siamo-con-voi-forza! Per tre settimane la Grecia fu sull’orlo della libertà. Eravamo di nuovo un paese. Eravamo tutti insieme che combattevamo per l’intero paese. Eravamo un paese solo contro un intero mondo fatto di niente, ma eravamo la-Grecia-la-Grecia-la-Grecia! Bastava un passo-ed-è-fattaancora-un-passo-dai-compagni-forza-compagni-dai-dai-dai! Ma fu tutto inutile, non riuscimmo mai a fare quell’ultimo passo. La repressione fu violentissima. Le forze del regime alla fine ci schiacciarono. Migliaia di arresti. Centinaia di feriti. Quell’ultimo passo, quel maledettissimo ultimo passo… CAPITOLO 14 La crisi economica, così dicevano, era una colpa di tutti. Abbiamo-vissuto-al-di-sopra-delle-nostre-possibilità. Dobbiamofare-sacrifici. 70 Sacrifici-sacrifici-sacrifici-tutti-a-fare-sacrifici. Le televisioni e i giornali ce lo spiegavano ogni giorno: bisognaaumentare-le-tasse-ai-poveri-viva-le-tasse-ai-poveri. È-l’unicasoluzione-possibile-il-capitalismo-viva-il-capitalismo. È-l’unicascelta-il-salario-dimezzato-all-operaio-perché-bisogna-faresacrifici-salario-dimezzato-salario-dimezzato-viva-il-salariodimezzato. Dicevano che bisognava privatizzare-privatizzare-privatizziamoogni-cosa. Dicevano che bisogna rendere il lavoro-più-flessibile! Che bisognava poter licenziare-bisogna-poter-licenziare. Quel che ottennero fu un’ecatombe di povertà. Un milione trecentomila persone senza lavoro, senza contare i lavoratori autonomi. Un negozio su quattro chiuso per fallimento. Tre milioni di cittadini senza copertura sanitaria. Quattrocentomila persone a rischio di sfratto. Oltre ventimila senzatetto. Atene era diventata la capitale europea dell’ingiustizia; e da New York a Londra, da Parigi a Francoforte, il-simbolodell’ingiustizia-è-la-sede-della-borsa-facciamo-saltare-la-borsa! Come facevano sempre per evitare di fare feriti tra i civili, nelle prime ore del mattino di mercoledì 2 settembre 2009, Gournas chiamò l’Eleftherothipia. Pronto?-il-giornale-Eleftherothipia?-una-bomba-esploderà-difronte-la-sede-della-borsa. Alle cinque e mezzo 47 chili di dinamite svegliano l’intero boulevard Athinon. ** La borsa non saltò in aria, ma il governo sì. La sera stessa il Primo Ministro Karamanlis si dimise. 71 CAPITOLO 15 Il mondo fatto di niente finché non si ritrova di fronte all’evidenza non muove un dito. Non lo fa mai. C’erano voluti migliaia di suicidi, migliaia di martiri sacrificati all’altare del dolore perché il mondo fatto di niente si ricordasse d’esser qualcosa, almeno qualcosa. C’erano voluti gl’invasori vestiti in nero della Troika, i tagli alle pensioni, le file allo sportello del banco dei pegni, gli assalti ai camion di patate, la luce e il riscaldamento staccati perché la Grecia si riscoprisse Grecia, perché la Grecia tornasse ad esser qualcosa, almeno qualcosa. E allora la gente per strada ricominciava ad osare-compagni!osiamo!-dobbiamo-osare! C’erano voluti i bambini a mendicare un tozzo di pane, le file di negozi con le serrande abbassate, i volti tristi della povertà a chieder qualcosa-mi-dia-qualcosa-per-favore-ho-fame-ho-famemi-dia-qualcosa perché la Grecia si ricordasse d’essere fatta di carne, perché si ricordasse d’esser fatta di sentimenti, perché si ricordasse di non esser una cavia da laboratorio su cui si poteva sperimentare impunemente un nuovo capitalismo ancor più vuoto, ancor più fatto di niente e niente ancora. Osiamo-compagni-osiamo! Nell’ultimo anno la Grecia sembrava aver preso finalmente lo slancio: osiamo-compagni-osiamo!-ora-e-adesso!-forzacompagni-dai! Ma a Nikos tutto questo sembrava non importare più. Non quella sera d’ottobre del 2009 comunque. Era fuori di sé dalla gioia, come uscito di senno. Ballava, saltellava, esultava, batteva le mani ah-ah-ah!-dio-oh-dio!-ah-ah-ah! Pola lo aveva colto di sorpresa: Aspetto-un-bambino-amore-unbambino-tutto-nostro. ** Per tutto quel mese Nikos sembrava aver intraveduto la possibilità d’un’esistenza felice. Non faceva altro: prendeva il telefono e chiamava. Chi-chiamo-chi-chiamo? Chiamava sua madre: Pronto?-mamma?-sarò-papà-sarò-papà! E tirando Pola a 72 sé le poggiava la cornetta del telefono sullo stomaco: fallesentire-Pola-falle-sentire. Chi-chiamo-chi-chiamo? Chiamava suo fratello: pronto?-ascolta-qua!-fagli-sentire-Pola-fagli-sentire. Chiamava chiamava chiamava. Avrebbe chiamato il mondo intero. Chi-chiamo-chi-chiamo? Pronto?-mondo?-ascolta-qua!fagli-sentire-Pola-fagli-sentire!-hai-sentito-mondo?-è-mio-figlio!mio-figlio! Era tutto un fammi-appoggiare-la-testa!-voglio-sentirlo-vogliosentire-mio-figlio!-fammi-appoggiare-la-testa-fammi-sentirevoglio-sentirlo! E Pola, piegando un angolo delle labbra abbozzando un mezzo sorrisetto, tra il divertito e l’infastidito, lanciandogli un'occhiata di traverso, rispondeva sono-solo-alprimo-mese-che-senti?-che-vuoi-sentire?! Ma a Nikos non importava, chi-chiamo-chi-chiamo? Pronto?-papà!-ascolta-quaascolta-qua! E da dietro la cornetta poggiata sullo stomaco di Pola gli spiegava che quello con cui doveva parlare non era la pancia della sua fidanzata ma tuo-nipote!-lo-senti?-saluta-miofiglio-salutalo!-lo-senti?-lo-senti?-è-tuo-nipote!-tuo-nipote! La sera, a letto, traboccante di tenerezza, si chinava su Pola e, dolcemente, con delicatezza, dopo aver allungato la mano per accarezzarle la guancia, sussurrava rivolgendosi al feto sono-iltuo-papà-mi-senti?-dì-qualcosa-sono-papà!-dì-qualcosa-figliomio-sono-papà! 73 CAPITOLO 16 Notte fonda. Il cielo era nero come l'inchiostro. Mentre percorrevano in macchina Vouliagmenis boulevard, Lambros e Gournas discutevano dello sciopero generale indetto per l’indomani mattina. Era il secondo dei tre scioperi selvaggi del marzo 2010. <<…ma perché fai quella faccia?!>> <<Quale faccia?>> <<Quella di uno che sa che domani morirà… e su dai, Gournas! Mi metti una tristezza… domani ci sarà uno sciopero, e allora? è quello che volevamo, no? dovresti essere contento e invece te ne stai lì, tutto serio a brontolare…>> <<Ogni volta è sempre più pericoloso…>> gli rispose imbronciato Gournas dando un occhio distratto alla strada, quella stessa strada che in cuor suo gli dava l'impressione di condurlo dritto dritto nelle braccia del nemico, terrorizzandolo. <<Ogni volta è sempre più pericoloso… gne gne gne… quanto sei noioso!>> lo canzonò <<Sembra che tu abbia… aspetta… Gira lì…>> <<Dove?>> gli domandò Gournas sollevando la testa per un attimo come risvegliato, per poi tornare imbronciato e serio a brontolare di nuovo. <<Ma lì... lì! Gira… veloce!>> <<Ho visto… ho visto, ora giro.>> Gournas, quietamente, per nulla contagiato dall'irrequietezza di Lambros, che si muoveva tutto e saltellando sul sedile gl'intimava e-gira-gira-veloceveloce-che-la-perdi, girò il volante tranquillo con un ampio gesto della mano, e s'infilò senza fatica in via Malastastis. <<Bravo Gournas… dicevo… che dicevo? Ah si… sembra che tu abbia paura di morire sul serio domani! Che vuoi che succeda? Ti daranno qualche manganellata… evvabbè… con 74 tutte quelle che hai preso in testa…>> poi d’un tratto sorrise malizioso, qualcosa gli era balenato in testa <<Di un po’, Gournas!>> gli disse trattenendo il fiato per non scoppiare a ridere <<vuoi vedere che è proprio per via di tutte quelle manganellate che sei così scemo?!>> Gournas lo guardò, la faccia gli divenne sempre più rossa, sempre piu rossa quando, con lo stesso entusiasmo di uno scolaro al momento della ricreazione <<Ah! Ah! Ah!>> rise, e rise di gusto. Rise come rideva Lambros. Felice. Spensierato. Ma soprattutto felice. Liberamente felice. Dio quanto siamo liberi quando ridiamo così di gusto. Entrambi risero liberi, e la risata di libertà li rilassò. Lambros, così diceva Gournas, riusciva sempre a farlo rilassare prima di un’azione. Mi-stende-i-nervi, diceva. Non-prende-mainulla-sul-serio-fa-sempre-il-buffone-e-io-mi-rilasso-mi-rilassocompletamente. Arrivarono finalmente a Dafni, un quartiere a sud di Atene. Era notte inoltrata. In strada non c’era anima viva. <<Qui va bene?>> <<No, va ancora un po’ dritto… c’è troppa luce.>> <<Lì?>> domandò ancora Gournas <<Lì va bene?>> <<Troppa luce… troppa luce… fermati dietro l’angolo, vicino a quei sacchetti della spazzatura. Li vedi?>> Prima di farlo scendere dalla macchina Gournas lo trattenne per un braccio provocando in Lambros una specie di spasmo, che subito infastidito si divincolò dalla presa. <<Che hai? Che c’è?>> disse Lambros allarmato. <<Fa’ attenzione.>> <<Mi hai messo paura…! Ti ho detto che andrà tutto bene…>> gli rispose stizzito <<ti preoccupi troppo! E poi così porti sfortuna… mi agiti… smettila di fare la femminuccia. Ci vediamo domani…>> <<Fa’ attenzione.>> ripeté Gournas facendo l'atto di trattenerlo, come preso da un timore improvviso. <<Promettimelo.>> Ma Lambros era già sceso dalla macchina e gli faceva le boccacce da dietro il finestrino: <<Femminuccia!>> ** 75 Non c’era un solo istante da perdere. Schiacciò il piede sull’acceleratore dell’automobile rubata e iniziò una folle corsa per le vie di Dafni mentre la polizia lo inseguiva a sirene spiegate. Lanciandosi in una via laterale si tenne stretto al volante come per farsi forza, non pensava che la fortuna potesse durare ancora molto. Ogni volta che a casaccio imboccava una nuova via era come se l’aria non gli bastasse, contraeva i muscoli in modo innaturale e per un istante finiva involontariamente pure per chiudere gli occhi rischiando di andare a sbattere da qualche parte. <<Maledetto corvaccio!! Lo dicevo che Gournas mi avrebbe portato sfortuna...>> Imboccò una strada tutta curve con ferocia. Voleva farcela. Doveva farcela. Non poteva farsi prendere. Ma il poveretto era come incapace di guidare, come se si stesse azzuffando con l’asfalto. Eppure era uno che sapeva il fatto suo. Ma era troppo agitato per mantenere il controllo della macchina. Troppo. Sbatté con diverse automobili parcheggiate a lato, che lo rallentarono. Dopo mezzo chilometro, con i lampeggianti blu che gli entravano fin dentro l’abitacolo imprecò: <<Cazzo! Sparano!>> Non era nelle condizioni di prendere una decisione sensata. L’unica cosa che voleva in quel momento era prendere e andarsene. Dimenticare tutto. Lasciar perdere. Ma era troppo tardi. <<Non è giusto!>> Non lo era sul serio. Doveva solo rubare una stupidissima macchina senza farsi beccare. Solo questo doveva fare. Niente bombe, niente rapine in banca o a porta valori con guardie armate di Kalashnikov. Solo una stupidissima macchina parcheggiata nella periferia di Atene. E invece ora gli stavano sparando addosso: <<Sparano! Sparano!!>> Si girò sul sedile e cercò di guardare cosa stesse succedendo dietro. <<E ora che faccio?! Che faccio ora?!!>> sterzò e proseguì dritto per una ventina di secondi lungo la via mentre la macchina prendeva sempre più velocità. Un proiettile centrò in pieno il lunotto posteriore, che esplose in centinaia di migliaia di piccoli pezzettini di vetro. Ora i proiettili gli fischiavano sopra la testa in un modo terrificante. Cominciò a zigzagare sperando così di riuscire a salvarsi, ma fu un’idea pessima: l’automobile 76 della polizia lo raggiunse di nuovo. E questa volta gli erano così vicini che poteva guardarli in gola fino alle tonsille, lo stomaco e non so poi che altro. Col paraurti anteriore provarono a speronarlo. Una volta. Due. Alla terza la macchina sbandò violentemente. Ma per fortuna non si capovolse e Lambros premette di nuovo sull'acceleratore, lasciandoli indietro di qualche metro. Dallo specchietto retrovisore gli riusciva di vedere chiaramente i ghigni malvagi dei due poliziotti che gli davano la caccia. Due ragazzi come lui, forse addirittura più giovani. Uno magro, quasi bello con la pelle olivastra e i tratti del viso così ben definiti, e l'altro più in carne, coi capelli neri e il viso di bambino. Se avevano compiuto trent'anni dovevano averlo fatto la settimana prima, o al massimo il mese prima. Erano così giovani, quasi teneri. Eppure il ghigno malvagio era ben stampato sul viso d'entrambi, come se a crescerli non fosse stata una madre amorevole, piena di bei sorrisi e dolci carezze, ma un folle in divisa militare il quale, con frustate e carestia di sentimenti, gli aveva insegnato che odiare, odiare profondamente, odiare con professionalità, odiare con precisione, con metodo, era l'unico modo di amare. Lambros comunque fosse aveva bisogno di un nascondiglio, di un riparo. Da quella distanza difficilmente avrebbero sbagliato mira un’altra volta. Ricominciarono a sparare. BUM! BUM! BUM! Tre colpi. Tre fortissimi colpi, uno dopo l'altro. Per quanto ancora quella bastarda della morte gli sarebbe passata a fianco senza accorgersi di lui? <<Maledetti!>> Lambros si lasciò scappare un grido. L’angoscia di venire colpito diventava sempre più una certezza. Doveva mollare la macchina e scappare. Nascondersi magari. Fu una questione di un istante. Schiacciò con entrambi i piedi il freno e si scaraventò fuori dalla macchina iniziando a correre a più non posso. La volante della polizia fece lo stesso e uno dei due poliziotti si mise ad inseguirlo a piedi. <<Fermo o sparo! Fermo o sparo!!>> era quello più magro, con la pelle olivastra e i tratti del viso così ben definiti. Mentre correva Lambros cercava di fare mente locale. Aveva preso in affitto un appartamento a Dafni che erano almeno un paio d’anni. Doveva pur esserci stato almeno una volta nella vita in quella zona del quartiere. Provò, tentò in ogni modo di ricordare. <<Dove diavolo sono?!>> Se pure ci fosse stato modo di 77 mettersi in salvo, il buio non gli era d’aiuto. <<Magari… magari un garage! o l’androne di un palazzo… cazzo dove sono?>>. Niente. Non aveva idea di dove fosse. Correva. E più correva più si perdeva e la paura aumentava. Non c'era nulla da vedere. Solo lampioni. Lampioni e basta. <<Ti prego, no! Ti prego, no!>> poi, improvvisamente, come se qualcuno lo avesse spinto con violenza perse l’equilibrio e cadde rovinosamente a terra. Un dolore lancinante alla schiena lo teneva inchiodato al marciapiede. Era come se qualcuno lo avesse pugnalato. Una volta. Due volte. Quasi nello stesso punto. Una volta. Due volte. Con lo stesso coltello. Con due coltelli diversi. Una volta. Due volte. Un coltello caldissimo. Lunghissimo. Affilatissimo e che non voleva, non smetteva di continuare a tagliargli la carne. Una volta. Due volte. Quasi nello stesso punto. Non aveva tempo di soffrire, diceva a se stesso, non se voleva salvarsi dall’arresto. Doveva fuggire ad ogni costo. Tentò di rialzarsi per continuare a scappare, ma si rese conto che la schiena gli bruciava terribilmente. Respirava appena. La maglietta e la giacca erano inzuppate di un liquido caldo, appiccicaticcio. Era ancora lucido, o comunque lucido ne più ne meno di quanto lo era stato per tutto il tempo fino a quel momento, perciò inizialmente pensò fosse sudore. Ma si sbagliava. Riprovò ad alzarsi più volte. Nonostante i suoi sforzi però non gli riusciva di muoversi. In fine si rese conto. L’angoscia inesprimibile che ti opprime subito prima della morte e che può far sbocciare il seme della follia, in lui ebbe l’effetto contrario, una specie di lucido presagio dalle tinte oscure gli permise di capire quel che non vorremmo capire mai. Lo avevano colpito. Due proiettili lo avevano colpito alla schiena. <<Maledetti!>> sussurrò soffocando i singhiozzi <<maledetti cani!>>. Il sangue era sgorgato come da due fontanelle e ora formava un’intera pozza nel quale pareva che da un momento all'altro Lambros avrebbe cominciato a nuotarci dentro. Tentò un ultimo, disperato tentativo di rialzarsi e ricominciare a scappare, ricominciare a lottare, a dire no-non-io-non-in-mionome. Ma perse i sensi. Per un assurdo del destino il suo ultimo pensiero fu per i centoquaranta milioni di ulivi della Grecia. <<Non me li toccate... lasciate stare gli ulivi>>. Lambros era un biologo. Non un botanico. Perchè gli ulivi? Perchè non 78 qualcos'altro? Forse perchè la nostra meta è sempre all'orizzonte e l'orizzonte della Grecia sono gli uliveti delle campagne? Non aveva proprio senso. Nulla quella sera aveva avuto senso. La vita non aveva senso. Nessun cazzo di senso. Questa volta era finita. Era finita per davvero. CAPITOLO 17 Il sovrintendente ispettore Papathanasakis aveva ricevuto l’ordine di aspettare. Ordini del Ministro Chrysohoidis. Atene e come lei tutta la Grecia era bloccata. I treni, gli aerei, gli autobus, i traghetti, gli ospedali… tutto chiuso, tutto fermo, tutti in piazza. Perfino la polizia era in sciopero. Secondo la 79 televisione Al-Jazera quel giorno duecento dei millecinquecento poliziotti addetti al servizio d’ordine passarono nelle file dei manifestanti. Non era il momento adatto, non secondo il Ministero dell’Ordine Pubblico. <<Ne risponderà personalmente, GLI-ELO-ASSI-CU-RO!!! Faccia il suo lavoro Papathanasakis… FACCIA IL SUO LAVORO!!! …e tenga a bada i suoi uomini invece di blaterare! Stiamo perdendo miliardi!! Tenga a bada i suoi uomini!! TEEEENGAAAA A BADAAAA I SUOI UOMINIII!!!>>. Il sovrintendente ispettore Papathanasakis riattaccò amareggiato il telefono. Era avvilito e mortificato come un cane che abbia ricevuto un calcio. Sbuffava infastidito. Sentiva che l'odioso stava facendo a gara con l'assurdo: cosa centravano i suoi uomini? Che colpa aveva lui? Era tutto sbagliato. Tutto sbagliato! Che-aspetto?-che—devo-aspettare?li-abbiamo-in-pugno-io-lo-so-lo-so-maledetto-sciopero!-io-lo-so! Durante la notte, mentre il corpo di Lambros era ancora caldo, quelli della normale avevano avvertito l’anti-terrorismo. C’era qualcosa che non andava. Il morto non era un semplice ladruncolo, era un anarchico. Un maledettissimo sporco anarchico. Papathanasakis, appena capì che il morto era niente popò di meno che uno degli anarchici più famosi di Atene, Lambros Foudas, si catapultò giù dal letto e dimenticata la stanchezza uscì di casa e in macchina da Peristeri raggiunse Dafni dove i suoi uomini avevano già cominciato la perquisizione. L’appartamento di Lambros venne ribaltato da cima a fondo. ‘’È stata fortunata, ancora un po’ e ci portavamo via i muri’’ ebbe a dire un poliziotto alla padrona di casa, che, nonostante fosse una donnina tanto minuta e dal volto tanto umile, come una gatta infuriata protestava per nulla intimorita dalla divisa. Trovarono volantini di Lotta Rivoluzionaria, libri che inneggiavano alla rivoluzione e un’agenda telefonica con, fra gli altri, i numeri di telefono di Nikos, Pola e Gournas. Tanto bastava, secondo il sovrintendente ispettore capo Papathanasakis, per procedere con gli arresti. Era quello che stavano cercando da anni: una prova. O almeno una parvenza di prova. Qualcosa che ci potesse assimigliare insomma. Che-aspetto??-li-ho-in-pugno-sono-miei-sono-miei!-fidatevi-iolo-so-lo-so!! 80 CAPITOLO 18 81 Sono-miei-sono-miei!-li-ho-presi-li-ho-presi! Insieme a Pola, Nikos e Gournas vennero portati al 12° piano di via Bubulinas anche Christoforos Kortesis, Sarantos Nikitopoulos e Vaggelis Stathopoulos. Accadde ventotto giorni dopo, il 9 aprile 2010, un venerdì sera. La colpa di questi ultimi tre era di essere amici di Lambros, nient’altro. Nient’altro poteva provare Papathanasakis. Solamente che erano amici dell’anarchico morto, e che loro stessi erano anarchici. Non aveva prove nemmeno per Pola, Nikos e Gournas. Non poteva provare nulla. Le prove che avevano convinto il giudice istruttore ad autorizzare gli arresti erano i volantini di Lotta Rivoluzionaria, la comunissima agenda con i numeri di telefono, le loro impronte su dei libri, opuscoli e… su di un dvd di Spiderman! Quella stessa notte, saputo degli arresti, occupammo il politecnico. 82 CAPITOLO 19 Via Bubulinas era già circondata da nervosi militari in tenuta anti-sommossa quando i sei arrivarono. Avevano previsto che il politecnico sarebbe stato occupato dagli studenti e si presero con ore d’anticipo. Non era ancora mezzanotte. La prima cosa che fecero fu trascinarli su per le scale per fotografarli. Dodici piani a sentirsi dire: ora-ti-facciamo-unabella-foto-sorridi-mi-raccomando-sorridi-coglione-sorridi. Oppure oh!-ma-guarda!-è-incinta!-faremo-una-foto-per-ilbambino-ti-va?-devi-sorridere-scema-sorridi. Dopo averli fotografati, sorridi-coglione-sorridi, sorridi-scemasorridi, senza aver detto loro nulla, per quale motivo erano stati portati lì, cosa stava accadendo o di cosa fossero accusati, ancora frastornati e ammanettati li rinchiusero in sei diversi stanzini uno attiguo all’altro; tutti e sei gli stanzini erano privi di finestre. L’unica luce arrivava da una striminzita lampadina che pendeva dal soffitto come il corpo d’un impiccato. Brutalmente e tetramente spogli come il resto della stanza, i muri erano ornati solo dai graffi delle unghiate dei loro sciagurati predecessori. Erano muri sottili, vecchi e mal tenuti. Così sottili che se vi si prestava attenzione, con un poco d’impegno era possibile sentire il respiro affannoso di Pola, la quale, temendo di perdere il bambino, era nel panico più assoluto; in un certo senso un vero colpo di fortuna: il senso di solitudine che si prova quando si viene rinchiusi dentro una stanza contro la propria volontà, il senso di smarrimento e d’abbandono che sopraggiungono in quei momenti terribili moltiplicati con la frustrazione per non essere riusciti a sfuggire all’arresto possono essere causa di un’indicibile sofferenza psicologica. Il senso di fallimento è opprimente. Ma per loro fortuna erano muri sottili. Il respiro affannoso di Pola era pur sempre qualcosa a cui potersi aggrappare, un qualcosa che li faceva sentire uniti nella sofferenza e che li spronava a non lasciarsi abbattere dalla depressione. Per di più, verso le due due e mezzo, attraverso quei muri vecchi e graffiati iniziarono a filtrare gli slogan, gl’incoraggiamenti dei compagni che da fuori, dodici piani più in basso, gl’incitavano a non mollare, a resistere, a continuare a combattere-combattere-combattere! 83 Quei muri sottili erano la loro fonte di speranza; erano il pozzo d’acqua fresca in quel deserto di disperazione. Per una buona mezzora quelle stanze divennero per davvero un’oasi, un rifugio, quasi che lì fossero più al sicuro che fuori. Poi però da dietro le porte chiuse a chiave, ognuna piantonata da una sua personale guardia armata e col volto coperto da passamontagna, cominciò un via vai di gente; passi pesanti di persone che correvano avanti e indietro rimbombavano per i corridoi. Tutto quanto l’ufficio era in subbuglio: servi!-venduti!vermi-vermi-vermi!-che-vogliono!-che-fanno-quelli-giù?!perché-non-li-cacciano?!-vermi-vermi-vermi! La folla si era fatta più numerosa. Agli studenti si erano aggiunti alcuni gruppi di operai e di gente comune. A mano a mano che il tempo passava la strada veniva invasa da una lava di pugni chiusi che sbucava da ogni vicolo e ricopriva ogni cosa. Chiedevano la liberazione immediata e senza condizioni dei prigionieri. Alle quattro, mentre le squadre anti-sommossa caricavano sulla folla, stufi di attendere inutilmente che la situazione si calmasse, cominciarono ugualmente ad interrogarli. Tutti e sei contemporaneamente. Tutti e sei negli stessi stanzini dove fino a quel momento erano rimasti soli in attesa che accadesse qualche cosa. Tutti e sei stavano seduti sul pavimento a marcire sotto quella lampadina che gli penzolava sopra la testa quando le porte si spalancarono. ** Ad un primo colpo d’occhio Nikos, guardando i tre tizi in borghese, camicia cravatta e abito grigio, che, disarmati, entravano uno dopo l’altro come dei bravi scolaretti, ebbe l’impressione di non avere nulla da temere. Gli parevano innocui, quasi timidi. Non gli incutevano la seppur minima paura. Che-volete-sono-io-sono-l’animale-sono-Maziotis-è-ilmio-nome-che-volete! Il terzo, l’ultimo ad entrare, addirittura, quasi inciampando sulla sedia che portava con sé, deferente, come costernato, si scusò entrando mi-scusi-permesso-buonasera-è-permesso?-questesedie-eh!-accidenti-a-queste-sedie… 84 <<Perché sono qua?!>> ringhiò Nikos ai tre senza attendere oltre dopo essere scattato in piedi come una molla, come se qualcuno l’avesse strappato via dal pavimento o se questo scottasse in modo insopportabile. <<Al tempo, Maziotis…>> era la prima volta che un poliziotto si rivolgeva a Nikos dandogli del lei <<…al tempo… ci lasci entrare prima, no? Presentarci… che pensa? No? Non si usa? Fra gli anarchici non si usa presentarsi prima?>> e senza attendere oltre sistemò la sedia in mezzo alla stanza <<Si sieda Maziotis… prego… non abbia paura… non le faremo alcun male… si sieda…>>. Nikos ubbidì con malcelata impazienza. A parlare era il primo che era entrato un attimo fa nella stanza. Di corporatura massiccia, un’aria particolare come da erudito, sembrava un giovane professore alla mano; di quelli che piacciono agli studenti e che incontri in palestra o mentre fai jogging al parco. Si rivolgeva a Nikos con un tono ambiguo, di finta complicità. Aveva uno sguardo amichevole, come per dire stai-tranquillo-ti-capisco-non-preoccuparti-tranquillo ma allo stesso tempo non ispirava alcuna fiducia. Il modo in cui stringeva i pugni mentre parlava, il volto teso, quasi nevrotico, fece sì che Nikos rimase allerta. <<Sono il vice-commissario Stefas del servizio anti-terrorismo. Lui è il vice-commissario Sarafis, anche lui dell’anti-terrorismo, e quello lì che… hey!! Allora?… quello lì che sta guardando il telefonino incredibilmente…>> sottolineò ‘’incredibilmente’’, dandosi un’aria da simpaticone, <<…è il vice-commissario Zambelis>> il vice-commissario Zambelis era quello del permesso-posso-entrare, il quale sorrise senza dir nulla. I tre, in piedi, lo sovrastavano; gli stavano intorno circondandolo pronti a reagire in caso di bisogno. Continuò: <<Non le faremo troppe domande… non ne abbiamo bisogno… sappiamo già tutto quello che ci serve…>>. Lo scrutò un attimo come interrogandosi su qualcosa, poi riprese <<…Lei sa per quale motivo l’abbiamo portata qui? Ha qualche dichiarazione da fare?>> <<Voglio parlare con il mio avvocato.>> rispose Nikos ignorando la domanda di Stefas e guardandolo con repulsione. Stringeva così forte i denti che pareva un cane arrabbiato. 85 <<Avrà tutto il tempo per parlare con il suo avvocato… non dubiti… Prima però risponda alla mia domanda, sia gentile… sa perché è qui? Ha qualche dichiarazione da fare?>> Nikos non aveva alcuna voglia di giocare. Lo conosceva a memoria quel teatrino. Prima si fingono gentili, ti danno del lei, ti trattano come se tu non centrassi nulla, come se fosse tutto un'innocuo errore a cui porre rimedio il più in fretta possibile per lasciarti tornare a casa con-tante-scuse-sa-ci-spiace!-tantescuse, ti portano dell’acqua, ti domandano se hai bisogno di qualche cosa… e poi… poi se rispondi come vogliono loro bene, se no… Era meglio finirla lì, sono-Maziotis-sono-l’animale-chevuoi-dimmi-che-vuoi. <<Senti, cane rognoso… voglio parlare con il mio avvocato! Non ci senti?!>> Senza che potesse vederlo arrivare, un pugno violentissimo, ben assestato, bucandolo fino al cervello lo colpì alla nuca scaraventandolo a terra. Il vice-commissario Sarafis, non proprio un filantropo, il più taciturno, il quale sembrava aver avuto una giornataccia, in quel modo volle subito mettere in chiaro come stavano le cose, riprovaci-stronzo-bastardoriprovaci!-dì-un’altra-stronzata-del-genere! Il vice-commissario Stefas, fingendosi risentito, nascondendo un ghigno dietro la mano, lanciò un’occhiataccia non troppo convinta al suo collega. <<Che cazzo fai!>> si chinò verso Nikos e lo aiutò ad alzarsi, sempre con quel suo ipocrita staitranquillo-ti-capisco negli occhi. Nikos, con la testa che ancora gli doleva per il pugno, appena fu di nuovo in piedi si divincolò come dal fastidio d’una ragnatela in faccia, con una spallata spinse in là il vice-commissario, che colto di sorpresa s’inciampò e cadde a terra, abbassò la schiena, piegò le gambe, e, invaso da un furore ansioso e vendicativo, con tutta la forza che aveva in corpo si lanciò contro Sarafis sbattendolo prima contro il muro e poi scaraventandolo a terra a sua volta rimpiendolo di pugni, di graffi, di morsi e altri pugni ancora. Sembrava Eracle avvinghiato a Tritone. Gli altri due in un lampo gli furono addosso. Seguì un breve parapiglia. Nikos aveva però le mani legate dalle manette. Per quanto ci provasse era in un equilibrio troppo precario per potersela vedere alla pari. Venne allora sopraffatto e rimesso di peso a sedere sulla sedia. Il vice-commissario Sarafis rialzandosi da terra, tutto rosso in faccia per i pugni e i graffi ricevuti da Nikos, umiliato e con gli 86 occhi iniettati di sangue, gridava impazzito <<Lasciatemelo! Lo ammazzo! Lo ammazzo!!>> Stefas però gli si parò davanti, e quello si fermò di botto. Sembrava intenzionato a voler calmare gli animi; riprendere da dove avevano lasciato. Dimenticare l’accaduto e riprendere pazientemente l’interrogatorio. Staitranquillo-ti-capisco. Ma appena questi si voltò verso Nikos lo sguardo complice di poco prima era scomparso. Al suo posto, sulla faccia del vice-commissario, c’era qualche cosa di sinistro, di malvagio. I suoi occhi sembravano volergli scorticare la pelle. Fece un profondo respiro, si aggiustò la giacca, la cravatta, e con un tono dichiaratamente minaccioso, cattivo, gli sussurrò secco nell'orecchio: <<Non hai nessun amico qui dentro, sia uomo, donna o cane. Mettitelo in testa. È inutile scannarci fra noi... io ti capisco, te l'ho detto. Non siamo diversi tu e io. Però devi darmi una mano, capisci? Non vorrai farcelo chiedere alla tua fidanzata di là… non è così?>> CAPITOLO 20 Gournas, svenuto, era appeso nudo al soffitto. Il suo corpo, interamente straziato da piaghe, lividi e bruciature, aveva cambiato colore da un pezzo. Erano trentasei ore che lo stavano interrogando a suon di manganellate alla testa, manganellate ai piedi, manganellate alle braccia, alle gambe… Rinvenne. Poco prima di svenire aveva sperato di rimanere svenuto per sempre. Se fosse rimasto svenuto sarebbe stato in salvo da tutte quelle botte. Ti-prego-o-cristo-cristo-ti-pregofammi-svenire, ma Cristo doveva essere da qualche altra parte, 87 perchè Gournas, il povero Gournas, rinvenne. Rinvenne eccome. Scosse la testa, sputò il sangue che gli riempiva la bocca e sollevò le palpebre guardandosi attorno. No, non era un incubo. Un manrovescio lo colpì in piena faccia. Violento, spietato, viscido. La mano del cane-cane-cane-maledetto-cane che lo stava interrogando era dura come la pietra e sudata come le cosce d’una puttana. Ansimanti, grondando sudore, facendosi vento con dei giornali, quasi come il coro d’una parrocchia, tutti e quattro i suoi aguzzini gli gridavano <<Ammazzeremo i tuoi figli! Stupreremo tua moglie!! Parla frocio parla!!>> Ma Gournas, eroico, sprezzante, imperioso, col cuore che gli martellava nel petto, i capelli arruffati, e un'espressione cinicamente divertita li guardava attraverso gli occhi pesti e gonfi con schifo e con repulsione. Se doveva farsi pestare a morte, tanto valeva farla finita in fretta. <<Porci!! Non fa male!! Cani! Cani! Cani! Non fa male! NON FA MALEEEE!!>> Non mentiva. Non completamente. Il dolore aveva cominciato ad abbandonarlo già dopo la prima mezzora di schiaffi, pugni, calci. <<NON FA MALE!! CANI! CANI! CANI! ANCORA! ANCORA! ANCORA!>>. Li sfidava a colpirlo più forte, con più violenza, come solo un greco può sfidare un altro greco. <<ANCORAAAAA!!!>>. Dopo un certo periodo di tempo il corpo perde del tutto la sua normale sensibilità, si è come sotto una sorta di anestesia totale; qualsiasi cosa facciano, qualunque sia il metodo che utilizzeranno, dai manganelli alle sbarre di ferro, dai tizzoni ardenti alla frusta, il dolore dopo mezzora diverrà centinaia di volte meno potente di quanto proverete al primo colpo. E meno potente ancora dopo la prima ora e così via via che il tempo passa. Ci si fa quasi l'abitudine. Quasi. Ma se non vi lascerete paralizzare dalla paura, se vi ribellerete al desiderio di svenire in cerca dell’agognato sollievo, se insisterete, se continuerete a spingere-dai-compagni-dai-non-fa-male-non-fa-male-daiiiii, alla fine quei cani maledetti si stancheranno di mordere, e come accadde quella domenica mattina a Gournas potrete gridare fino a farli smettere: <<ANCORAAA!!!>> 88 CAPITOLO 21 Alle 10 e 30 di domenica 11 aprile 2010, dopo 56 ore d’interrogatori, un corteo di auto e moto della polizia sfilò in copertura delle sei jeep nere dei servizi segreti con dentro i 89 prigionieri. Lo show per le telecamere delle televisioni venute a celebrare la vittoria dello Stato aveva inizio. Tutto quanto il tragitto fino al Tribunale era stato transennato. Ad ogni angolo uomini col viso coperto da passamontagna e coi mitra pronti a sparare presidiavano la città. Atene era diventata Hollywood. Pericolosi-criminali-degli-anarchici-degli-eversivi-dei-mostri-deiterroristi-armi-esplosivi-passamontagna-libri-libri-libri titolavano i quotidiani. Pericolosi-criminali-degli-anarchici-degli-eversividei-mostri-dei-terroristi-armi-esplosivi-passamontagna-librilibri-libri titolavano i telegiornali. Pericolosi-criminali-deglianarchici-degli-eversivi-dei-mostri-dei-terroristi-armi-esplosivipassamontagna-libri-libri-libri spiegavano i programmi di approfondimento. Quella stessa sera il governo grecò accettò il prestito del Fondo Monetario Internazionale. I giornali e le televisioni ne accennarono appena. Erano troppo impegnati a celebrare la giustizia, la libertà, i carri armati... <<Questo commissario…>> disse soddisfatto a Papathanasakis il Ministro <<…questo, solamente questo era il momento adatto per arrestarli.>> CAPITOLO 22 90 La prima udienza del processo si tenne il 30 aprile 2010 nell’aula bunker del carcere di Korydallos. L’accesso alle telecamere, sollecitato dagli avvocati degli imputati, venne invece rigorosamente vietato dai giudici. <<L’imputato Nikos Maziotis accetta o rifiuta le accuse?>> << Io sono un rivoluzionario che sta combattendo un ingiusto regime di criminali noto con il nome di Stato e di Capitalismo. Se c'è qui qualcuno che deve difendersi da delle accuse sono coloro che mi stanno accusando, sono i poliziotti e i giudici che servono i ricchi, non certo io. Io, che sono nel giusto, non ho alcun motivo per cui dovermi scusare o difendere.>> <<L’imputata Panayota Ruopa accetta o rifiuta le accuse?>> <<Io sono una rivoluzionaria e non riconosco né l'autorità vostra né quella di questo processo. I veri criminali e terroristi siete voi e il sistema che servite: lo Stato e il Capitalismo.>> <<L’imputato Gournas Kostas accetta o rifiuta le accuse?>> <<Non ho intenzione di rispondere: non riconosco la validità del procedimento in corso. È dall'età di vent'anni, da quando ho iniziato a lavorare, che ho preso parte alla lotta di classe in Grecia. Io sono contro questo regime, questo sistema politico, questo sistema economico. Io non sono un terrorista. I terroristi sono quei cani che stanno al 12° piano della questura che mi hanno picchiato e hanno minacciato di uccidere i miei figli.>> <<Il processo può cominciare. Prego, sedetevi.>> ** Al pubblico ministero, il quale, seduto, stringeva la costituzione come un prete il vangelo, gli si stava formando un’idea come un pulcino in un uovo, quando, preoccupato di non aver nulla di concreto da dire, gli venne concessa la parola e il malcapitato pulcino crepò lasciandolo solo: <<Signori giudici…>> cominciò striscinate lo sciagurato balbettando <<sarò breve.>> e nel dirlo si schiarì la voce e s'aggiustò ridicolmente la toga <<Gl’imputati sono criminali dichiarati… l’hanno ammesso di loro spontanea volontà. Vanno terrorizzando la società da oramai quasi dieci anni, dal lontano 2003. Sono nemici del popolo greco, e se ne vantano. Si fanno un vanto di infrangere le leggi del nostro paese. Si fanno un 91 vanto… e promettono d’infrangerle ancora… se noi glielo permetteremo. Rivendicano di appartenere ad una organizzazione terroristica… si fanno un vanto pure di questo… si fanno un vanto di combattere la libertà che noi difendiamo contro la loro cieca violenza omicida… si fanno un vanto, signori giudici… di disprezzare la nostra carta costituzionale, baluardo della democrazia greca… si fanno un vanto, signori giudici… incitano alla rivolta gl’ingenui nostri concittadini contro un governo democraticamente eletto con deliranti farneticazioni frutto dell’ignoranza in cui vivono e in cui vogliono portarci tutti… la loro realtà semplicemente non esiste… siamo di fronte a personaggi a dir poco tremendi… uomini capaci di qualsiasi cosa… uomini disposti a qualsiasi cosa pur d’imprigionarci dentro il loro caos, il loro terrificante mondo malato… la loro anarchia.>> Premendo troppo sulla parola ''anarchia'', scivolandoci sopra come su di una buccia di banana, finì col sibilare come una vipera provocando le risa del pubblico. Stizzito, disturbato per essere stato interrotto da un errore da nulla, un'inezia, in quella che riteneva essere una illuminante apologia della libertà, una perla di saggezza della storia della giurisprudenza, aspettò che le risa cessassero e poi, con alterigia, come un colpo di tuono sentenziò: <<Oggi, in quest’aula di tribunale, noi abbiamo il dovere di ristabilire l’ordine… abbiamo il dovere di difendere la democrazia… abbiamo il dovere, signori giudici, di difendere la libertà.>> I giudici, specialmente il presidente, per quanto d'accordo nella sostanza non sembravano affatto soddisfatti di quanto aveva detto nel complesso, e con gli occhi grigi e indagatori sembravano implorarlo d'aggiungere qualche cosa di più di quelle semplici banalità. Era pur sempre un tribunale quello, mica una chiesa. <<Signor Pubblico Ministero...>> intervenne il presidente, <<La prego... arrivi al punto.>> <<Il punto dice?!>> Impallidì il pubblico ministero, che non sapeva che altro aggiungere. <<Il punto, sì! arrivi al punto!>> <<Ah... sì... beh, certo certo... il punto! Ovviamente!>> disse il pubblico ministero cercando di darsi un contegno anche se ormai era evidente anche al meno attento che era totalmente in preda al panico. 92 <<Il punto è, signori giudici... il punto è che... che... che questi sedicenti rivoluzionari... questi pazzi armati di mitra... ci hanno dichiarato guerra. Hanno dichiarato guerra alla Grecia. Ci hanno dichiarato guerra e se noi non li elimineremo loro elimineranno noi>>. Dopo un breve conciliabolo tra i membri della corte e un piccolo cenno cordiale con la mano del presidente, cenno che più che un invito ad entrare nel dibattito sembrava un invito ad uscirne in fretta, a Nikos venne concesso di fare una dichiarazione spontanea da dentro la gabbia degli accusati. Lo sguardo glaciale; le labbra tremanti; pronto a prendere fuoco come polvere da sparo; Nikos non nascondeva la sua ferocia pronta a esplodere per difendersi da quell'accusa infamante che lo aveva definito nemico del popolo greco. E lo chiarì: <<Quali delle nostre azioni>> gridò nikos da dentro la gabbia <<hanno terrorizzato la società o erano dirette contro di essa? >> <<Quali delle nostre azioni? Forse l’attacco al Ministero dell’Economia e del Lavoro, che è odiato dalla maggioranza della società, e che rappresenta il luogo in cui vengono decretate e approvate la maggior parte delle politiche antisociali? O forse l’attacco contro la polizia antisommossa, che ogni giorno sparge terrore nelle strade, che picchia i dimostranti e la cui sola missione è la violenta repressione delle lotte sociali? Ha forse qualcosa a che fare con i nostri attacchi contro le stazioni di polizia, cha danno rifugio agli assassini addestrati dal regime, e dove coloro che cadono nelle mani degli sbirri vengono torturati, picchiati e uccisi su base giornaliera? Forse l’attacco contro Voulgarakis – che era personalmente implicato in due enormi scandali e che usava la sua sedia di ministro per incrementare la fortuna della sua famiglia attraverso la vendita di suoli pubblici, ha forse questo attacco terrorizzato la società? La maggioranza delle persone che vivono in questo paese apprezzerebbero assai di vedere Voulgarakis, così come tutti coloro che sono implicati in simili casi di insaziabile ladrocinio della proprietà pubblica, appesi in Piazza Syntagma. E’ stato forse l’attacco contro l’ambasciata U.S.A. un atto di terrorismo contro la società? Non sanno i nostri persecutori e i loro superiori che questo attacco era stato felicemente accolto da una vasta parte di società greca, la quale non è particolarmente amichevole nei confronti degli Stati Uniti? O forse l’attacco contro la multinazionale Shell – che 93 per decenni ha saccheggiato le risorse naturali di molti paesi, sfruttato intere popolazioni e contribuito alla distruzione del paese – ha terrorizzato la popolazione? O era forse l’attacco contro la Citibank, una delle principali bande di terroristi finanziari internazionali, che per decenni ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di accumulazione di capitale, rubando la ricchezza di molti paesi attraverso la speculazione dei loro debiti nazionali, portandoli così ad un’irreversibile rovina economica e sociale? Era forse un atto antisociale attaccare questa multinazionale economica criminale, che è il capobanda di coloro che hanno creato la crisi che stiamo attraversando ora? O era forse l’attacco contro la Borsa Nazionale (quel Tempio del Denaro, uno dei maggiori canali per il saccheggio della ricchezza sociale e per il suo trasferimento dalla base sociale alle élites economiche) un atto di terrorismo contro la società? I soli ad essere terrorizzati da queste azioni politiche sono state le autorità politiche ed economiche. I criminali sono i capitalisti, che sono interessati solamente ai loro investimenti e temono di non essere in grado di oltrepassare i limiti della loro moderna dittatura senza dover far fatica. Se questi attacchi costituiscono una minaccia a qualcuno, è solo a coloro che partecipano al potere politico ed economico, derivato dall’attuale regime e dalla schiavitù sociale.>> detto ciò però, al contrario di quanto si aspettava, non provò un solo atomo di piacere. Per la corte l’ingiustizia era una trascurabilissima circostanza, quale-capitalismo-ecapitalismo!-la-legge-è-legge!-all’ingiustizia-penseremo-poi… ** Dall’espressione che Nikos aveva sul viso mi parve ch’egli sapesse cosa l’aspettava. Una-giusta-difesa-non-vale-nullacontro-quanti-hanno-già-deciso-di-fare-del-male, Pola glielo diceva spesso. 94 CAPITOLO 23 6 agosto 2010, carcere di Korydallos Mia dolcissima Pola, Sono ormai quattro mesi che non mi permettono di avere tue notizie. Come stai? E il bambino? Come sta nostro figlio? Mia madre (quelle poche volte che le permettono di venire a farmi visita) mi dice che è sano e forte. Ne sono felice. Dagli una carezza e digli che gliela manda il suo papà. Spero di potergliela dare presto di persona. Perdonami se ti scrivo in caratteri così minuti ma mi hanno dato solamente un foglio e non voglio sprecare un solo millimetro di carta. Ho così tante cose che voglio chiederti e così poco spazio a disposizione… Le giornate qui nel carcere passano come sai. La solitudine e la noia dell’isolamento comunque non mi hanno demoralizzato. Il morale qui è alto, non c’è motivo perché tu ti debba preoccupare per me. Devi essere forte come lo devo essere 95 anche io. Non dobbiamo permettergli di piegarci. Me lo devi promettere. Me lo prometti? Ora più che mai è nostro dovere continuare a lottare, anche per il nostro piccolo Victor Lambros che è appena venuto al mondo e che ha ancora una possibilità di vivere una vita felice. Mia dolcissima Pola, hai sofferto molto durante il parto? Mia madre mi ha detto che sei stata molto forte e che non hai quasi pianto. È la verità? E l’infermeria della prigione? Ti trattano bene? Per quanto tempo ancora dovrai restare a letto? Non farmi preoccupare. Sapere che nostro figlio è nato dietro le sbarre di una prigione mi fa già soffrire molto. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi, non era questo che volevo per te e per lui. Purtroppo non ho molto da raccontarti. Qui non succede mai nulla. Non mi è permesso alcun contatto con gli altri detenuti e i secondini a malapena mi rivolgono la parola. Spero che a te e al bambino abbiano riservato un trattamento migliore. Ma raccontami di lui. Non l’ho ancora mai visto e già lo amo così immensamente. Mi somiglia? E le manine? Ha le manine grandi come le mie? Come vorrei poterlo vedere anche solo in fotografia… Pensi che ti permetteranno di mandarmi una sua foto? Devi fare assolutamente domanda e mandarmene una al più presto. So che te lo avrà già detto un migliaio di volte anche lei, ma di qualunque cosa hai bisogno non aver paura e chiedi pure a mia madre. È così felice quando può rendersi utile. L’avvocato mi ha detto che in questi mesi hai scritto un libricino sulle condizioni delle madri detenute nelle carceri e che sei anche riuscita a farlo pubblicare. Sono orgoglioso di te, amore mio. Dice che ha già fatto domanda al tribunale e che forse riuscirà a farmene avere una copia ma di non farmi illusioni, io comunque lo spero proprio tanto. Mi manchi moltissimo. Purtroppo non mi è permesso telefonare se non ai familiari più stretti. Come vorrei sentire la tua voce e quella del bambino anche solo per un istante. Ogni giorno che passo lontano da te ti amo sempre di più. L’ultima volta che ti ho visto in aula avevi ancora il pancione. Eri bellissima. Ancor più bella della prima volta che ti vidi in via Achernon con quell’enorme bandiera in mano. Quanto ho desiderato poterti abbracciare quel giorno in tribunale. So che sei forte e che non lo farai, ma promettimi che non ti arrenderai. Ho bisogno di 96 sapere che continuerai a combattere al mio fianco. Lo sai anche tu che non esiste l'impossibile ma che esiste solo la paura di non riuscire, me lo dicevi sempre. Te lo ricordi? Non facciamoci prendere dalla paura. Continuiamo a combattere. Promettimelo. Piccola mia, lo spazio sta cominciando a finire e io non ti ho ancora chiesto le cose più importanti. Hai notizie da fuori? Ti è venuto a trovare qualcuno dei compagni? Qui mi censurano la posta, ma tu provaci comunque a raccontarmi qualche cosa. Ricorda sempre che delegare la propria libertà ad altri è immorale oltre che sbagliato. Ricorda che è troppo facile, è troppo facile dire ''scegli tu al posto mio, io te lo permetto'', è troppo facile. Se permettessimo un tale abominio, una tale immoralità senza far nulla che cosa saremmo? Che cosa saremmo, mia dolcissima Pola, se lasciassimo che una cosa del genere accadesse senza protestare la nostra contrarietà? Senza dire '' no, questo non puoi farlo, questo non ti è permesso, lasciare scegliere qualcunaltro al posto tuo solo perchè sei troppo vigliacco per prenderti la responsabilità di decidere della tua vita non ti è permesso'' che cosa seremmo? Delegare la propria libertà ad altri non è solamente immorale e sbagliato, è criminale. Significa lasciare che la delinquenza e l'odio prendano il sopravvento nelle vite di tutti con la coscienza pulita perchè tanto abbiamo detto ''scegli tu al posto mio, io te lo permetto'' e la colpa non ci riguarderà più perchè ha deciso un altro, anche se con il nostro consenso, avrà deciso un altro. E allora noi potremo dire '' non sono stato io, io non sono d'accordo, mi ha tradito, non volevo questo quando gli ho detto ''scegli tu al posto mio, io te lo permetto'', non volevo questo, la colpa non è mia è sua, io mi sono fidato, ero in buona fede, la colpa è sua, la scelta sbagliata è sua, è colpa sua se le cose vanno male, se la delinquenza e l'odio hanno preso il sopravvento nelle nostre vite. Io ho fatto il mio dovere di buon cittadino, ho seguito le regole. È lui che ha sbagliato, che mi ha tradito. La colpa è sua, non mia''. Ma allora che cosa saremmo? Che esempio daremmo ai nostri figli se invece di prenderci la responsabilità delle nostre scelte facessimo ricadere la colpa su qualcun altro? Non dovremmo invece mostrare ai nostri figli, e di conseguenza al mondo che verrà, che prenderci la responsabilità e perchè no se è il caso anche 97 la colpa delle nostre scelte è l'unico modo corretto di agire? Non credi che altrimenti saremmo noi i veri traditori di noi stessi e perciò i veri responsabili dei loro dolori futuri? Possiamo forse permetterci di negare un dato di fatto così chiaro ed evidente e continuare a vivere le nostre patetiche vite come nulla fosse, come se non ci riguardasse, come se, in definitiva, questa verità non foss'altro che una verità di cui non c'è bisogno di curarsi? Che genitori saremmo, mia dolcissima Pola? Che padre sarei? Che principio della storia dell'esistenza dei nostri figli saremmo? Noi abbiamo il preciso dovere d'impedire che questo crimine si compia. Abbiamo il preciso dovere di fermare la delinquenza e l'odio, perchè se non lo faremo, se rimarremo fermi, in silenzio, a guardare mentre dei vigliacchi danno mandato a degli assassini di uccidere il nostro diritto ad essere considerati colpevoli delle nostre scelte sbagliate allora saremmo la causa della morte della felicità dei nostri figli e dei figli degli altri. Delegare la propria libertà ad altri è un atto criminale. È un crimine contro l'umanità. È un delitto che non ci saremmo mai dovuti permettere. È il motivo percui oggi la felicità è solo una commedia che finisce in dramma. Ora lo spazio è veramente finito. A presto mia dolcissima Pola. Con amore, sempre tuo Nikos Maziotis CAPITOLO 24 Come un mazzo di carte buttato per aria le vite dei rivoluzionari sono spesso in balia del vento. Nikos e Pola dopo i 18 mesi di 98 carcerazione preventiva, il 15 giugno 2012 riuscirono a darsi alla fuga insieme al loro figlio di pochi mesi Victor Lambros. Rimasero latitanti nel quartiere di Exarchia per quasi due anni e mezzo, aiutati dalla solidarietà della gente nonostante i brutali servizi di sicurezza greci, aiutati dalle divisioni dell’antiterrorismo e dalla CIA buttassero giù porte in cerca di nomi e indirizzi nel cuore della notte e nonostante le taglie da due milioni di dollari ciascuno fatte pendere sulle loro teste dall’ambasciata americana. Il 16 luglio 2014, dopo essere stato riconosciuto da un poliziotto e ferito ad un braccio da una pallottola che gli recise un’arteria, Nikos venne arrestato a Monastiraki e condannato ad 85 anni di carcere da scontare in una cella sotterranea nel carcere di massima sicurezza di tipo C di Domokos, che lui stesso inaugurò come primo detenuto politico. FINE… forse