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GESU’ E’ MORTO
STORIA DI GAMBERI DI FIUME
INDICE
Prologo
Cap. I – La comunità
Cap. II – Professore di lettere
Cap. III – Democrazia diretta
Cap. IV – Il predicatore
Cap. V – Guai in vista
Cap. VI – Una fredda notte
Cap. VII – Gesù è vivo
Cap. VIII – Gesù è morto
Epilogo
PROLOGO
Cominciò in quella calda notte d’estate dell’anno appena trascorso. Difficile, allora,
poter anche solo minimamente immaginare quello che sarebbe accaduto nei mesi seguenti,
fino alle attuali conseguenze che sto ora vivendo. D’altronde è ovvio che sia così, la vita
non finirà mai di sorprenderci. Spesse volte, ripensando al passato, ci sorge la curiosità,
forse un po’ infantile, ma insopprimibile, di sapere come ci saremmo comportati se
avessimo potuto prevedere in anticipo gli sviluppi delle nostre azioni. Avrei fatto le stesse
cose, in quella calda notte d’estate, conoscendo gli avvenimenti che ne sarebbero seguiti?
Certamente sì, non avrei mai rinunciato alle esperienze che mi attendevano nei mesi
seguenti, così importanti, così intense, così coinvolgenti. Ma altrettanto certamente mi
sarei risparmiato questo tristissimo finale dietro le sbarre di una piccola prigione, in attesa
di trasferimento in un vero e proprio istituto di pena, in mezzo a centinaia di altri detenuti,
per scontare cinque anni di reclusione, che mi sono stati inflitti in un processo per
direttissima. Tutto sommato, comunque, non credo che vivrò come un dramma gli anni di
detenzione che mi attendono, cercherò anzi di trarne profitto per scrivere bellissime storie
ispirate agli avvenimenti dei mesi appena trascorsi. Ho molte idee che mi frullano per la
testa e, dunque, non tutto il male vien per nuocere. Già….non ho ancora detto che sono un
modesto scrittore, cui piace vagabondare anarchicamente per il mondo. Forse proprio per
questo non ho mai avuto modo di realizzare opere letterarie di grande spessore, ma soltanto
una miriade di brevi racconti e articoli. Fino a pochi giorni fa, poi se ne capirà il perché,
potevo contare sull’interessamento di un editore per i miei lavori, il quale ne ha fatti
pubblicare gran parte su riviste e collane, anche di una certa risonanza. Avevo un rapporto
amichevole, o supposto tale, con questo editore, che mi consentiva di inviargli i racconti da
qualsiasi luogo del mondo in cui mi trovassi, e di usufruire perciò di compensi sufficienti a
mantenere, senza troppi lussi, il mio continuo vagabondare. Mike Sperling, così si chiama
l’editore, aveva accettato come un’utile stravaganza la mia esigenza di viaggiare e, per la
verità, non mancò mai di recapitarmi, là dove di volta in volta effettuavo le mie brevi soste,
le somme di denaro a liquidazione delle prestazioni letterarie. Non so se fossero
rispondenti, in termini di mercato, alle prestazioni medesime. Non mi interessava più di
tanto, l’importante era che mi dessero la possibilità di continuare a vagabondare pagando le
pensioni e gli hotels di secondo e terzo ordine nei quali alloggiavo. Da questo punto di
vista non posso lamentarmi, ciò che percepivo non permetteva certo di accumulare
risparmi, ma riusciva a coprire le spese per sopravvivere. Ora ho “l’opportunità”,
chiamiamola così, di redigere storie più consistenti, dei veri e propri romanzi; né ho il
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tempo e posso farlo a spese dello Stato, ed ho tanto materiale di idee da sfruttare. Non
posso più contare, però, su un editore “amico”, e questo è un problema che poi dovrò
affrontare.
Dunque, era una calda notte d’estate….
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CAPITOLO I
LA COMUNITA’
Avevo già deciso dalla mattina che avrei lasciato Green Village senza servirmi di
mezzi pubblici. Avevo anche già deciso che mi sarei incamminato per una strada
secondaria, invece che su un’arteria principale di grosso traffico. Sentivo il bisogno di
tranquillità, di sfuggire agli stimoli e alle suggestioni delle grosse aggregazioni urbane e di
immergermi, per un periodo di tempo, nel silenzio delle campagne e nell’atmosfera
rilassante dei piccoli villagi. Da alcuni giorni stava prendendo forma, nella mia mente, il
soggetto di un nuovo racconto e, come tutte le altre volte che ero stato colto da
un’ispirazione, nutrivo la necessità di isolarmi per meglio concentrarmi sulla realizzazione
della storia. Cosicché quella sera, all’approssimarsi del tramonto, dopo aver mandato giù
frettolosamente qualche boccone in un fast food di periferia, caricai sulle spalle lo zainetto
degli effetti personali, raccolsi la valigetta col computer portatile, che costituiva il mio
attrezzo di lavoro, e mi incamminai su una stradina che sale verso un colle, lasciandomi
alle spalle la cittadina di Green Village. Non avevo una precisa idea di dove stessi
andando, né come ci sarei arrivato, forse a piedi, forse con un passaggio in auto che avrei
chiesto ad una delle scarsissime auto che transitavano. Il problema era del tutto secondario.
L’importante era andarsene, trovare un po’ di pace.
Con piacere tutto particolare tornavo a inebriarmi dei profumi della campagna che,
soprattutto di sera, acquistano un’intensità davvero penetrante. Ne respiravo a pieni
polmoni, inalavo come un animale selvatico gli odori del fieno, delle piantagioni, dei prati
incolti e ingialliti. Osservavo rapito gli stormi di rondoni e balestrucci che sfrecciavano nel
cielo, dai quali, di tanto in tanto, si staccava un individuo e si gettava a capofitto sulle
coltivazioni, rasentandone a velocità impressionante la superficie per catturare insetti.
Ascoltavo i loro frastornanti richiami, o il gracchiare sgraziato delle cornacchie che si
alzavano in volo dai campi in nugoli compatti, formando grosse macchie nere sullo sfondo
vespertino. Mi sentivo tranquillo e appagato, come chi non ha nulla di più da chiedere alla
vita di quello che gli offre in quel determinato momento.
Giunse il buio, le uniche voci a tenermi compagnia erano quelle dei grilli lungo i
bordi della strada e quelle delle rane che si levavano dalle raccolte d’acqua e dagli stagni.
Puntini mobili luccicanti serpeggiavano un po’ ovunque tra l’erba, e me ne meravigliai,
perché era tanto tempo che non vedevo lucciole, al punto da aver pensato più volte che si
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stessero estinguendo. Mi resi conto felicemente di essermi sbagliato. L’intensa volta
stellare, affatto sgombra da ogni impurità atmosferica, irradiava una diffusa luminosità che
era sufficiente a farmi intravedere il tracciato della strada e le sagome di alberi e casolari.
Solo un paio di autoveicoli, fino a quel momento, mi erano transitati accanto. Ero così
appagato dalla tranquillità di quei luoghi che non avevo nemmeno pensato di chiedere un
passaggio. A che pro? Avevo tutto quello che cercavo in quei momenti. Dove avrei
dormito? Bastava stendere il sacco a pelo in mezzo ad una piantagione di mais o sotto una
quercia, non sarebbe stata la prima volta. Ogni tanto era piacevole sostituire il comodo
letto di un albergo, il profumo di biancheria pulita, con le dure zolle di terra o uno spicchio
d’erba e i profumi della vegetazione.
Sentivo persino il desiderio, davvero assai strano per il mio carattere taciturno, di
canticchiare un motivo che mi gironzolava in testa e a cui non sapevo dare un nome, di
dare espressione a quel benessere interiore che provavo. Avevo però il timore di disturbare
la quieta e magica atmosfera nella quale ero immerso, di coprire le tenui e avvolgenti voci
della notte, cosicché mi limitai, non potendone fare a meno, ad intonare il motivo a bocca
chiusa, ovattandone la sonorità. E camminavo, camminavo. Passarono ore mentre
camminavo. Era notte fonda quando incominciai ad avvertire i primi segni di stanchezza
alle gambe e pensai che fosse giunto il momento di trovare un angolo riparato per dormire
fino all’alba seguente. Guardai intorno tra le ombre scure per cercar di intuire, più che di
scoprire, un luogo adatto per la sosta. Scorsi una macchia di puntini luminosi che
somigliava a un piccolo sciame di lucciole, come quelle viste fino a quel momento; ma
lucciole non potevano essere, perché si situavano all’orizzonte, distanti dal punto in cui mi
trovavo e ad un livello superiore di quello dei campi circostanti. Pensai si trattasse di un
piccolo villaggio che si ergeva su un modesto rilievo collinare, anche se la mappa della
regione, consultata nel pomeriggio, non ne segnalava alcuno in questa zona. Forse era
talmente piccolo da non meritare visibilità su una cartina geografica, almeno alla scala di
riproduzione di quella che avevo, d’altronde solo distrattamente, esaminato. La scelta di
inoltrarmi in questa parte di territorio era derivata proprio dalla presa d’atto della sua
scarsa densità abitativa, assai consona al mio desiderio di tranquillità. Piccoli insediamenti
del genere, comunque, potevano risultare utili per le soste durante l’attraversamento di
quest’area un po’ fuori del mondo. Ritenni valesse la pena raggiungere il piccolo villaggio,
per tentare di trovare una più comoda sistemazione per le poche ore di buio che ancora
restavano. Magari in una stalla, in un fienile, in un ricovero per attrezzi agricoli, o meglio
in una pensioncina da pochi soldi, ammesso di trovare qualche brava persona ancora
sveglia a quella tarda ora. Giunto a circa un chilometro dal villaggio mi resi perfettamente
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conto di ciò che avrei trovato. La musica di chitarre, violini e chissà quali altri strani
strumenti, mi giungeva nitida alle orecchie, mista a melodie di voci sia femminili che
maschili. Difficile capire di che genere di musica si trattasse; di certo su basi rock, si
sovrapponevano e si miscelavano, in modo niente affatto sgradevole, sonorità tipiche di
paesi e continenti diversi. Mi sembrava di percepire influenze balcaniche e mediterranee, a
tratti indiane o, più in generale, asiatiche. Musica di festa, e le grida, le risate,
confusamente frammiste ad essa, ne davano conferma. Ma non un ben definito genere di
musica da festa. Qualcosa di assai creativo e originale che non avevo mai sentito prima di
allora. Ad ogni passo divenni sempre più curioso di capire che gente fosse e che tipo di
festa stesse celebrando.
Una serie di piccole e graziose casette in legno, molto simili fra loro, tutte fornite di
un lungo porticato frontale e distanziate l’una dall’altra da ampi spazi erbosi, senza però
alcuna recinzione a delimitare confini, mi apparve sotto la luce di lampioni regolarmente
distribuiti su un’area di alcune centinaia di metri quadrati. Circa duecento metri separavano
quell’agglomerato di casupole dalla strada che stavo percorrendo. Un po’ titubante, ma
sopraffatto dalla curiosità e dalla musica assai coinvolgente, che riusciva a farmi provare,
non so come, sensazioni di gioia e malinconia miscelate fra loro senza contrasto,
attraversai il campo che si frapponeva tra me e la prima fila di case, aiutato, oltre che dal
chiarore stellare, anche da quello dei lampioni. Giunto in prossimità delle case, ebbi il
timore che la mia comparsa potesse in qualche modo disturbare il clima festoso e fui
tentato di tornare indietro e proseguire lungo la strada. Scorsi però d’improvviso una
piazza interna, nella quale si svolgeva il raduno. Era ben illuminata e vi potei distinguere
decine di persone, forse alcune centinaia.Un nutrito gruppo danzava al centro, movendosi e
gesticolando in forme stravaganti, non seguendo alcuno schema di ballo tra quelli che io
conoscevo. In un primo momento i danzatori sarebbero potuti sembrare degli invasati o
degli ubriachi abbandonati all’euforia del momento. Eppure non erano sgraziati e
scomposti e, nei loro strani movimenti, diversi per ognuno di loro, dopo un po’ che li
osservavo, si avvertiva una qualche sorta di regolarità, pur se incomprensibile, una
coerenza con la musica suonata, pur se inspiegabile. Anche il loro vestiario era stravagante.
Le donne portavano per lo più vesti larghe, molto larghe, vivacemente colorate, che
nascondevano completamente le forme del corpo e svolazzavano nell’aria spiegazzandosi
come bandiere al vento. Un paio, al contrario, erano seminude, coi seni al vento,
gonnelline anch’esse larghe e spiegazzate ma cosi corte da scoprire, ad ogni movimento
della danza, le mutandine attillate. Gli uomini erano vestiti uno diverso dall’altro, con
giacche, maglioni, camicie, ora larghe e informi, ora aderenti al torace, con ai piedi una
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varietà di calzature, dagli scarponi ai mocassini e ai sandali, con alla testa cappelli,
cappellini o bandane piratesche. I colori dei loro abiti erano generalmente più sobri,
comunque meno sgargianti. Le capigliature variavano dai tagli lunghissimi a quelli
cortissimi, ma assai più ben curate del vestiario. Se un tratto in comune si volesse
estrapolare tra i componenti di quella piccola ressa festeggiante, senz’altro quello sarebbe
la diversità, l’originalità. Persino tra i colori della loro pelle non regnava l’uniformità. Pur
sotto la luce artificiale dei lampioni, potevo distinguere, senza alcun dubbio, almeno tre
razze, quella bianca, quella nera e quella asiatica. Intorno all’area di ballo erano disposti
pesanti e lunghi tavoli di legno, ai quali sedevano soprattutto anziani che parlottavano e
ridevano fra loro, sorseggiando bevande in contenitori di vetro e di metallo. Piccoli gruppi
di bambini scorrazzavano dai tavoli all’area di ballo, senza che nessuno si preoccupasse se
rovesciavano una sedia o urtavano i danzatori. La festa per loro consisteva nel corrersi
dietro, come d’altronde per tutti i bambini del mondo, ma nessuno si preoccupava di
limitarne la vivacità, almeno durante il tempo che stetti ad osservare, nascosto all’ombra di
un grosso fusto d’albero. Sei elementi componevano l’orchestrina, due femmine e quattro
maschi, situati ai margini della piazza. Oltre alla chitarra e al violino, il suono dei quali
avevo già riconosciuto, imbracciavano altri strumenti, a corda e a fiato, che non so proprio
a quale degli strumenti da me conosciuti potrei assimilare.
Rimasi a lungo affascinato a contemplare quelle scene di festa, ma anche
imbarazzato e indeciso sul che fare. Sicuramente, entrando nella piazza, non sarei passato
inosservato, e avevo sempre detestato che le attenzioni della gente, di qualsiasi natura
fossero, si posassero su di me. D’altronde non potevo nascondere a me stesso il desiderio
di approfondire un po’ più da vicino la conoscenza di quelle persone, che mi incuriosivano
quasi morbosamente per la manifesta diversità che sembrava contraddistinguerle, rispetto
alla pur grande quantità di persone che avevo conosciuto nei miei pellegrinaggi. Decisi, più
d’impulso che con la ragione, di accostarmi ad un tavolo posto al margine della piazza e
meno illuminato di altri, dove sedevano tre anziani che bevevano tranquilli e quasi in
disparte dalla bolgia elettrizzante delle danze. Giunsi al tavolo prima che qualcuno si
accorgesse della mia presenza e mi rivolsi, con voce alta abbastanza per lasciarmi
intendere in quella confusione, all’anziano che aveva in mano una grossa pipa e che non mi
volgeva le spalle. Portava un cappello a larghe falde, una barba quasi completamente
bianca gli ornava il volto e gli conferiva, insieme all’espressione seria e quasi stonata
rispetto al contesto, una saggezza rassicurante.
“Mi scusi…sono un viandante e vengo da Green Village a piedi…stavo…”
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“Chi sei tu?”, mi chiese da dietro le spalle, uscito non so da dove, un bambino di
non più di dieci anni. Voltatomi verso di lui e sorridendogli spontaneamente come si fa con
i bambini in simili circostanze, gli risposi:
“Oh…mi chiamo Stephen, e tu?”
“Come?…”, insistette, con due occhi che esprimevano la curiosità tipica di un
fanciullo che sa di trovarsi di fronte ad una persona mai vista prima e che dimostra di non
avere alcun timore reverenziale verso gli adulti.
“Marcos, vai a giocare!”, intervenne con voce greve, ma non minacciosa, l’uomo
con la barba. Mi volsi di nuovo verso di lui, il quale nel frattempo mi stava scrutando da
capo a piedi insieme agli altri due anziani che si erano girati.
“Cosa desiderava signor….Stephen….?”
“Stephen Crosby, è il mio nome. Ecco…non vorrei disturbarvi ma…..sono diverse
ore che sto camminando. Da Green Village sono giunto fin qui ed ero quasi deciso a
stendermi con il sacco a pelo sotto un albero per dormire, quando ho udito la musica, ed
allora …..- posai la valigetta del computer a terra, che sembrava incuriosire i tre uomini, a
giudicare dai loro sguardi - …ho pensato che avrei potuto cercare un alloggio per
dormire…pagando, ovviamente.”
“Non esistono alberghi nella nostra comunità, signor Crosby.”
“Beh…se è per questo posso accontentarmi anche di un pagliaio, di una stalla…di
un qualsiasi ricovero agricolo. So adattarmi senza alcun problema.”
Il termine “comunità”, usato dall’anziano con la barba, incominciava a darmi
indicazioni chiarificatorie sulle caratteristiche del luogo nel quale ero capitato. Iniziavo a
farmi una vaga idea delle persone in mezzo alle quali mi trovavo. Le impressioni ricevute
fino a quel momento, nel loro insieme, sembravano suggerire che il piccolo villaggio fosse
una sorta di comunità hippy come quelle esistite negli anni 60 del secolo precedente, o una
strana comunità religiosa, dai costumi di vita non certo rigorosi e basata su principi di
convivenza assai permissivi.
I tre uomini si guardarono tra loro. Uno disse una parola, impossibile per me da
decifrare, alla quale gli altri due assentirono con un cenno della testa. Poi l’uomo con la
barba si rivolse a Marcos che, disattendendo l’invito di andare a giocare, si era piantato lì
da una parte a mangiarmi con gli occhi, ispezionando con cura ogni particolare dei miei
abiti, il mio zaino e, soprattutto, la valigetta a terra.
“Marcos….vai
a
chiamare
Jonathan
dall’altra
parte….là
in
fondo…lo
vedi?…Chiedigli se può venire un momento.”
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Dopo un secondo di pausa, il ragazzino scappo via di corsa verso il luogo che gli
aveva indicato l’uomo.
“Mi chiamo Tenton”, disse lo stesso uomo. “Lui è Parker e lui è Josef.” Strinsi le
mani tese dei tre anziani, che accennarono ad un cordiale sorriso, sollevandosi dalle sedie.
Quindi tornarono a sedersi e ad afferrare i propri bicchieri.
“Si sieda…si sieda. Beve un po’ di birra? Non è ancora di nostra produzione….. ma
presto lo sarà!”, disse Parker con aria di soddisfazione e di autocompiacimento,
allungandomi un bicchiere vuoto. Acconsentii con la testa mentre mi sedevo e Josef versò
della birra nel bicchiere con uno dei grossi boccali appoggiati lungo il tavolo. Seguirono un
paio di minuti nei quali nessuno proferì parola. Ero di nuovo attratto dalle musiche e dagli
stravaganti movimenti dei giovani danzanti. Difficile per me stesso crederci, ma ero
appena giunto in quel luogo e qualcosa di incomprensibile mi faceva già sentire quasi a
mio agio, mi rendeva tranquillo e soddisfatto, pur non sapendo ancora se avrei potuto
trascorrervi la notte.
Sopraggiunse al tavolo un omone alto quasi due metri, con una barba francescana
folta e nera, capelli lisci, lunghi, raccolti dietro le spalle in una lunga coda, sopracciglia
spesse e quasi unite fra loro, naso aquilino e labbra carnose, con indosso una casacca nera
discendente fino a metà delle cosce e i pantaloni ugualmente neri e larghi, accompagnato
da una splendida donna dalla pelle olivastra, con i capelli rossi lunghissimi e i lineamenti
del volto marcati ma eccitanti e misteriosi, anch’essa abbastanza alta, 15 centimetri circa
meno del compagno, e un vestito lungo e attillato, sgargiante, che esaltava le curve perfette
e conturbanti. Entrambi mi guardarono accennando con le labbra a un vago sorriso, poi
l’omone si chino verso i tre anziani.
“Cosa succede?…”, disse loro con un timbro potente della voce che si lasciava
decifrare con chiarezza anche nel frastuono della festa.
“Jonathan, scusa se ti ho fatto venire, ma il signore qui presente sta cercando un
alloggio per la notte e…”
Notando il cenno con la mano con il quale indicavo di voler fornire io stesso
spiegazioni, l’omone si chinò verso di me senza attendere che l’amico Tenton terminasse
di parlare.
“Mi dica, signor….”
“Stephen Crosby.”
Mi offrì la sua mano possente.
“Piacere, io sono Jonathan Burk….lei” – indicando con la testa la donna – “è
Ramona Lindsey….mi dica!”
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Dopo essermi alzato dalla sedia e aver stretto le mani di entrambi, riformulai la
richiesta di un ricovero per la notte, fornendo qualche dettaglio in più sulla mia identità,
dichiarando sinteticamente anche la mia vocazione di scrittore girovago.
“Ah…uno scrittore! Interessante!” Mi mostrò con un sorriso la sua dentiera bianca
e regolare, che era del tutto in sintonia con il suo generale aspetto vigoroso. Mi parve
subito molto cordiale. Più enigmatica mi sembrò la donna, che se ne stava seria senza
batter ciglio a fissarmi con uno sguardo profondo e impenetrabile.
“Bene, signor Crosby! Con questo chiasso non è certo agevole colloquiare.
D’altronde sarà probabilmente stanco. Spero di poter scambiare con lei qualche parola
domattina….questa mattina voglio dire, sul tardi magari….se lo desidera. Ora….” –
volgendosi di nuovo verso i tre anziani e approfittando di una pausa dell’orchestrina –
“….chi si offre di accompagnare il signore? Ci sono le unita 250 e 251 libere e già arredate
a sufficienza….io purtroppo ho qualcosa da sbrigare con Harvey….”
Parker fece per alzarsi dalla sedia, ma intervenne Ramona.
“Sta pure comodo, Parker! Provvedo io….ci vediamo più tardi Jò.” Mi colpì molto
la sua voce quasi metallica, fredda, tagliente, che sembrava provenire da un altro mondo.
“Posso portare la valigia del signore?” Era la frizzante vocina di Marcos, il quale
non aveva ancora esaurito la sua vorace curiosità, ed era rimasto piantato da una parte ad
ascoltare i convenevoli degli adulti.
“E’ bene che tu vada anzi a dormire, Marcos, altrimenti domani non riuscirai a
seguire le lezioni del maestro Bourbon.”
“No, no! Non ancora…non ancora…..”, fuggì via trotterellando verso i suoi amici
che continuavano a scorrazzare nella piazza, eludendo i poco convincenti consigli di
Ramona e rassegnandosi a non poter toccare la misteriosa valigetta.
“Mi segua, signor Crosby.”
Quasi turbato da quella incredibile voce, che non aveva eguali nei miei ricordi,
presi la valigetta da terra e mi affiancai, un po’ impacciato, alla splendida donna. Ci
incamminammo lungo un largo viale, coperto di ghiaia e illuminato da lampioni, che si
dipartiva dalla piazza e si estendeva in linea retta per alcune centinaia di metri, penetrando
in parte all’interno di un boschetto di querce. Ai due lati quelle che la gente del posto
chiamava “unità abitative”, case in legno ad un piano, tutte ben rifinite anche nei
particolari, colorate con tonalità sobrie simili fra loro ma non uguali. Ampi spazi erbosi,
ordinati e curati con inconfutabile dimestichezza da giardiniere, coprivano il terreno
circostante senza soluzione di continuità per tutta la zona residenziale. Alla luce gialla dei
lampioni quella distesa erbosa appariva così gaia e confortevole da lasciarmi invidiare, per
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un momento, la beata spensieratezza con la quale i bambini vi potevano scorrazzare, in
funzione dei quali, sicuramente, quella distesa erbosa era stata concepita e realizzata.
Percorremmo silenziosi tutto il viale, con la musica che si attenuava sempre più dietro le
spalle, permettendo cosi ai piccoli rumori della campagna di riconquistare la notte. Ero
rimasto incantato da quell’atmosfera, quasi incredulo che quella notte, quel luogo, fossero
reali. Mentre spaziavo con lo sguardo intorno per cogliere i più infimi particolari
dell’inverosimile villaggio, rimasi attardato di alcuni metri da Ramona, che incedeva
tranquilla ma decisa senza mai voltarsi, forse per non disturbare la vorace curiosità che non
ero capace di nascondere. Approfittai della distanza che ci separava per contemplare, per
alcuni secondi, anche le forme perfette del suo corpo agile e slanciato, sulle quali prima
non avevo avuto modo di soffermarmi. Cercai di immaginare quanto piacere avrebbero
potuto produrre ai sensi dell’uomo al quale si concedevano; mi raffigurai quel corpulento
Jonathan, che avevo appena conosciuto, nell’atto di penetrarla con furia bestiale. Si voltò
d’improvviso verso di me, cogliendo in fragrante il mio sguardo sognante su di lei.
“Siamo quasi arrivati, signor Crosby….” Tornò a guardare immediatamente davanti
a sé, credo per evitarmi imbarazzo. “…Così lei è uno scrittore!”
“Beh, diciamo, almeno fino a che riuscirò a sopravvivere con le storie che scrivo.
Se non trovassi più un editore disposto a pubblicarle…chi lo sa! Forse farei
qualcos’altro…forse invece di girovagare per il mondo, come abitualmente faccio, mi
fermerei in una cittadina poco chiassosa per tentare una nuova professione….non so
nemmeno quale. O forse diventerei davvero uno scrittore….voglio dire…”
“Non si prende molto sul serio, a quanto pare.”
“Ma…non proprio, non mi sono spiegato bene. Voglio dire che in quello che
scrivo, sono spesso condizionato dall’esigenza di sopravvivere….di poter vendere i miei
lavori, e questo non mi fa essere lo scrittore che vorrei….mi capisce?”
“Eccoci arrivati. Sì…credo di capirla.”
Ci trovavamo dirimpetto a una delle ultime case abitabili, oltre le quali si estendeva
un cantiere con almeno una decina di altre unità in costruzione.
“La comunità si ingrandisce. Sono in arrivo alcuni nuclei di comunardi esteri, per
questo si stanno costruendo nuove abitazioni, come può vedere.”
Salimmo tre gradini che immettevano su un lungo porticato rialzato. Aprì la porta
posta più o meno centralmente alla facciata, senza adoperare alcuna chiave. Particolare
questo che, insieme all’assenza di staccionate divisorie tra una casa e l’altra, ai grandi spazi
erbosi comuni e ad altri particolari ancora, confermava l’idea che mi stavo facendo della
comunità. Accese le luci interne. Mi apparve un soggiorno scarnamente arredato con
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mobili di fattura artigianale, per lo più realizzati con fibre vegetali, legno, canna di bambù,
vimini e chissà cos’altro.
“Ecco….vi troverà l’essenziale. La casa non è ancora stata mai abitata, e chi lo farà,
provvederà ad aggiungervi tutti i conforti e le suppellettili che riterrà opportune. Di là
troverà due camere da letto, scelga per la notte quella che più le aggrada. C’è un bagno con
vasca e doccia e una cucina con fornelli e frigorifero, quest’ultimo però, purtroppo,
inattivo. L’acqua, al momento, buona e di sorgente, è l’unico comfort di cui può disporre.
Se ha appetito posso farle portare delle pietanze e…”
“Oh…non ho assolutamente bisogno di nulla, è già troppo quello che mi avete
messo a disposizione, e ve ne sono molto grato, anzi…”
“Bene! E’ ora che la lasci riposare. Spero di poterla salutare domani, prima che
parta.” Non si può dire che non fosse ospitale. Al contrario, sembrava molto discreta,
evitando di far domande che avrebbero potuto crearmi qualche disturbo. Ma la sua voce
fredda e sicura, il suo modo formale e conciso di parlare, tolsero anche a me il desiderio di
fare domande; e sì che di domande ne avrei avuta una montagna da fare, avrei trascorso il
resto della notte a parlare con quella misteriosa donna.
“Spero anch’io di poterla rivedere in mattinata, come anche i signori con i quali ho
parlato, tutti veramente molto gentili.”
“Allora buona notte!”
Si voltò senza nemmeno accennare ad un sorriso d’occasione, lasciandomi appena
il tempo di contraccambiare il saluto prima che richiudesse la porta alle sue spalle. Un
essere davvero atipico. Una donna così “sui generis” e così enigmatica, e nel contempo di
così intensa femminilità, che la sua immagine, incastonata nel fulgore rosso rame dei
capelli, restò a turbarmi nei sogni di quella impensabile notte d’estate.
Mi svegliai quando il sole era già alto, gocciolante di sudore. Non si poteva certo
pretendere che quelle casupole fossero anche attrezzate con condizionatori d’aria. Erano le
10,30 e il villaggio già brulicava di vita, nonostante i suoi abitanti fossero andati a dormire
più tardi di me a causa della festa. Quella laboriosità che percepivo come elemento
portante della comunità, mi fece vergognare un po’. Saltai giù dal letto, feci una doccia
fredda, mentre ingurgitavo una quantità spropositata di quell’acqua che non sapeva di
cloro. Mi rivestii con gli stessi abiti del giorno precedente, che, ad una attenta ispezione
olfattiva, non sembravano ancora maleodoranti. Dopo aver rimesso in ordine le poche cose
delle quali mi ero servito, mi affrettai ad uscire all’esterno con zaino e valigetta. Prima di
lasciare quel posto non potevo certo mancare di fare i dovuti ringraziamenti alle persone
che mi avevano ospitato. Oltre che afferrato da questo scrupolo, avvertivo un non ben
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definito desiderio, e compresi pochi minuti più tardi di quale desiderio si trattava, grazie
all’aiuto di Tenton. Mentre mi avvicinavo, tra il via vai degli abitanti indaffarati, alla
piazza nella quale si era svolta la festa, lo intravidi seduto su una panchina di legno
all’ombra di una quercia con la pipa in bocca, mentre accarezzava un grosso cane nero che
sbuffava a bocca aperta come un vaporetto. Era l’unico che oziava, e ne aveva tutte le
ragioni, considerando che la sua età non poteva attestarsi sotto la settantina. Mi diressi
deciso verso di lui. Quando fui abbastanza vicino, il cane, accasciato ai suoi piedi, si drizzò
in piedi puntando il suo muso contro di me. Aveva cessato di ansimare e si mise a ringhiare
immobile.
“Buono Sciark, è un amico!” Tenton lo afferrò per la collottola cercando di
ammansirlo. Ma sapevo come trattare con i cani. Continuai ad avvicinarmi a passo sicuro,
allungando il dorso della mano per farla annusare. L’enorme dimensione del cane mi
suscitò un po’ di apprensione, soprattutto quando il suo grosso naso umido si posò sulla
mia mano, ma non lo detti a vedere. Lo accarezzai dolcemente. Rimase rigido, diffidente,
ma accettò le carezze.
“Stia tranquillo, non azzanna nessuno, se non ne ha una buona ragione.”
“Oh, lo so! In genere tutti i cani non lo fanno se non per buone ragioni, a meno che
non siano stati addestrati per l’aggressione. E questo non ne ha proprio l’aria, sembra più
un simpaticone amico di tutti.”
“Certamente che lo è. Qui siamo tutti amici di tutti, e Sciark non fa eccezione.”
“Già! Devo dire che ho ricevuto un gran bella impressione della vostra comunità.
Sembra che vi regni….come dire…..un pronunciato solidarismo, e non solo tra i suoi
abitanti, ma anche nei confronti degli estranei, come dimostra le generosa accoglienza nei
miei riguardi. Sembra non abbiate alcuna prevenzione, alcuna diffidenza verso la gente che
non fa parte del vostro gruppo. E sì che nel mondo d’oggi ci sono innumerevoli motivi per
diffidare degli estranei.” La voce pacata e le carezze sulla nuca avevano nel frattempo
ammorbidito l’atteggiamento di Sciark, ora propenso a farsi coccolare come un
marmocchio. Aveva ripreso anche a sbuffare a bocca aperta, con la lingua penzoloni e
gocciolante di saliva. “Ma è con tutti che vi comportate così? Siete sempre…”
“Con tutti, uomini, cani, gatti….con tutti. E’ uno dei principi fondanti la nostra
comunità quello di essere sempre ben disposti verso il prossimo, soprattutto verso quello
che ne ha più bisogno.” Una scintilla di fierezza brillò per un attimo negli occhi
dell’anziano, che subito rimosse abbassando lo sguardo su Sciark. “Perché non si ferma
qualche giorno con noi?” Era questo il desiderio che nutrivo e che in quel momento si
palesò con chiarezza dentro di me. Una tale offerta era ciò che speravo, nascostamente, mi
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venisse rivolta, per la curiosità che via via si era impossessata di me, per il fascino che
quell’ambiente riusciva ad infondere sulla mia immaginazione, per Ramona, la splendida
donna dai capelli rossi, e chissà per quali altre ragioni inconsce. “Una sosta tra noi
potrebbe giovare….non so….alla sua creatività. E’ uno scrittore, se non sbaglio, se ho
afferrato bene la scorsa notte le sue parole tra il frastuono della festa e l’euforia prodotta
dalla birra.”
“Ma veramente….la ringrazio molto per l’ospitalità, però non credo….non so se è il
caso che io mi trattenga ancora. Mi sentirei in imbarazzo…non saprei come ricambiare.
Intorno a me noto un gran da fare, sembra che tutti abbiano qualcosa da svolgere. Non
potrei che sentirmi un ozioso vacanziere nullafacente e…”
“Si sbaglia!”, disse perentoriamente. “Vede….io, ad esempio, non sono al momento
impegnato con alcuna attività, ho tutta l’apparenza di chi stia oziando…”
“Mi scusi, non volevo…”
“Mi lasci finire.” Continuò con aria autorevole ma sempre pacata e misurata,
consentendosi poi ripetute boccate alla pipa mentre lo osservavo rispettoso. Dense nuvole
azzurrognole galleggiarono nell’aria, senza che nemmeno un piccolo refolo di vento
intervenisse a scalfirle. Sciark si era di nuovo accasciato al suolo, in cerca di refrigerio
sulla terra fresca, per la calura che incominciava a produrre disagio. “Ci sono tanti modi
per rendersi utile, a qualsiasi età e in qualunque condizione. Non è utile e operoso solo chi
zappa la terra o erige muri. La sua semplice permanenza nella nostra comunità per qualche
giorno, potrebbe rivelarsi di un’utilità che lei nemmeno si immagina. Una volta tornato
sulla sua strada lei potrebbe scrivere, raccontare di noi, dei nostri modi di vita, e invogliare
cosi qualcuno a seguire il nostro esempio, o comunque incentivare un’idea positiva
nell’opinione pubblica sul nostro modo di convivere. La sua testimonianza, che a lei
sembra una vacanza oziosa, discreditando la sua stessa professione o la sua semplice
capacità osservativa, è di estrema importanza per la nostra comunità. Perché, deve sapere,
ciò che anima uomini e donne di questa comunità, non è soltanto la voglia di stare insieme
in modo diverso da quello a cui costringono la gente di tutte le grandi città del mondo, ma
è anche la precisa e unanime volontà di rappresentare un modello di vita alternativo. Noi
vogliamo proporci come un modo diverso e più congeniale di stare insieme. Capisce ciò
che voglio dire? E capisce l’importanza che potrebbe, dico potrebbe, avere la
testimonianza di un qualsiasi osservatore? Ho usato il condizionale non a caso, dato che
non chiediamo a nessuno di farci da testimone nel mondo. Qui nessuno chiede niente a
nessuno, ma tutti danno ciò che sentono e vogliono di poter dare. Figuriamoci, dunque, se
potremmo chiedere qualcosa a chi non fa parte della nostra comunità. Lei qui è libero di
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restare e di andarsene quando vuole, con l’unica ovvia limitazione di rispettare le nostre
regole di convivenza.”
Rimase in silenzio con gli occhi puntati sulla pipa, mentre tentava di riattivare, con
altre forti e ripetute boccate, la combustione del tabacco che si era assopita. Io stesso
rimasi per alcuni secondi in silenzio, impressionato dalla linearità e incisività del suo
discorso. Non sapevo proprio quali parole aggiungere e a quale scopo. Poi, preso dal mio
naturale spirito critico, volli, pur se scherzosamente, dimostrare di avere capacità
argomentative, facendo la parte dell’avvocato del diavolo.
“Ma se il testimone, passato qui per caso, come potrei essere io, andasse poi a
raccontare in giro cose brutte e negative sul vostro conto, considererebbe sempre utile il
suo apporto alla comunità?” Lo dissi sorridendo per non dar adito ad equivoci, palesando
una volontà meramente discorsiva.
“E’ un rischio che corriamo costantemente, questo di essere mal giudicati. La sua
utilità sta nel costringerci a rivedere criticamente il nostro operato, per capire dove e come
abbiamo sbagliato, se, nonostante tutto, non siamo riusciti a convincere sui nostri buoni
propositi. L’utilità sta nello scrollarci di dosso, grazie alle critiche negative, la stupida
presunzione di trovarci sempre dalla parte del vero, che è assai facile che attecchisca nella
debole mente umana.”
A questo punto, constatata con stupore la sagacia e la serietà dell’anziano
comunardo, provai quasi un senso di vergogna per l’alacre scherzosità con la quale avevo
fatto le mie osservazioni. Sentii smorzarsi il sorriso sulle labbra, non sapendo più davvero
cosa dire.
“Si tranquillizzi, comunque. L’invito a rimanere qualche giorno tra noi, non implica
affatto che lei debba poi parlare al mondo di noi, in bene o in male che sia. Le è stato
rivolto in modo del tutto disinteressato, deve credermi. Sa…credo di avere l’esperienza per
riconoscere una faccia cattiva da una buona. La sua non è malvagia. Mi farebbe piacere
scambiare con lei ancora qualche parola. Tutto qui. Ma non voglio trattenerla oltre. Forse
lei intendeva rivedere Jonathan…”
“Oh…sì, anche il signor Jonathan, e gli altri che ho conosciuto la scorsa notte. Per
ringraziarli, come ora ringrazio lei, e per salutarli. Se potesse indicarmi dove…”
“L’accompagnerò io, venga con me.” Si alzò dalla panchina di legno con decisione,
con un agilità che non dimostrava per nulla gli oltre settanta anni di età.
“Non voglio disturbarla…”
“Nessun disturbo. Sarei comunque andato al centro organizzativo. E’ là che
troveremo Jonathan e, probabilmente, Ramona, la sua compagna.” Avevo già intuito che la
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donna dai capelli rossi era in qualche modo legata all’omone chiamato Jonathan, e la
conferma verbale di ciò, che uscì dalle labbra di Tenton, non riuscì ad impedirmi un
sobbalzo al cuore alla pronuncia del nome Ramona. Questa donna, indubbiamente, non mi
era indifferente, come credo che a nessun uomo potrebbe risultare indifferente pur
vedendola una sola volta. Nel frattempo si era prontamente alzato anche Sciark, che aveva
capito le intenzioni di Tenton di allontanarsi e si predisponeva a seguirlo scodinzolando. Ci
incamminammo tutti e tre verso la piazza della festa, che distava ormai solo un centinaio di
metri. Avanti Tenton, subito dietro io che accarezzavo, col busto reclinato da una parte, il
pelo lanuginoso e scuro di Sciark.
“Non si lasci impressionare dal nome…” – per un momento fraintesi ciò che
l’anziano stava per dire, avendo ancora in mente il nome di Ramona – “…centro
organizzativo farebbe pensare ad una sorta di istituzione di comando. Nulla di tutto ciò.
Qui da noi non esistono centri di comando. Tutti gli aspetti della vita della comunità sono
regolati da un organismo assembleare che si riunisce periodicamente all’incirca ogni 20
giorni e, all’occorrenza, in qualsiasi momento anche solo pochi abitanti lo ritengano
opportuno, inoltrando la richiesta, appunto, al centro organizzativo. Questo si trova in una
delle case che cingono piazza Gandhi, la piazza in cui si è svolta la festa la notte scorsa.” Il
nome della piazza fornì il primo esplicito riferimento alla dottrina filosofico-religiosa alla
quale si ispirava la comunità. Ebbi la prima conferma alle mie ipotesi. Ma, come appresi
più tardi, non si trattava dell’unico riferimento importante. “Diciamo….che il centro svolge
funzioni meramente amministrative di coordinamento di tutte le attività svolte dalla
comunità, dei rapporti di questa con le altre comunità, delle relazioni economicodiplomatiche col resto del mondo…”
“Esistono altre comunità simili alla vostra?”
“Almeno quattro già ben organizzate, ed un numero imprecisato di altre che si
stanno attualmente costituendo, sparse qua e là nel mondo. Stavo dicendo….i ‘funzionari’
– che lo so, è un brutto nome, ma va bene per farle capire – che lavorano al centro, tra i
quali Jonathan e Ramona, raccolgono costantemente tutte le informazioni che riguardano le
attività interne della comunità e mantengono tutti i collegamenti con l’esterno, via radio,
via internet, via telefono e anche direttamente mediante viaggi e sopralluoghi. Ciò consente
loro di avere sempre il quadro complessivo aggiornato dell’evolversi della vita
comunitaria. Sono anche responsabili dei fondi di una cassa comune, realizzata con i
proventi degli scambi commerciali col resto del mondo e utilizzata per interventi urgenti o
per opere programmate di grossa rilevanza comunitaria. Di ogni loro azione debbono
comunque e sempre rendicontare nelle riunioni assembleari, essi debbono comunque e
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sempre in assemblea fornire spiegazioni del proprio operato. E in assemblea possono
essere, in qualsiasi momento, rimossi dal loro incarico, se almeno un terzo dei partecipanti
può fornire giustificati e documentati motivi per chiederne la destituzione.”
“Ciò significa che, al di là dell’assemblea, espressione diretta degli abitanti, non
disponete di organi che esercitano funzioni di giustizia e di controllo dell’ordine
pubblico…se ho afferrato bene.”
“Non solo….non intendiamo servirci nemmeno di istituzioni di detenzione e pena.
La peggior punizione da infliggere ad un uomo per il peggiore dei delitti, quale potrebbe
essere l’omicidio, per noi consiste nell’emarginare socialmente l’uomo che se ne è reso
colpevole, privandolo di ogni incarico, lasciandolo solo al cospetto della propria
coscienza.”
“Allora, come modello di organizzazione sociale, vi ispirate al socialismo
anarchico, al…”
“Non solo. Fonte di ispirazione per la nostra condotta sono anche tante altre
cose…il comunismo, l’etica gandhiana, più in generale il cristianesimo evangelico, e poi
certi aspetti dello spiritualismo buddista, e poi altro ancora, in una sintesi che non si lascia
chiudere da recinzioni e steccati ideologici di alcun genere, sempre aperta ai contributi
critici e innovativi….purché sempre finalizzati al bene della comunità e degli
individui…ma eccoci arrivati.”
Mentre accedevamo, compreso Sciark, all’interno di uno stabile in tutto simile alle
altre strutture abitative, anche se arredato con mobili e strumenti d’ufficio, ero rimasto
quasi turbato dalla lucida, semplice ma, allo stesso tempo, colta esposizione fattami da
Tenton. Stentavo a credere potesse esistere e resistere una simile struttura sociale – pur se
in grado di coinvolgere, a occhio e croce, solo qualche centinaio di individui – nel bel
mezzo della civiltà del XXI secolo.
“Salve ragazzi, vi ho portato il nostro ospite.”
A un tavolo circolare, rivolti a noi di spalle, sedevano Jonathan, Ramona e altri due
giovani individui dalla faccia pulita con immancabili occhialetti da tecnici professionisti,
come se ne incontrano normalmente in uffici pubblici o studi privati. Erano concentrati
tutti e quattro su una delle numerose apparecchiature informatiche che colmavano i diversi
tavoli da lavoro della stanza. Ebbi l’immediata impressione di trovarmi all’interno di un
ufficio altamente specializzato. La strana apparecchiatura sparsa un po’ ovunque, più della
metà della quale non riuscì a capire a cosa potesse servire, forniva indicazioni
inequivocabili in tal senso. Si voltarono verso di noi contemporaneamente. Anche Ramona
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aveva al naso occhiali dalla montatura esile e chiara, che le fornivano un fascino affatto
diverso da quello della scorsa notte, ma pur sempre un fascino raro.
“Salve….dormito bene?” Fu lei a rivolgermi il saluto, non certo caloroso ma
comunque cordiale, mentre si toglieva gli occhiali dal viso mettendo a nudo il verde scuro
dei suoi occhi, che non avevo notato alla scarsa luce artificiale della notte scorsa. Prima
che potessi risponderle, vidi il suo sguardo gelido illuminarsi improvvisamente guardando
verso il basso, le sue labbra sensuali, dai contorni netti e sinuosi da sembrare disegnati,
aprirsi in un sorriso affettuoso che aveva dell’incredibile, per come mi ero rappresentato,
fino a quel momento, quell’essere ammaliante. Sciark le saltò addosso con le zampe
anteriori, menando colpi di coda a destra e a manca contro sedie e sgabelli, sbuffando e
leccandole le affilate lunghe mani. “Bello! Cosa ci fa tu qui…invece di andare a caccia di
talpe e lucertole!” Oltre alle mani ella offrì la sua gota immacolata alla lingua sprizzante di
saliva del cane. Tale gesto diede il colpo di grazia alla fredda immagine che avevo di lei.
“Spero abbia trovato di suo gradimento l’alloggio. Non avevamo nulla di meglio da
offrirle.” Il poderoso timbro di voce di Jonathan mi distolse dalle graziose dimostrazioni di
affetto tra il cane e la donna.
“Assai più di quanto avessi potuto sperare….davvero! Mi sarei accontentato di
molto meno. E….chiedo scusa se ho disturbato il vostro lavoro….mi sembrava doveroso
ringraziarvi e salutarvi prima di andarmene….”
“Mi sono permesso di invitare il signor Crosby a trattenersi per qualche giorno
nella comunità” - disse Tenton.
“Oh…sì….il signor Tenton è stato molto gentile, ma non era nei miei
programmi….”
“Innanzitutto credo sia opportuno sbarazzarci dei formalismi – intervenne Ramona
– e darci del ‘tu’. Non crede….anzi, non credi Stephen?”
“Senz’altro!”
“Bene.” Mentre il cane andava a rivolgere le proprie effusioni verso Jonathan e gli
altri, sollevò una gamba con molta normalità appoggiando un gluteo sul tavolo circolare.
La su gonna stretta e già abbastanza corta si ritrasse, scoprendo gran parte delle cosce
asciutte, lisce, dalla pigmentazione bruno-olivastra compatta. Nessuno sembrava badarci,
ma io non potei evitare di gettarvi una fugace occhiata. “Tenton ha esercitato il suo dovere
di ospitalità. Devi sapere che qui da noi l’ospitalità è tenuta in grande considerazione.
Riteniamo sia fondamentale dimostrare un’amichevole disponibilità verso qualsiasi essere
umano, e non solo umano, venga in contatto con la comunità. Ti rinnovo quindi l’invito.”
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“Non sei il primo e non sarai l’ultimo – incalzò Jonathan – ad essere invitato a
restare tra noi, Stephen. Nei quattro anni di stanziamento su queste terre abbiamo avuto
l’onore di ospitare innumerevoli persone, di ogni razza, di tante parti del mondo, sia
maschi che femmine. Chi è restato pochi giorni, chi un mese, chi un anno, chi è ancora qui
con noi ed è diventato membro a pieno titolo della nostra organizzazione sociale. Ti posso
assicurare, comunque, che solo pochissimi non hanno manifestato entusiasmo per la
permanenza qui.”
“Non ne ho alcun dubbio…” Seguirono alcuni attimi di silenzio, a parte i rintocchi
secchi prodotti dalle interminabili codate di affetto di Sciark contro cose e persone e le sue
sbuffate affannose. Se ero stato capace di nascondere la gioia per l’invito di Tenton,
trattenendomi dall’offrirgli un esplicito assenso, forse per uno stupido riserbo e una falsa
modestia, persistere con un atteggiamento elusivo al rinnovato invito sarebbe stato a dir
poco di cattivo gusto o addirittura offensivo nei confronti della cordialità dimostratami.
Oltre tutto capivo di essere davvero entusiasta al solo pensiero di restare per qualche
giorno tra quella gente. “Benissimo! Accetto volentieri. Confesso di essere profondamente
incuriosito dal vostro modo di vita….credo che potrò trovare in mezzo a voi notevoli
spunti creativi per i soggetti dei miei racconti.”
“Grande risorsa umana la curiosità…” – proseguì Jonathan – “…è il motore della
storia. Povero chi non ne ha.”
“Già, hai proprio ragione…”
“Ovviamente, durante la tua permanenza, avrai libero accesso, come uno qualsiasi
dei nostri abitanti, all’interno delle strutture organizzative e produttive. Potrai curiosare e
chiedere informazioni nelle piccole fabbriche artigianali, tra i coltivatori delle nostre terre,
tra i tecnici dei nostri uffici, qui in questo stesso ufficio. Non abbiamo segreti per
nessuno…anzi, siamo ben felici che chiunque possa acquisire completa conoscenza delle
nostre attività, dei nostri studi, dei nostri sistemi organizzativi…”
“Ma…scusa se mi permetto…non temete che qualcuno possa carpire le vostre
conoscenze e utilizzarle…non so…per trarne profitto, per arricchirsi, e magari per ottenere
risultati affatto diversi, se non opposti, rispetto a quelli che vi proponete di raggiungere?”
“Certamente che lo temiamo. Anzitutto però riteniamo che la conoscenza non
debba essere soggetta a vincoli di segretezza, sigilli, limitazioni di qualsiasi natura, ma
debba essere di dominio pubblico, perché solo così può prestarsi al vaglio della critica e,
dunque, arricchirsi di continui, ulteriori stimoli alla crescita. D’altronde, uomini che non
hanno a cuore il bene comune ma solo il proprio egoistico tornaconto, ci sono sempre stati
e probabilmente sempre ci saranno. Sono quelli che hanno impresso alla storia una
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evoluzione sanguinosa e piena di contraddizioni laceranti, quelli che, ciecamente, per
stupida brama di ricchezza e potere, alimentano una escalation autodistruttiva che ha come
unica prospettiva l’estinzione del pianeta. Noi non siamo in grado, almeno fino ad oggi, di
contrastare gli effetti di questa voracità che riesce a fagocitare tutto ciò con cui viene in
contatto, possiamo solo dare un esempio di come le capacità umane possano essere
indirizzate verso scopi del tutto diversi dal mero profitto individuale.”
“Avremo comunque modo di approfondire tali tematiche, se lo gradirai”, aggiunse
Ramona con un’espressione di nuovo fredda e impenetrabile dello sguardo. Voleva forse
comunicarmi che la discussione non poteva continuare in quel momento, perché erano
indaffarati al computer. Repressi istantaneamente il desiderio veemente di porgere altri
quesiti. Li ringraziai di nuovo e mi volsi verso Tenton come per chiedergli di indicarmi
l’uscita, che pure era assai chiaro quale fosse. Tenton era già voltato verso la porta di
ingresso mentre tentava di ravvivare la sua pipa di nuovo sopita. Sciark, che aveva già
capito, si era incollato dietro alle sue gambe scodinzolando e ansimando. Uscimmo dal
centro e il sole ci inondò di luce e calore. Era tanto tempo che non provavo una così
intensa emozione di entusiasmo e di voglia di vivere come quella che mi colse in quel
momento di un giorno d’estate, in compagnia di un attempato signore e di un grosso
quadrupede affettuoso amico di tutti.
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CAPITOLO II
PROFESSORE DI LETTERE
Rimasi alloggiato nella stessa unità abitativa della prima notte, la numero 250. I tre
giorni che seguirono li dedicai ad organizzare la permanenza in essa, disponendovi l’arredo
secondo le mie esigenze e i miei gusti. Una sedia qua invece che là, una poltrona per un
verso invece che per l’altro. Lo facevo spesso anche quando alloggiavo in albergo, se
prevedevo di sostarvi per più di due tre giorni. Qui non avevo idea di quanto sarei rimasto,
non volli pormi il problema. Comprendevo che il desiderio era di fermarmi a tempo
indeterminato, lasciando agli avvenimenti futuri che sarebbero occorsi di indicarmi quando
fosse maturato il momento opportuno di andarmene. Approvvigionai il frigorifero di
alimenti e bevande prelevati presso uno spaccio pubblico, molto fornito di generi di prima
necessità. Fui fortemente sorpreso di sorprendere il personale che lavorava allo spaccio e le
persone al momento presenti, quando chiesi il costo dei vari prodotti che non presentavano
alcuna etichettatura di prezzo. Appresi, con vergogna indicibile, che non avevano prezzo,
semplicemente perché potevano essere prelevati per le proprie necessità da tutti gli abitanti
della comunità senza pagare alcuna somma. Non vigeva alcun sistema monetario, né altro
sistema di scambio. Rinunciai al proposito di fare un cospicuo rifornimento per parecchi
giorni, limitandomi all’essenziale per solo un paio di giorni. Mi spiegò poi Tenton che,
all’interno della comunità, era stata abolita, o meglio, non era mai entrata in uso, alcuna
forma diretta di compra-vendita. Nell’ambito delle possibilità offerte dal livello di
organizzazione sociale raggiunto, ognuno poteva usufruire di tutto il necessario per
sopravvivere, per allevare il proprio nucleo familiare, se ne aveva, per espletare la propria
professione e, persino, per soddisfare le proprie esigenze di svago e divertimento. Ognuno,
o almeno ogni adulto, era costantemente aggiornato, attraverso le assemblee cittadine, sulle
capacità di assorbimento della domanda complessiva di beni di cui la comunità, in un dato
momento, disponeva. Di conseguenza, sapeva autoregolarsi nel prelevare prodotti, così
come nell’utilizzare in genere i servizi messi a disposizione di tutta la comunità. Solo nei
rapporti col mondo esterno, negli scambi commerciali con le organizzazioni sociali
tradizionali, veniva, inevitabilmente, utilizzata la valuta statunitense per l’acquisto dei
prodotti che necessitavano alla comunità e che essa non era in grado di realizzare
autonomamente e per la vendita delle proprie eccedenze produttive. Agli scambi
commerciali provvedeva il centro organizzativo utilizzando la cassa comune, seguendo i
programmi approvati in assemblea. Anche nei rapporti con le altre comunità similari
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vigevano principi di solidarismo che prescindevano dall’uso della moneta e di altri mezzi
di scambio. Si cercava di corrispondere, nei limiti del possibile, alle richieste di sostegno
relative a prodotti per i quali si registrava un’abbondanza rispetto al fabbisogno interno;
viceversa, quando vi erano carenze delle quali le altre comunità non soffrivano affatto,
quando vi era bisogno di beni che esse potevano soddisfare, senza subirne particolari
disagi, si approfittava della loro solidarietà. Si riusciva a compensare, o comunque ad
alleviare, in tale modo, le rispettive deficienze organizzative e produttive, sfruttando le
differenti vocazioni lavorative esistenti tra le popolazioni dell’una e dell’altra. Il
federalismo che legava fra loro le diverse comunità si ispirava espressamente a principi di
fratellanza cristiana.
Nei primi giorni di permanenza mi dedicai anche a lavare i pochi abiti che
costituivano il mio corredo ambulante. Li stesi ad asciugare nel porticato e li stirai con il
ferro che mi prestò una cordialissima vicina, madre di due bambini e moglie di un esperto
in falegnameria, che era una delle attività più diffuse sul posto. Questa famiglia mi invitò
spesse volte a cena, ma accettai solo un paio di volte le sue offerte, perché mi sembrava,
forse stupidamente, di abusare degli ideali comunitari nonché del senso di ospitalità
illimitata che in genere tutti i membri della comunità possedevano. La prima volta che
accettai l’invito a cena - era appena trascorso il terzo giorno dal mio arrivo - appresi molte
altre informazioni sull’organizzazione della comunità da parte dei miei commensali, lui
Robert Fogerty e lei Marianna Gentili, figlia di emigranti italiani.
“Al momento – mi disse Robert – la nostra comunità annovera circa 450 abitanti,
ma è in forte espansione, sia per il numero di nuovi nati che si accresce di continuo che di
nuovi arrivi di persone attratte dai nostri ideali e modi di vita. Più della metà è composta di
maschi e un terzo di bambini e ragazzi. Escluso questo terzo, impegnato tutto l’anno,
compresa l’estate, in attività di apprendimento, ricreative, artistiche e ludiche, tutte le
persone adulte sono impegnate nelle attività produttive e di servizio. Il numero più
cospicuo si dedica a lavori in ambito forestale e di falegnameria. Il legno, come avrai
potuto notare, è materia essenziale con la quale è costruito quasi per intero il nostro
villaggio. Un altro consistente numero si dedica all’agricoltura e alla zootecnia. Si
coltivano frumento, cereali, ortaggi e alberi da frutto, si allevano mucche e capre. Una
decina di tecnici, tra ingegneri e informatici, provvede a tutte le questioni tecnologiche,
dagli impianti di distribuzione di energia elettrica, impianti idraulici, impianti di
riscaldamento, alle apparecchiature di calcolo e di comunicazione del centro organizzativo.
Tutte le persone che rimangono si occupano dei vari servizi pubblici, dalla distribuzione di
beni all’assistenza sanitaria. Ci sono valenti medici e infermieri, un paio di psicologi,
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meccanici, un paio di fabbri e persino alcuni tipografi che stanno allestendo un centro
stampa e presto doteranno la comunità di un giornalino informativo. Poi c’è la scuola e
l’unità di ricreazione ludica e artistica, delle quali fanno parte qualificati maestri,
professori, educatori, animatori. Potrei continuare nell’elencarti in dettaglio molte altre
professionalità presenti tra noi…..”
Una luce di fierezza illuminava i suoi occhi, mentre mi esponeva tutto ciò. Un
atteggiamento che avevo già notato in Tenton e, più o meno velatamente, in tutti gli altri
che avevo conosciuto. Certo erano consapevoli di essere gli artefici di “un esperimento”
straordinario, unico nel suo genere, almeno nel nostro secolo. Nessuna persona onesta e
intelligente al mondo avrebbe potuto negare questo. Rimasi sbalordito dalla pur succinta
esposizione fattami da Bob e fui pervaso dalla consueta voglia di sapere, approfondire,
capire.
“Quante domande vorrei farti Bob…”
“Prego, fatti pure avanti, abbiamo tutta la notte a disposizione.”
“Nessuno ci sgriderà se domattina inizieremo più tardi le nostre consuete attività”,
aggiunse sorridendo Marianna.
“Oh …non voglio arrivare a tanto…mi guarderei bene dal rubarvi il sonno, ma
qualche curiosità lasciatemela togliere. Ad esempio…come è iniziato tutto ciò? Voglio
dire….come è nato il vostro insediamento?”
“Dall’ostinata volontà di un pugno di uomini, dalla fortuna e da un peccato
originale.”
“Come?…”
Sorrisero entrambi di fronte alla mia perplessità.
“Abbiamo terribilmente violentato la natura, ma ora stiamo riparando”, aggiunse il
bambino più grande di dodici anni che ascoltava con attenzione i discorsi degli adulti. I
genitori si abbandonarono ad una bonaria risatina per l’intromissione del loro pargolo, che
sembrava già ben informato sulla storia della comunità.
“Hai ragione Mirko, ma questo è solo uno degli elementi della miscela che ha
permesso di costruire la nostra piccola città, il peccato originale. Ma lasciami spiegare al
signore cosa significa quello che ho appena detto, poi potrai aggiungere le tue
considerazioni, se credi. Vedi Stephen – di nuovo Robert si volse verso di me con un
timbro di voce sobrio – tutto ebbe inizio quando una ventina di amici e compagni di idee,
decisero di tentare di dare un risvolto concreto al loro pensiero, sinceramente refrattario ai
valori e ai modi di vita della civiltà contemporanea. Ciò che legava questi uomini era
l’avversione per una società che fonda le regole del vivere comune su due principi
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irrinunciabili: il profitto e il consumo. Due principi che, a nostro modo di vedere, pongono
gli uomini in permanente concorrenza e conflitto fra loro. Fortuna volle che in mezzo al
gruppo di amici vi fosse una giovane donna, Ramona Lindsey che hai già conosciuto e
compagna di Jonathan Burk, la quale aveva da poco ereditato un patrimonio, composto per
lo più da un vasto latifondo, in parte incolto e in parte coperto da una bellissima e
selvaggia foresta. E’ la terra, come avrai già capito, sulla quale si è insediata la nostra
comunità. Jonathan propose a Ramona di costruire una casetta nella foresta, a lei venne la
generosa e grande idea di costruirne una a tutti gli amici. Da quell’idea nacque il primo
nucleo del villaggio. Ovviamente per costruire le case pensarono di utilizzare la materia
prima che su quella terra abbondava, ovvero il legno. Ma questa scelta non poteva essere
fatta a cuor leggero da quegli amici che avversavano, tra i vari aspetti della società
costituita, la voracità depredatrice dell’uomo nei confronti dell’ambiente. L’ecologismo era
ed è tutt’ora uno dei principi guida che ispirano la comunità. Questo, dunque, il nostro
peccato originale, che fu compiuto in piena consapevolezza, ma anche con la decisa
volontà di porvi progressivamente rimedio. Si avviò fin dall’inizio un’intensa attività
forestale che, accanto al taglio degli alberi nelle aree ritenute di minor pregio dal punto di
vista ambientale, si espresse in un opera di cura e protezione delle aree boschive più
pregiate per l’alto grado di conservazione delle caratteristiche originarie, ma soprattutto, si
estrinsecò nella ricostituzione del patrimonio forestale con l’impianto di varie specie di
alberi, quasi tutte autoctone, in vaste zone incolte del territorio ereditato dalla Lindsey. E
oggi…”
“Deve essere davvero un gran patrimonio, in termini di superficie territoriale,
quello ereditato da Ramona!”
“Migliaia di ettari. Nemmeno lei saprebbe dire quanti di preciso. Devi sapere,
Stephen, che Ramona, come lei stessa ci ha sempre tranquillamente raccontato, è figlia di
un adultero aristocratico che possedeva immense proprietà, unito ad una donna del suo
rango incapace di dargli una prole. Il ricco possidente si invaghì di una bellissima indiana
esperta di cavalli alla quale aveva affidato la cura del suo allevamento. Ne nacque Ramona,
che egli riconobbe però come propria figlia solo alla morte della moglie, avvenuta alcuni
anni dopo. Poco più tardi anche la madre di Ramona si ammalò di cancro. A nulla valsero
le attenzioni che l’aristocratico ex-amante decise, tardivamente, di prodigarle, per
quell’amore che mai era riuscito a sopire nei suoi confronti. Morì straziata dalla malattia
lasciando la figlia appena quindicenne. Il padre, rimasto solo a consumare la sua
disperazione, dopo aver intestato le proprietà terriere all’unico frutto del suo amore, si
suicidò con un potente veleno. Da questa tragedia scaturì dunque, diciamo così, il
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presupposto fortunoso che ha consentito poi la nascita della nostra comunità. Il resto lo si
deve alla grande intelligenza, generosità e volontà di Ramona e dei suoi compagni”.
Rimasi affascinato da questa storia, soprattutto dal quadro della personalità di
Ramona che ne emergeva. Quasi balbettando mi uscì di bocca la più stupida, forse, delle
osservazioni che avrei potuto fare:
“Ecco…ecco perché il colore olivastro della sua pelle!”
Nei giorni che seguirono tentai di isolarmi nell’abitazione assegnatami per provare
ad elaborare la bozza del nuovo racconto che, prima di giungere alla comunità, credevo di
aver già delineato nella mente. Ma ero talmente frastornato dagli affascinanti e inconsueti
stimoli che provenivano dall’ambiente circostante da non sapere più cosa avrei voluto
veramente raccontare. Decisi per il momento di rinunciare e di approfondire la conoscenza
della gente che mi circondava. Cosa poteva attirarmi con maggior insistenza? Ma senza
dubbio quella bellissima donna dalla pelle olivastra, figlia di una indiana e di un adultero
aristocratico. Il quinto o sesto giorno mi alzai relativamente presto – saranno state le nove
della mattina – e mi recai al centro organizzativo. Poco prima di Piazza Gandhi incrociai
Sciark che sopraggiungeva trotterellando. Voleva dimostrarmi che ero entrato a far parte
della sua cerchia di amicizie; mi leccò la mano destra, pretese qualche carezza piantandomi
i suoi zamponi sul costato e poi mi scortò fino all’ingresso del centro.
“Ben tornato bel giovane scrittore!” Ramona era di buon umore, mi accolse con un
grazioso sorriso. “Contavamo che ci avresti fatto visita prima o poi. Come va la
permanenza tra noi? Stai scrivendo qualcosa?”
“Beh… non credo si possa ricevere un’ospitalità migliore di quella che ho ricevuto
qui. Ve ne sono davvero grato. Riguardo allo scrivere, invece, confesso di avere molta
confusione in testa e di sentirmi al momento incapace di creare qualcosa di buono.”
“Forse il nuovo ambiente…”
“Esattamente. Ma non tanto in quanto nuovo. Sono abituato a frequenti
cambiamenti d’ambiente. Piuttosto, la qualità e la quantità degli stimoli che sferzano la mia
curiosità sono….come dire….davvero insoliti e così coinvolgenti che mi fanno sentire
confuso, quasi stordito. Credo siano saltati i vecchi e consolidati schemi mentali attraverso
i quali ero abituato a interpretare la realtà o a immaginarla nei miei racconti. E’ come se si
fosse schiusa ai miei occhi una dimensione affatto sconosciuta della realtà e non abbia gli
strumenti per leggerla e comprenderla. Non so se riesco a spiegarmi…”
“Non vorremmo averti sulla coscienza, in futuro, per una crisi d’identità che
sconvolge la tua esistenza!”
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“Al contrario. Credo possiate essere fieri che il vostro modo di vivere sia capace di
destabilizzare le coscienze, sia in grado di suscitare incertezze. Vedi….mi rendo conto in
questi giorni di aver forse troppo a lungo vissuto spensieratamente, oserei dire
irresponsabilmente….”
“Oh…lascia perdere, non ti flagellare. Piuttosto, fermati qualche minuto, ti farò
conoscere i valenti operatori del centro e le funzioni che svolgono.”
“Volentieri, era ciò che speravo.”
“Manolo….ci sei?” – alzò la voce in direzione della stanza attigua alla nostra in
attesa di una risposta – “Ehi …Manolo!….” – attese ancora qualche attimo – “Ho capito, la
tua Manuelita è assai esigente di notte, cosicché sei sempre in debito con Morfeo…”
“Ci sono, ci sono e sono anche ben sveglio…dimmi pure.”
Ramona mi fece cenno di seguirla ed entrammo nell’altra stanza. Anche qui, come
nella stanza d’ingresso, le apparecchiature elettroniche abbondavano, dai semplici personal
computers ai più stravaganti congegni dei quali ignoravo completamente le funzioni.
“Ce ne vorrebbero almeno dieci della mia pur focosa Manuelita per togliermi il
sonno”, proseguì Manolo intento al lavoro su un grosso monitor.
“Dici davvero? Un giorno o l’altro mi piacerebbe metterti alla prova”, ribatte
sogghignando Ramona mentre gli poggiava amichevolmente una mano sulla spalla.
“Jonathan permettendo, lo sai che sarei ben lieto di accontentarti.”
“Questo è Manolo” – mi disse, continuando a sorridere – “il nostro esperto in
pianificazione urbanistica e, come avrai capito, anche in prestazioni sessuali.”
Restando seduto, si voltò verso di me con l’asse girevole della poltroncina un
giovane dagli inconfondibili lineamenti messicani.
“Piacere di conoscerti Stephen, mi hanno parlato di te.”
Strinsi la sua mano, e altrettanto feci con gli altri due operatori che si trovavano
nella stanza, uno, Donald, irlandese di trantacinque anni che si occupava di
telecomunicazioni, via internet, satellitari e simili; l’altro, Jeffrey, americano quarantenne
che si intendeva di flussi commerciali import-export.
“Ecco…vedi Stephen” – mi disse subito Manolo, avendo compreso il motivo della
mia visita – “…quella che appare sul monitor è la mappa del territorio entro il quale vive e
lavora la nostra comunità. Ovviamente a questa scala di ingrandimento risulta nulla più che
una macchia colorata, che non dice nulla ad un occhio poco esperto. Con un semplice click
del mouse, però, posso modificare la scala ed evidenziare la mappa ad una scala superiore.
Ripetuti click mi consentono di aggiustare la scala fino al livello di ingrandimento
desiderato. Puntando il mouse su una specifica area o uno specifico punto posso
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raggiungere alti livelli di dettaglio, che consentono di programmare interventi sul territorio,
decisi dalla comunità, con precisione ‘chirurgica’. Se, ad esempio, un qualsiasi abitante del
villaggio mi chiedesse di aiutarlo ad arredare la sua abitazione e a dislocare i mobili nella
sua casa, come talvolta mi è capitato, potrei tranquillamente farlo servendomi di scale di
ingrandimento con un rapporto di 1:50 o addirittura 1:25, ove 1 centimetro sul monitor
corrisponde a 25 centimetri nella realtà. Ovviamente le potenzialità di pianificazione
connesse all’utilizzo del programma che ti sto mostrando, che come potrai immaginare
sono enormi, dipendono dal continuo e rigoroso aggiornamento di ogni qualsivoglia
modificazione avvenga nell’ambito del territorio mappato. E di modificazioni ne vengono
apportate quotidianamente con il lavoro dei comunardi. E’ scrupolo di ognuno di essi
segnalarle e mio compito di registrarle correttamente affinché siano riproducibili sulla
mappa alle diverse scale di ‘visibilità’ ad esse correlate….non so se mi spiego.…”
“Perfettamente! Continua pure.”
“Bene. Questo livello di ingrandimento, ad esempio, ci consente di tenere
sott’occhio l’estensione dei vari usi del suolo sull’intero territorio. L’importante, nella
nostra visione del rapporto con l’ambiente, è mantenere un certo equilibrio tra le diverse
aree, in modo tale che non si verifichino mai processi di pauperizzazione irreversibili né in
un senso né in un altro. Le superfici boschive non devono mai scendere al di sotto di una
certa percentuale; alcune aree sensibili come quelle dei fossi e delle sorgenti, devono
essere mantenute integre entro un certo margine di sicurezza; le coltivazioni e i pascoli non
potranno estendersi oltre una certa misura, anche se la produzione agricola e zootecnica
risultasse ad un certo punto insufficiente a far fronte alla crescita interna della
popolazione.”
“Nel caso ciò accadesse….voglio dire nel caso la vostra comunità si popolasse in
eccesso rispetto alla capacità complessiva di soddisfare adeguatamente i bisogni di tutti,
come pensate di comportarvi?”
“Fortunatamente ciò non è ancora capitato. Ma abbiamo messo in conto tale
evenienza e ne abbiamo discusso in varie assemblee. Piuttosto che compromettere
l’equilibrio ambientale che noi riteniamo essenziale a conservare un certo modello di
qualità della vita, adotteremmo uno o più dei seguenti provvedimenti: limitare la crescita
della popolazione interna, limitare o impedire del tutto gli accessi dall’esterno, acquistare
aree contigue al nostro territorio, impiantare nuovi nuclei comunitari in altre località, anche
distanti dalla nostra. E probabilmente esisteranno anche altre soluzioni che, nel momento
del bisogno, saranno senz’altro valutate. Ciò che conta, per noi, è, almeno fino ad oggi,
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riuscire a conservare un controllo efficace sulle variabili ambientali dalle quali dipende
l’integrità del modello di vita che ci siamo scelti e costruiti.”
“Davvero ammirevole questa disposizione a pianificare con raziocinio il vostro
destino, a non lasciarsi mai sorprendere dagli eventi, a non perdere mai di vista gli obiettivi
preposti, a non sacrificare mai gli ideali di vita nei quali si crede e per i quali si è
lottato….ma….permettetemi di cercare il pelo nell’uovo….potrebbe pur nascere un
disaccordo, tra gli abitanti, su come gestire il territorio, su come utilizzare le risorse
ambientali. E allora? Come pensate di risolvere eventuali, magari decisive, discordanze
interne? Vi prego di non giudicare maligna questa osservazione…”
“Tutt’altro che maligna la tua osservazione” – mi rispose pacatamente e con tono
sicuro Ramona, fissandomi negli occhi – “Hai semplicemente colto l’aspetto più ovvio
della libertà, un aspetto che ci stiamo abituando a valutare non come un momento negativo
e preoccupante nell’ambito dei rapporti sociali, ma, al contrario, come un fattore
indispensabile di crescita collettiva, un motore di sviluppo per raggiungere traguardi di
convivenza sempre più rispondenti alle esigenze di tutti. E’ un bene che nascano
contraddizioni, si producano dissensi. Questo ci consente di affrontare qualsiasi problema
da molteplici prospettive e di monitorare costantemente la volontà di ognuno di restare
insieme, superando difficoltà e diversità, proponendo soluzioni sempre più soddisfacenti.
Se poi la disponibilità di tutti al confronto non dovesse bastare per trovare accordi
convincenti, se dovessero alla fine permanere diversità incolmabili, contrasti insolubili
…ebbene!… si lascerebbero i problemi insoluti, aperti a successive verifiche, ove la loro
soluzione non si dimostrasse indispensabile per la vita della comunità. Oppure, una o
alcune delle posizioni contendenti, palesemente minoritarie, potrebbero decidere di
soprassedere e consentire, per un certo tempo, alle posizioni maggioritarie di essere
applicate. Oppure, ancora, come estrema ratio, le parti in contesa, ove lo ritenessero
opportuno, potrebbero concordare una pacifica e amichevole separazione, che
comprendesse anche una ripartizione proporzionale delle risorse fino ad allora condivise.
In fin dei conti, meglio separati che forzatamente uniti, lasciando pericolose contraddizioni
a covare sotto la cenere. Non credi?”
“Oh…mi vergogno un po’ a riconoscerlo, ma non ho alcuna opinione in proposito.
Ho sempre vissuto occupandomi egoisticamente di realizzare i miei desideri, d’altronde
assai poco pretenziosi, trascurando, lo confesso, le questioni sociali.”
“Beh, ciò per noi è un male, forse il male dei mali”, proseguì Ramona sorridendo,
ma non per questo sminuendo la serietà della sua lapidaria critica.
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“Mi rendo conto di essere in difetto….forse in grave difetto. Lo ammetto. E mi
rendo anche conto di come voi, al contrario, sappiate il fatto vostro in proposito.”
“Caro Stephen….credo tu abbia una buona disposizione alla critica, ma anche
un’esagerata propensione all’autocritica, che rischia di sconfinare, permettimi di dirtelo, in
una sciocca autocommiserazione. Mostri scarsa sicurezza nei tuoi mezzi, troppa mitezza
quando parli di te stesso. D’altronde, qui tra noi, se riusciremo a trattenerti ancora a lungo,
dovrai abituarti a ricevere spesso valutazioni chiare e decise sul tuo operato, ma non per
questo irrispettose….anzi! La forza che ci tiene uniti, presumibilmente, risiede nella
sincerità reciproca con la quale intratteniamo i rapporti interpersonali, sia in pubblico che
in privato. Non devi compiangerti, ma esporti senza troppi indugi per ciò che sei e ciò che
pensi. Qui troverai sempre orecchie attente ad ascoltarti ma anche cuori e menti aperte
pronte a richiamarti alle tue responsabilità. Non troverai invece mai tribunali preposti a
infliggere condanne.”
“Non devi pensare che io sia un timido….o peggio….un immaturo incapace di farsi
valere, un qualunquista senza né arte né parte. Soltanto, come ti dicevo poc’anzi, in questi
giorni mi sento culturalmente disorientato. Non considerare questa mia confessione come
una sorta di autocommiserazione. La sincerità è, infatti, uno dei principali valori ai quali ho
cercato di mantenermi sempre coerente, almeno da alcuni anni a questa parte. Come puoi
constatare, in questo sono tutto sommato assai vicino agli ideali della vostra comunità. E’
proprio la constatazione di questa, almeno parziale, comunanza di valori tra me e voi che,
se da una parte mi inorgoglisce perché conferma che non sono un solitario visionario,
dall’altra, appunto, mi disorienta perché rende palese quanto sia diversa la mia scelta di
vita dalla vostra. Sto interrogandomi proprio su ciò in questi giorni.”
E’ con un velato pizzico di rabbia che ribattei alla critica di Ramona, perché non
l’avevo assorbita con indifferenza. Mi resi conto per la prima volta di quanto ci tenessi al
giudizio di quella donna dai tratti caratteriali e con un intelligenza da leader carismatico, e
poi così bella, nella sua singolarità, che non trovava adeguati raffronti nella mia memoria.
Non so se percepì la venatura irosa della risposta che le diedi; ne sembrò comunque
soddisfatta, come se avesse desiderato proprio quella risposta.
“Bene. Ora credo di capire il tuo punto di vista. Manolo…continua pure la lezione
di urbanistica.”
“Come stavo dicendo, a questa scala noi possiamo distinguere i diversi usi ai quali
è sottoposto il territorio. Le aree di color giallo paglierino, ad esempio, rappresentano i
seminativi, ovverosia i terreni dedicati alle varie colture agricole non arboree; le aree di
colore arancione, invece, i terreni coltivati con alberi da frutto; quelle di colore verde sono
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i terreni lasciati, attualmente, ad erbai per il pascolo del bestiame. Puoi ben comprendere
come la colorazione delle diverse aree può subire delle variazioni di anno in anno anche
per semplice effetto dell’applicazione della tecnica di rotazione delle varie coltivazioni,
che qui da noi è praticata con scrupolosa metodicità. Ogni più piccola differenza di colore
tra un’area e l’altra indica una particolare utilizzazione del territorio e, come puoi vedere, i
colori sono stati impiegati pressoché tutti in una vasta gamma di sfumature. In questa zona
colorata di blu chiaro, sono state impiantate le attrezzature per esperimenti di produzione di
energia eolica; in quest’altra zona contigua di colore blu scuro, sono installati impianti per
la produzione di energia solare; in quest’altra ancora….”
“Scusa se ti interrompo…”
“Prego, non ti fare scrupoli di interrompermi, se hai delle curiosità, o vuoi
chiedermi spiegazioni.”
“Non riesco a credere che siate autosufficienti nella produzione di energia elettrica
per tutti i fabbisogni della comunità!”
“Purtroppo sei nel giusto a non crederci. Non siamo ancora riusciti a tanto. Infatti
gli impianti eolici sono ancora sperimentali e quelli di energia idroelettrica, di cui ti avrei
parlato fra breve, sono assai modesti, a causa della scarsa presenza di acque torrentizie o di
grossi bacini acquiferi. D’altronde siamo alquanto restii ad apportare grosse modifiche
ambientali lungo i corsi d’acqua che attraversano il territorio. Solo la produzione di energia
solare risulta abbastanza proficua, ma è comunque sufficiente a soddisfare a malapena gli
usi
civili
nelle
abitazioni,
quelli
dell’acqua
calda,
degli
elettrodomestici
e
dell’illuminazione, non quelli industriali, ovvero quelli per il funzionamento delle varie
attività artigianali; né tanto meno è in grado di garantire l’illuminazione pubblica. Per
coprire l’intero fabbisogno di energia siamo costretti ad acquistarne dai vari enti nazionali
esistenti.”
“E’ comunque ammirevole quello che siete riusciti a fare. Continua pure…”
“Se si procede negli ingrandimenti di scala, come di certo avrai intuito, cresce il
livello di dettaglio della mappa e si restringe, allo stesso tempo, il quadro visuale del
territorio. Ecco…ora puoi notare, nella zona agricola, i solitari, vecchi esemplari di alberi
conservatisi da decenni, alcuni da centinaia d’anni. Se spostiamo la visuale sulla zona
insediativa, ci appaiono ben delineati gli attuali confini di espansione urbana. A questa
scala possiamo renderci perfettamente conto di come si estenda, mese dopo mese, la
periferia del villaggio, tenendo sotto controllo l’impatto che si produce sulle aree
confinanti. Programmiamo l’edificazione nelle direzioni che ci preservino da eventuali
scompensi o squilibri ambientali futuri. Zoomando sul nucleo abitativo centrale, vorrei
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farti notare come la disposizione delle case, degli edifici adibiti a servizi, delle strade, dei
locali pubblici e quant’altro, corrisponda ad un preciso piano, coerente agli stili e alle
esigenze di vita comunitari. Ad esempio, questa larga strada, l’unica di tali dimensioni, si
distende in ogni direzione del villaggio, raggiungendo anche le parti più periferiche. Essa
ha la principale funzione di consentire il traffico dei veicoli da trasporto e da lavoro e di
poter intervenire con i mezzi e gli strumenti idonei per i vari usi civici e industriali in ogni
zona del villaggio, quando ciò occorra. Tutte le vie di comunicazione restanti, assai più
piccole di dimensioni, consentono invece il traffico pedonale, e soltanto questo, in modo
tale che non interferisca con quello veicolare. Qui, come ti sarai reso conto, non si fa
intenso uso di veicoli, ad eccezione che di biciclette. Per gli anziani, e per chi lo
desiderasse, sono previste diverse corse di un paio di mezzi pubblici. Più che altro vengono
utilizzati per raggiungere le fabbriche e i laboratori artigianali dislocati in aree periferiche.
Tra le abitazioni sono interposte ampie aree prative, ben curate da un consistente numero
di esperti giardinieri; esse sono permanentemente disponibili per i giochi dei bambini e per
le attività ludico-ricreative all’aria aperta. Il color verde brillante che puoi vedere tra le
case mostra la distribuzione di queste aree” – rimasi esterrefatto, ma senza darlo a vedere,
dal constatare come, ad occhio e croce, circa un terzo del territorio urbano fosse stato
destinato all’educazione e allo svago dei bambini – “Gli edifici che rivestono una qualche
funzione pubblica sono stati collocati in punti equidistanti dai margini del villaggio, per
facilitarne il raggiungimento, ovviamente, da parte di tutti. Questo edificio grande e così
articolato, che dispone di diverse entrate, è, sempre per farti un esempio, la biblioteca;
questa serie di edifici simili fra loro posti di rimpetto alla biblioteca sono….”
“Le scuole…. gli istituti di istruzione, di ogni ordine e grado, per i più piccini come
per gli adulti.” Una voce tenebrosa che avevo già sentito, interruppe l’esposizione di
Manolo, giungendo da dietro le nostre spalle. Risuonò così improvvisa e inaspettata che, a
me che non avevo l’abitudine di ascoltarla, provocò quasi un sussulto di spavento.
“Jò! Finalmente! Incominciavo a credere che non saresti tornato prima di pranzo.”
Ramona accolse Jonathan con un sorriso, accarezzando affettuosamente la sua nuca. Il
resto dei presenti, compreso io stesso, ci accingemmo amichevolmente a salutarlo. Quasi
incurante dei saluti mi fissò negli occhi per qualche attimo, aggrottando le sopracciglia e
sollevando l’indice della mano destra, come se avesse avuto da rivelarmi qualcosa,
improvvisamente piovutagli in testa.
“La scuola! Già…perché no! Perché no!” Fece seguire altri attimi di silenzio non
staccandomi gli occhi di dosso e scuotendo avanti e indietro l’indice sempre alzato. Rimasi
un po’ imbarazzato, indeciso se domandargli qualcosa, non sapendo bene che cosa.
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“Hei…Jò! Non essere così enigmatico. Illuminaci.” Intervenne Ramona, dopo aver
gettato uno sguardo interrogativo sulla mia faccia, che non poteva darle alcuna risposta.
“Caro Stephen, non devi prendertela se ora ti rivolgo una proposta….sai….questa
idea mi è venuta in mente così, in questo momento, pensando alla scuola….e a te. E
quando mi viene un’idea che a tutta prima reputo interessante, non mi faccio troppi
scrupoli ad esternarla….professore di lettere…..che ne dici?”
“Dico che cosa?….non capisco….”, esaminai perplesso le facce dei presenti per
carpire un suggerimento esplicativo. Un risatina maliziosa uscì dalla bocca di Ramona, la
quale intervenne a sostegno del suo compagno.
“Io credo di capire. Non è affatto un’idea malvagia, proprio niente affatto, caro Jò!
Il nostro giovane amico potrà pensarci un po’ su…d’altronde è solo una proposta….solo un
adesione convinta e sincera da parte tua, Stephen…” – gli occhi di Ramona si posarono di
nuovo su di me – “...potrebbe rendere operativa l’idea. Non accetteremmo mai un consenso
che non sia vero, voglio dire veramente sentito, desiderato….”
“Lasciamo perdere i preamboli. Potrei capire di quale proposta si tratta?” Interruppi
con decisione Ramona, cercando di nascondere una certa apprensione. Qualcosa bolliva in
pentola, o meglio, nelle teste dei miei gentili interlocutori, alla quale ero chiamato a dare
una risposta senza sapere ancora se mi avrebbe messo in una situazione di difficoltà.
“E’ presto detto”, riprese la cavernosa voce di Jonathan. “Nella nostra comunità
siamo carenti in quanto ad educatori, maestri, insegnanti. Ne abbiamo pochi e ferocemente
stressati dai lunghi orari di lavoro, a causa del fatto che le classi, negli ultimi due anni,
sono cresciute di numero, ma non altrettanto il personale insegnante. Inoltre devi sapere
che l’attività didattica, qui da noi, non ha soste estive, ma viene svolta per l’intero anno,
anche se non obblighiamo i ragazzi ad una partecipazione continuativa. Intendiamoci….gli
attuali insegnanti si prodigano con generosità senza mai lamentarsi, svolgendo
egregiamente le proprie funzioni. Ma molti di noi hanno compreso che occorrerebbe
sgravare un po’ il loro carico di lavoro. Non ci sembra giusto tenerli così impegnati per
lunghe ore al giorno, anche se l’entusiasmo che hanno sempre impiegato nella professione
non è affatto diminuito negli ultimi tempi. Capisci che…”
“Oh….capisco benissimo. Ora comprendo tutto, anche quale è la proposta che hai
da farmi. E ti posso assicurare che, almeno fin tanto che mi tratterrò nella vostra comunità,
sarò ben lieto di darvi una mano. E’ il minimo che possa fare. Oltretutto, confesso,
incominciavo a sentirmi un po’ a disagio nella veste di ospite nullafacente. Cosa che…”
“Non era affatto nelle mie intenzioni lasciarti credere che la nostra ospitalità debba
essere in qualche modo ricompensata….anzi, ti chiedo scusa se questa è l’impressione….”
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“Assolutamente no. Puoi stare tranquillo Jonathan. Ho soltanto esternato una
considerazione del tutto personale che nessuno di voi ha indotto nella mia mente. E’ la mia
coscienza personale che mi impone…”
“Ok, d’accordo, però devi garantirmi che non ti senti obbligato nei nostri confronti,
altrimenti ritiro la proposta.”
“Non mi sento affatto obbligato ad accettare la tua proposta. Caso mai è la mia
moralità che mi obbliga a fare qualcosa, non la vostra generosità. Il problema è un altro.
Con sincero piacere, siatene certi, sono disposto a cimentarmi come insegnante, ma è bene
che sappiate che non ho mai fatto una simile esperienza in vita mia, ne riesco a immaginare
cosa potrei insegnare e a chi.”
“Questo non è un problema. Potrai insegnare quello che nella vita credi di saper far
meglio, ossia scrivere. Nessuno, penso, meglio di chi fa lo scrittore, può insegnare quali
siano i presupposti necessari e i requisiti per la realizzazione di un componimento
letterario. Riguardo al “chi”, beh….noi abbiamo ragazzi di tutte le età; si tratta solo di
scegliere quelli di una fascia d’età che tu pensi siano in grado di capirti.”
“Bene, d’accordo. Sono tutto vostro…anzi dei ragazzi. Lasciatemi solo un giorno
per organizzarmi, per abbozzare una sorta di programma da seguire. Dopo di che….”
“Sei sicuro di accettare con piacere, con interesse? Non intendiamo affatto
distoglierti dalla tua professione” - aggiunse Ramona, forse sinceramente preoccupata che
il mio consenso non fosse scaturito da una decisione libera e incondizionata.
“Con piacere sicuramente. Con interesse non posso dirlo, dato che non so quali
problemi, difficoltà o soddisfazioni mi attendano. Comunque non distoglierò le mie
energie dal mestiere di scrittore, considerato che sto attraversando una fase di creatività
alquanto sterile. Sarà per me un’esperienza nuova che potrà tornarmi utile in futuro.”
Non so dire quanto fossi sincero. La proposta mi incuriosiva. Ma se non me lo
avessero chiesto di improvvisarmi insegnante, anche essendo al corrente delle carenze che
la comunità aveva in materia, non so proprio se mi sarebbe passato per la testa di offrirmi
volontariamente a ricoprire l’incarico. Con molta probabilità l’innata indolenza per tutto
ciò che non rientra direttamente nella mia sfera di interessi mi avrebbe consigliato di
continuare a fare l’ospite osservatore, “l’acchiappa soggetti per racconti”, magari solo per
pochi altri giorni e poi sarei tornato sulla strada alla scoperta di nuovi angoli di mondo.
Invece mi ritrovai, un paio di giorni dopo, a tu per tu con una quindicina di ragazzi di 12,
13 anni a tentar di spiegare, alquanto impacciato, come poteva nascere e prendere corpo
l’ispirazione per una creazione letteraria. Scelsi questa fascia d’età perché pensai che
bambini più piccoli non avrebbero potuto avviare una dialettica costruttiva sull’argomento,
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mentre ragazzi più grandi l’avrebbero potuto fare anche troppo, creandomi delle difficoltà
alle quali forse non sarei stato in grado di far fronte.
**
Davvero agghiacciante la chiusura di questa porta. Figuriamoci se gli chiedessi al
secondino di aprire e chiudere con più delicatezza! Sarebbe assai felice di fare esattamente
il contrario. Le guardie sono proprio come le descrivono nei films….chissà se anche nella
realtà c’è l’eccezione che conferma la regola, la guardia buona e comprensiva che…
“Stephen…Crosby, se non vado errato…”
“Si, sono io.” Cosa vogliono a quest’ora di mattina?
“Eccoti i fogli di carta e la pila tascabile che avevi chiesto. Ieri sera intorno alle sei
è stata trasmessa alla direzione l’autorizzazione al tuo trasferimento….si parte tra qualche
giorno. Se hai delle comunicazioni da inoltrare a parenti ed amici devi farlo in fretta .
Altrimenti potrai farlo con comodo appena giunto a destinazione. Tutto chiaro?”
“Ah…ci siamo allora?”
“Come ti stavo appunto dicendo. Prepara le tue cose. E…buona permanenza nella
tua prossima dimora!” Che ghigno maligno!
“Certo, certo…”
Se ne è andato subito, per fortuna.. Maledetta porta. Forse là saranno anche peggio
di questa. Cosa mi aspetta? Oh …meravigliose cosce, d’oro brunito, lisce e sode…sapore
di carne tra le labbra, carne viva e palpitante, sudore fresco tra le mammelle…non
c’è….non c’è in quell’angolo. Eppure era lì qualche minuto fa, non posso sbagliarmi….le
sue zampette esili, lunghe….un alito deciso e volano via. Com’è che fanno tanto
impressione? Sono così eleganti…sarà a gironzolare sui muri, con la sua femmina….o il
suo maschio. Ma lì tornerà, tra le trame esili della sua casa….un alito più forte se la porta
via…Ramona….come mi manchi!…una sola notte come se fosse una vita…il verde scuro,
profondo, abissale degli occhi, la voce tagliente…una lama che scivola su una superficie di
vetro. Ero proprio un bambino smarrito. Troppo intelligente, gli occhi, la voce….troppo
intelligenti. Eppure mi sentivo uguale, sopra il tuo corpo, sotto il tuo corpo, mi facevi
sentire uguale. Che bella carne, le tue mammelle sul mio viso, i capezzoli tra i denti, che
sapore meraviglioso! Che mura fredde, sporche…vive….mille voci ingenue, ignoranti,
condannate per sempre, la gioia dei ricordi, ricordi della vita, la vita che ti rifiuta…è
finita….sei lì a marcire. Solo quel ragno hai per amico. Il ventre morbido, ci sprofondavo il
naso, lo assaporavo con la lingua. Ramona…Ramona! Che nome caldo, sensuale! Ti ho
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aspettato, ti ho aspettato, tre giorni, tre lunghissimi giorni…perché non sei tornata! Forse
eri pentita di quello che hai fatto con me….forse hanno sbattuto in galera anche
te…forse….forse….che me ne faccio dei forse. Le tue cosce, Ramona, voglio palpare le
tue cosce, voglio sentire il tuo fiato sul viso, voglio….com’è fragile la ragnatela! Un alito e
si muove tutta, un alito più forte se la porta via….
**
Nemmeno coi bambini di 12 e 13 anni si rivelò agevole svolgere il ruolo che, solo
con molto eufemismo, può essere definito del “professore di lettere”. Almeno con quei
bambini, così ben educati a ponderare con razionalità il proprio comportamento. Non credo
di esagerare se affermo che non erano come tutti i bambini che avevo conosciuto fino a
quel momento nel mio mondo. I bambini della comunità, non so perché, si dimostravano di
un curiosità assai accentuata nei confronti dei comportamenti adulti e non si
accontentavano mai di spiegazioni frettolose e dogmatiche ai quesiti che ponevano. Mi
assegnarono una quindicina di questi bambini. Ogni lezione venivo bombardato di
domande che, se da una parte costituivano la prova tangibile dell’interesse che comunque
ero riuscito a suscitare in loro, dall’altra mi costrinsero ad un grosso impegno
chiarificatorio persino con me stesso. Certi concetti che sulle prime credetti di poter
spiegare loro con agevolezza, dovetti rivisitarli e revisionarli durante e dopo le discussioni
in classe perché rivelatisi fragili di contro alla capacità analitica e all’acume dialettico di
cui i bambini erano dotati.
Mi è rimasto impresso nella mente il primo giorno di lezione. Mi colpirono già
l’aspetto e l’arredo dell’aula appena vi entrai. I tradizionali banchi di scuola erano sostituiti
da quattro tavoli circolari intorno a ciascuno dei quali potevano sedere da un minimo di tre
a un massimo di sei alunni (di norma erano occupati da quattro alunni). Il lato senza
finestre era interamente allestito da una quindicina di postazioni per personal computer
contigue l’una all’altra, tutte ottimamente attrezzate con accessori di cui, all’inizio, non
comprendevo nemmeno l’uso (mi rivelarono poi che si trattava di periferiche di
elaborazione grafica e musicale). Non vi era una cattedra. Solo sedie sparse un po’
ovunque, intorno e tra i tavoli, su ognuna delle quali poteva sedere l’insegnante a seconda
delle necessità di vicinanza ora all’uno ora all’altro dei tavoli medesimi. Esternamente e
vicino a ciascuno di questi era situata una lavagna, la cui superficie risultava ben visibile
agli alunni che sedevano agli altri tavoli. In un angolo erano allocati un proiettore e altri
strumenti per proiezioni multimediali e per l’ascolto della musica. Compresi ben presto che
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una tale sistemazione dell’aula era finalizzata, ed effettivamente confacente, a incentivare
uno spirito collaborativo tra i ragazzi, a promuovere il lavoro di gruppo e a non consentire
l’estraniamento e l’isolamento di nessuno. Di fatto non riscontrai mai, tra i ragazzi ai quali
impartii le lezioni, discrepanze o differenze significative nelle capacità di apprendimento,
né nel loro bagaglio individuale di conoscenze, né tanto meno nella loro disposizione
all’attenzione e all’interessamento per gli argomenti delle lezioni. Non credo che a tali
risultati si fosse giunti solo per la qualità e la particolare disposizione dell’arredo nell’aula,
ma certamente posso affermare che esse vi contribuivano non poco. Il resto, ovviamente,
era dovuto alla cultura e all’educazione che in generale permeavano la vita della comunità,
integralmente protese a combattere ogni sorta di individualismo e competitività, come
anche a svilire e scoraggiare tutte le forme di perseguimento del profitto personale.
Appena entrai in aula mi accolsero con un saluto quanto meno poco ortodosso,
rispetto al modo di ricevere un professore che io davo per scontato si applicasse in
qualsiasi scuola del mondo. Ognuno continuò a svolgere tranquillamente ciò che stava
facendo salutando chi con un “buon giorno”, chi con un “ciao”, chi addirittura con un
“salve Stephen” come se fossi stato suo amico da anni. Imparai presto a comprendere che
non si trattava affatto di mancanza di rispetto. Al contrario, quei ragazzini si dimostrarono
sempre assai rispettosi ed attenti nei confronti sia della mia persona che di ciò che tentai di
trasmettere loro durante le lezioni. Semplicemente, erano stati abituati a disconoscere
gerarchie ed autorità di qualsiasi tipo e a rispettare invece le persone in quanto tali, in
quanto esseri umani dotati ognuno di sensibilità e intelligenza. Nessuno si sarebbe mai
sognato di prendere in giro, di ingannare, di disprezzare o sdegnare un altro bambino o un
adulto della comunità, pur non riconoscendo ad alcuno autorità o privilegi di sorta per il
ruolo svolto o lo status sociale occupato. Proprio un po’ il contrario di quanto avviene in
ogni posto del mondo, ove di norma si è portati a riconoscere, e anche a sottolineare con
enfasi, gerarchie e differenze sociali, celando spesso la mancanza sostanziale di rispetto per
le persone in quanto esseri umani. Quei bambini non conoscevano l’ipocrisia, erano ciò
che si presentavano, senza possibilità di equivoci.
“Vi è mai capitato di sognare ad occhi aperti?” Così avviai la mia prima lezione.
Poi esitai in silenzio qualche secondo camminando tra i tavoli e le sedie. E continuai.
“Essere svegli e coscienti nella realtà eppure esserne al di fuori, mentalmente proiettati in
una dimensione irreale, magari possibile, magari probabile, ma inesistente. Una
dimensione che esiste per voi, ma che nessun altro può vedere, sentire, toccare. Venire
risucchiati da avvenimenti impalpabili e immateriali, eppure così veri per voi, almeno per
poco tempo, da sostituirsi alle condizioni oggettive che vi circondano. Perdersi in essi
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senza resistenze fino al punto di svincolarsi da ogni legame con il mondo di tutti i giorni e
godere di sensazioni ed emozioni che quel mondo solo raramente può concedervene di
simili. Trascendere, con un volo spontaneo e irresistibile della fantasia, il vostro presente e
il vostro passato. Qualcosa di più e di diverso, però, del semplice fantasticare.
Ecco…questa è una situazione che ha molte analogie con quello stato mentale che
predispone o induce alla creazione letteraria. Intendiamoci….non dirò mai che questa è
l’unica situazione che favorisca la capacità creativa di uno scrittore o aspirante tale, ma…”
“Scusa professore…” - mi interruppe con voce graziosa un bambino di nome Poldy
dai capelli rossi e le lentiggini al viso – “…io ho sentito pronunciare l’espressione ‘sognare
ad occhi aperti ’ diverse volte, sempre da persone adulte, e sempre nel significato di
fantasticare, o almeno credo. Altrimenti che differenza c’è tra le due espressioni?”
“E’ vero!” – aggiunse in appoggio un compagno, al quale fecero seguito altre
esclamazioni di sostegno da parte di altri compagni.
“Avete
ragione
ragazzi.
Le
due
espressioni
vengono
abitudinariamente
intercambiate l’una con l’altra. Sono io ad operare una distinzione fra esse, per motivi che
ora vi spiegherò. Proviamo ad approfondire l’argomento. Per dei ragazzi di dodici o tredici
anni come voi, secondo me, l’espressione sognare ad occhi aperti non si addice molto,
almeno nel senso che io attribuisco ad essa. Per sognare ad occhi aperti occorre aver ben
appreso, sulla base di una lunga e approfondita esperienza, la differenza fra la dimensione
della realtà e quella del sogno, avere ben chiaro che cosa ci si può aspettare dalle
circostanze di vita che si presentano durante la veglia e che cosa invece non potrà mai
scaturire da esse, o lo potrebbe solo in una remota possibilità, come un’evenienza
altamente improbabile. Bisogna avere proprio “gli occhi aperti” per sognare ad occhi
aperti. La propensione al sogno emerge come un’esigenza insopprimibile per chiudere
momentaneamente gli occhi sulla realtà, divenuta intollerabile o comunque sgradevole,
insufficiente a gratificarci. Abbandonarsi al sogno è come cercare soluzioni alternative alle
scelte soffocanti e limitanti alle quali ci costringe la vita di tutti i giorni. Fantasticare,
invece, è una cosa che la si può fare e la si fa a qualsiasi età, è un giocare con il mondo
indipendentemente dall’esperienza che si ha di esso. E’, anzi, una propensione propria di
chi ha scarsa conoscenza del mondo, cioè dell’età infantile. E’ una cosa che si fa, assai più
frequentemente, alla vostra età. Anche se non potete rendervene conto, la vita che
conducete da svegli non si differenzia di molto, non a sufficienza, da una dimensione
fantastica. Ed è una fortuna che sia così. Ribadisco: per poter sognare ad occhi aperti è
necessario aver fatto esperienza della vita nei suoi molteplici aspetti, belli e brutti, buoni e
cattivi, avere coscienza delle difficoltà e dei piaceri, delle insidie e delle soddisfazioni,
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delle frustrazioni e delle gioie che essa ci riserva. Maggiore è l’esperienza maturata in
questo senso, soprattutto quando non si sono potute o volute evitare vicende e conoscenze
drammatiche, maggiore è la predisposizione della nostra mente a trascendere la realtà per
cercare soddisfazione nel sogno. Questo almeno nelle menti che non si sono lasciate
inaridire dall’esigenza di adattamento alla concretezza del mondo.”
“Ma quando mio padre mi sgrida perché ho commesso qualcosa che a lui non piace
– osservò una bambina dai capelli lunghi castani di nome Ester – o quando ricevo un
elogio perché ho compiuto una buona azione….ecco….non sono queste brutte e buone
esperienze?”
“Certamente. Sono le vostre prime significative esperienze di vita. Ci sono ragazzi
che, alla vostra età, hanno vissuto, sfortunatamente o fortunatamente a seconda dei casi,
esperienze assai più incisive e importanti. Nella vita, però, non si finisce mai di fare
esperienze e col passare degli anni ne farete sempre di più belle e, purtroppo, sempre di più
brutte.”
“Ma Stephen – intervenne di nuovo Poldy – se noi ragazzi non siamo in grado di
sognare ad occhi aperti, nel senso che ci hai spiegato, significa che non siamo neanche in
grado di creare, di scrivere, di comporre versi o prose. Eppure io conosco ragazzi della mia
età che scrivono poesie…”
“Non ho detto esattamente questo. Ho sostenuto soltanto che c’è analogia fra il
sognare ad occhi aperti, nel senso appena spiegato, e uno stato psicologico di
predisposizione alla creazione letteraria., non che il primo è fattore indispensabile e unica
causa per la realizzazione del secondo. A guardar bene, anzi, la condizione di ‘immaturità’
infantile e giovanile – non considerate tale attributo come un’offesa, mi raccomando! – è la
più prolifica di atteggiamenti creativi e di disposizioni all’invenzione e all’ideazione,
proprio perché fortemente contaminata ancora dalla fantasia. Si può fare, dunque, ‘arte’, in
certo qual modo, alla vostra età, ma…lasciatemelo dire…è altra cosa dall’arte che
scaturisce da una lunga e profonda esperienza dell’aridità e della ricchezza della vita.”
Ecco. Di simili questioni discussi con i ragazzi della classe che mi avevano
assegnato durante il periodo di permanenza alla comunità. All’inizio mi ero proposto di
seguire un certo programma di argomenti che ritenni logico e conseguente, poi, sferzato
dalla loro curiosità e vivacità intellettiva, rimescolai continuamente le carte, improvvisai,
corressi, modificai e approfondii alcuni temi, ne soppressi alcuni, ne aggiunsi altri. Fui
costretto, spesse volte, a rivedere concetti che credevo acquisiti, assimilai, incredibilmente,
nuove consapevolezze. Imparai, è il caso di dirlo, dagli alunni, come spero essi abbiano
imparato qualcosa dalle mie lezioni. Fu duro e impegnativo il lavoro che svolsi nella
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scuola, assai più di quello che potessi aspettarmi quando decisi di accettare l’incarico. E
non so se rifarei una simile esperienza. Non credo si addica al mio spirito pigro e
individualista la professione di professore o di educatore. Di certo, però, quell’esperienza
mi arricchì molto, soprattutto mi schiuse alla mente tutto un complesso di problematiche e
rapporti che intercorre tra adulti e bambini del quale ignoravo completamente la natura.
Anche di questo posso ringraziare, ora, quell’atipica aggregazione di esseri umani.
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CAPITOLO III
DEMOCRAZIA DIRETTA
Erano trascorsi una quindicina di giorni dal mio arrivo alla comunità. L’estate
proseguiva magnificamente il suo corso, regalando splendide giornate di sole. Di giorno,
certo, i quasi quaranta gradi all’ombra si facevano sentire tutti, nonostante l’effetto
mitigante prodotto dalle estensioni boschive circostanti. Di sera però si godeva una
frescura così piacevole che aveva l’effetto di produrre, in tutti gli abitanti, una palpabile
voglia di vivere in allegria. Quella sera si stavano organizzando i preparativi per una festa
in piazza Gandhi. C’erano molti volenterosi che si prodigavano a disporre grossi tavoli di
legno ai margini della piazza per una cena all’aperto, nonché le attrezzature necessarie per
una nottata di musica e di danze. Ebbi il sentore che avrei rivissuto le suggestioni della
prima notte, quella che mi rapì all’ignaro vagabondaggio senza mete, e forse anche più
intensamente, ora che conoscevo la gente che mi aveva accolto, così interessante e
incredibilmente “deviante” dai canoni della normalità sociale, dai protocolli culturali
condivisi quanto meno da tutto il mondo occidentale. Ora avevo consapevolezza che quella
gente era assai più che stravagante nei costumi e nelle usanze, per effetto di un semplice
isolamento geografico, come si sarebbe potuto immaginare al primo impatto. Quella gente
era volutamente, razionalmente e profondamente fuori dal mondo, per una scelta dettata da
intelligenza e sensibilità particolari. Mi sentivo orgoglioso di condividerne, magari anche
solo per un breve periodo ancora, i modi di vita. Ora sapevo che il mondo avrebbe potuto
essere diverso da quello che conoscevo.
Mi aggiravo incuriosito nel caotico via vai di persone che affollavano la piazza per
allestire le attrezzature della festa. Non ebbi il tempo di offrire il mio aiuto manuale ai
preparativi. Una voce inconfondibile mi chiamò alle spalle.
“Hei, bel giovane, sei dei nostri questa sera?”
Ramona, con i capelli di un rosso ancor più fiammeggiante del solito perché
illuminati dagli ultimi raggi di sole, leggermente scompigliati dalla piacevole brezza serale,
fascinosa come e più del solito, eccitante nel suo gonnellino stretto e sfrangiato, comparve
dal caos alla stregua di un fulmine nella notte, provocandomi, come capitava ormai tutte le
volte che la incontravo, un sussulto al cuore. Il fatto che avesse acquisito l’abitudine di
salutarmi con l’appellativo di “bel giovane” mi imbarazzava e mi stizziva un pochino,
anche se cercavo di non darlo a vedere. Sapevo di non essere bello e nemmeno tanto più
giovane, anche se non sentivo affatto il peso dei miei quasi trent’anni. Quell’epiteto mi
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faceva sentire un ragazzino irresponsabile, però lasciai sempre correre, perché non scorsi
mai in esso alcuna intenzione denigratoria, ma solo bonario, scherzoso dileggio. Un po’ di
tempo dopo, venni a sapere con grande sorpresa e incredulità che la sua, questa sì,
indiscutibile bellezza fisica si conciliava con la matura età di quasi quaranta anni. E
pensare che, fin dal primo momento le avevo attribuito, senza mai dubitarne, grosso modo
la mia stessa età.
“Oh, salve!…sì, credo che non mancherò, anche se da un po’ di giorni sto pensando
che dovrei occupare le ore deliziose del dopo cena per scrivere qualcosa…”
“Beh, se cominci a scrivere un giorno dopo non credo possa crearti qualche
problema! Non sei d’accordo?”
“Ovviamente sì. D’altronde ho un’idea in testa che, col passare dei giorni, può solo
arricchirsi di dettagli utili.”
“Bene!….Se non sono indiscreta, potrei sapere di cosa si tratta? Semplice
curiosità…..”
Esitai qualche istante per trovare le parole giuste, anche se avevo già deciso di
metterne al corrente il centro organizzativo e forse lei stessa.
“Di voi….della vostra comunità. Devo confessarti che sono rimasto favorevolmente
colpito dalla vostra organizzazione sociale e mi è balenato il desiderio di farne un
resoconto, una sorta di rapporto da inviare al mio amico editore Mike. Non si tratta,
dunque, dei soliti racconti più o meno fantastici che mi hanno dato di che vivere fino ad
oggi. Mike è anche redattore di una rivista nella quale potrebbe trovare spazio tale genere
di elaborati, orientati ad illustrare fenomeni di rilevanza sociale e di attualità. Avrei chiesto
il vostro consenso prima di spedirlo e magari anche qualche utile suggerimento. Che ne
pensi?….Potrebbe disturbarvi questa iniziativa?”
“Al contrario. Non sei il primo che parla di noi. Qualsiasi cosa si dica sulla
comunità, di bene o di male, ci fa comunque piacere, perché dimostra che ciò che stiamo
costruendo non è qualcosa di insignificante. Temiamo assai di più l’indifferenza del mondo
esterno, il silenzio di una società imperturbabilmente refrattaria a qualsiasi stimolo
innovativo che ne possa intaccare la solidità costituita. Non che il nostro modo di vivere
abbia come finalità principale quella di influenzare il mondo circostante. Continueremmo
per la nostra strada pur rimanendo eternamente sconosciuti. Ma non possiamo negare che è
nostra speranza quella di poter costituire un esempio di convivenza alternativa rispetto alle
altre forme di società esistenti e diffuse in ogni angolo del pianeta. A parte ciò, nutriamo il
massimo rispetto per la libertà di chiunque di pensare e scrivere ciò che vuole su tutto ciò
che vuole, compresa la nostra comunità. Puoi tranquillamente scrivere di noi senza alcuna
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remora e senza alcun obbligo nei nostri confronti. Puoi non metterci al corrente dei tuoi
scritti, né tanto meno invitarci a leggerli. Anche se….., confesso, sarei curiosa di poterli
leggere.” Pronunciò queste ultime parole con un sorriso che tradiva appena, e solo per un
occhio attento come lo era il mio in quel momento, un lievissimo segnale di timidezza.
Colsi sul suo volto questa piccolissima crepa che contraddiceva la fermezza e sicurezza di
carattere dimostratami fino ad allora. Accompagnai la mia risposta con un sorriso
contenuto, che non so dire se riuscì a nasconderle l’intimo senso di riconoscenza che
provai nei suoi confronti.
“Sarai la prima a prenderne visione, puoi starne certa. Anzi, esigerò il tuo
incondizionato giudizio sui miei scritti, prima di farne una e-mail per l’amico Mike.”
“Ti posso rapire per qualche minuto alla piazza?”
La fissai con sguardo interrogativo.
“Sì, intendo dire, hai qualche minuto da concedermi? Vorrei farti vedere una cosa
sorprendente, una cosa che di sicuro ti esalterà”.
“Di cosa si tratta?”
“Devi fidarti, è una sorpresa. Se te lo dicessi penseresti che sono pazza, o una
romanticona d’altri tempi. Prima vedere, poi giudicare. Ma dobbiamo muoverci, c’è poco
tempo.”
Mi prese per la mano, mi lasciai trascinare senza resistere e senza chiedere altre
spiegazioni.
Un tramonto. Semplicemente un tramonto. Ma che tramonto! Una grande palla
rossa sembrava posarsi, in un incastro perfetto come se fosse stato preordinato, in fondo ad
un’ampia vallata che termina tra due pendii rocciosi contrapposti l’uno a l’altro. Il sole era
perfettamente circoscritto dai due pendii e, in basso, dalla parte terminale della vallata che
si restringe ad imbuto e sparisce nel vuoto come mangiata dal sole stesso. L’effetto era
dovuto al fatto che, la strettoia finale della vallata, è più elevata di quota rispetto al punto
di visuale in cui ci trovavamo e nascondeva la linea d’orizzonte. Un piccolo fiume scende
dalla strettoia e attraversa per lungo la prateria della valle. Un intenso mantello boschivo è
adagiato sui declivi laterali. Il tutto, quella volta, si costellava di riflessi infuocati che
creavano un paesaggio surreale da fiaba. Qui mi aveva condotto. Questa la sorpresa.
Sedevamo vicini su una roccia bianca calcarea, accanto al fiumiciattolo che scorreva
tranquillo ed emetteva solo un mormorio sommesso. Prima di allora non avrei mai
immaginato che un tramonto potesse suggestionarmi fino a tal punto. Ero davvero
esterrefatto. Rimasi per alcuni minuti in assoluto silenzio stordito dallo scenario, mentre il
sole sprofondava a vista d’occhio come inghiottito dalla terra. Poi iniziammo a discorrere
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con
una
pacatezza
che,
verosimilmente,
era
indotta
da
quell’ambientazione
particolarissima. Fui io a prendere per primo la parola, e parlai trascinato dal desiderio di
denudarmi dolcemente.
“Non riesco ancora a capacitarmi di come possa esistere qualcuno in grado di
resistere al fascino del denaro, meglio ancora, di ignorarlo completamente, come fate voi
comunardi. Sai spiegarmi come è possibile? Il Dio denaro impera ovunque, e ovunque
impone le sue leggi. Ogni attimo, ogni azione della vita di ciascuno nel mondo, che lo si
dica oppure no, è valutato in termini monetari, sulla base della sua capacità di generare
costi e ricavi. Qui da voi, questo, incredibilmente, non succede. Come è possibile?”
“E’ possibile….è possibile!….ed è assai meno impensabile di come tu sembri
credere. Tu stesso, nonostante viva in un mondo dominato dal Dio denaro, come sostieni,
in realtà non sei poi così attratto da questo Dio. Lo dimostra non soltanto il fatto che hai
deciso di fermarti qui da noi, spero per un lungo tempo, ma anche il tuo modo di vivere da
scrittore girovago che trascura di capitalizzare le proprie risorse, di usufruire di agiatezze e
benessere, che si accontenta di vivere ora in una pensioncina di provincia, ora in un
pagliaio, ora sotto le stelle, pur di non perdere il contatto con la gente, pur di non
rinunciare a conoscere le persone di ogni angolo sperduto del pianeta. Credimi, sei più dei
nostri che schiavo del Dio denaro.”
“Oh…ma io non disdegno il denaro. E se ne avessi un po’ di più, credo che mi
concederei anche qualche lusso in più. Forse non starei nemmeno a girare per il mondo…”
“Credi questo o quello…forse faresti questo o quello….Di fatto, ora, sei qui con
noi. Stai contemplando questo tramonto e questo paesaggio senza riflettere su come
poterne trarre profitto. Ciò che forma l’uomo non è soltanto la sua natura individuale, la
sua disposizione genetica, ma sono anche le condizioni oggettive, le situazioni e gli esseri
che incontra, le realtà nelle quali vive, dalla nascita in poi. In altre parole, l’uomo non è
‘cattivo’ in sé. Non ho mai creduto che la lotta per l’esistenza – quella che tutti gli animali,
compreso l’uomo, attuano quotidianamente dai tempi della vita sulla terra – debba
necessariamente significare lotta di tutti contro tutti. L’uomo è egoista, questo è ovvio. E’
naturalmente predisposto a migliorare le proprie condizioni di vita e quelle dei propri
consanguinei. Ciò però non significa che lo debba fare per forza di cose a scapito di
qualcun altro. Non sta scritto in nessuno dei suoi geni, almeno fino a prova contraria, che
egli debba nascere, crescere e realizzarsi inevitabilmente a danno o detrimento dei suoi
consimili. Può farlo benissimo in sintonia e in concordia con tutti gli altri e….”
“Sì…anche se non sono un esperto studioso delle dottrine sociali, conosco, magari
superficialmente, il pensiero libertario e socialista. Sono davvero desiderabili le forme di
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organizzazione sociale che propugnano. Ma…è questo il punto che ritengo fondamentale...
come spieghi che, nonostante la bellezza, la grandiosità, sotto certi aspetti, delle idee che
perseguono obiettivi di uguaglianza, libertà, pace, comunismo e fratellanza, da millenni,
praticamente da che esiste l’uomo, le società che si sono costituite in ogni parte del mondo
non hanno mai saputo realizzare qualcosa che fosse assai vicino a quelle idee, che
rappresentasse una concretizzazione di quegli ideali? A parte gli esperimenti, se così
possiamo chiamarli, che hanno visto la luce negli ultimi secoli trascorsi, tutti miseramente
falliti, spesso finiti in tragedia, comunque ben lontani dal costituire esempi riusciti di
socialismo….credo che su questo tu concorderai con me….No, aspetta!” – stava per
prendere la parola ma non glielo permisi, volevo essere sincero fino in fondo – “…lasciami
finire. Ecco…non credere che non sappia riconoscere l’importanza e la grandezza di ciò
che voi stessi state compiendo, costruendo una comunità di uomini liberi ed eguali. Anzi,
sono così convinto della straordinarietà del vostro modo di vivere che, ti posso assicurare,
da quando sono qui, tutta la visione del mondo e della vita che mi ha assistito nei trent’anni
trascorsi si è di colpo frantumata in mille pezzi. Sono stato investito da dubbi e incertezze
laceranti, sto subendo dei conflitti interiori che forse non puoi nemmeno immaginare.
Ma….un interrogativo continua a perseguitarmi più degli altri. Lascia che te lo
confessi…non prenderla a male se sarò così nudo e crudo….Quanto durerà? Sì…la
comunità…per quanto tempo ancora sopravvivrà? In fin dei conti è un granello di sabbia
nel deserto. Quanto resisterà nella società globale del XXI secolo, accerchiata da
organizzazioni possenti, strutture planetarie, modelli di vita diffusi e radicati, frutto di
millenni di storia?”
Cercai di capire dai suoi occhi se le avessi prodotto un dispiacere, una delusione, un
disappunto, insomma qualsiasi emozione sgradevole. Non avevo saputo tacere, proprio per
onestà nei suoi confronti, il dubbio che avevo dentro. Ma non trovai i suoi occhi. Rimasero
fissi a scrutare le calde trasparenze del fiumiciattolo che scendeva pigro nella valle
inebriata di fuoco. Rimasero così per alcuni lunghi secondi. Anche senza poter scrutare in
essi, intuii amaramente, in quella pausa silenziosa e dilatata, il male che le avevo fatto.
Avrei voluto rimangiarmi tutto, ma era troppo tardi, non sarei stato più credibile. Riprese a
parlare senza distogliere gli occhi dal fiume.
“Se osservi attentamente lungo le rive del fiume e se hai la pazienza di cercare, nei
tratti ove delle pozze si formano al riparo della corrente, potrai scorgere dei piccoli
crostacei…sono gamberi, più piccoli ma molto simili a quelli di mare. Questi graziosi
animaletti non sanno, non possono sapere, se un’improvvisa variazione nel regime delle
acque sopraggiungerà prima o poi a devastare il loro habitat e a trascinarli chissà dove.
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Non possono sapere se e quando finiranno in bocca di qualche pesce o nelle padelle di
qualche pescatore buongustaio. Vivono la loro vita, finché il destino glielo concede, e nulla
più. Non possono, non sanno fare altrimenti e non cessano di farlo…- si volse di nuovo
verso di me, fissò i miei occhi, continuò a parlare con tono disincantato, velatamente
melanconico - ….per noi è la stessa cosa. Il mistero è padrone anche delle nostre vite, pur
se di norma ci illudiamo di aver pieno controllo sul presente e magari sul nostro prossimo
futuro. E se si fa beffe della nostra ottusa sicurezza, proprio in quanto mistero, non può
distruggere mai, fino in fondo, la speranza. E’ l’incertezza, per quanto possa rimanere
adombrata o misconosciuta, l’autentica dimensione nella quale si consumano, giorno dopo
giorno, tanto le nostre debolezze quanto la nostra volontà di continuare ad esistere, ed entro
la quale si dipana l’irreversibile tracciato della vita di tutti. E sottolineo tutti, di noi
comunardi quanto degli abitanti che popolano quella che tu chiami società globale, quasi a
metterne in luce la potenza e l’indistruttibilità. In realtà nulla è indistruttibile. Durante
l’evoluzione della vita sulla terra, sono state spazzate via migliaia di specie viventi, anche
quelle rimaste per lunghissimi tempi dominatrici incontrastate e apparentemente
invincibili. Durante la più limitata storia dell’uomo sono state spazzate via innumerevoli
civiltà, anche quelle più potenti e, per lunghi periodi, padrone di vastissimi imperi.
Talvolta succede, invece, tanto nell’evoluzione della vita quanto nella storia dell’uomo,
che piccole e apparentemente insignificanti variazioni possano innestare rivoluzioni e
sconvolgimenti inimmaginabili fino a quel momento. In fin dei conti, se ci pensi bene,
nulla esclude la possibilità che la specie di gamberi di cui ti stavo parlando, e che ad una
considerazione superficiale potrebbe essere giudicata effimera e debole, riesca a
sopravvivere alla specie umana nell’evoluzione della vita. Noi comunardi, come quei
piccoli crostacei indifesi, continuiamo ad essere ciò che siamo, perché non sappiamo far
altro che quello che facciamo. Nulla esclude che il nostro modo di vivere possa
improvvisamente imprimere una svolta al corso della storia, infierire un colpo mortale alla
società dell’egoismo, della violenza, della sopraffazione. Così, comunque, ci piace pensare.
In questa possibilità ci piace sperare….anche se, lo so, agli occhi del mondo esterno,
probabilmente anche ai tuoi occhi, non siamo che illusi sognatori.”
Senza staccarmi lo sguardo di dosso, rimase in silenzio in attesa di una replica.
Quello sguardo mi pesava come un macigno e non ebbi il coraggio di incrociarlo. Fissavo
lo spicchio di sole rimasto che non era più capace di infuocare la vallata, le sagome scure
delle cornacchie che si alzavano in volo a stormi gracchiando tra gli ultimi bagliori del
giorno. Provai per la prima volta un senso di aridità, di vuoto nella mia esistenza. Il suo
discorso aveva messo a nudo la mia povertà di ideali. E sì che la scelta di vagabondare da
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solitario artista in cerca di ispirazioni per le mie creazioni letterarie, mi aveva sempre fatto
sentire orgoglioso di me stesso, addirittura forse un uomo troppo idealista. Ma cosa erano i
miei ideali rispetto a quelli di Ramona? Cosa era la mia vita rispetto a quella di quei
coraggiosi e semplici comunardi dedita a costruire un mondo di fratellanza e generosità?
Non so quanto tempo rimasi in silenzio sotto il suo sguardo impietoso senza trovare un
straccio di risposta da darle. Tutto ciò che mi frullava in testa mi sembrava qualcosa di
inappropriato, insufficiente, banale, da contrapporre alle sue argomentazioni così semplici
e allo stesso tempo così profonde. Il sole finì di precipitare sotto la linea dove la vallata si
strozza e sembra sparire nel vuoto. Alla fine mi lasciai sfuggire poche parole che non erano
frutto di una riflessione, ma solo di uno stato d’animo, mentre le lunghe ombre delle cose
si confondevano le une con le altre nel grigiore generale che cancellava i colori e
annunciava il crepuscolo.
“Vorrei poter essere un sognatore come te, Ramona…”
“Ci riuscirai…. insieme a noi ci riuscirai, vedrai!”
Pronunciò queste parole con un sorriso appena accennato, che non sapeva
nascondere i tratti della mestizia. Non so perché il suo volto mi ricordò l’espressione che
assunse mia madre quando un giorno, da piccolissimo, le domandai se sarei anch’io
diventato grande, ed ella mi rispose: “Certo che lo diventerai….presto lo diventerai!”
Mi trattenei solo un paio d’ore, compreso il tempo per consumare un gustoso
arrosto di lepre, insieme a tutti gli altri, nella festa che si svolse poco dopo in piazza
Gandhi. Ebbi modo di conoscere nei dettagli i progetti di Tenton e di suoi coetanei per
realizzare, a breve scadenza, un laboratorio per la produzione della birra. L’entusiasmo per
quell’idea che, a suo dire, era così prossima a concretizzarsi, sprizzava dai suoi occhi ad
ogni parola impiegata per illustrarla. Mi soffermai anche a discutere con Jonathan che volle
assolutamente sapere se mi trovavo a mio agio tra i ragazzi o se, invece, non avessi
preferito lasciar perdere. Lo rassicurai che trovavo assai interessante quell’esperienza e
che, fino a quel momento, non mi era sembrata affatto faticosa o stressante. Su questo
ultimo punto non dissi proprio il vero, gli propinai una piccola bugia per evitare di
offenderlo. Parlai qualche minuto anche con Manolo, che mi rese edotto circa certi aspetti
di pianificazione territoriale che non aveva affrontato durante il nostro primo colloquio.
Ebbi qualche minuto di tempo anche per accarezzare Sciark che, satollo da scoppiare, se ne
stava sdraiato a godere la frescura del terreno e a far fronte ad una laboriosa digestione,
mentre un’affascinante coreografia di danze stava prendendo corpo ispirata da
un’indescrivibile creatività musicale della band. Poi, facendo uno sforzo per non rimanere
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intrappolato da quell’atmosfera di abbandono ludico e sensuale, feci ritorno all’unità
abitativa deciso a rimettere all’opera il computer portatile, lasciato a lungo inerte.
Jonathan, prima di andarmene, mi invitò per la sera successiva a partecipare all’assemblea
ordinaria della comunità, che si sarebbe tenuta in un’apposita aula nei pressi del centro
organizzativo. Accolsi con piacere l’invito e, finalmente, potei dedicare qualche ora per la
stesura del mio primo resoconto sull’organizzazione sociale di quella meravigliosa gente
che mi ospitava. Le musiche e il vocio di festa mi tennero compagnia in sottofondo ancora
per molto, poi solo il silenzio della notte restò ad ispirare i miei scritti. Conoscevo molto
bene le abitudini del mio amico editore Mike; sapevo che amava intrattenersi fino a notte
fonda sul suo computer per visionare e meditare su progetti e programmi di lavoro. Lo
rintracciai telefonicamente e decidemmo di connettersi nella nostra abituale chat audio e
video, come spesso avevamo fatto in passato. Si mostrò contento di rivedermi, seppur in
immagini virtuali, e anche un po’ sorpreso dal fatto che mi ero reso irreperibile da un certo
tempo. In effetti, non solo non avevo più messo mano sul mio p.c., accumulando di
conseguenza una valanga di e-mail rimasta non visionata, ma, da quando mi trovavo alla
comunità, avevo anche trascurato di tenere acceso il cellulare. Gli spiegai per sommi capi
la mia situazione attuale e lo informai sul proposito di iniziare una serie di articoli sulle
modalità e i costumi di vita di questo angolo sconosciuto di mondo che mi ospitava. Si
dimostrò interessato all’idea, invitandomi a spenderci del tempo, pur consigliandomi di
non interrompere la vena narrativa che avevo da sempre coltivato. Chiacchierammo per
una buona mezz’ora, scherzando anche amichevolmente. Mi salutò pregandomi di
contattarlo con più assiduità. Il resto della notte, fino quasi all’alba, lo impegnai
produttivamente per elaborare il primo della serie di articoli che, di fatto, riuscii a produrre
durante tutto il periodo di permanenza alla comunità. Il giorno dopo le scuole non
avrebbero aperto per riposo settimanale e, quindi, non dovevo preoccuparmi di destarmi la
mattina presto. Mi coricai solo quando il grado di concentrazione scemò a tal punto da
pregiudicare la chiarezza concettuale e la stessa capacità di digitare le lettere sulla tastiera.
Mi svegliai a mezzogiorno circa, infastidito dagli schiamazzi dei bambini e quasi
soffocato dal gran caldo. Trascorsi la giornata nell’inerzia quasi totale, trastullandomi a
lungo su un’amaca da me collocata fuori dell’unità abitativa, all’ombra di frondose querce.
Ogni tanto salutavo qualcuno che avevo avuto modo di conoscere e che passava nei pressi.
Anche qualche ragazzo della mia classe mi rivolse, volando in sella ad una bicicletta, un
fugace ma affettuoso “ciao professore!” che mi fece assai piacere. La mente era
completamente sgombra da qualsiasi pensiero, a parte qualche piccolo flash alle parole e al
volto di Ramona del giorno prima, apprezzati durante lo spettacolare tramonto. Poi, verso
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sera, sentii crescere dentro di me una certa curiosità per l’assemblea cittadina, fissata per il
dopo cena, alla quale ero stato invitato. Non avevo la minima idea di come si sarebbe
svolta e, indubbiamente, mi interessava sapere come fosse possibile che un’intera comunità
riuscisse, mediante un tale organismo, a indirizzare e gestire tutta la propria vita collettiva,
tanto i rapporti sociali quanto le attività produttive.
Giunse, finalmente, il momento. Dopo una frugalissima cena a base di verdure
coltivate in loco e un paio di bicchieri di buona birra, anche se ancora di importazione,
come mi aveva sottolineato la prima sera Tenton, mi recai spedito al luogo ove si
svolgevano normalmente le assemblee. Mi dissero che si preferiva svolgerle nella stessa
aula al chiuso anche d’estate, nonostante il caldo, per evitare i disturbi dei bambini, che
non ne volevano sapere di andare a dormire prima degli adulti, ed altri fattori di
distrazione. Era considerato un momento estremamente serio quello dell’assemblea,
giustamente, dato che dal corretto funzionamento di essa dipendevano le sorti della
comunità. Entrai nella bellissima e grossa aula, che poteva contenere, magari un po’
stipate, fino a circa duecento persone, quindi gran parte della popolazione adulta presente
in comunità. Tre spettacolari capriate in legno, che non avevano nulla da invidiare alle più
ardite architetture moderne in cemento armato o in ferro, sostenevano l’elegante trama di
travi che correvano perpendicolarmente ad esse e sulla quale poggiava la copertura dello
stabile. Le pareti, alte sei o sette metri, erano affrescate con figure e componimenti grafici
di assoluta originalità e di non facile interpretabilità, dunque per nulla ispirati ad una
esplicita retorica populista, come era facile e anche lecito attendersi. Vari lucernari,
collocati tra le travi del soffitto, e ampie feritoie nella parte alta delle pareti, raggiungibili
da stretti percorsi con balaustra appoggiati in soppalco alle mura perimetrali, garantivano
l’illuminazione solare e l’aerazione dell’ambiente. Due grossi lampadari pendenti dal trave
centrale della soffitta, distribuivano a sufficienza la luce artificiale in ogni angolo del
salone. L’aspetto che invece lasciava un po’ a desiderare, era quello dei posti a sedere,
organizzati in file parallele di lunghe panche in legno rozzamente lavorate, assai
somiglianti a quelle che arredavano chiese di campagna d’altri tempi, che non
consentivano certo un comodissimo intrattenimento. Evidentemente si era preferito
privilegiare l’aspetto quantitativo delle adunanze, garantire la massima capienza di
partecipanti, piuttosto che quello dell’agiatezza della permanenza. In effetti, la sala era già
quasi colma e l’afflusso di persone continuava ininterrottamente. I posti a sedere si stavano
esaurendo e presto sarebbero rimasti solo posti in piedi. Mi sedetti in fondo alla sala al
limite esterno di una panca, accanto ad una signora anziana che stava borbottando qualcosa
tra se e se. Era scontenta e irritata per qualche aspetto poco gradevole dell’adunanza, ma,
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nel brusio generale, non riuscivo a comprendere di cosa si trattasse. Me lo chiarì lei stessa.
Mi strinse il braccio con la sua piccola manina rugosa e, accostando il volto al mio
orecchio, quasi urlò per farsi capire:
“Hei, giovanotto….ti pare giusto, con questo caldo, fare le assemblee al chiuso, in
una bolgia infernale tale?….mi dispiace ma, la prossima volta, se sarà ancora così caldo,
me ne resterò all’aria aperta a scolarmi un boccale di birra.”
Assentii con un cenno della testa sorridendo e continuai a spaziare con lo sguardo
su ogni angolo della sala, scrutando incuriosito le facce dei presenti e di chi stava ancora
affluendo. Scorsi persone di ogni età, dai giovanissimi di 17- 18 anni agli ultrasettantenni,
maschi e femmine con una leggera preponderanza dei primi, di diverse razze tra le quali,
abbastanza nutrite, quella nera e quella asiatica. Una rappresentanza significativa
dell’eterogeneità umana che, agli occhi di un estraneo capitato lì per caso, avrebbe potuto
lasciar pensare ad una conferenza internazionale su temi di interesse universale. E invece si
andava discutendo degli aspetti socio-organizzativi di una piccola comunità di uomini, la
cui esistenza non era segnalata nemmeno da un puntino sulle più dettagliate cartine
geografiche.
Dietro ad un lungo tavolo, leggermente rialzato da una pedana rispetto alle file di
panche e situato all’estremo lato opposto dell’entrata e a ridosso della parete, sedevano due
donne di mezza età e un anziano con barba e capelli totalmente bianchi. Presto compresi
che si trovavano a quel posto per fungere da moderatori di turno.
“Quelli che sono in piedi…per favore, si siedano! C’è ancora qualche posto. Quelli
già seduti si stringano un po’. Chi dovesse rimanere senza posto è pregato di mettersi nei
corridoi laterali. Così cominciamo!” Con voce autorevole parlò al microfono una delle due
donne sedute al tavolo, facendo risaltare l’ottima qualità di diffusione acustica della sala.
“Bene.” – proseguì la stessa donna dopo qualche minuto – “Possiamo cominciare.
Leggo l’ordine del giorno stabilito nella precedente assemblea….dunque….al primo punto
c’è il problema dell’eventuale cessione in uso della sorgente di ‘Valle Alta’ alla cittadina di
Green Village; al secondo c’è quello della sanatoria fiscale concessa dallo Stato ad
estinzione della controversia sul mancato pagamento delle imposte; al terzo quello
dell’estensione dell’area fabbricabile in direzione nord-est a ridosso dell’abetaia d’alto
fusto; al quarto quello della localizzazione del laboratorio per la produzione della birra;” non potei fare a meno di cercare gli occhi di Tenton per misurarne il grado di
soddisfazione, ma invano, in quanto mi voltava le spalle da una panca delle prime file – “al
quinto quello dell’elezione del nuovo comitato di gestione della biblioteca pubblica; al
sesto, infine, quello dell’eventuale produzione del nuovo processore informatico ‘Mind
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3000’, per consentirne un’esportazione limitata in favore di aziende selezionate nazionali
ed estere. Se qualcuno vuole proporre l’aggiunta di altre questioni di discussione si faccia
pure avanti….dopodiché avvieremo la trattazione del primo punto.”
A questo invito seguì un leggero diffuso brusio nell’aula come se i presenti si
stessero consultando per avanzare proposte di aggiunte di nuovi punti all’ordine del giorno.
La situazione si prolungò per qualche minuto, quindi intervenne di nuovo la moderatrice.
“Credo sia opportuno, a questo punto, dare inizio….”
“Un momento….un momento….Rose Mary!”
Un signore anziano, da una fila di mezzo, interruppe Rose Mary, come si chiamava
la moderatrice, alzandosi in piedi.
“Prego, Karl, vieni pure al microfono.”
“Non c’è bisogno, Rose, posso farmi capire anche da qui senza microfono.” In
effetti aveva una voce possente che si lasciava intendere perfettamente. “Stavo discutendo
con alcuni dei presenti se non fosse il caso di anteporre al primo punto un celere resoconto,
da parte di chi ne sappia qualcosa di preciso, su….sì, su quello che chiamano ‘il
predicatore’. E’ da molti giorni che serpeggia, in comunità, una viva curiosità per questo
fantomatico personaggio. Io, confesso, sono altrettanto incuriosito. D’altronde non credo
che ruberemo molto tempo…è questione di pochi minuti…”
Questa richiesta, che non colse affatto di sorpresa gli astanti, ne procurò tanta
invece a me, che ero totalmente all’oscuro di chi fosse tale “predicatore”. Intervenne l’altra
donna che sedeva accanto a Rose, l’altra moderatrice.
“Non credo sia il caso, Karl. I primi due punti sono di vitale importanza, tu lo sai.
Se non si facesse in tempo, questa sera, a trovare concrete soluzioni per essi, rischieremmo
conseguenze imprevedibili, sicuramente dannose per la vita di tutta la comunità. Propongo
di affrontare l’argomento del predicatore alla fine, dopo aver esaurito gli altri, più urgenti,
problemi.”
Scaturì un vivace quanto caotico confronto tra molti dei presenti in aula, che mi
lasciò alquanto perplesso e del quale compresi ben poco, per via del fatto che non ero in
possesso di sufficienti informazioni per ponderare l’importanza dei vari argomenti. Alla
fine ci si accordò, con buon senso di moderazione e mediazione da parte di tutti, nel porre
al terzo punto dell’ordine del giorno l’argomento del predicatore.
In effetti, i primi due punti si rivelarono estremamente seri. La richiesta
formalmente inoltrata da parte della cittadina di Green Village di poter acquisire l’uso della
sorgente di “Valle Alta”, sita nel territorio di proprietà della comune, pesava, di fatto, assai
più di una semplice richiesta alla quale si potesse, con assoluta indifferenza, acconsentire
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oppure rispondere con un gentile diniego. La richiesta era motivata da una dichiarata
carenza d’acqua potabile dovuta ad una imprevista crescita della popolazione della
cittadina nell’ultimo decennio e per la quale si dimostravano insufficienti le risorse
acquifere locali. Non solo era in gioco la rispettabilità dei comunardi, che venivano
chiamati a dimostrare la propria solidarietà civica nei confronti di una popolazione
confinante in difficoltà. Ma, in caso di un pur motivato rifiuto alla cessione, si correva il
concreto rischio di un intervento statale di esproprio della sorgente, per la cui messa in
opera si rivelava facile accampare l’alibi dell’emergenza sociale. La comune - e i suoi
abitanti ben lo sapevano - era mal tollerata tanto dalle cittadine confinanti, quanto dagli
organismi statali, per una serie ovvia di motivi. Bisognava essere cauti nel fornire qualsiasi
pur piccolo motivo che potesse giustificare interventi delle istituzioni governative nella
vita della comunità e che avrebbero potuto minacciare la sua stessa sopravvivenza. Perciò
la discussione sul punto si protrasse per più di un’ora, nella quale si confrontarono, anche
aspramente, posizioni irriducibili di chi non intendeva accettare alcun compromesso e
scorgeva nella richiesta un camuffato tentativo di defraudazione e di ostacolazione ai danni
della comunità, che andava respinto senza esitazione, con posizioni moderate e dettate dal
buon senso di evitare ogni attrito con la società esterna, che proponevano di
accondiscendere tout court alla richiesta. Fino a quel momento la comunità non aveva mai
avuto problemi di acqua. Le altre due sorgenti di cui disponeva erano sufficienti a
soddisfare il fabbisogno di tutti, anche nel periodo estivo. Ma un non esagerato
atteggiamento precauzionale avrebbe potuto consigliare di salvaguardare anche la sorgente
di Valle Alta per far fronte ad eventuali stagioni estive particolarmente siccitose, non certo
impossibili e nemmeno improbabili. E soprattutto, la cessione in uso di Valle Alta avrebbe
potuto compromettere la futura espansione della comunità o anche soltanto l’introduzione
di nuovi impianti industriali o artigianali che abbisognassero di consistenti erogazioni di
acqua.
“Perché dobbiamo compromettere il nostro futuro per evitare inimicizie con i vicini
o per la paura di subire possibili ritorsioni statali? Non possiamo soccombere a questi
velati, ignobili ricatti, solo per opportunismo, per garantirci un quieto vivere che,
d’altronde, verrebbe di certo messo in discussione dal prossimo ignobile ricatto. Dobbiamo
respingere questi subdoli attacchi fin da subito, se non vogliamo essere costretti a subirne
di continuo in futuro.” Così si espresse un giovane, dal volto teso e crucciato, gridando dal
proprio posto in fondo all’aula e riscotendo un discreto credito tra i presenti. Ciò che disse
costituiva grosso modo la sintesi delle argomentazioni dello schieramento degli irriducibili,
formato per lo più da giovani e giovanissimi fortemente motivati e idealisticamente
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ricalcitranti ad ogni transazione. Al giovane rispose, con avvedutezza e senso della misura,
Jonathan, assai stimato da tutta la comunità.
“Le tue ragioni ideali, George, sono indiscutibili. Tutti sappiamo quanto il potere
sia subdolo e insidioso. E tutti sappiamo quali siano i rischi che corriamo sia accettando
che rifiutando la richiesta. Anche per me i motivi di opportunismo avanzati da taluni
difettano proprio di quel realismo che pretenderebbero di dimostrare. Se, come tutti
sospettiamo, le ragioni della richiesta nascondono altre motivazioni oltre quella del
bisogno di acqua puro e semplice, certamente seguiranno in futuro altre richieste e ci
troveremo a dover prendere decisioni anche più delicate di questa…” - seguì un forte
scroscio di applausi da parte dell’ala più oltranzista – “…..ma ritengo….vi prego di non
applaudire….ritengo anche che vi siano buone ragioni per non rifiutare troppo
frettolosamente un’intesa coi nostri vicini. Chi ci dice che non sussista una situazione di
effettiva precarietà idrica a Green Village? Come possiamo negare a priori la nostra
solidarietà alla gente che vive nella cittadina? – un significativo silenzio si impossessò di
colpo della grande sala - Qui sono in discussione proprio i nostri migliori ideali di vita,
quelli che pretendono da noi l’aiuto, il sostegno e la solidarietà disinteressata per tutti i
popoli del mondo, in particolare quelli bisognosi. O forse ci siamo dimenticati di questi
nostri ideali?”
Proseguì il silenzio nell’aula per alcuni lunghi minuti, dopo che Jonathan aveva
lasciato il microfono ed era tornato al sua posto in una panca. L’intervento di Jonathan era
risultato determinante, aveva suggerito un momento di autentica riflessione, svincolata da
posizioni preconcette. Il carisma di cui quest’uomo godeva e la capacità mediatrice di
alcuni dei più anziani comunardi riuscirono, come di consueto sembra riuscissero, stando
alle informazioni da me ricevute, a rasserenare il confronto e a rafforzare lo spirito di
collaborazione, smussando certi atteggiamenti esuberanti ed estremistici. Alla fine prevalse
la concordia e si raggiunse l’unanime consenso su una proposta avanzata da una giovane
insegnate, che avevo avuto modo di notare all’interno degli edifici adibiti alla didattica
scolastica. La proposta, ovviamente, accontentava un po’ tutti, perché, nel contempo,
dimostrava la generosità della comunità ma anche la sua decisione a salvaguardare i propri
interessi e la propria dignità. Essa consisteva nel sottoporre un accordo scritto ai
rappresentanti legali della cittadina di Green Village, nel quale si concedeva l’uso, per
giunta gratuito, della sorgente di Valle Alta, ma alla condizione che, in caso di necessità
futura e per qualsiasi ragione la comune lo avesse ritenuto opportuno, la priorità dell’uso
della sorgente sarebbe tornata ad essere automaticamente della comune medesima. Inoltre,
una piccola porzione della portata complessiva della sorgente, sarebbe rimasta comunque e
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sempre disponibile per soddisfare eventuali surplus di richiesta da parte dei comunardi,
possibili nei periodi estivi.
Il secondo punto all’ordine del giorno era altrettanto, se non più, delicato del primo,
in quanto implicava un serio punto di attrito con gli organi governativi, in particolare con il
Ministero delle Finanze e del Tesoro. Se lo Stato aveva deciso di soprassedere e far finta di
niente, per ragioni di immagine e opportunismo, di fronte all’esistenza di una aggregazione
di uomini che gestiva la propria vita sociale facendo a meno di organismi istituzionali
locali, quali articolazioni dell’apparato statale nazionale, non poteva però consentire, per
altrettante ragioni di immagine, che dei cittadini del proprio territorio non pagassero le
tasse. Una deroga in tal senso, per quanto giustificata dall’eccezionalità della posizione dei
beneficiari, avrebbe costituito un pericoloso precedente per tutti gli altri cittadini del paese,
avrebbe potuto suscitare proteste o, peggio ancora, tentativi di emulazione da parte di altre
aggregazioni umane, soprattutto da parte di piccoli villaggi rurali dove il peso dell’autorità
statale è avvertito in modo attenuato, come un remoto richiamo percepito attraverso l’eco.
Perciò aveva più volte intimato alla comunità, con una procedura del tutto anomala ma atta
a salvaguardare la sovranità statale di fronte all’opinione pubblica, di emettere una quota
tributaria forfetaria e complessiva, ogni anno calcolata sulla base della forza lavoro
impiegata in attività produttive e formalmente dichiarata. Una sorta di dichiarazione
collettiva dei redditi della quale la comunità si sarebbe dovuta far carico, per ovviare agli
effetti di legge previsti per l’evasione fiscale. Per quanto riguarda gli anni già trascorsi,
quattro dal momento della costituzione della comunità, lo Stato aveva invece
“generosamente” offerto una sorta di sanatoria, della quale si sarebbe potuto usufruire
erogando un tributo una tantum entro termini e modalità concordati. Tutte le varie
intimazioni perpetrate, ovviamente, erano state accompagnate da velate minacce repressive
per mezzo degli organi di polizia preposti. Fino a che punto lo Stato si sarebbe potuto
spingere era difficile da pronosticare, in caso non si fosse ottemperato alle intimazioni. Di
certo la questione era estremamente seria, dal mio modo di vedere addirittura
preoccupante. Ma non tutti i presenti all’assemblea la vedevano alla stessa maniera e, come
per il punto precedente, si sviluppò una discussione, a tratti assai accesa, tra diverse
posizioni. Anche in questo caso si confrontarono atteggiamenti e valutazioni
diametralmente opposte: da una parte c’era chi proponeva di respingere senza
tentennamenti le varie intimazioni subite e, dunque, di rifiutare il pagamento di qualsiasi
tributo, riferito tanto al passato quanto al presente e al futuro. La comunità, nei suoi
principi fondanti e unanimemente accettati, non riconosceva alcuna autorità al di là della
propria assemblea cittadina e contrastava tutte le forme di sfruttamento e oppressione.
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Pertanto non poteva accettare alcuna coercizione esterna, anche a costo di dover
intraprendere ogni tipo di battaglia per difendere la propria completa autonomia dal mondo
circostante. Questa era, evidentemente, la posizione più intransigente, arroccata sulla difesa
ad oltranza degli ideali libertari. La più coerente, forse, ma probabilmente anche la più
velleitaria e rischiosa. Attraverso una serie di sfumature, le altre posizioni si estendevano
fino a quella esattamente opposta, per la quale, al fine di salvaguardare l’esistenza stessa
della comunità e garantirle un futuro, sarebbe stato necessario assecondare, almeno per un
certo tempo, le pressioni statali, magari puntando unicamente a minimizzarne l’onerosità
delle pretese, contrattando energicamente sull’entità dei tributi da pagare. Era questa,
almeno apparentemente, la posizione più realistica, che prendeva atto dell’impossibilità di
opporsi, al momento attuale, in maniera vincente contro il mastodontico apparato statale,
rimandando perciò lo scontro frontale a più propizi momenti futuri, quando la rete
internazionale di comunità libertarie si fosse sufficientemente rafforzata da divenire una
realtà non più sopprimibile. Il dibattito, a tratti degenerato in scontro aperto, tra le diverse
anime dell’assemblea, si protrasse a lungo, ben oltre la mezzanotte. La stanchezza
cominciava a farsi sentire e la tentazione di aggiornare la discussione alla prossima
assemblea a serpeggiare. Ma alla fine, per merito della capacità dialettica dei personaggi
più influenti, come nel caso del primo punto, si riuscì a concordare una soluzione che,
seppur non ebbe la capacità di accontentare tutti allo stesso modo, ristabilì comunque un
certo livello di concordia, più simile, per la verità, a una tregua momentanea tra le correnti.
La soluzione si approssimava, inequivocabilmente, alla posizione più realistica, ma aveva
il merito di non dimostrarsi arrendevole e quindi, come nel caso precedente, di esprimere
una certa fermezza e dignità rispetto all’arroganza statale. Consisteva nell’accettare sia la
sanatoria per i quattro anni trascorsi, sia il carico di tributo annuale per il futuro, defalcati
entrambi però dell’ammontare complessivo dei trasferimenti economici che lo Stato
avrebbe dovuto, per lo stesso periodo trascorso e per il futuro, alla comunità, se fosse stata
amministrata coi normali organismi istituzionali presenti in tutti i comuni del paese. Gli
organismi locali di governo, infatti, usufruiscono normalmente di trasferimenti statali di
risorse economiche da impiegare, con limitata autonomia, per specifici ambiti di servizio
pubblico e secondo direttive programmatiche generali comunque non valicabili. Era
implicito che, con tale soluzione, si sarebbe riconosciuta l’autorità dello Stato nelle sue
funzioni di prelievo fiscale, ma, nel contempo, si sarebbe potuta conservare l’autonomia
organizzativa politica della comune, impiegando l’equivalente della somma complessiva di
trasferimenti statali a propria completa discrezione e al di fuori delle relative direttive
programmatiche impartite sull’intero territorio nazionale. Si trattava, in sostanza, di pagare
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un tributo per vedere riconosciuta, ufficialmente, l’autonomia organizzativa della comune.
E questo avrebbe costituito un precedente assai importante per l’esistenza di tutte le
comunità similari presenti nel paese o che si fossero create in futuro. Si trattava, ora, di
verificare la disponibilità dello Stato ad accettare tale soluzione.
A questo punto alcuni partecipanti, facendosi interpreti del diffuso malumore che si
era creato in aula a causa dell’ora tarda e degli accesi dibattiti sostenuti, proposero di
aggiornare la seduta. Karl, con sguardo torvo e voce stizzita, si alzo in piedi prontamente
rifiutando la proposta e ribadendo che, prima di chiudere l’assemblea, avrebbe
ardentemente desiderato avere notizie fresche sul “predicatore”. Ne seguì in bisbiglio
generale per alcuni minuti. Rose Mary e gli altri due moderatori si consultarono tra loro.
Molti si asciugavano il sudore della fronte con fazzoletti, alcuni sorseggiavano bevande,
altri si alzavano in piedi per sgranchirsi le membra, altri ancora se ne uscivano all’aria
aperta con sigaro o sigaretta in bocca per concedersi una pausa di fumo. Ad un certo punto
un giovane dai capelli rossi si fece strada tra le panche, aggirò il banco dei moderatori e
prese in mano il microfono, sotto lo sguardo di nuovo attento di tutti. Era Donald,
l’irlandese che avevo conosciuto al centro organizzativo, esperto in telecomunicazioni ed
incaricato della messaggistica ufficiale intrattenuta col mondo esterno in rappresentanza
della comunità.
“Credo di essere stato, direttamente o indirettamente, chiamato in causa. Comunque
sia penso di essere, per l’incarico che svolgo alle telecomunicazioni, la persona più
aggiornata riguardo agli avvenimenti che si riferiscono al cosiddetto predicatore, anche se
sono sicuro che molti di voi avranno ricevuto notizie a iosa, in proposito, attraverso e-mail
o lettere di parenti e conoscenti sparsi per il mondo. Quanto meno posso fornirvi una
sintesi delle versioni ultime ufficialmente diramate dalle altre comunità con cui siamo in
contatto e delle personali ricerche che ho effettuato su internet, perlustrando sia tra i siti
istituzionali che tra quelli che si sottraggono alle normative internazionali resistendo in
condizioni di semi o totale clandestinità. Ebbene…” – nella grossa sala delle assemblee
s’instaurò d’improvviso un silenzio tombale che rese nitido e potente il pur delicato, quasi
femmineo, timbro di voce dell’irlandese e i volti degli astanti assunsero invariabilmente
un’immobilità imperturbabile, quasi inverosimile
– “….posso dirvi quanto segue.
Sembrerebbe che l’esistenza del predicatore, o di colui per il quale non riesco a trovare
termine più appropriato, sia ormai accertata. Sono talmente tante e varie le fonti che ne
parlano e talmente distanti tra loro geograficamente, che si può ritenere altamente
improbabile, se non addirittura impossibile, attribuire la divulgazione delle notizie ad un
fenomeno di isteria collettiva.”
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Un mormorio di stupore, contenuto ma inequivocabile, si diffuse in tutta l’aula,
interrompendo per alcuni lunghi secondi il resoconto di Donald. Poi, di colpo, tutti si
azzittirono di nuovo, colti dalla stessa bramosia di saperne di più. E Donald, in piedi con la
testa reclinata sul microfono e lo sguardo abbassato sul bancone, come se stesse leggendo
il suo resoconto, forse imbarazzato per la gravosità di quanto stava esponendo, riprese a
parlare, non riuscendo a sopprimere un certo tentennamento nella voce.
“E’…o sembra che sia…un uomo sui trent’anni, o poco più grande. E’ attorniato
costantemente da uno stuolo di fedeli, circa una ventina. Uno degli aspetti più sorprendenti
è che è stato avvistato in molte città e contrade dell’Africa del sud, e recentemente anche
del nord, insieme ai suoi proseliti, con uno scarto di tempo, tra un avvistamento e l’altro,
spesso assai ridotto, da lasciar pensare che i suoi spostamenti avvengano assai
repentinamente, come per evitare di essere intercettato dalle autorità e dagli organi di
informazione, magari servendosi di mezzi di trasporto rapidi…treni….forse aerei.
Ultimissime notizie segnalano la sua fugace apparizione in alcune località minori d’Europa
e anche, addirittura, d’Australia. Ma queste non sono ancora, è bene precisarlo, notizie
sufficientemente avvalorate da testimonianze. Tutte quante le informazioni concordano
comunque su un punto: ovunque si sposti, moltitudini di persone si raccolgono intorno a
lui, applaudendo ed osannando alle sue prediche di pace e fratellanza e giovandosi di
sue…..ma anche questo non è sufficientemente provato…di sue azioni…sì, chiamiamole
così, miracolose.”
Di nuovo un confuso borbottio, questa volta prodotto da una miscela di estasiate
esclamazioni di meraviglia, incredulità e anche scetticismo. Ma dopo pochissimi secondi la
sala ripiombò nel silenzio assoluto.
“La cosa più incredibile, alla quale al centro stiamo tentando di dare una
spiegazione plausibile, è che tutte queste informazioni sul predicatore che, ripeto, sono
molteplici e di molteplice provenienza, non trovano riscontro, o ne trovano solo
scarsissima e scarna, sui grossi mezzi di informazione e sui siti internet istituzionali di tutto
il mondo. L’unica spiegazione verosimile che siamo in grado di ipotizzare, per quanto
insoddisfacente, è che si sia premeditatamente o meno orchestrata una congiura
internazionale, da parte delle istituzioni governative, per nascondere o minimizzare o
ridicolizzare le vicende del predicatore. Fin qui l’ipotesi potrebbe essere accettabile, ma
non regge però di fronte all’evidenza che anche la quasi unanimità della stampa
internazionale ignori dette vicende.”
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“La stampa è tutta prezzolata, al servizio di questa o quella forza politica….” –
gridò con foga un giovane in piedi in fondo alla sala, a cui fecero eco vari commenti di
approvazione da parte di molti.
“Si guarderebbero bene dal divulgare notizie pericolose per la stabilità del
sistema!” – urlò un altro giovane dalle prime file con altrettanta veemenza, scotendo in aria
il dito indice accusatore.
“Certo….è vero quanto dite…” – proseguì Donald dal microfono – “….ma è pur
sempre strano che solo pochissimi quotidiani abbiano riportato, in trafiletti insignificanti,
in quindicesima o ventesima pagina, commenti, per lo più denigrazioni, al riguardo della
gesta del predicatore! Alcuni di questi rari commenti ne parlano addirittura come di un
nuovo mito creato ad hoc per alleviare la disperazione di popolazioni affamate e
miserabili…danno per scontata l’idea di avere a che fare con un personaggio frutto della
fantasia popolare. Nessun commento che dimostri di dare credibilità all’esistenza di questo
personaggio e alle sue gesta tra le masse diseredate, nonostante sia ormai indiscutibile che
numerosi gruppi di persone si siano mobilitate in tutto il mondo, soprattutto in Africa, per
diffondere il suo verbo come se fosse una sorta di nuovo…redentore. Si può parlare di
congiura internazionale del silenzio? A me, cari compagni e fratelli, sembra improponibile
una tale tesi, anche se, confesso, non sono capace di fornire una spiegazione alternativa.”
“Credo di poterne fornire una io di spiegazione…”, gridò forte una donna sulla
quarantina che si alzo in piedi dalla prima fila. Aveva dei lunghi bellissimi capelli di un
nero corvino che le scendevano sciolti fin quasi sopra il sedere. Non potevo scorgere
nient’altro della sua persona, perché era rivolta al bancone dei moderatori. Venne subito
interrotta da Rose che, evidentemente, non sedeva al bancone solo per fare la comparsa.
“Ti prego Elen di venire al microfono a parlare, altrimenti si crea una gran
confusione!”, le disse un po’ accorata e spazientita. E la donna acconsentì scusandosi e
raggiungendo il posto al tavolo ove era collocato il microfono, lasciato libero nel frattempo
dal giovane irlandese, forse contento di sottrarsi dalla situazione imbarazzante. Potei così
rimirare affascinato l’interessante volto della donna, i cui lineamenti duri, le sopracciglia
folte e nere e il colore brunastro della pelle, lasciavano pensare ad origini mediterranee:
greche, forse nord africane, non ebbi mai modo di appurarlo.
“Ebbene…,” - avviò con tono deciso il discorso, in perfetta sintonia col suo sguardo
minaccioso come quello di un aquila in procinto di scagliarsi sulla preda - “….forse è
inverosimile parlare di congiura del silenzio, almeno nel senso di un accordo voluto ed
attuato su scala internazionale, da parte degli organi di potere e di informazione di ogni
razza e religione. Ritengo sia più appropriato parlare invece di ‘rimozione collettiva della
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coscienza’. Mi spiego. Le società moderne, in particolare quelle cosiddette più sviluppate,
secondo me, non sono più in grado di recepire messaggi che parlino di amore, pace e
fratellanza. Tanto le persone istruite che occupano posizioni di rilievo nel contesto sociale,
quanto le moltitudini di persone semplici, sono assuefatte da decenni agli idoli del
benessere, ai miti della ricchezza, del successo, del potere, sono ormai spontaneamente,
direi ‘naturalmente’, refrattarie a simili messaggi. Questi appaiono loro come
riecheggiamenti di antichi valori che oggi non hanno più motivo di esistere, fastidiose
reminiscenze da dover sopprimere e, ancor più, come impliciti rimproveri ai propri modelli
di vita ai quali nessuno vorrebbe mai dover essere costretto a rinunciare. Ecco allora che le
testimonianze e le informazioni sul predicatore, perdendosi in questo deserto di capacità
percettive, non hanno possibilità di ricevere alcuna risonanza, si estinguono nell’ipocrisia e
nell’omertà generalizzate di chi non vuole o no sa ascoltare. Ed ecco perché parlo di
rimozione collettiva della coscienza, ovvero di un fenomeno diffuso ed esteso a livello
sociale che non presuppone necessariamente una volontà e una partecipazione razionale da
parte di tutti gli attori, ma sicuramente una loro fertile predisposizione mentale ed emotiva
radicata da molto tempo e difficile perciò da incrinare.”
Un applauso scrosciante, forse nemmeno cercato o desiderato da parte della
tenebrosa donna dai lunghi capelli neri, diede sfogo spontaneo e improvviso all’umore teso
e alla vivida curiosità dei presenti. L’assemblea compatta dimostro di essere pienamente
consenziente nei confronti della tesi appena esposta. Rimasi sbigottito non so per quanto
tempo. Avevo la mente confusa, per il caldo, per la stanchezza, forse anche per l’aria
viziata che cominciava a respirarsi nella sala, nonostante le numerose aperture in alto ne
consentissero, in certa misura, la dispersione all’esterno. Ma soprattutto per quello che
avevo appena ascoltato. Non mi riusciva di interpretare e ponderare quelle incredibili
informazioni che mi erano piovute improvvisamente addosso. Che senso dare a quella
storia? Chi era questo predicatore? Ma esisteva davvero questo predicatore, o stavo forse
assistendo in diretta a un delirio collettivo? Tentai di incrociare, durante il prolungato
applauso, lo sguardo di Jonathan, di Ramona, di Tenton e degli altri amici che mi ero fatto
in comunità, alla ricerca di una risposta, magari solo per carpire un indizio esplicativo,
qualcosa che mi fornisse la chiave di lettura giusta per capacitarmi di questo sorprendente
finale d’assemblea. Cessato il caloroso applauso la gente cominciò ad alzarsi per
andarsene, evidentemente appagata per gli esiti della discussione. Scorsi di sfuggita gli
occhi sorridenti di Ramona che parlottava con Elen, mentre insieme defluivano, frammiste
alla scia degli altri presenti, verso l’uscita. Quel che lessi nei suoi occhi, o che non vi lessi,
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accrebbe la confusione nella mia testa. Ero un bambino perso nella folla, un pulcino
bagnato senza la sua chioccia.
***
Gesù…..chi fosti veramente? Figlio di Dio?…ma quale Dio! Uomo….ma quale
uomo! Uomo di grande intelligenza, di grande amore…ma quale amore? Come è possibile
amare, solo amare e non odiare?….amare all’infinito, per sempre, fino alla morte. Come è
possibile? Oh….come vorrei parlarne ancora con te, Ramona! Ti rivedrò?…quando ti
rivedrò? Le tue parole fredde e calde, parole taglienti che riscaldano, la tua bocca….che sa
amare…e odiare….Ah…ci sei finalmente! Sei Tornato! Vorrei poterti toccare…quelle tue
zampette fragili. Fatti toccare…sarò meno di un alito di vento. Non devi aver paura. Sarò
impercettibile. Quelle zampette esili….un alito di vento le porta via…..
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CAPITOLO IV
IL PREDICATORE
Non riuscii a prendere sonno prima delle tre o delle quattro del mattino, tanto era il
turbamento che ancora provavo per le notizie apprese nel finale d’assemblea. Ne pagai le
conseguenze poche ore dopo, quando dovetti intrattenere contro voglia la lezione di
“letteratura” coi miei giovanissimi studenti. Mi sentii stordito e affaticato fino a
mezzogiorno circa. I ragazzi se ne accorsero e, con la consueta spontaneità, uno di loro mi
chiese: “Hai sonno professore?” Gli risposi che sì, effettivamente ero un po’ insonnolito
perché non avevo dormito a sufficienza la notte appena trascorsa. In realtà, oltre la
stanchezza fisica, avevo anche ripreso a rimuginare sulla storia del predicatore. Mi
riproposi di passare il pomeriggio su internet per cercare di approfondire l’argomento e, se
possibile, scoprire eventuali nuove informazioni che potessero fornire una verifica della
fondatezza di quanto già appreso. Con i ragazzi me la cavai impegnandoli, previo il loro
entusiastico consenso, in una esercitazione di componimento poetico. Potei così continuare
per l’intera mattinata a lasciarmi torturare da pensieri e ossessivi interrogativi.
Dopo pranzo un temporalone inondò il villaggio, apportando un sensibile refrigerio
nell’aria che, da parecchi giorni, si conservava torrida e in alcune ore del giorno
asfissiante. Era quanto ci voleva per agevolare il lungo intrattenimento al computer che
avevo programmato. Sotto lo scroscio fragoroso e le raffiche di vento impetuoso che
strapazzavano le fronde degli alberi, tra tuoni e fulmini che illuminavano improvvisamente
la cupa ombra che aveva avvolto la comunità, mi gettai rinfrancato e voglioso nel mare
della comunicazione mondiale, posseduto da uno strano benessere interiore che, molto
probabilmente, poteva essere attribuito ad un lontano legame inconscio coi mutamenti
bruschi del clima, originatosi nella mia infanzia: quel senso di protezione che ci conforta
all’interno delle mura domestiche quando, fuori di esse, imperversa il temporale e la furia
del vento. Rimasi incollato al computer fino a pomeriggio inoltrato, quando i tenebrosi
nembi avevano ormai lasciato il posto ad ampi squarci di azzurro e al sole di nuovo
cocente, permettendo alla terra e alla foresta di trasudare densi vapori.
La ricerca non diede i frutti sperati. Constatai la veridicità di quanto aveva
sostenuto Donald la notte scorsa. E invece di riuscire a diradare le nere nuvole nella mia
mente così come si erano diradate quelle nel cielo, crebbero i dubbi e le perplessità da cui
ero tormentato. Nei siti delle maggiori istituzioni politiche di ogni parte del mondo e in
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quelli dei più potenti gruppi di informazione, non rinvenni alcuna vera e propria notizia,
alcun serio resoconto giornalistico, che riguardasse il predicatore. Solo scarsi, striminziti,
banalissimi e spesso ironici commenti che portavano titoli del tipo “Il redentore del terzo
millennio”, “La ridiscesa di Gesù sulla terra”, “Il nuovo salvatore delle anime perse”, “La
seconda resurrezione” e altre insulsaggini del genere che denunciavano chiaramente una
volontà denigratoria e nulla più. Sempre in coerenza con quanto affermato da Donald, e
seguendo i suggerimenti e le indicazioni che ottenni dallo stesso per via telefonica, trovai
invece estese descrizioni, talvolta accompagnate da estasiati commenti, delle vicende
connesse al cosiddetto “predicatore”, sui siti di associazioni antigovernative, di
opposizione ai poteri istituzionali, di gruppi eversivi di varie sfumature ideologiche e, in
particolare, di aggregazioni comunitarie neoevangeliche in rotta di collisione con le
istituzioni cattoliche tradizionali. Non riuscivo a decidere a chi, perché e in quale misura
avrei dovuto prestare credito. E più mi arrovellavo il cervello sui tanti interrogativi che mi
passavano per la testa e più rimanevo sconcertato e disorientato. Esisteva davvero questo
fantomatico personaggio? Erano attendibili le testimonianze, peraltro scarse e per lo più
indirette, che ne segnalavano la presenza e le azioni? E di quali azioni si trattava?
Predicazioni, proselitismo, benefiche opere a favore dei poveri e degli emarginati? O
addirittura prodigiose magie e straordinari “miracoli” come qualcuno fideisticamente
sosteneva? O semplicemente era tutto frutto di immaginazione popolare, di
un’amplificazione esagerata di banali avvenimenti che, raccontati da qualche invasato di
setta, avevano suggestionato la mente debole di masse represse e insoddisfatte? Ma era poi
possibile che tanta gente, per quanto incolta e sofferente, si lasciasse così facilmente
circuire e convincere dell’accadimento di certi fenomeni magari senza averne mai visto
alcuno coi propri occhi? Non era anche possibile che qualche astuto imbroglione si
servisse di trucchi e giochi di prestigio per incantare creduloni e ignoranti? Ma,
ammettendo un caso del genere, a quale fine lo avrebbe fatto? Per fini di vantaggio
personale o per fini sociali? O per altri reconditi fini?
Insieme a questi, tanti altri interrogativi mi si affollavano nella mente. Decisi di
interrompere la ricerca. Avevo bisogno di respirare aria fresca e di lasciarmi inondare dai
raggi di sole appena riapparsi, di godere di quell’ora scarsa di luce che ancora rimaneva.
Uscii all’esterno. Mi investì il cinguettio assordante degli storni ammassati dentro le
chiome degli alberi e quello di rondini, rondoni e balestrucci che sfrecciavano a bassa
quota sopra la mia testa. Pesanti goccioloni scolavano dalle foglie, dai rami, dalle grondaie
delle case, dai lampioni. Il vapore saliva un po’ ovunque dalla terra impregnata d’acqua.
Le cunette ai margini della strada principale convogliavano torrentelli di acqua sporca nei
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chiusini delle fogne. Riflessi accecanti di luce guizzavano improvvisi sulle superfici
bagnate delle cose. Tanti bambini avevano approfittato di quell’insolita giornata per
corrersi dietro sui prati e bagnarsi fino ai capelli, con gli schizzi prodotti dai piedi che
pestavano nelle pozzanghere. Molta gente si era riversata per le strade e su piazza Gandhi,
come me vogliosa di godersi i momenti rigeneranti che seguono ogni temporale. Andai
proprio verso la piazza alla ricerca di qualche faccia amica, in particolare, non posso
nasconderlo, quella di lei, di Ramona. Ebbi fortuna. Si trovava in piedi a parlare
scherzosamente con i suoi collaboratori del centro organizzativo in un lato della piazza. Mi
diressi verso di loro a passi tranquilli, le mani in tasca, come chi ha il proposito di farsi una
passeggiata rilassante. Accanto a loro, seduto in terra e con lo sguardo vigile, c’era Sciark.
Intuii subito cosa sarebbe accaduto. Scattò in piedi e mi corse incontro a rapidi balzi. In
meno che non si dica mi era addosso con le sue zampone inzaccherate di fango. Tentai di
contenerne l’irruenza, ma non in modo
deciso, tanto era bello vederlo così festoso
prodigare le sue manifestazioni d’affetto, sentire la sua lingua ruvida e il suo alito caldo
sulle mani. Il gruppo in cui era Ramona si voltò verso di me e si mise a ridacchiare per la
scena affettuosa cui stava assistendo. Percepii i commenti burleschi su come Sciark aveva
impietosamente ridotto i miei abiti. Sorridendo un po’ impacciato, tentando di domare la
foga del cane, mi accostai al gruppo. Ramona intervenne con voce imperiosa per
costringere Sciark a calmarsi.
“Una bella passata in lavatrice e tutto torna come nuovo”, mi disse un tecnico del
centro con il quale avevo scambiato poche parole giorni addietro e del quale non mi
sovveniva in mente il nome.
“Oh…non ne dubito!…Salve a tutti! Ci voleva un bella rinfrescata, che ne dite?”
I consensi furono unanimi. Donald, tra i presenti, sottolineò il gran bisogno della
campagna di “dissetarsi”; un altro il suo bisogno personale di refrigerio, perché non
tollerava più il caldo persistente e torrido di quella estate.
“Tu che ci racconti, Stephen? Che te ne è parso della nostra assemblea?”, mi chiese
a bruciapelo Ramona. Approfittai subito della situazione favorevole.
“Proprio di questo mi sarebbe piaciuto scambiare qualche parola con te. E’ dalla
notte scorsa che non penso ad altro.”
“Diamine! Che aspetti a darci le tue impressioni!”
“Beh….ecco…” – non sapevo proprio da dove cominciare, non sapevo come
sviscerare i miei dubbi, per paura di offendere la suscettibilità di qualcuno dei presenti.
Credo che ella comprese al volo la mia titubanza, e non mi lasciò continuare.
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“Vieni, facciamo quattro passi, evitiamo di angustiare con discorsi troppo seri i
miei carissimi colleghi….faccio bene ragazzi?” E intanto mi prese sotto braccio,
invitandomi a camminare.
“Hai colto nel segno, Ramona. Ci capisci sempre così bene tu…”, le rispose
sorridendo Donald, che poi si rivolse subito a me “…sei in ottime mani Stephen,
tranquillo!”
“Godetevi pure la serata, ragazzi”. E li salutai frettolosamente. In quel momento
non desideravo altro che restare solo con lei.
Ci incamminammo lungo il viale principale con Sciark alle costole, evidentemente
gratificato a farci da scorta. Mi lasciai condurre dal suo esile braccio nudo. Il contatto con
la sua pelle non mi lasciò indifferente. Non so se se ne accorse. Ma non seppi cosa dire per
alcuni secondi, quasi dimentico dello scopo per cui desideravo parlarle (ma era poi
l’unico?).
“Cos’è che ti turba?”, mi disse percependo la mia esitazione e cogliendo con
arguzia il mio stato d’animo.
“Cosa ti fa pensare che qualcosa mi turbi?”
“Innanzitutto la tua faccia…il tuo sguardo. I tuoi occhi sono come un libro aperto,
non mi sembri capace di dissimulare il tuo essere. E’ una cosa molto bella questa, credimi.
E poi…”
“Hai ragione, sono turbato.”
“Lasciami indovinare….la storia del predicatore.”
“Beh, a questo punto penso proprio che i miei occhi, più che a un libro aperto,
somiglino a un comunicato stampa.”
“Oh, è abbastanza semplice intuire i motivi del tuo turbamento. Quella storia lascia
ancora perplessi molti di noi…”
“Davvero? Eppure mi è sembrato di ravvisare un consenso, un accordo pressoché
unanime tra i presenti all’assemblea a proposito delle informazioni e delle interpretazioni
che venivano fornite sul predicatore; ed è anzi questo uno degli aspetti che più mi ha
colpito la notte scorsa. Non ho notato diffidenza, disappunto, manifestazioni di incredulità
o atteggiamenti simili che mettessero in dubbio l’attendibilità della storia.”
“Devi capire che era la prima volta che tu ascoltavi quella storia – o mi sbaglio? ( le
feci cenni con la testa che non si sbagliava) – ma non lo era per il resto dei presenti. Già da
più di tre mesi riceviamo in continuazione notizie che ci parlano di questo straordinario
individuo, che sembra far rivivere le gesta di Gesù di Nazareth.”
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“Questo giustifica la mia sorpresa, ma non mi pare sufficiente a giustificare
l’attenzione e la fiducia che tutti voi comunardi avete mostrato in sala, come se non ci
fosse stato nulla da obiettare, ma solo da prendere nota degli sviluppi recenti del caso,
peraltro con viva curiosità e imperturbabile concordia. Ecco…., parlando chiaro, tu, i tuoi
amici e i tuoi compagni, credete davvero a questa storia? Io ritengo che nel ventunesimo
secolo ci siano gli strumenti razionali per valutare qualsiasi fenomeno ‘anomalo’ si
presenti ai nostri occhi, per spiegarne o quanto meno ipotizzarne le origini, le cause che lo
hanno prodotto. Ciò soprattutto con riguardo ad un fenomeno di tale rilevanza sociale. Non
credi?”
Ramona si concesse qualche secondo di pausa, prima di rispondere. Stava
riflettendo, mentre prodigava affettuose carezze a Sciark che le chiedeva, saltellandole
intorno con la lingua penzoloni, di giocare.
“Buono Sciark, non è questo il momento!…..Allora Stephen…” - era già la seconda
volta che mi chiamava per nome, invece di usare il solito appellativo di ‘bel giovane’, e
ciò, non so perché, mi fece piacere – “…prima che risponda alle tue domande, è opportuno
che ti chiarisca che cosa io intendo per ‘credere’, per ‘avere fede’ e per ‘razionalità’. Ora
farò un’affermazione apparentemente paradossale. Tra fede e razionalità, intese come
atteggiamenti di approccio alla verità delle cose, non sussiste una distanza incolmabile ma
un continuum graduale di atteggiamenti. Ad ogni grado di tale continuum si trova,
diversamente miscelato, un atteggiamento che riassume comunque una combinazione di
entrambe, senza che, né l’una né l’altra componente, venga mai a mancare
completamente….” – la guardai in modo interrogativo con l’intenzione di chiederle
chiarimenti – “….lasciami continuare. I due estremi possono essere assunti solo come
atteggiamenti ideali, giammai come disposizioni conoscitive reali, come concreti punti di
vista. Non è possibile conoscere totalmente per fede, senza servirsi di elementi e di
procedure frutto della razionalità, e viceversa, non è possibile conoscere totalmente con
razionalità, senza doversi appoggiare, in certa misura, alla fede.”
“Aspetta….aspetta! Lasciati interrompere. Dove vuoi arrivare con questo discorso?
Vuoi forse sostenere che, ad esempio, un ricercatore dedito quotidianamente a studiare le
reazioni che scaturiscono dai propri esperimenti, approntati sulla base di un’ipotesi di
partenza e facendo interagire alcuni elementi nel contesto di precise e controllate
condizioni ambientali, abbia necessariamente bisogno di aver fede in qualcosa o in
qualcuno per far questo?”
“In certo modo e in certa misura sì. Senza rendersene conto, probabilmente, ma ne
ha bisogno. Innanzitutto deve aver fede che il proprietario dei locali nei quali effettua i
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propri esperimenti, non decida di sfrattarlo; che un terremoto non sopraggiunga improvviso
a interrompere la sua attività; che un automobile non lo investa per strada quando esce di
casa o che un malore improvviso non lo spedisca all’altro mondo. Ma a parte questi
comuni e impercettibili modi di aver fede in qualcosa, che dimostrano già come la nostra
vita si basi su ingiustificate certezze e su un’inconfessabile e mal riposta fiducia
nell’immutabilità delle condizioni esistenziali, esistono tanti altri modi, specifici alla
professione esercitata, con i quali il nostro ricercatore, così dedito ad un’attività di alta
espressione razionalistica, si avvale della fede per poter effettuare i propri esperimenti. La
possibilità di sostenere certe ipotesi scientifiche e di andarle a verificare mediante rigorosi
esperimenti di laboratorio, deriva, al nostro razionale ricercatore, dall’acquisizione nel
tempo di teorie, assiomi, dimostrazioni, concetti ecc. che hanno avuto origine da tante
menti, in svariati campi della conoscenza, in epoche e situazioni diverse e che hanno subito
continue trasformazioni, aggiunte, elaborazioni, perfezionamenti. Quante di queste
acquisizioni intellettuali, frutto di un cosi complesso iter evolutivo, potrebbero essere
integralmente dimostrate dal nostro ricercatore e quante di esse sono state in realtà
accettate per pura fede nel pensiero e nella metodologia scientifica, come una sorta di
investimento fiduciario in un certo patrimonio culturale?”
“Ora capisco dove vuoi arrivare. Tu sostieni, in fin dei conti, una verità abbastanza
banale, scusa la mia sincerità…”
“Non ti scuserei se percepissi che non fossi sincero. Continua pure.”
“Beh….è come se io dicessi che non posso dimostrare la stragrande maggior parte
dei fatti e dei fenomeni del mondo, passati, presenti e futuri. Come se potessi negare, a
rigore di logica, che in Africa vivano popolazioni di pelle scura, solo perché non sono mai
andato in Africa, o che nella cioccolata siano presenti gli zuccheri perché non so come
estrarli e mostrarli sperimentalmente, o che l’uomo sia mai approdato sulla luna perché non
mi trovavo con gli astronauti che vi discesero, o che…..”
“Non occorre che fai altri esempi, potresti continuare all’infinito. E’ proprio questo
che volevo dire ed altro ancora. Ma non è una banalità, o meglio, lo è solo in apparenza. Se
provi a riflettere su questo concetto ti puoi rendere conto che esso, in realtà, evidenzia un
aspetto importantissimo dell’essere umano: la sua infinita e insuperabile condizione di
limitatezza, che lo costringe a vivere comunque di fede.”
“Va bene!….siamo d’accordo su questa limitatezza umana. Ma a che pro
ricordarla? Forse per poter affermare che un tipo di conoscenza vale l’altro? Forse per
poter dire che credere in un dogma di fede equivale a credere nella possibilità di un evento
sulla base di un attento studio di elementi concretamente misurabili?”
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“Non è affatto questo che sostengo o che mi azzarderei mai a sostenere. Eppure,
una tesi del genere, che tu ora usi come un paradosso implicitamente improponibile, in un
contesto filosofico scevro da pregiudizi, potrebbe rivelarsi niente affatto assurda e assai più
problematica di quanto il suo semplicistico e lapidario contenuto lasci pensare al primo
impatto. Non ti allarmare! L’espressione della tua faccia mi dice che ti sta sorgendo
qualche dubbio sulla mia integrità mentale. Consentimi di approfondire l’argomento…”
In quel frangente dubitai davvero di aver sopravvalutato le doti di Ramona e anche
quelle di tutta la gente che abitava in comunità. Fui colto da un senso di disagio indefinito.
“Credere nell’esistenza di un essere superiore che abbia dato origine alla nostra vita
e a tutte le cose che ci circondano non è la stessa cosa che credere che dal legno si ottiene
la carta o dal grano la farina, pur non avendo mai assistito ai procedimenti che ne
consentono la produzione. Ma nel contesto filosofico cui accennavo, nell’ambito di una
riflessione che voglia giungere, con rigore e senza preconcetti in un senso o in un altro, a
definire differenze o somiglianze fra i due modi di credere anzidetti, ebbene…ci si
dovrebbe arrendere di fronte alla constatazione che in entrambi i casi si tratta comunque di
credere, di avere fede….punto e basta! Eppure, ripeto, nessuno si sognerebbe di dire, che i
due modi di credere siano uguali.”
“Esattamente! Nessuno potrebbe fare una tale affermazione. E allora devi convenire
con me che quel discorso filosofico, o che quel che tu definisci come tale, è in realtà
ingannatorio, non riflette il sentire e il percepire comuni.”
“Al contrario, Stephen, ritengo che ingannatorio sia il nostro comune modo di
sentire, percepire, riflettere, non quel discorso filosofico, il quale, invece, mette a nudo le
nostre comuni deficienze conoscitive.”
“Assumere coerentemente questo punto di vista significherebbe dover rinunciare
alla conoscenza, interrompere ogni progresso conoscitivo in ogni campo del sapere e
mandare all’aria, di conseguenza, ogni qualsiasi beneficio applicativo che ne deriva,
significherebbe, in definitiva, sacrificare ogni forma di progresso umano…”
“Niente affatto! Significherebbe semplicemente privare la conoscenza, ogni forma
di conoscenza, compresa quella scientifica, della sua intima tendenza a dogmatizzarsi,
costringerla a fare i conti con il dubbio e ad avvalersi dell’incertezza di se stessa. Non,
dunque, rinuncia alla conoscenza, ma alla pretesa esaustiva di verità insita in ogni modo di
conoscere. Tutto ciò si dovrebbe tradurre, innanzitutto, in una maggiore tolleranza tra i vari
punti di vista del sapere, che non significa però acquiescenza o subordinazione dell’uno
all’altro. Sono riuscita a farmi capire?”
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“Sì…credo di capire ciò che vuoi dire. Ma, a questo punto, mi sembra legittimo
farti notare che anche la tua riflessione filosofica sul conoscere dovrebbe rinunciare alla
propria implicita pretesa di verità. Il ragionamento di cui essa si serve finisce per ritorcersi
contro essa stessa. Il suo punto di vista conoscitivo ha pari dignità di tutti gli altri ai quali
essa vorrebbe dare una lezione di umiltà. O mi sbaglio, Ramona?”
“Non ti sbagli affatto. Hai colto nel segno. E avrai certamente capito che, a questo
livello del discorso, si apre un circolo vizioso al quale sembra impossibile trovare una
soluzione. Si apre una voragine vertiginosa in cui la ragione si perde e in cui può solo
intuire drammaticamente il proprio fallimento, il proprio limite insuperabile, senza avere la
capacità di decifrarlo. Ed era questo, proprio questo, il punto al quale volevo giungere.”
Rimasi colpito e anche un po’ amareggiato dalla ferrea logica del suo discorso.
Compresi di non avere più argomenti per confutarla. Tentai perciò di riportare il discorso
al punto di partenza.
“Sì….ma….che cosa centra tutto questo con la domanda che ti ho rivolto all’inizio?
Voi, tu e tuoi amici e compagni, credete….o meglio, alla luce delle riflessioni appena fatte,
in che modo, in che misura credete alla storia del predicatore?”
“Ebbene….ti ho parlato dell’esistenza di una scala di atteggiamenti. Conosco
abbastanza bene uno ad uno uomini e donne della comunità e ti posso assicurare che qui da
noi vi si trova rappresentato ogni gradino di quella scala, dall’atteggiamento prossimo alla
fede pura all’atteggiamento prossimo alla razionalità pura. C’è chi è portato ad interpretare
gli avvenimenti che lo circondano attraverso schemi religiosi addirittura integralistici, che
lasciano poco spazio a qualsiasi altro tipo di considerazione, c’è chi, all’estremo opposto,
pretenderebbe di affidarsi esclusivamente all’osservazione dei fatti per spiegare la realtà.
Puoi ben figurarti che il credito rivolto alle notizie sul predicatore vari dunque
dall’incondizionata fiducia alla negazione assoluta per mancanza di elementi
concretamente osservabili. L’accordo unanime che ti sembra di aver percepito in
assemblea, in realtà non esiste circa la fiducia negli avvenimenti che riguardano il
predicatore, ma circa il silenzio e la negazione interessata da parte di tutti gli organi di
potere e di informazione istituzionale nei confronti degli stessi. Probabilmente hai confuso
questo tipo di accordo con quello, e posso comprendere tale confusione considerando che
eri completamente allo scuro di quanto si discuteva.”
Quelle spiegazioni cominciarono a schiarirmi le idee, a ridimensionare i miei dubbi
e le mie perplessità. Però non ero ancora del tutto rincuorato. Soprattutto non sapevo
ancora cosa ne pensasse lei di tutta quella storia.
“Bene! Ma tu…tu cosa ne pensi?….voglio dire della storia del predicatore.”
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“Beh….penso che ormai dovresti conoscermi almeno un po’. Comunque, se non ti
è ancora chiaro, la mia cultura è fondamentalmente razionalista. Credo in tutto ciò che può
essere dimostrato dai fatti, anche se non direttamente da me stessa. Dunque, se proprio
vuoi saperlo, credo che parte degli avvenimenti di cui si racconta, almeno stando ai
credibili resoconti di cui siamo forniti, abbiano un fondamento di verità. Non posso dire in
che misura, ma indubbiamente qualcosa di vero c’è. E posso dirti che la storia mi
incuriosisce non poco. Tutto qui.”
“Ma, se veramente esiste questo….personaggio, chi pensi che sia?”
“Ora mi chiedi troppo. Si possono fare diverse ipotesi, come di sicuro avrai capito,
ma non so proprio quale di queste si avvicini di più alla realtà. E dunque non so come
risponderti.”
“Ma almeno puoi dirmi se, come a me è sembrato di capire, alcuni, forse molti, tuoi
compagni credano che questo uomo sia una sorta di nuovo ‘nazareno’, con tutto quel che
ne consegue in termini di convinzioni religiose e via discorrendo…”
“Sì, alcuni, forse molti, come tu dici, sembrano credere qualcosa del genere,
almeno intimamente, se non esplicitamente. Su questo posso convenire con te.”
“Però non mi è sembrato ci fosse in aula una decisa e diffusa reazione a questa
convinzione, di certo non si è palesata come mi sarei aspettato…”
“Anche questo è vero, ma devi comprendere una cosa. Perché la storia di questo
predicatore dovrebbe costituire un motivo di attrito e di discordia all’interno della
comunità? Abbiamo ben altri problemi, come ti sarai accorto, di vitale importanza di cui
dover discutere e per i quali doverci confrontare in modo, spesso, anche aspro. Anzi, ti dirò
di più, questa storia, in qualche modo, è servita a rinforzare la solidarietà fra le diverse
anime della comunità, dalla quale dipende la sopravvivenza dello splendido esperimento
che stiamo vivendo, e che vale la pena di tenere in piedi finché è possibile. Non credi
anche tu? E’ come se, interessandoci a questo personaggio, indipendentemente dalle
interpretazioni che ognuno di noi ne da, avessimo riscoperto alcuni motivi per continuare a
stare insieme e sopportarci, per continuare a costituire un’alternativa alla civiltà delle
disuguaglianze, dell’affarismo, dell’arrivismo e della mancanza di amore.”
“Capisco ciò che vuoi dire, ma continuo a credere che una maggiore onestà
intellettuale da parte di tutti non dovrebbe essere di alcun pregiudizio per la solidarietà
sulla quale si regge il vostro esperimento, dato che essa si fonda su valori importanti.
Ecco…credo che se fossi stato a pieno titolo uno di voi, avrei forse evidenziato il pericolo
di rimanere suggestionati da illusorie convinzioni, da irrazionali tentazioni di dar credito ad
avvenimenti strani ed oscuri, di abbandonarsi a facili entusiasmi….”
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“Capisco anch’io il tuo punto di vista, che però è il punto di vista di una persona
che non ha vissuto quattro lunghi anni in mezzo a noi e che non può comprendere quanti e
quali problemi abbiamo dovuto affrontare in questi quattro anni per continuare a restare
insieme.”
Mi resi conto di averle indirettamente rimproverato di non brillare certo per
coraggio intellettuale, e ne ebbi subito un senso di colpa. D’altronde io, davvero, che cosa
ne potevo sapere cosa significasse perseguire per anni quel grande progetto di vita che era
la loro comunità, quali e quante fatiche e difficoltà potesse comportare? Di sicuro, per
conservare quanto di buono e, direi, grandioso i comunardi avevano fino a quel momento
creato, è giustificabile soprassedere con saggio senso dell’opportunità sulle diversità
ideologiche e sulle differenti concezioni di vita, cercando invece di esaltare i motivi
unificanti, di rafforzare le ragioni che accomunano. E quel misterioso personaggio,
indipendentemente da ciò che per ognuno rappresentava – vuoi un redivivo Gesù di
Nazareth oppure un furbo prestigiatore in cerca di gloria – di motivi di concordia ne offriva
a iosa, non fosse altro che per i principi di pace e fratellanza, di solidarietà per i poveri, che
la sua figura aveva in qualche modo portato alla ribalta e per le preoccupazioni che, dietro
le apparenze del silenzio e della denigrazione, aveva incominciato probabilmente a far
serpeggiare tra le istituzioni di potere e di informazione pubblica. Decisi di conseguenza di
non interrogarla più, almeno per il momento, sulla storia del predicatore, anche perché mi
era sembrato di ravvisare nei suoi occhi una certa irritazione, pur se ben controllata. E non
desideravo affatto farla irritare, tutt’altro. Sentivo di avere altre curiosità sul suo pensiero.
Volevo conoscere cosa pensava di alcune questioni che mi stavano a cuore e che le vicende
del predicatore avevano risvegliato in me. Volli approfittare ancora di quella passeggiata e
della sua disponibilità.
“Hai ragione. Forse non ti rinfrancherà più di tanto questo riconoscimento, ma
credo sinceramente che tu abbia ragione. Le mie perplessità per come si è sviluppata
l’assemblea sono ingiustificate, ora lo capisco.”
“Mi fa invece piacere che tu abbia compreso così in fretta il nostro punto di vista.
Sei sensibile e intelligente, non ne ho mai dubitato fin dal primo giorno che parlai con te.”
Non stetti a crogiolarmi con i suoi complimenti, la incalzai con una nuova
domanda.
“Cosa ne pensi di Gesù?…Sì, voglio dire, del Gesù vero, di Cristo. Cosa ne pensi
della religione, di Dio….”
“Hai proprio deciso di farmi un terzo grado, oggi! Perché? Come mai ti interessa
sapere tutto questo da me?”
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“Oh scusami! Scusa la mia invadenza, la mia stupida curiosità. Ti sto infastidendo
con tutte queste domande e…”
“Ma no, ma no! Non mi dai alcun fastidio. E’ solo che non capisco come mai le
rivolgi proprio a me. Inoltre non posso dedicarti molto tempo ancora….tra un quarto d’ora
ho un appuntamento con Jò e devo lasciarti.”
“Inutile nasconderti che….beh, sì….insomma, il tuo modo di pensare mi interessa
molto. Nutro profonda stima nei tuoi confronti..” – avvertivo leggere vampe di calore
affacciarsi sulle gote – “…e il tema di Gesù, di chi sia stato in realtà, risvegliato ora dalla
storia del predicatore, confesso, mi ha sempre profondamente affascinato e inquietato nel
contempo. Ecco….il tuo pensiero in proposito…”
“Bene, d’accordo. Non capisco di che natura sia il tuo interesse per il mio modo di
pensare, ma fa comunque piacere sentirselo dichiarare. Qualche minuto posso ancora
intrattenermi, e dunque…. Gesù? A di là delle versioni ufficiali della religione cattolica,
che ne fanno il figlio di Dio sceso sulla terra per salvare gli uomini, credo rimarrà sempre
avvolto da un residuo di mistero questo grande personaggio. Credo che la ragione umana,
almeno fino ad oggi, non sia in grado di dare una spiegazione compiuta e sufficiente delle
vicende legate al nome di Cristo che hanno di fatto influenzato tutto il corso successivo
della storia umana. Anch’io mi sono spesse volte, in passato, interrogata razionalmente
sulla figura di Gesù, non accontentandomi mai della chiave esplicativa religiosa che, al
cospetto del pensiero razionale, non è in grado di fornire una vera spiegazione. Ho però
dovuto smettere di interrogarmi e rassegnarmi all’imponderabilità e al mistero. Ritengo
che, della storia di Gesù, bisogna limitarsi a cogliere il messaggio umano, sociale,
esistenziale, che è veramente grande e importante, e lasciar perdere il resto, tutto ciò che
intorno alla sua figura è stato costruito nei secoli per innumerevoli e anche contraddittori
scopi e interessi.”
“Il Gesù in cui credi è dunque un uomo, non il figlio di Dio! E’ così?”
“Ti ripeto che ho smesso da un pezzo di interrogarmi su chi fosse Gesù. Mi
interessa e mi inquieta assai di più capire se il suo messaggio sia umanamente applicabile
fino in fondo, con la stessa coerenza con cui egli seppe darne l’esempio fino alle estreme
conseguenze. E’ questa, se ci pensi bene, la domanda essenziale che occorrerebbe porsi,
considerando che, dopo oltre duemila anni di storia, nonostante metà della popolazione
mondiale dichiari di venerare Gesù come il figlio di Dio, l’umanità non si è nemmeno
pallidamente accostata al modello di vita che egli predicava e per il quale si è lasciato
ammazzare.”
69
“Ma in Dio….in Dio credi? Credi nell’esistenza di un essere superiore che abbia
dato origine a tutte le cose? Voglio dire….che ne pensi della religione?”
“Hai deciso proprio di torturami oggi, caro Stephen. E poi su una simile domanda si
potrebbe parlare per giorni interi. Ma se desideri comunque una risposta, una risposta
molto breve…” - le accennai di sì col capo, sorridendo – “…..ecco cosa posso dirti. Le
religioni le hanno inventate gli uomini e la stragrande maggior parte degli uomini nel
mondo, stando almeno a certe statistiche ufficiali, dichiara di essere religioso, di dare la
propria fiducia a questa o quella religione. E come tu ben sai ogni città, ogni luogo di
aggregazione umana mostra i segni alquanto evidenti delle credenze religiose che vivono al
suo interno. Anche nella nostra piccola comunità, come avrai notato, esiste una chiesa
cattolica e un luogo di culto buddista. E’ indiscutibile, dunque, che la religione svolga una
funzione assai importante, direi fondamentale, a livello sociale ed esistenziale, tra la
popolazione umana. Ti confesso però che io faccio parte di quella infima minoranza che
non professa alcuna religione. Non so credere, per pura fede, all’esistenza di un essere
superiore verso il quale dover tributare la mia venerazione e la mia sottomissione, come
non so credere, per pura fede, all’opposto, ovvero alla negazione di quella esistenza. Sono
agnostica, per usare un termine a te sicuramente noto. Ecco, questo è quanto posso dirti in
poche parole e ti prego di non chiedermi altro per il momento…scorgo Jò che mi sta
facendo cenni con la mano. Devo raggiungerlo. Tu invece devi promettermi una cosa: la
prossima volta ti lascerai sondare nella mente e nell’anima come hai fatto oggi con me.
Anch’io sono curiosa, anche a me piace conoscere bene le persone che mi circondano in
specie i bei giovani come te.”
Sorridendo riutilizzò quell’appellativo nei miei confronti che in altre occasioni mi
aveva fatto sentire quasi un immaturo. Ma in quel momento non mi dispiacque affatto.
Tutt’altro. Il modo particolarmente affettuoso che vi percepii, ebbe un effetto lusinghiero,
addirittura eccitante. Suonava strano quel “bei giovani” nel serio contesto discorsivo cui
avevamo dato luogo.
“Prima che me ne vada – proseguì – dimmi una cosa: tu sei religioso?”
“Hai proprio ragione. Occorrerebbe molto più tempo per parlare di queste cose.
Spero che prima o poi ne avremo. Comunque posso accennarti che neanche io sono
religioso e faccio dunque parte di quella infima minoranza cui avevi accennato. Ma più che
agnostico credo di potermi definire ateo, in un senso un po’ particolare però. Nego
l’esistenza di Dio così come ci è prefigurata dalla religione, qualsiasi religione professata
sulla Terra. Le religioni svolgono molte funzioni, alcune anche notevoli, di tipo sociale ed
esistenziale, non certo quella di poterci mettere in qualche modo in contatto con Dio o di
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farci guadagnare le sue grazie, terrene o ultraterrene che si voglia. Con questo non posso
però negare in assoluto l’eventualità che la vita dell’universo abbia avuto origine da un
progetto, da un atto, o da non so cos’altro, di un essere infinitamente superiore all’uomo.
Solo che la nostra insaziabile sete di conoscenza per l’infinito e per il mistero della vita,
come altrettanto la paura per la morte, non ci autorizzano in alcun modo ad affidare le
nostre speranze in un essere superiore di nostro gradimento. E’ assai più onesto riconoscere
i limiti, almeno attuali, del pensiero umano e la nostra incapacità a sondare
l’incommensurabilità dell’esistenza. Chi lo sa!….magari un domani, un lontano domani,
questa incommensurabilità potrebbe essere espugnata dalla ragione e allora….”
“Ho capito, ho capito. Ora però devo scappare. Jò continua a farmi cenni con la
mano. Credo comunque che io e te abbiamo molto in comune. Avrò molto piacere ad
approfondire la chiacchierata di questa sera. Ne riparliamo con più calma. D’accordo?”
Allungò il braccio e mi sfiorò una guancia con la sua esile mano. Quasi una piuma.
E sorrise ancora, di uno splendido sorriso. Poi si voltò allontanandosi a passi rapidi per
raggiungere il suo compagno. Quel gesto, del tutto inatteso, mi scosse al punto da lasciarmi
inerme, quasi stordito. Quando raggiunse Jò, lo strinse a sé cingendogli il collo con le
braccia e baciandolo affettuosamente sulle labbra. Un’amarezza improvvisa, mista a un
fastidio, forse a uno stupido astio, mi risvegliò dal torpore in cui ero caduto. Il vapore
continuava a sprigionarsi dalle cose bagnate, il sole era già quasi del tutto nascosto dalle
colline scure che facevano da sfondo al grazioso agglomerato di case in legno. Respiravo
con affanno, ma percepii con delizia una leggera frescura sulle braccia e sul viso che non
provavo ormai da parecchio tempo.
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CAPITOLO V
GUAI IN VISTA
La stessa “delicatezza” di maniere di tutti i giorni. Che stridore infernale quella
porta! La solita faccia arcigna, cattiva.
“Ecco le pile che avevi richiesto. Non fai altro che chiedere pile. Bella la vita qui,
non trovi? Oh ma….durerà ancora per poco, credimi.”
E sogghigna…e richiude la porta con fracasso….. vuol sottolineare che sono un
carcerato, nient’altro che un delinquente recluso e senza possibilità di scampo. L’ultima
cosa che si dilegua dietro la porta è quell’insopportabile, meschino sogghigno. Non lo
posso soffrire, e lui lo sa. Chissà perché devono essere sempre così cattive le guardie!
Tante persone ma sempre la stessa faccia, la stessa cattiveria. Eppure sono uomini, come
me, come gli altri. Già. Perché allora sono così cattive? Loro pensano che io sia cattivo,
quelli come me sono cattivi. Già. Ecco perché fanno quella faccia, perché pensano che la
gente come me, quella che va a finire in galera è cattiva. Ma chi è cattivo dunque? Chi può
dire chi è cattivo e chi è buono? Eppure io non mi sento cattivo. Se solo sospettassi di
esserlo…..ma ….non so….non saprei accettarlo. E se lo fossi senza saperlo?….in buona
fede, come si dice. Non ci sarebbe alcun problema, crederei di essere buono, punto e basta.
Già. Crederei di essere buono. Come ora. Credo di essere buono. Ma come faccio a sapere
di essere buono, come faccio a saperlo….Il mio amico non c’è. Se ne è andato di nuovo a
spasso, tra i buchi e le crepe. A lui che gliene frega di chi è buono o cattivo, che ne sa!
Costruisce la sua casa, mangia, si accoppia…finché un alito di vento spazza via tutto. Che
ne sa lui! Come è bello non sapere di non sapere! Come è bello….come vorrei non sapere
di non sapere…..
***
Non fu un temporale isolato. Ne seguirono altri, sempre più ravvicinati l’uno
all’altro. Erano i sintomi del declino della stagione calda. L’autunno era alle porte.
Godemmo ancora di belle giornate di sole, ma il caldo asfissiante era cessato. Approfittai
delle giornate piovose per scrivere alcuni articoli sulla comunità, che puntualmente inviai a
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Mike, dopo averne trasmesso una copia anche a Ramona. Ne ricevetti calorosi consensi, sia
dall’uno che dall’altra, e l’invito a proseguire. Ricevetti anche qualche soldo da Mike, che
là dove mi trovavo non servivano a nulla. Non riuscivo ancora a capacitarmi di quanto
semplice fosse vivere senza dover comprare niente, soltanto prelevando ciò di cui avevo
effettivamente bisogno dai locali riservati a questo scopo. Mi domandai spesso se fosse
stato possibile applicare su grande scala, all’intera società umana, questo semplice modo di
vivere. Non seppi, o non volli, mai darmi una risposta.
Una mattina in cui il maltempo aveva concesso una tregua, grazie ai forti venti
freschi che impazzavano dalla notte precedente e che avevano sgomberato il cielo dalle
nubi, incontrai Tenton, in compagnia dell’immancabile e onnipresente Sciark, intenti
entrambi a godersi, questa volta, non l’ombra di una frondosa quercia, ma il sole pieno e
ancora cocente dell’estate ormai morente. Tenton era seduto in uno spiazzo erboso al
riparo dal vento, ai confini tra l’area abitata e il bosco. Lo vidi per caso, mentre stavo
girovagando senza meta, approfittando del consueto giorno di riposo scolastico, con in
mente una possibile trama di un soggetto romanzesco. In effetti quel vento metteva i
brividi addosso e faceva rimpiangere le asfissianti giornate trascorse alla ricerca di
refrigerio, che sembravano ormai amaramente lontane nel tempo. Niente di meglio allora
che lasciarsi rosolare sull’erba dal sole, come stava facendo ora Tenton e ben anche quello
sbuffante vaporetto di Sciark. Mi sedetti accanto a loro e chiacchierammo per una
mezz’ora. Il buon vecchio mi ragguagliò, con sfacciata giovialità, sui dettagli del progetto
della fabbrica di birra giunto finalmente alla fase esecutiva. Poi, tra un discorso e l’altro,
ebbe modo di invitarmi all’escursione nei boschi circostanti programmata per la mattina
seguente con alcuni suoi compagni, tra cui lo stesso Jonathan. Era prevista una cavalcata su
due giovani e mansueti cavalli scelti per l’occasione, per chi lo avesse desiderato, oppure la
raccolta dei primi funghi di stagione con l’esperto aiuto dello stesso Tenton, che egli
dichiarò, senza falsa modestia, di poter fornire. Più semplicemente, per i più pigri, era
prevista una giornata di completo relax all’aria aperta tra appetitosi spuntini alla brace,
rilassanti passeggiate, canti e, perché no, anche balli. Non era affatto immaginabile
rifiutare un invito del genere, e non certo per non rischiare di offendere il buon vecchio.
Ebbi persino la faccia di chiedere più tardi ad un collega della scuola di sostituirmi
l’indomani durante le mie ore di lezione, promettendo che avrei presto ricambiato il favore.
Fu così che il mattino del giorno seguente, confortati da un bellissimo sole di inizio
autunno e da una consistente attenuazione del vento, ci addentrammo, io insieme ad una
ventina di comunardi, tra i quali Ramona che conduceva al passo con se due cavalli bruni
(che avesse nel sangue la stessa passione della madre?), all’interno della foresta che si
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estende ad ovest del villaggio. Per un lungo tratto iniziale la foresta mostra chiari segni di
antropizzazione. Era un’area destinata all’estrazione di legname per i vari usi del villaggio
e alla raccolta di gustosa frutta selvatica. Man mano che ci addentravamo e salivamo via
via di quota, arrampicandoci su alti ma comodi rilievi, assumeva però sempre più un
aspetto maestoso e incontaminato. Se non fosse stato per l’esistenza del sentiero che
percorrevamo, si poteva ricevere l’impressione di trovarci in una foresta vergine ove
l’uomo non era mai penetrato. Abeti e cipressi d’alto fusto raggiungono altezze
vertiginose, al punto che non se ne distingue la cima. Ricordavo di aver visto qualcosa del
genere solo quando, ancora bambino, i miei genitori mi condussero a visitare un famoso
parco naturale protetto. Ma inutile dire che, al confronto, quel parco, ora appariva come
una natura ancora troppo domestica, che non riusciva ad incutere il fascino del mistero e
dell’autenticità dal quale rimasi sopraffatto qui nella foresta di abeti e cipressi. Qui tutto
era magnificamente vero. Non c’erano guardie a controllare, segnaletiche ad indicare i
percorsi, tabelle a illustrare le caratteristiche vegetali e faunistiche della zona, aree
attrezzate per il pic nic, e neppure qualsivoglia residuo o rifiuto attribuibile ad un eventuale
transito di uomini. Non c’era niente che potesse lasciar pensare ad una qualche forma di
interferenza umana nella vita del bosco, se non quell’unico sentiero che stavamo
percorrendo, espressione della curiosità insopprimibile e della voglia indomita di avventura
dell’uomo. In realtà, gli abitanti del villaggio che mi ospitava, conoscevano assai bene tutta
quanta la zona, solo che erano sempre stati capaci di non abusare della propria curiosità e
di mantenere la massima discrezione possibile nel rapporto col proprio ambiente.
Camminammo per circa tre ore, prima di giungere al luogo che i miei compagni
avevano prescelto per la sosta. Non ero abituato a quelle scarpinate e mi sentivo alquanto
affaticato. Le facce sorridenti e briose che mi circondavano, al contrario, non mostravano
segni in tal senso, nemmeno quella dell’anziano Tenton. Solo Sciark ansimava
vistosamente, ma questo faceva parte del suo normale modo di essere, non significava
certo che accusasse stanchezza.
Il luogo è un enorme spazio quasi pianeggiante, dominato da alcuni colossi arborei
ultracentenari e da poche rocce sparse di forma e dimensioni spettacolari, sotto una delle
quali sgorga una piccola sorgente d’acqua. L’area era luminosa perché il sole, che irradia
in pieno quel versante, penetrava con larghi squarci di luce tra le antiche fronde martoriate
dal tempo e dalle intemperie e nei buchi vuoti creatisi tra un albero e l’altro per la caduta di
vecchi tronchi marcescenti. Il nostro chiacchiericcio produceva un effetto sonoro strano,
quasi sconcertante, in contrasto con l’assoluto silenzio che sembrava regnare sovrano. Gli
zoccoli dei cavalli, bussando al suolo, rimbombavano in tonfi cupi e sordi. Decisamente,
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non mi sembrò un luogo ameno. Evocava, almeno nel mio animo, suggestioni assai più
profonde e coinvolgenti, viscerali oserei dire, incoerenti con l’aspettativa iniziale di un
allegra scampagnata alla quale mi ero preparato. Non potei che rimanere, per alcuni minuti,
attonito e in severa contemplazione, nonostante percepissi l’allegrezza dei miei compagni,
probabilmente più abituati a simili scenari.
Organizzammo un modesto accampamento accanto alla sorgente, stendendo teloni
sul morbido manto di aghi secchi, appendendo un paio di amache, raccogliendo legna
secca da ardere, sparsa nei dintorni, per l’arrosto del pranzo. Finalmente riuscii a
prendermi qualche minuto di riposo lasciandomi dondolare su un’amaca. Da quando
eravamo partiti, pur attratto dal contesto ambientale che attraversavamo e incuriosito dalle
lezioni micologiche di Tenton su questa o quella specie di fungo incontrato, mi sentivo più
che mai condizionato dalla presenza di Ramona. Aveva chiacchierato per tutto il tragitto
con due sue amiche e io avevo tentato, senza poterne fare a meno, di incrociarle lo sguardo
in varie occasioni, ma inutilmente. Solo in una occasione, quando mi passò accanto in uno
stretto sentiero strusciandomi, i suoi occhi si posarono lungamente sui miei, e ne rimasi
ammaliato. Quanto desideravo che non fosse stato presente Jonathan in quella escursione!
Ammiravo, anche molto, quell’uomo, ma la sua presenza, lo confesso, mi risultava
ingombrante quel giorno. Dondolandomi sull’amaca cercavo ancora lo sguardo di Ramona,
che era intenta a istruire le sue amiche sul corretto modo di stare in sella sul cavallo.
Proprio in quel frangente mi si avvicinò Jonathan.
“Bello il posto, non trovi?”
“Semplicemente affascinante.”
“Quasi quanto la mia compagna, non è vero?”
Rimasi impietrito da quelle parole. Sperai di non aver capito bene. Dopo qualche
attimo di silenzio, mi volsi verso di lui che era in piedi al mio fianco, e con appena un filo
di voce….
“Come dici?…..scusa.”
“Scusami tu, non volevo crearti imbarazzo. In fin dei conti non c’è niente di strano
nel rimanere affascinati da un bel paesaggio o da una bella donna.”
“Oh….sì! Ramona è davvero una bella donna e soprattutto molto intelligente. Ma
non devi pensare….”
“Non cercare di minimizzare, non ce n’è bisogno, non è successo niente. E’
normale invaghirsi di una donna, in particolare di una come Ramona. Non sei certo il
primo e non sarai nemmeno l’ultimo.”
“Oh….ma io….non credo….”
75
“Tranquillo! Ripeto, è tutto abbastanza normale, non c’è niente di cui doversi
vergognare.”
Sorridendo, di un sorriso senza cattiveria, aveva voluto farmi capire che non era
cieco e sciocco, ma nemmeno particolarmente geloso. Soltanto, aveva voluto farmi sapere
che aveva capito. Non osai più contraddirlo. Ero rimasto davvero scioccato. Fu lui a
proseguire spostando il discorso su tutt’altro argomento. Il suo volto si incupì.
“Piuttosto….hai saputo degli ultimi avvenimenti?”
“Quali avvenimenti?”
“Della visita fattaci un paio di giorni fa dagli agenti del Ministero delle Finanze.”
“Per niente affatto.”
“Hai ragione, siamo in pochi a saperlo ancora. Ne darò comunicazione a tutti in
un’assemblea straordinaria che sarà convocata tra brevissimo tempo. Comunque, grosso
modo, si tratta di questo: il Ministero delle Finanze ha respinto le nostre richieste in
materia fiscale. Non accetta il tipo di transazione che avevamo proposto. Come ti
ricorderai, nell’assemblea alla quale tu partecipasti, decidemmo di pagare al Ministero
l’ammontare complessivo dei tributi maturati dalla nostra collettività, compresi gli
arretrati, decurtato però della somma dei trasferimenti statali dei quali non abbiamo mai
usufruito. Ebbene….lo Stato non vuole farci alcuno sconto. Vuole tutto e subito. Un vero e
proprio ultimatum, datoci con la consueta arroganza che contraddistingue, al momento
opportuno, ogni potere. Ed ora…..ora ci troviamo con un grosso guaio da risolvere….”
“Immagino sia un problema molto serio per la vostra comunità….”
“Sì, ma non puoi immaginarti fino a che punto lo sia. Non tanto per la quantità di
denaro che dovrebbe essere sborsato all’erario, quanto invece perché tale problema rischia
di far saltare i difficili equilibri tra le diverse anime della comunità, con tutte le
conseguenze che ne discenderebbero per la stabilità stessa della nostra convivenza. Ti sarai
accorto di come solo la volontà di tolleranza reciproca riesca a far stare insieme posizioni
divergenti, talvolta anche radicalmente contrastanti. Questa volontà di tolleranza potrebbe
ora essere messa a dura prova. Ho paura che non si riuscirà a tenere a bada certi
atteggiamenti
fortemente
ribellistici,
certi
entusiasmi
giovanili,
che
d’altronde
rappresentano il vero motore di ogni rivoluzione e dei quali pertanto non è possibile fare a
meno. Sono proprio preoccupato….”
“Spero ti stia sbagliando Jò, altrimenti sarebbe davvero una catastrofe….anche se
sono convinto che nessuno meglio di te conosce la gente che vive in comunità.”
“Magari potessi sbagliarmi, ne sarei felice. Inoltre, non è solo questo che mi
preoccupa, c’è dell’altro. Qualche giorno fa, prima che giungessero gli agenti del Ministero
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delle Finanze, ci hanno fatto visita anche dei funzionari della sezione politica della Polizia
di Stato….sì, proprio così!… - aveva confermato dinanzi alla mia faccia incredula -…e sai
perché? Cercavano informazioni sul predicatore….ti ricordi della storia del predicatore?..”
“E come, se me ne ricordo!”
“Peggio ancora. Mentre da noi questi inattesi visitatori si sono limitati a farci delle
semplici domande – alle quali peraltro abbiamo tranquillamente risposto, fornendo notizie
che sono già di pubblico dominio – compagni delle altre comunità, con le quali
manteniamo stretti rapporti di ogni genere, ci hanno fatto sapere che altrettanto è successo
presso le loro sedi, e che addirittura, presso una di esse, è stata effettuata una capillare, e
anche brutale, perquisizione, alla ricerca di chi sa quali indizi di collaborazione con il
predicatore. Ti rendi conto di cosa possa significare tutto questo?”
“Ha dell’incredibile quello che mi dici. Prima di tutto perché questi…chiamiamoli
così, sopralluoghi della polizia, sembrerebbero avvalorare l’esistenza e le gesta di questo
personaggio. In secondo luogo perché dimostra un accanimento inspiegabile nei confronti
di un individuo che, in fin dei conti, se fossero vere le chiacchiere che si dicono su di lui,
non fa che predicare la pace e la fratellanza, ovverosia, non fa niente di male ad alcuno.”
“In terzo luogo, se non lo avessi ancora capito, perché significa anche che, nelle
menti di chi ha diretto tutta l’operazione, vi è l’intenzione di intrecciare in qualche modo le
vicende del fantomatico predicatore con l’esistenza delle comunità. Il che lascia paventare
sgradevoli conseguenze per tutti i loro abitanti e frequentatori.”
“Quanto sostieni mi suggerisce un’inquietante considerazione e mi fa sorgere dei
dubbi. Il potere politico sembrerebbe, a questo punto, preoccupato di qualcosa: del
predicatore, vera o falsa che sia la sua storia? Delle comunità come la vostra, che stanno
crescendo e possono rappresentare un’evidente negazione delle istituzioni statali? Di
entrambe le cose?”
“Hai colto perfettamente nel segno. Sono queste le domande, ed altre ancora, alle
quali dovremo cercare di dare una risposta il prima possibile.”
Si voltò e si diresse a passi lenti verso la sorgente, ripetendo a se stesso con la sua
voce baritonale, più volte consecutivamente, “…il prima possibile”, con lo sguardo perso a
terra come se ne scandagliasse le profondità nascoste.
Rimasi ancora per alcuni minuti a dondolarmi sull’amaca, turbato dalle rivelazioni
fattemi da Jò, forse anche di quelle relative a Ramona; in verità, di più per quali non saprei
dirlo, ma certo rimasi scosso e per tutto il resto del giorno, anche quando tentai di
abbandonarmi ai momenti di spensierata convivialità che si protrassero fino a sera. Un
tarlo continuò a rodermi dentro fino a che non riuscìì a tarda notte, sfinito per la
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stanchezza, ad addormentarmi nel letto. Ramona, che cominciava a saper leggere nei miei
occhi, si accorse che qualcosa in me non andava e in un momento di rilassamento durante
il pomeriggio mi chiese cosa avessi. Le risposi in maniera fugace e superficiale,
sottraendomi dall’incombenza di doverle esporre delle verità imbarazzanti, a causa anche
della presenza di tutta la comitiva, chiedendo informazioni sulla tecnica più appropriata
per cavalcare e restare in sella con sicurezza e mostrando per ciò un interesse che in realtà
non nutrivo in modo particolare. Di questo fortunatamente non si accorse e fu ben felice di
offrirmi la sua prima lezione di come si monta un cavallo. Sarebbe stato meraviglioso
lasciarsi guidare dai suoi consigli e dalle sue mani, se non vi fosse stato alcun osservatore
presente e soprattutto Jonathan. E invece risultò estremamente imbarazzante così sotto gli
occhi di tutti e con la consapevolezza che Jò aveva compreso la mia attrazione per
Ramona. Ovviamente Jò ridacchiò con naturalezza per tutta la lezione insieme agli altri,
mostrandosi solo divertito per la mia goffaggine di principiante cavaliere, aiutandomi in tal
modo a mimetizzare i reali motivi dell’imbarazzo.
Al tramonto eravamo di nuovo al villaggio e fummo accolti dai comunardi che
gironzolavano ancora per le vie con domande, sorrisi e battute. Nella situazione un po’
confusa che si era creata, Ramona mi si avvicinò domandandomi a bruciapelo: “E’ stato
bello, non è vero?” E dopo alcuni attimi di esitazione aggiunse: “Ma….tu non mi sembri
molto soddisfatto. E’ tutto il giorno che non sei tranquillo. O mi sbaglio?”
Esitai anch’io qualche istante, poi le risposi:
“No, non ti sbagli. Nella mattinata Jò mi ha messo al corrente delle visite che avete
ricevuto da parte degli agenti finanziari e della polizia di Stato, con i possibili significati
che queste visite possono nascondere e….”
“Già, proprio così!”, e il suo volto si incupì, proprio come quello di Jò nel momento
in cui mi aveva dato l’informazione.
Me la cavai con mezza verità. L’altra mezza rimase nascosta a tormentarmi ancora
per giorni.
Appena tre giorni dopo l’escursione nel bosco, si tenne un’assemblea straordinaria
per discutere sugli ultimi avvenimenti dei quali Jò mi aveva messo al corrente. Si svolse
nella stessa aula di sempre, ovviamente, ma questa volta di pomeriggio, con inizio intorno
alle ore cinque quando il sole stava ormai approssimandosi a discendere dietro le boscose
colline che cingono il villaggio. Nonostante a quell’ora i comunardi fossero, di norma,
impegnati nelle varie attività lavorative, l’aula, alle cinque e trenta, era già stracolma
all’inverosimile. Quasi tutti avevano interrotto il proprio lavoro per andare a discutere delle
urgenti questioni del momento. Assistetti in piedi per tutta la durata dell’assemblea,
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pressato tra moltissimi altri ad un lato delle file di panche. Il disagio fisico dovuto
all’insufficienza di spazio era evidente e lo svolgimento della discussione risultò,
inevitabilmente, caotico, ma nessuno ebbe a lamentarsene, tanto erano considerate
importanti le questioni oggetto del dibattito.
Così come era successo nell’assemblea alla quale io avevo assistito, e come era
prevedibile che accadesse ancora, il dibattito, acceso e a tratti infuocato fino al punto di
lasciar paventare insanabili conflittualità, si estrinsecò attraverso il confronto-scontro tra
l’anima estremista, oltranzista, che poco tollerava i compromessi e sosteneva la ferma
coerenza agli ideali di autonomia e libertà professati, rappresentata per lo più da giovani e
giovanissimi, e quella moderata, più riflessiva, meno propensa al ribellismo incondizionato
e assai più attenta a non mettere a repentaglio l’esistenza della comunità, rappresentata
soprattutto da adulti ed anziani. Riguardo alla questione fiscale, da una parte si respingeva
decisamente l’ultimatum governativo con le sue pretese ritenute fameliche, prive di ritegno
e volutamente provocatorie, dall’altra, pur concordando con questa analisi, si considerava
comunque opportuno essere prudenti e soprassedere alle richieste, infischiandosene dei
trasferimenti statali dei quali si poteva benissimo fare a meno. Riguardo alla questione del
predicatore, da una parte si propugnava la giustezza di esprimere pubblicamente e
incondizionatamente la solidarietà verso tale personaggio, per quanto mai conosciuto o
incontrato, dall’altra si giudicava assai meno rischioso limitarsi soltanto a negare
l’esistenza di qualsiasi rapporto con il medesimo. L’animosità del dibattito sfociò di
frequente in accuse ed offese reciproche tra le due parti e a poco valsero, questa volta, il
carisma e la capacità conciliatrice di Jonathan e degli altri leaders della comunità. Alla
fine, per fortuna, prevalse il buon senso. Si decise unanimemente di rinviare la soluzione
dei problemi ad una successiva assemblea, dando mandato ad una delegazione di fare un
ulteriore tentativo di mediazione con gli organi statali per addivenire ad accordi accettabili
e scongiurare pericolose situazioni di scontro frontale.
La mattina dopo feci visita a Jò al centro organizzativo. Non lo trovai affatto
tranquillizzato. Al contrario, l’esito dell’assemblea aveva rafforzato le sue preoccupazioni.
Si era ormai quasi convinto che, questa volta, sarebbe stato assai difficile portare serenità
tra le diverse anime della comunità. L’unica speranza era di riuscire a strappare delle
significative concessioni al governo che potessero in qualche modo accontentare, o
comunque acquietare, la fazione estremista. Egli era stato nominato fra i cinque delegati
che avrebbero dovuto tentare la mediazione. Insieme sarebbero partiti entro un paio di
giorni per raggiungere le sedi governative. Jò si dichiarava estremamente determinato nel
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compiere quel tentativo, ma non certo ottimista della sua riuscita. Da quando mi trovavo
fra quella gente, non avevo mai visto Jò così scuro in volto.
La delegazione comunarda stette via quattro giorni, durante i quali potei
intrattenermi spesso con Ramona e i suoi compagni al centro organizzativo. Ricevevamo,
per telefono e per e-mail, i rapporti sui colloqui che la delegazione intratteneva con varie
commissioni governative, e insieme ne discutevamo anche animosamente. I resoconti
trasmessici non erano affatto confortanti; ciò nonostante continuavamo a sperare in
soluzioni accomodanti. In quei quattro giorni passai davvero molto tempo insieme a
Ramona: quasi le intere giornate e, un paio di volte, fino a notte inoltrata. La sua
compagnia stava divenendo quasi un bisogno ossessivo per me. Erano più che sufficienti la
sua voce inconfondibile, i suoi sorrisi, la sua provocante presenza fisica ad inebriarmi, ad
infondermi una voglia esagerata di vivere. Non credo che la sua bellezza corporea, spesso
ostentata senza alcuna remora, potesse lasciare indifferente qualcuna delle persone che le
vivevano accanto; eppure non mi sarei mai sognato di metterle un solo dito addosso. Stavo
sviluppando una passione, per così dire, meramente platonica nei suoi confronti. Mi
bastava sentirla parlare, vedere il suo sguardo rivolto verso di me, o anche semplicemente
averla accanto. D’altronde, la sua forte e indiscutibile personalità, riusciva sempre e
comunque ad incutere rispetto. Qualunque cosa avesse potuto e voluto offrire di se stessa,
l’interessamento, l’amicizia, il piacere, l’amore, non avrebbe mai aspettato di lasciarsela
chiedere. Era assolutamente padrona del suo essere, o almeno cosi a me sembrava essere,
da poter decidere in qualsiasi momento cosa dare di se stessa agli altri. Soprattutto questa
sua personalità mi affascinava e mi faceva desiderare di starle il più possibile accanto. Ma
in quei quattro giorni si fece strada in me anche un altro sentimento e una nuova
consapevolezza: sentii nascere per la prima volta un senso di colpa per quella mia passione
per Ramona, probabilmente generatosi dopo il colloquio avuto con Jò durante l’escursione
nei boschi. Ora sapevo che lui sapeva, e non potevo accettare a cuor leggero di provare una
simile attrazione per la compagna di un uomo verso il quale nutrivo un’inequivocabile
stima. Jò era un uomo di grande generosità e intelligenza, animato da altrettanto grandi
ideali. Non avrei mai potuto perdonarmi una qualsiasi indelicatezza nei suoi confronti.
Inoltre, avevo incominciato a percepire, in alcuni atteggiamenti degli amici di Ramona, in
alcuni loro sorrisi, nei loro sguardi, che questa mia attrazione per lei era divenuta palese
anche per loro. Pur risultando sempre molto discreti, non erano riusciti ad evitare di farmi
capire che anche loro sapevano. E magari forse immaginavano che quell’attrazione potesse
essere ricambiata in certa misura da Ramona. L’unica che sembrava essere all’oscuro di
tutto era Ramona stessa. Il suo interloquire in pubblico con estrema sicurezza e
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spontaneità, che era una costante del suo comportamento, non lasciava trapelare alcuna
ombra, alcuna consapevolezza nascosta. Ma è difficile credere che una così vivace
intelligenza, non inferiore a quella del suo compagno, potesse non aver almeno intuito i
miei sentimenti nei suoi confronti. E allora iniziai anche a chiedermi come mai non avesse
ancora mai tentato, in modo esplicito, di scoraggiare o, al contrario, incoraggiare questi
sentimenti. Cosa pensava lei di me? Cosa provava per me? Perché non aveva ancora
lasciato intendere quale fosse il confine insuperabile del suo interessamento per la mia
persona? Avrebbe potuto farlo in mille modi e in mille occasioni. Forse l’aveva già fatto
ma io non lo avevo compreso. Forse non lo aveva mai fatto perché ella stessa non sapeva
ancora dove tracciare quel confine.
La quarta notte, quando ci giunsero le ultime brutte notizie dalla delegazione,
Ramona non voleva saperne di andare a dormire, ed io non avevo alcuna intenzione di
lasciarla sola al centro. Erano circa le due e non poteva fare a meno di leggere e rileggere
gli sconsolanti rapporti giunti via e-mail, alla ricerca di chissà quali scappatoie alla delicata
situazione che la comunità stava attraversando. Nonostante la preoccupazione trapelasse
con evidenza dal suo sguardo, mantenne sempre una lucida calma, riuscendo anche a
sorridere con autentica simpatia per alcuni miei suggerimenti che, evidentemente, non
risultavano appropriati al caso. Comprendendo che non l’avrei mai lasciata sola ai suoi
pensieri, mi costrinse affettuosamente ad andarmene a letto, offrendosi di accompagnarmi
al mio alloggio. In quella fresca notte d’inizio autunno, attraversammo il villaggio
ammantato da un meraviglioso silenzio e tenuemente illuminato da una mezza luna in un
cielo terso. Solo i nostri passi, per quanto felpati, si udivano in quel silenzio tombale e
qualche lontano richiamo di civetta. Lungo il percorso ella mi poggiò amichevolmente il
braccio sulla spalla fino davanti l’uscio della mia unità abitativa, come una mamma che
accompagni il suo piccolo ricalcitrante ad andare a letto. Ma nella leggera pressione del
suo braccio sulla spalla avvertivo qualcosa di più di un semplice affetto materno. Mi
sentivo fortemente emozionato, quasi sul punto di sciogliermi come neve al sole e rivelarle
tutto il mio desiderio nei suoi confronti. Mi accompagnò persino all’interno dell’alloggio,
quasi fossi ubriaco e incapace di farlo da solo. E in un certo senso mi sentivo davvero
ubriaco, ubriaco di lei e della sua irresistibile sensualità. Mi guardò fissa negli occhi
augurandomi la buona notte, abbozzando una carezza sui miei capelli. Rimasi impietrito
dal suo sguardo, che mi parve durasse un’eternità, ma non seppi leggervi alcun
suggerimento, alcun indizio sicuro. Avessi dato retta all’impulso e al sentimento l’avrei
abbracciata e baciata. Ma la mia ragione mi impedì di farlo, e soprattutto l’improvvisa
paura di mancare di rispetto a lei e a Jò. Richiuse la porta alle sue spalle, lasciandomi come
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uno stoccafisso a fissare nel vuoto ancora per parecchi secondi, prima che mi abbandonassi
vestito sul letto.
Il giorno dopo, dunque, a tarda sera, la delegazione giunse al villaggio a mani
vuote, come già dettagliatamente preavvisato mediate i contatti telefonici e la posta
elettronica. Prima che fosse convocata una nuova assemblea straordinaria per discutere sul
da farsi alla luce delle risultanze degli incontri sostenuti dalla delegazione, volli ascoltare
per intero i resoconti verbali che Jò fece ai suoi più diretti collaboratori appena ritornato.
Gli organi governativi interpellati non intendevano cedere su alcun punto. In più, rispetto
alle precedenti posizioni, lasciarono solo intendere che di trasferimenti statali si sarebbe
potuto parlare nel caso in cui la comunità si fosse uniformata, in quanto a struttura
organizzativa della vita cittadina, agli altri comuni del paese e alle regole democratiche di
convivenza universalmente adottate. In sostanza si chiedeva di abbandonare tutti i capisaldi
culturali sui quali la comunità si fondava e per i quali era stata creata. Si chiedeva di
strutturare il villaggio secondo le modalità di governo e di controllo vigenti in ogni altra
città, compresa l’istituzione di apparati di giustizia e di polizia. In definitiva, si chiedeva
alla comunità di rinunciare ad essere ciò che era sempre stata e per la quale era nata come
alternativa alla società costituita. Quel che è peggio, gli organi governativi avevano anche
chiaramente dichiarato di non essere più disposti a tollerare a lungo “anomale” forme di
convivenza sociale. Le pendenze fiscali, inoltre, dovevano essere risolte immediatamente,
saldando a brevissima scadenza almeno il cinquanta per cento del loro ammontare
maturato in tutti gli anni di esistenza della comunità. Un ultimatum era stato dato anche per
quanto riguarda il fantomatico predicatore (che, a questo punto, non sembrava più essere
tanto fantomatico, ed anzi se ne ammetteva formalmente l’esistenza da parte delle
istituzioni statali): qualsiasi aiuto, sostegno o forma di copertura alle azioni del predicatore
sarebbe stata repressa severamente come attività eversiva e anti-istituzionale.
Peggio di così, i tentativi di mediazione operati dalla delegazione, non potevano
andare. Inutile raccontare in dettaglio lo svolgimento della nuova assemblea straordinaria.
Basta dire che essa si protrasse per circa tre ore in un’atmosfera carica di tensione con
continui scontri verbali e accuse reciproche tra le diverse anime della comunità. Ma, al
contrario di quanto mi potessi attendere, e forse a causa della mancanza di possibili e
praticabili scappatoie, si risolse con la perfetta unanimità di tutti i presenti, che erano tanti,
praticamente quasi tutti i comunardi adulti e gran parte di quelli giovani e giovanissimi.
L’assemblea rifiutò orgogliosamente di accettare ogni proposta e ultimatum degli organi
governativi, riconfermando l’assoluta autonomia della comunità rispetto allo Stato e alle
istituzioni sociali esistenti. Deliberò di inviare un comunicato ai medesimi organi nel quale
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si invitava ad adottare atteggiamenti più tolleranti e a trovare soluzioni di mediazione che
non ledessero l’autonomia della comunità. Ormai si paventava uno scontro dai risvolti e
dagli esiti imprevedibili. Tutti erano coscienti del vicolo cieco nel quale si era finiti, ma
nessuno dimostrò di volersi tirare indietro. La sfida allo Stato era stata lanciata. Non
restava che attendere le contromosse.
Il giorno dopo, in ogni angolo del villaggio, sui posti di lavoro, in ogni luogo ci si
incontrasse, non si faceva che parlare della delicata situazione del momento. La stessa
fierezza e la stessa rabbia trapelava dalle parole di ognuno, e anche la stessa fermezza di
intenti di non cedere alle minacce governative. La possibilità che l’esistenza della
comunità potesse essere messa a repentaglio aveva sortito come effetto il superamento
delle divergenze interne e il ricompattamento delle diverse fazioni su un obiettivo comune:
resistere ad ogni costo. Lo stesso Jò, che dal giorno della gita nei boschi si era mostrato
sempre scuro in volto per la preoccupazione che potessero incrinarsi irreparabilmente i
rapporti interni tra i comunardi, sembrava aver riacquistato, se non il sorriso, almeno la
serenità per una ritrovata unità con tutti i suoi compagni. Incontrandolo al centro
organizzativo mi disse:
“Vedi, Stephen……fin dall’inizio della nostra avventura avevo messo in conto che
ci saremmo potuti trovare in un simile frangente. Sapevamo che stavamo costruendo
qualcosa di antitetico alle istituzioni e alla cultura dominante, e dunque era lecito attenderci
che, prima o poi, ci sarebbe stata una reazione più o meno dura. Ma confesso che, dopo
ormai circa quattro anni di esistenza della nostra comunità, quasi avevo finito per pensare
che ci avrebbero lasciati in pace vivere la nostra vita, non fosse altro che per evitare di dar
risonanza e pubblicità all’esperimento e quindi evitare che potesse diventare contagioso, un
modello cioè da imitare e riproporre altrove. Purtroppo mi accorgo ora di essermi illuso.
Ma…caro Stephen, non tutto il male viene per nuocere, come dice un vecchio proverbio.
Sono riusciti a rinverdire i nostri ideali di partenza e a farci ritrovare più che mai uniti a
lottare per essi. Ti sembra poco?”
Non era poco, non lo era affatto, anzi. A pensarci bene, constatare come alcune
centinaia di persone, di ogni età e razza, di entrambi i sessi, dimostrasse una tale tenacia
nel voler conservare a qualsiasi costo, contro tutti e tutto, il proprio modello di vita, che si
era scelto e costruito con le proprie mani e la propria mente, non poteva che suscitare
ammirazione. Per quanto mi riguarda, pur non essendo a tutti gli effetti uno di loro, in
quell’occasione mi sentii perfettamente partecipe del loro unanime e ostinato proposito. E
quando Jò mi volle far presente, per scrupolo personale, per senso di onestà, che avrei
anche potuto non approvare in tutto o in parte la decisione scaturita in assemblea, senza
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dovermene meritare un qualsiasi rimprovero da chicchessia, non lo lasciai neanche
terminare, dichiarando, con sincerità, che potevano contare sul mio pieno e incondizionato
sostegno. A riprova del mio totale appoggio, gli comunicai che avevo intenzione di fare un
nuovo articolo a proposito di questi ultimi avvenimenti, per tentare, nei limiti del possibile,
di renderne edotta e quindi sensibilizzare l’opinione pubblica. Avrei chiesto il parere suo e
degli addetti alle relazioni pubbliche sull’articolo, appena realizzato, prima di inviarlo al
mio amico editore. Per questa iniziativa mi offrì, com’era ovvio, la sua approvazione. E
così mi dedicai, nei giorni che seguirono, negli spazi di tempo serali e notturni liberi, ad
elaborare il mio primo esplicito documento pubblico di sostegno alla comunità, non più
semplicemente finalizzato a documentare gli aspetti culturali di un modo di vivere
alternativo alla società dominante.
Elaborare questo nuovo articolo mi richiese alcuni giorni e non poco sforzo mentale
per dare una veste significativa ai vari fatti occorsi e renderla comprensibile al più vasto
pubblico di lettori possibile. Mi aiutarono Jò e Ramona nell’esporre correttamente gli
avvenimenti nel loro ordine logico e cronologico. Ma alla fine il risultato fu soddisfacente
sia per me che, soprattutto, per loro, i quali non risparmiarono di rivolgermi esagerati
apprezzamenti. Poi accadde qualcosa di “strano” al quale non diedi molta importanza
allora e che riesco ad interpretare nel modo corretto, credo, soltanto oggi. Dopo aver
ricevuto, apportando però qualche piccola modifica, approvazione per l’articolo da parte
degli addetti alle relazioni con l’esterno, mi misi in contatto con Mike per preavvisarlo
delle mie intenzioni di trasmettergli via e-mail il nuovo scritto, suggerendogli quale rivista,
tra quelle che il suo gruppo editoriale gestiva, fosse più indicata per ospitarlo. Come al
solito Mike si mostrò per telefono assai contento di riascoltare la mia voce e più che mai
soddisfatto di poter ricevere un mio nuovo elaborato. Dopo alcuni giorni che avevo spedito
l’articolo, però, Mike mi comunicò per posta elettronica che lo stesso non aveva ricevuto
grandi consensi da parte della redazione ma che lui avrebbe comunque fatto il possibile per
farlo pubblicare. Era la prima volta, nei miei rapporti con Mike, che accadeva una cosa del
genere, ma non vi diedi molta importanza, proprio perché non seppi interpretarla. In realtà
si nascondeva in essa una minaccia. Se abbastanza bene potevo intuire a quali guai stesse
andando incontro la comunità, dopo aver respinto l’ultimatum governativo, nemmeno mi
sfiorava il cervello che quella comunicazione “atipica” di Mike potesse preannunciare
futuri guai personali.
***
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Uffa! Come bruciano gli occhi! Vedo sfocate le lettere, vedo le sue cosce..sempre le
sue cosce. Sarà bene che spenga il computer. Quella voce tagliente…però…non lo era
affatto quando godeva. Bastardo..cosa mi hai fatto! Forse adesso avrei ancora potuto
baciare quelle labbra tremende, stare con lei..parlarle e parlarle, sentirla parlare…quella
voce di ghiaccio. Figlio di puttana. Ho sonno, sono stanco…stanco. Quante notti come
questa? A toccarmelo, a prendermelo in mano…a ricordare quella voce che godeva….che
bello!…come godeva! Figlio di puttana, gran figlio di puttana. Meglio dormire…meglio
dormire,
sono
stanco,
troppo
stanco,
mi
masturberò
domani…ora
no.
Ciao
Ramona…Sciark….Jò….
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CAPITOLO VI
UNA FREDDA NOTTE
Sognavo di trovarmi in Piazza Gandhi tra i comunardi che ballavano sfrenatamente,
al suono di strani strumenti e di strani ritmi assolutamente indescrivibili che avevano la
capacità di stordirti, quasi sconvolgerti, e al fascino dei quali era impossibile sottrarsi. Tutti
danzavano come fossero indemoniati, posseduti da chissà quale forza misteriosa che ne
guidasse i movimenti di là dalle singole volontà e capacità di produrli. Anch’io mi sentivo
sconvolto da quella musica ma, al contrario di quanto stava succedendo a tutti gli altri, ne
ero come pietrificato, incapace di muovere il più piccolo muscolo. Per questo sedevo su
una panca ai margini della bolgia e davanti a me, abbandonata alle convulsioni irrefrenabili
del corpo, impressionanti e al contempo seducenti, danzava Ramona, coi capelli
scarmigliati, quasi svestita, con lo splendido corpo in gran parte nudo e madido di sudore.
Sembrava danzasse per me, e per me pian piano spogliarsi, gettando via ad uno ad uno i
suoi indumenti in una sorta di spogliarello sabbatico. D’improvviso, in mezzo alla
confusione generale, distinsi delle urla, degli schiamazzi e un vociare incomprensibile,
seguito da ripetuti colpi cupi, come prodotti da una gran cassa durante l’esibizione di un
complesso musicale.
In realtà, quei colpi erano prodotti dai pugni di Robert e Marianna, gli alloggianti
dell’unità abitativa vicina alla mia, i quali, intorno alle due di una fredda notte d’autunno,
avevano deciso di sottrarmi dalle braccia di Morfeo. E sì che mi capitava assai di rado di
esserne rapito tanto efficacemente quanto quella notte.
“Stephen….Stephen…..sveglia! Ci sono visite.”
Strappato all’affascinante sogno, con riluttanza mi costrinsi a mettere a fuoco la
situazione. Riconosciuta la voce degli insistenti richiami, decisi di rispondere.
“Robert….cosa succede?”
“Finalmente….buon giorno!… o meglio buona notte… o come preferisci. In ogni
caso è ora di alzarsi, ti devi alzare. C’è la polizia, in grande schieramento, che ha pensato
di farci una cordiale visita….e quale miglior momento delle due di notte? Non è vero
Stephen?”
“La polizia?”
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“Esattamente, signor Stephen, e si affretti ad aprire la porta o saremo costretti a
buttarla giù.”
“Ma che sta succedendo?”, risposi trafelato e sbalordito all’ultima voce che non era
certo quella di Robert. “Non c’è bisogno di buttar giù niente: la porta è sempre aperta, ma
datemi il tempo di vestirmi.”
Feci appena in tempo a finire la frase che la porta si spalancò. Si accese la luce,
entrarono quattro uomini in divisa, seguiti da Robert e Marianna ai quali si leggeva in
faccia lo sconcerto. Due dei poliziotti erano armati di mitraglia, che impugnavano con una
mano puntandola verso il pavimento.
“L’educazione e le buone maniere non sembrano il vostro forte”, dissi loro più con
stizza che con ironia.
“Bando alle chiacchiere”, mi rispose perentoriamente l’uomo, fra i quattro, che, a
giudicare dalle stellette sulla divisa, doveva essere il più alto in grado. “Non siamo qui in
visita di cortesia, abbiamo un mandato di perquisizione: stiamo cercando un signore, dal
nome sconosciuto ma passato alle cronache di questi ultimi tempi come ‘il predicatore’.
Lei mi sa dire qualcosa in proposito?”, chiese con una smorfia ironica delle labbra
mostrando un foglio che doveva essere il mandato, e senza aspettare la risposta, se la diede
da solo: “Immagino di no.”
Scesi in mutande dal letto e afferrai i pantaloni che la sera prima avevo gettato su
una vicina sedia.
“Immagina bene, anzi, lo sa che sarei curioso di saperne qualcosa di più anch’io in
proposito?”
“Bene. Se collabora avremo modo di farcene insieme una cultura di questo folle
personaggio”, proseguì con accentuata ironia.
Finito di indossare gli abiti mi avvicinai a Robert per chiedergli sottovoce qualche
spiegazione in più su ciò che stava accadendo. Piegò le labbra ed aprì leggermente le
braccia a significare che non sapeva darmi alcun ragguaglio. Poi subito dopo aggiunse,
anche lui sottovoce:
“Dovevamo aspettarcelo, è già accaduto ad altre comunità.”
I poliziotti stavano mettendo a soqquadro tutte le stanze, senza ovviamente
preoccuparsi di rimettere a posto alcunché. Ero abbastanza irritato e lo sguardo di
impotenza di Robert e Marianna non mi era certo di conforto. Uno dei poliziotti si mise
prima a scompigliare in alcuni cassetti dove conservavo la mia biancheria intima, poi
addirittura negli sportelli della dispensa in cucina. Non seppi trattenermi:
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“Ma cosa diavolo pensate di trovare tra le vettovaglie?” – e lo dissi senza
dissimulare il nervosismo.
“Si calmi!” – ribatté il graduato – “Non sono tenuto a darle spiegazioni oltre il
necessario, e comunque, per farla contenta, le dirò che stiamo cercando qualsiasi indizio
che ci possa aiutare a ritrovare il predicatore, e lei, a quanto pare, non sa o fa finta di non
sapere che infiniti potrebbero essere gli indizi utili a questo scopo, nell’ipotesi che il
medesimo abbia transitato, magari anche frettolosamente, da queste parti. Quindi la prego
di non interferire nel nostro operato: i miei uomini sanno cosa, come e dove cercare.”
Non sapendo come ribattere, dovetti incassare reprimendo la rabbia. Ma mi venne
spontaneo porgere al graduato un’altra domanda che sarebbe potuta sembrare provocatoria,
mentre in realtà era frutto di autentica curiosità:
“Cosa ha poi mai fatto di così grave questo predicatore, di quali reati è imputabile il
suo operato? In fin dei conti, per quanto mi è dato di sapere, non fa che predicare la pace e
la fratellanza tra la gente e i popoli…”
“Propaganda illegale finalizzata a sovvertire le istituzioni democratiche,
incitamento alla rivolta, minaccia alla quiete sociale, oltraggio allo Stato, organizzazione
eversiva clandestina, uso di tecniche fraudolente per la persuasione, impiego di arti
illusionistiche per carpire il consenso delle masse ….. e posso continuare a lungo, se le fa
piacere essere informato sui rischi che corrono tutti coloro che si prodigano, in un modo o
in un altro, a fornire sostegno alle azioni del predicatore.”
Rimasi esterrefatto, ma senza darlo a vedere, dalla sequela accusatoria fornitami
con chiarezza e sicurezza espositiva. Non volli però lasciar pensare di esserne rimasto
intimorito. Scelsi prontamente di veicolare un sottile sarcasmo con una declamazione quasi
filosofica:
“Vero è che il confine tra bene e male è assai labile, ed è, a giudicare dalle sue
informazioni, assai facile scivolare dall’uno all’altro senza accorgersene e magari contro le
proprie stesse intenzioni.”
“Esatto, figliuolo! Dirò di più: è molto difficile discernere con certezza quel
confine. Occorre solo molta ponderazione nel compiere le proprie azioni e, soprattutto, se
si vogliono evitare guai, è necessario mantenere sempre la più stretta aderenza alla legalità
democraticamente istituita.”
Non valeva la pena continuare a dialogare col graduato, che così perspicacemente
mi dava lezioni di legalità. Sarebbe stato come dialogare tra sordi; non si poteva certo
sperare di scalfire quel muro di pietra, quell’ostentata sicurezza di chi sa di trovarsi dalla
parte del potere. Tacqui in attesa che finissero di perquisire l’alloggio. Tra l’altro mi
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incuriosiva sapere cosa stava accadendo nel resto del villaggio. Si sentiva un gran
frastuono provenire da fuori, con qualche urla e latrato di cane. Incominciai a pensare con
preoccupazione a cosa stesse accadendo al centro organizzativo. Non vedevo l’ora che
finissero per correre fuori. Non mi accorsi, sul momento, di un particolare della
perquisizione che, fortunatamente, mi risparmiò qualche spiacevole inconveniente, e del
quale invece mi accorsi più tardi quando raggiunsi il centro: il mio computer portatile era
rimasto inosservato sulla sedia nella quale avevo riposto i miei abiti la sera precedente, e
forse proprio grazie al fatto che da questi, inizialmente, era stato occultato. Una volta
rivestitomi, rimase scoperto e ben in vista, ma nessuno dei poliziotti ci fece cadere lo
sguardo, preoccupati di cercare chissà cosa nei posti più nascosti. In caso contrario sarebbe
stato di certo requisito. Non fu prelevato alcunché dal mio alloggio, e dopo una decina di
minuti, sufficienti a lasciare sul posto un gran disordine, i poliziotti uscirono all’aperto. Io
e la coppia di vicini li seguimmo. Robert e Marianna, visibilmente preoccupati in volto e
con lo sguardo abbassato verso terra, mi salutarono e rientrarono nel loro alloggio. Gli
inaspettati ospiti, invece, tirarono fuori dagli zainetti delle torce elettriche, le accesero, e
proiettando i fasci di luce verso la strada principale che conduceva in Piazza Gandhi, si
aggregarono ad un nutrito gruppo di altri poliziotti che transitava nei pressi a passo rapido.
La notte, senza luna ma sgombra di nubi, per cui il firmamento appariva fortemente
stellato, era percorsa da una leggera brezza fredda e pungente. Di corsa mi avviai lungo la
strada verso il centro organizzativo, mentre davanti agli occhi, non ancora perfettamente
abituati al buio (un temporizzatore interrompeva automaticamente l’illuminazione pubblica
alle due di notte), ballonzolava uno scenario di allarmante caos e concitazione. Una
miriade di raggi di luce si muovevano da tutte le parti, si incrociavano, si disperdevano
come spettri danzanti tra gli alberi del vicino bosco o sui prati circostanti alle unità
abitative; minacciose pattuglie e squadre di poliziotti, più o meno numerose, si spostavano
in varie direzioni, come era anche sottolineato dal calpestio collettivo di marcia, cupo e
confuso; fucili, mitraglie, manganelli, scudi e caschi apparivano e scomparivano tra i
vaganti riflessi di luce; alcuni cani lupo, tenuti a fatica al guinzaglio, abbaiavano
ossessivamente non so bene verso chi e verso cosa (il pensiero per un momento mi andò a
Sciark, temendo che potesse essere scappato impaurito chissà dove); numerose camionette
e mezzi blindati si intravedevano ferme in sosta sulla piazza; uomini solitari,
presumibilmente comunardi, correvano di qua e di là tra una pattuglia e l’altra; grida,
richiami, ordini rabbiosi e persino qualche pianto di bambino, si alternavano e si
sovrapponevano suscitandomi inevitabili brividi di sgomento e paura; e mentre mi
avvicinavo alla piazza, avvertii distintamente anche improperi ed esclamazioni di
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incredulità provenire dall’interno di qualche alloggiamento. Attraversai la piazza
zigzagando tra gli autoveicoli della polizia in sosta e tra alcune guardie lasciate di
sentinella, senza che nessuna di loro si preoccupasse del mio passaggio. Giunsi al centro
organizzativo ove trovai, tra il disordine delle cose e l’affollamento caotico di comunardi e
poliziotti, Ramona furibonda che gesticolava e inveiva contro gli uomini in divisa, a stento
trattenuta da Jonathan e da altri compagni. Non l’avevo mai vista così fuori di sé, e
nemmeno immaginavo fosse capace di lasciarsi andare a simili sfoghi, abbandonando il
suo consueto contegno di razionalità e autocontrollo a cui, la tipica e inconfondibile
sonorità della sua voce, conferiva di norma un’apparente freddezza e insensibilità.
Sembrava davvero indemoniata, rossa in faccia quasi dello stesso colore dei capelli, il
bellissimo volto deturpato dalle smorfie involontarie prodotte dall’ira. Si protendeva in
avanti verso un graduato dall’atteggiamento compassato che, immobile al centro della
stanza, dava ordini ai suoi subordinati facendo sequestrare varie apparecchiature
elettroniche e computers. Ramona rischiava di dire o fare qualcosa di troppo che le sarebbe
potuta costare cara. Rimasi per un momento sbalordito e incredulo di fronte a quella scena,
come se di colpo scoprissi un’altra persona in quel corpo scalmanato, dai movimenti
scomposti ma dalle fattezze egualmente seducenti. Nessuno dei presenti sembrava riuscire
a calmarla. Intimava ai poliziotti di lasciare al proprio posto le apparecchiature, come se
fosse convinta di riuscire a farsi ascoltare. Evidentemente aveva perso il senso della
dimensione reale della situazione, non voleva accettare che si compisse quello che a lei,
come d’altronde a tutti noi, sembrava essere un mero sopruso. Il graduato, frattanto, aveva
mutato atteggiamento, aveva abbandonato il sorriso di sfida e la sua apparente
imperturbabile pazienza. Era diventato serio in volto e si preparava a pronunciare qualcosa
che non doveva essere certo niente di buono. Ebbi improvvisamente paura prevedendo
qualcosa di brutto e irreparabile. Mi scossi dallo sbalordimento dal quale ero stato colto e
d’impulso, prima che la situazione precipitasse, credo che compii, non so come, il
miracolo. Mi frapposi tra il graduato e Ramona e, afferrando lei per entrambe le spalle, le
gridai quasi disperato, a pochi centimetri dal volto, di calmarsi, di tornare in sé. In un
primo momento i suoi occhi rimasero, minacciosi e carichi di odio, puntati sul graduato,
poi, come risvegliatasi da un’altra dimensione, guardò nei miei occhi e i suoi lineamenti
tornarono ad essere d’incanto quelli che avevo sempre conosciuto, tranquilli, privi di
tensione.
“Va bene, va bene…..va tutto quanto bene. Non ti spaventare Stephen, non vi
spaventate ragazzi….” – disse quasi balbettando col fiato grosso e tradendo forse un lieve
senso di vergogna per essersi lasciata trasportare dalla rabbia - “….solo che non possono
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farci questo, non possono portarci via le macchine; c’è tutto il nostro lavoro là dentro,
come faremo ad andare avanti? Ci avete pensato? Come faremo a continuare certe attività
senza quelle macchine?”
“Ma sarà per poco, Ramona…” – le risposi senza sperare molto di risultare
convincente – “…il tempo di analizzare la memoria dei computers e rendersi conto che non
vi è assolutamente nulla di ciò che stanno cercando. Poi dovranno restituire tutto quanto.”
“Sì, ma quanto tempo? Tu lo sai per quanto tempo hanno intenzione di trattenere le
nostre macchine? Tu lo sai, Stephen, se nella loro testa non vi è forse l’intenzione di creare
problemi alla nostra comunità? Perché se è così, possono riuscirci, è fin troppo facile.
Quali altre macchine staranno sequestrando ora nel villaggio? Ci avete pensato a questo?”
“Hai ragione Ramona…” – intervenne Manolo – “…ma cosa ci possiamo fare? Ora
cerchiamo di mantenere la calma, aspettiamo che portino a termine la loro azione, poi
faremo tutti insieme il punto della situazione e studieremo eventuali contromisure.”
“Ha ragione Manolo” – aggiunse Jò – “Non serve a nulla ora scaldarsi troppo.
Dovremo valutare attentamente tutto l’accaduto e poi magari organizzare delle rimostranze
efficaci nelle opportune sedi. Tempo al tempo, Ramona.”
E finalmente Ramona si calmò, con visibile soddisfazione del graduato che aveva
assistito al nostro dialogo, il quale fece di nuovo mostra di un sottile sorriso beffardo.
Quando la squadra di poliziotti ebbe finito la perquisizione con relativa requisizione
di vario materiale, tornandosene fuori, decidemmo di seguirla all’esterno per andare a
controllare gli avvenimenti nel resto del villaggio. Fu allora che dovemmo assistere ad una
scena straziante: l’arresto del buon vecchio Tenton. Un capannello assai nutrito, composto
di abitanti del villaggio e ancor più da poliziotti, si spostava lentamente dalla via centrale
verso Piazza Gandhi. Richiamò la nostra attenzione soprattutto perché delle grida rabbiose
si levavano da esso, insieme agli abbai incontenibili di Sciark (per un attimo trassi un
sospiro di sollievo nel vederlo vivo e pimpante). Ci avvicinammo ansiosi al gruppo e, tra i
fasci di luce che lo attraversavano, notai subito che qualcosa di grave era successo. Si
udivano parolacce, bestemmie, minacce, espressioni concitate e si vedevano gesti
scomposti, spintoni e qualche schiaffone. Ammanettato e trascinato a forza all’interno del
gruppo vi era Tenton, che sbraitava come un ossesso e inveiva senza riguardi contro i suoi
accompagnatori in divisa. Ci accostammo il più vicino possibile, poi fummo ributtati
all’indietro dai rinforzi di poliziotti che erano accorsi per sostenere gli altri che avevano
compiuto l’arresto. Afferrai per la pelle del dorso Sciark cercando di sedarlo con carezze e
parole suadenti, onde evitare che potesse impattare nello stivale di qualche poliziotto
esacerbato. Jò, Manolo, Ramona e gli altri facevano del loro meglio per chiedere
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spiegazioni dell’accaduto e urlare a Tenton di star calmo perché in qualche modo si
sarebbe risolto il problema. Pur nella sua veneranda età, Tenton dimostrava di averne di
energie in corpo, continuando a sbraitare e a dimenarsi e facendo faticare non poco i suoi
custodi che gli stringevano le braccia. Era talmente sovraeccitato dal risentimento e da un
indomabile senso di ribellione, che non si accorgeva neppure dei richiami e dei consigli dei
suoi compagni. A nulla valsero i nostri tentativi di mediazione con i funzionari più alti in
grado: Tenton venne caricato a forza su un’autovettura in sosta e noi fummo costretti ad
allontanarci sotto la minaccia delle armi. Ci spiegarono poi, alcuni amici testimoni
all’arresto, che la polizia non aveva trovato nulla di compromettente nell’alloggio di
Tenton, ma che era stato portato via a forza semplicemente a causa della sua reazione
esagerata durante la perquisizione. Resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, dunque.
Quanto bastava comunque per mandare in fumo il sogno di una vita, quasi sul punto di
avverarsi, di poter avviare la produzione della birra.
Arrabbiati, amareggiati, storditi dal succedersi rapido e imprevedibile degli
avvenimenti, proseguimmo in gruppo a girovagare per il villaggio. Eravamo tesi e
silenziosi, certamente accomunati dallo sconforto e dal timore di imbatterci in altre
sgradevoli sorprese.
“Alla scuola”, disse perentoriamente Jò, alzando l’indice nella direzione in cui si
trovava. Dopo un paio di minuti eravamo a farci spazio in un piccolo assembramento di
amici che ne ostruivano l’ingresso borbottando fra loro e tra i quali riconobbi alcuni
insegnanti dalla faccia sconvolta. “Un vero disastro!”, esclamò uno dei presenti
rivolgendosi a Jò scotendo la testa. Di fatto, appena entrati, costatammo un disordine
indescrivibile quanto ingiustificabile. Attraversammo alcune aule facendoci strada tra
tavoli e sedie rovesciate. Diverse apparecchiature didattiche mancavano all’appello, in
particolare computers e proiettori; erano state prelevate anche cospicue parti di archivi
filmici e svuotati molti contenitori per diapositive.
“Ma perché …….. perché tutto questo! Le sedie rovesciate….perché! I personal
computers dei bambini…..”, esclamò ripetutamente come un automa Ramona, gli occhi
spalancati, le labbra aperte come per catturare più aria. Per fortuna quell’ondata d’ira, dalla
quale prima era stata pervasa, sembrava essersi dissolta, lasciando in sua vece tanta
tristezza e sconsolatezza. Seduto davanti al proprio banco, in una delle aule, scorsi uno dei
bambini ai quali impartivo le mie lezioni di letteratura, Francisco. Era accorso alla scuola,
forse contro la stessa volontà dei genitori, ed ora stava piangendo silenziosamente con lo
sguardo fisso sul proprio banco. Mi avvicinai a lui e misi una mano sulla sua nuca, non
sapendo affatto cosa dire per confortarlo. Alzò la testa e mi guardò con i suoi occhi gonfi
92
di lacrime, riuscendo a balbettare: “C’erano i miei pensieri, tutti i miei pensieri sul
computer…..perché me lo hanno portato via? Eh…professore?”
“Non lo so….non lo so Francisco.”
Da sotto il mio braccio, che tenevo ancora appoggiato sulla nuca del bambino, si
erse di prepotenza il muso peloso di Sciark, il quale si era intrufolato nella scuola
venendoci dietro. Poggiò le sue pesanti zampe sulle gambe esili di Francisco e si mise a
leccare le lacrime che gli scendevano lungo le guance. Francisco offrì tutta la faccia
all’affettuosa e ruvida lingua del cane, avvinghiando teneramente il suo collo. Sciark
sapeva far meglio di me, non aveva bisogno di parlare.
Proseguimmo il nostro giro di perlustrazione recandoci alla biblioteca pubblica, alla
falegnameria e sostando di tanto in tanto presso alcune unità abitative ove si palesava un
particolare stato d’agitazione. Lo stesso trattamento era stato riservato ad ogni edificio
perquisito, e praticamente rovistarono quasi tutti gli stabili della comunità, ad eccezione di
alcuni alloggiamenti. Dappertutto requisirono attrezzatura e materiale informatico. Giunse
il crepuscolo quando le varie pattuglie sparse si radunarono in Piazza Gandhi. Nel vago
chiarore del mattino che stava per nascere potei rendermi conto della consistenza delle
forze di polizia che erano intervenute a compiere l’operazione: circa duecento poliziotti, tra
graduati e non, una ventina di mezzi di trasporto tra autoblindo, camionette, camion,
furgoni, e normali automobili. La sproporzione di personale impiegato per un’operazione
all’interno di un pacifico villaggio di circa quattrocento abitanti (un poliziotto ogni due
abitanti) faceva risaltare il chiaro intento intimidatorio che essa si proponeva. Risalite sui
mezzi di trasporto, le forze di polizia defluirono incolonnate dal villaggio immettendosi
lentamente sull’unica via di comunicazione della zona. Mentre se ne andavano, erano
seguite dagli sguardi attoniti, umiliati, arrabbiati degli abitanti, quasi tutti ormai svegli e
accorsi in piazza per assistere all’epilogo della vicenda. Bilancio finale: l’arresto di Tenton,
il sequestro di decine di macchine informatiche e di centinaia di supporti multimediali
d’archivio. Negli sguardi della gente accorsa traspariva la coscienza della calamità che si
stava abbattendo sulla comunità: non solo le normali attività di tutti i giorni avrebbero
subito un blocco pressoché totale per un tempo indeterminato ma anche, e assai peggiore,
si profilava una prospettiva foriera di sorprese future ancora peggiori. Il segnale di quella
sera era chiaro per tutti.
“Siamo proprio nei guai.” In queste amare parole, pronunciate con un filo di voce
da Ramona mentre guardava e non guardava la colonna di veicoli allontanarsi, c’era tutto il
senso del dramma che si stava vivendo. Le pronunciò piano, tra sé e sé, ma non così piano
che io non potessi sentirle.
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Il sole crebbe nel cielo terso e azzurrino illuminando le prime splendide sfumature
autunnali della chioma boschiva. A giudicar dagli schiamazzi dei bambini che provenivano
dagli ampi spazi erbosi intorno alle case, sembrava un giorno di festa in piena regola. Festa
però lo era solo per i bambini che, ad eccezione dei più grandi e dei più sensibili, erano
ovviamente contenti dell’inaspettato disimpegno scolastico di cui poterono usufruire. Per il
resto della comunità la situazione era ben diversa. In ogni angolo del villaggio, le consuete
attività del giorno erano state sostituite dal chiacchiericcio ininterrotto dei piccoli
assembramenti di adulti. Ovunque si guardasse, c’era qualcuno che parlava con qualcun
altro. Le facce, invariabilmente, denunciavano stanchezza per la notte insonne, incredulità,
collera e desiderio di riscatto: nient’altro che questo. Ben presto, da gruppo a gruppo,
cominciò a rimbalzare un’esigenza univoca: convocare immediatamente un’altra
assemblea straordinaria. Era palpabile la volontà unanime di reagire con prontezza e
decisione all’accaduto, perché per la prima volta erano stati messi in gioco anni di fatiche,
sforzi, tenacia ed entusiasmo, profusi per l’obiettivo di costruire un modello alternativo di
socialità. La determinazione che animava quella gente era indiscutibile, e la sera del giorno
successivo la pittoresca sala delle assemblee risultò stracolma di partecipanti alla nuova
seduta.
La rivalità, il confronto spesso aspro tra correnti di pensiero, l’opposizione tra
l’anima giovane e radicale e quella più matura e moderata che da tempo trovavano
puntuale espressione in ogni adunanza cittadina, già ridimensionate nella precedente
assemblea straordinaria, mi sovvennero alla mente solo come un lontano ricordo
nell’atmosfera creatasi in quest’ultima assemblea. L’unanimismo e la concordia regnavano
incontrastate; ogni intervento oratorio era sottolineato da applausi scroscianti e grida
diffuse di approvazione; le dichiarazioni a proposito dell’arresto di Tenton avevano
addirittura infuocato la massa dei presenti, che lanciava slogans assordanti a favore della
sua liberazione, quasi che quegli slogans potessero echeggiare fino alle stanze del
Ministero degli Interni. Sembrava di stare a vivere una situazione insurrezionale di epoche
passate, in cui la povertà e la miseria erano ancora un motore della storia. Ma il motore di
questa esplosione di volontà di rivolta non era la fame, bensì il profondo desiderio di
difendere la propria pacifica esistenza dagli attacchi di un mondo che pretendeva l’assoluta
omologazione delle modalità di convivenza sociale, l’orgoglio di proteggere la propria
identità culturale, il proprio modo di concepire la vita. Vennero approvate all’unanimità
alcune mozioni, che sarebbero poi dovute essere inoltrate agli organi istituzionali
competenti. In una si reclamava l’immediata scarcerazione di Tenton e il proscioglimento
da qualsiasi accusa nei suoi confronti, essendo stata, la sua, una reazione legittima ad
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un’imprevista e inaudita situazione di provocazione e oltraggio alla persona. In un’altra si
pretendeva l’immediata restituzione di tutta l’attrezzatura requisita, nonché il risarcimento
per i danni subiti dalla collettività a causa dell’interruzione di molte attività lavorative di
vitale importanza. La terza mozione richiese molto più tempo delle altre per essere
approvata, perché riguardava la posizione ufficiale da prendere in relazione al movente,
almeno apparente, che era stato fornito per giustificare l’assurda operazione poliziesca di
perquisizione. Che dire a proposito del cosiddetto “predicatore”? Di là di quale e quanta
verità vi fosse nelle storie che circolavano sul predicatore, Ramona mi aveva
sufficientemente illuminato sui delicati equilibri di pensiero che si erano venuti a formare
all’interno della comunità circa le vicende di questo fantomatico personaggio.
Indipendentemente dal grado di convinzione individuale sulla veridicità dei racconti
diffusisi ovunque in relazione al “redivivo Gesù”, ormai, per tutti i comunardi, e forse per
tutte le persone al mondo che erano ancora capaci di coltivare, nella propria mente, ideali e
utopie umanitarie, il predicatore era comunque divenuto un simbolo, un potente simbolo di
riscossa dei reietti, degli emarginati, dei diversi e dei poveri. E se era vero che la ricerca di
questo imprendibile personaggio poteva diventare, come lo era già divenuta, un alibi per
operazioni di polizia mirate a disgregare e a fiaccare gli scarsi aneliti di libertà
sopravvissuti nel mondo, come quelli espressi dalla pacifica comunità nella quale per caso
mi ero trovato a vivere, era vero anche, pensandoci sopra, che ciò che preoccupava
soprattutto il potere costituito, ogni forma di potere esistente, era proprio quel simbolo e la
sua potenzialità di diffondersi in maniera incontrollata. Ebbene, nella terza mozione, pur
negando che la comunità avesse o avesse avuto un qualche tipo di collusione con il
predicatore, così come la stessa semplice verità dei fatti imponeva, si salvò unanimemente
proprio il valore di quel simbolo, difendendo gli ideali di uguaglianza e fratellanza dei
quali era esplicito portatore. Si dichiarò la piena solidarietà per tutti coloro che nel mondo,
compreso lo stesso predicatore, se e ove egli fosse esistito per davvero, diffondevano o
facilitavano la diffusione di quegli ideali. Io stesso, che pur ero sempre stato scettico
sull’esistenza del predicatore, detti un convinto assenso alla mozione. Senza che allora me
ne potessi accorgere, stavo integrandomi sempre più allo spirito della comunità. Approvate
le tre mozioni, si decise che una delegazione avrebbe dovuto consegnarle a mano presso gli
organi istituzionali competenti, trattando, se possibile, immediate e concrete soluzioni, così
come si era tentato di fare la volta precedente anche se senza alcun successo. A comporre
la delegazione furono nominate le stesse persone di allora, con l’aggiunta, però, di due
anziane esponenti, molto stimate da tutta la gente del villaggio per capacità oratoria e
indiscussa preparazione in materia legislativa.
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Due giorni dopo la delegazione era già in viaggio. Alcune delle attività interrottesi a
causa della requisizione dell’attrezzatura informatica, ripresero, nonostante tutto, a
funzionare, grazie alla volontà di resistenza dei comunardi. Soprattutto, è ovvio,
proseguirono senza sosta quelle attività che dovevano garantire gli approvvigionamenti
alimentari e di vitale necessità per tutti; e anche là dove i computers erano indispensabili al
lavoro, non si restò certo con le mani in mano ad attendere la restituzione dei macchinari
sottratti. Quella gente non era capace di rimanere inoperosa e, piuttosto che starsene a
piangersi addosso, si prodigò in qualche modo e tutta unita per alleviare i disagi del
momento. Anch’io proseguii le mie lezioni e, anzi, sotto certi aspetti esse furono assai più
proficue di quelle svolte in condizioni di normalità. La situazione “anomala” venutasi a
creare dopo l’intervento delle forze dell’ordine, era senz’altro avvertita come strana dai
bambini, almeno quelli dai dieci, undici anni in su, e questa percezione fu da stimolo per
interessanti conversazioni e approfondimenti tematici, in particolare di natura sociale, che
riuscirono a carpire l’attenzione e la partecipazione di tutti. Mi dedicai anche, durante le
ore pomeridiane e notturne, a redigere un nuovo articolo da spedire al mio amico editore,
al quale impressi, come nel caso precedente, un’impostazione diversa dal consueto
resoconto socio-antropologico sui costumi e le abitudini di una convivenza civile
alternativa. Un po’ per scelta, un po’ per coinvolgimento emotivo nello spirito di
indignazione che infiammava gli animi del villaggio, redassi un’accorata denuncia
dell’azione liberticida condotta dai poteri dello Stato contro una piccola, inerme e pacifica
popolazione. Anche questa volta, prima di spedirlo, volli il consenso di Ramona. Erano
passati già tre giorni dalla partenza della delegazione cittadina, quando decisi di cercare
Ramona. Oltre ad illustrarle il mio articolo, volevo sapere se vi erano stati sviluppi dal
momento della partenza dei delegati, se fosse giunta qualche notizia significativa da parte
di Jò, che era uno di essi. Non mi riuscii di trovarla per tutto il giorno, nessuno sapeva
dirmi dove si trovasse, tanto che ne restai un poco preoccupato. L’incontrai verso sera per
caso, prima che il sole tramontasse, mentre si stava dirigendo a passi lenti fuori del
villaggio verso le colline boscose. Aveva lo sguardo pensieroso rivolto a terra e le braccia
dietro la schiena con le mani unite appoggiate sul fondo schiena. Non si era nemmeno tolta
gli occhiali da lavoro, che poggiavano sulla metà del naso. La capigliatura era sciolta,
disordinata e ricadente in parte ai lati delle gote e in parte dietro le spalle, mossa
leggermente da tenui folate di vento. Indossava maglia e pantaloni larghi, che non le
donavano molto, e anzi le nascondevano le belle fattezze fisiche. Aveva un aspetto
trasandato e un’espressione preoccupata e stralunata, molto simili a quelli di una
ricercatrice appena uscita dal laboratorio di sperimentazione, ancora frastornata da formule
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e ipotesi di ricerca. Ovviamente, nella sua testa, c’erano ben altri pensieri invece che
interrogazioni di natura scientifica. Mi accostai al suo fianco.
“Posso accompagnarti?”
“Oh….Stephen……... certo, se ti fa piacere.” Abbozzò un mezzo sorriso
d’occasione che la diceva lunga sul suo stato d’animo del momento.
“Non sei in gran forma, a quanto vedo….se ti disturbo….”
“Non pensarlo nemmeno…. solo non credo di poterti offrire una piacevole
compagnia.”
“Capisco, credo di capire…. d’altronde tutti quanti siamo un po’ giù di morale. E’
meglio che ti lasci sola.”
“Ma no, ma no… anzi, vieni con me, la tua compagnia mi sarà d’aiuto.” Mi prese
sotto braccio, offrendomi un sorriso più vero di quello precedente, che non nascondeva
comunque una malinconia di fondo.
“Dove andiamo?”
“Dove già ti portai la volta scorsa…… il tramonto, ricordi?”
“Come potrei dimenticarlo?”
“Questa volta però, ti preannuncio, rimarrai un po’ deluso, non assisterai allo stesso
spettacolo.”
“Perché?”
“Vieni e vedrai.”
La seguii contento, come al solito, di poterle stare al fianco e di poterle parlare.
Durante il percorso le esposi il contenuto del mio nuovo articolo, ed ella mi ascoltò in
silenzio, accordandomi il consenso di tanto in tanto con cenni della testa. Ma il suo non era
un interessamento attento, meno che mai profondo ed entusiastico, come mi aveva
mostrato in altre occasioni. Mi resi conto che Ramona non era la stessa di sempre, non
riusciva a nascondere un certo turbamento di fondo. Continuai comunque a parlarle, senza
ricevere alcun commento specifico su ciò che le stavo dicendo, solo cenni di apparente
consenso. Fino a che non giungemmo a destinazione, là dove la prima volta mi aveva fatto
assistere a quell’indimenticabile tramonto. Mi decisi ad interrogarla.
“Non mi stai ascoltando, vero Ramona? Che cosa hai?”
“Guarda Stephen, guarda laggiù”, indicò col braccio teso l’orizzonte. Mi voltai
nella direzione indicata, spaziando con lo sguardo su un paesaggio cupo dove a malapena
si distinguevano i confini tra le cose, e persino tra la terra e il cielo.
“Ma dov’è il sole?”
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“Te lo dicevo che saresti rimasto deluso. Il sole è già sceso dietro il monte, non
riesce più ad insinuarsi tra i due pendii scoscesi. Le giornate si sono accorciate, il sole
segue una traiettoria sempre più bassa e scompare sempre più precocemente dietro
l’orizzonte. Ormai già da parecchi giorni il fenomeno cui ti feci assistere non si ripete più.
Sai…. dura solo pochi giorni nel pieno dell’estate. Bisogna attendere la prossima estate per
ammirarlo di nuovo. Chissà se saremo ancora qui l’anno prossimo a veder inondare di
fuoco la valle!”
Mi voltai verso di lei, aveva sempre quell’aria abbattuta.
“Tu sei triste, Ramona. Per Dio, perché sei così triste?”
“Come potrei non esserlo, dopo le ultime disavventure che ci sono capitate…..
Tenton in prigione, la perquisizione notturna, le minacce governative…”
“Sì…. in particolare per quanto riguarda Tenton, posso darti ragione, ma per il
resto, non mi sembra poi così drammatica la situazione, si può rimediare a tutto.”
“Forse a quello che è accaduto, ma a quello che potrà accadere?”
“Cos’altro dovrebbe accadere, oltre a quello che è già capitato?”
“Ho paura, Stephen, che niente resterà più come prima. Non mi vergogno a dire
che, brutti pensieri e altrettanto brutti presentimenti, mi si sono appiccicati addosso come
sanguisughe. Mi tormentano strane sensazioni….non so……come di un’imminente fine di
tutto. Non mi era mai capitato prima….”
“Ma la fine di che cosa? Che cosa stai dicendo, Ramona? Non ti riconosco più. Eri,
o almeno sembravi, così ottimista, così determinata nel perseguire i tuoi obiettivi sociali,
esistenziali…. Proprio qui, mi ricordo, di fronte a quello stupendo sole che s’inabissava
all’orizzonte, eri riuscita, proprio tu, a far breccia nel mio scetticismo, forse anche a farmi
sentire capace di potermi impegnare per scopi più grandi dello spensierato desiderio di
raccontare storie. Davvero….. mi stupisci.”
Restò silenziosa, con lo sguardo perso su quel tramonto che non c’era più, su quella
bellezza estasiante strappata via dal tempo. Per quanto dichiarassi di non riconoscerla più,
di non distinguere in lei quei tratti caratteriali che mi avevano da subito affascinato, ebbi
d’improvviso il tremendo sospetto che il suo sguardo triste e fisso a rincorrere immagini
non più esistenti, potesse nascondere una tremenda verità. Mi accostai come un automa,
come un burattino mosso da fili invisibili, al suo corpo, le cinsi delicatamente la spalla col
braccio, le sfiorai la guancia con un timido e impercettibile bacio che, soltanto pochi
secondi prima, non avrei mai creduto possibile avere il coraggio di darle. E chiusi gli
occhi, per non vedere più niente. Non vidi più niente, non sentii nemmeno più niente. Non
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so nemmeno come lei interpretò quel bacio, non si lasciò interpretare. Il tempo mi avrebbe
riservato dure e brutali risposte, ma anche belle sorprese.
***
Provaci ancora, Ramona. Provaci ancora. Tu ne hai la forza e l’intelligenza, ne hai
la volontà, ne hai l’istinto…. come questo piccolo ragno che è di nuovo uscito allo
scoperto a cercare la vita, con le sue zampette esili che tremano ad un alito di vento, prima
che qualche essere grosso e prepotente lo schiacci sotto la suola delle sue scarpe, magari
per sbaglio, per sbadataggine, per noncuranza. Provaci ancora, Ramona….provaci ancora.
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CAPITOLO VII
GESU’ E’ VIVO
Dopo otto giorni dalla partenza fece rientro al villaggio la delegazione nominata
dall’assemblea cittadina. Unico tangibile risultato ottenuto mediante le serrate trattative da
essa condotte con i vari apparati governativi, fu quello di riportare a casa Tenton dietro
pagamento di una cauzione, un po’ frastornato e incupito ma ancora tutto d’un pezzo. Per il
resto non c’era di che rallegrarsi. Tutto il materiale requisito era rimasto trattenuto presso
gli organi di controllo per un’approfondita ispezione e chissà per quanto tempo ancora, ci
disse Jò, lo sarebbe rimasto. Fortunatamente la caparbietà dei comunardi non restò
sopraffatta dai pur pesanti eventi subiti. Con ingegno e tenacia e una grande capacità di
improvvisazione, furono riavviate in qualche modo le principali attività del villaggio,
quelle essenziali alla sopravvivenza; molte altre vennero riprese solo parzialmente con
opportuni adattamenti ed accorgimenti, ma quelle più altamente specializzate, che
richiedevano l’uso esclusivo delle sofisticate apparecchiature sequestrate, rimasero
inevitabilmente sospese, in particolare quelle relative alla progettazione, pianificazione e
comunicazione. L’umore della gente stentava a ritornare alla normalità, per via delle
piccole e grandi preoccupazioni che permanevano e che non era facile spazzar via,
nemmeno con l’inesauribile spirito solidaristico dal quale quella gente era stata sempre
animata. Nei giorni successivi, però, cominciarono a circolare alcune voci, destinate a
divenire via via più insistenti, che mutarono radicalmente la situazione complessiva
all’interno della comunità. In un paesino a non più di duecento chilometri di distanza era
transitato fugacemente il predicatore, questo almeno quello che si diceva, stando alle
testimonianze di un gruppo di abitanti del paesino stesso che aveva deciso di divulgare la
notizia sui giornali nazionali e via internet. Sembra si fosse fermato per pochi minuti,
circondato da una decina di fedelissimi, in una piazza, ad arringare una nutrita folla di
curiosi con discorsi di pace, di carità e di fratellanza, e sembra anche che avesse compiuto
uno dei suoi consueti “miracoli”, facendo tornare a camminare un paralitico costretto in
carrozzella semplicemente carezzandolo con la mano sulla testa. Subito dopo si era come
volatilizzato insieme alla sua scorta di adepti senza che nessuno dei testimoni ai fatti
potesse dire dove si fosse nascosto.
Alla luce di quanto di recente accaduto alla comunità e considerando che
l’avvistamento del predicatore era stato fatto in un luogo poco distante da essa, molti dei
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comunardi - soprattutto quelli già propensi a credere nell’esistenza di questo personaggio e
quelli che erano rimasti affascinati del simbolo che ormai egli rappresentava,
indipendentemente dal fatto che esistesse davvero o fosse frutto della fantasia popolare – si
sentirono autorizzati a mettere in relazione i due avvenimenti e a pensare che la
perquisizione alla comunità costituisse parte integrante dell’obiettivo di far terra bruciata
intorno al predicatore e di riuscire a mettergli le mani addosso. In sostanza, tra i
comunardi, si accrebbe notevolmente la fiducia nell’esistenza del predicatore nonché
l’attrazione per la sua opera, del tutto simile a quella di un Gesù redivivo. E’ facile,
dunque, immaginare come ben presto tutti i guai che essi di recente avevano subito,
passassero in secondo piano, sostituiti da un rinnovato e grandioso entusiasmo di lotta per
gli ideali da sempre professati e in ampia misura praticati. Un nuovo fermento culturale e
ideologico si rinnovò nel villaggio, evidenziato dai continui fervidi dibattiti che in ogni
angolo e in ogni occasione si produssero conseguentemente al presunto avvistamento del
predicatore. Anche la rabbia, intesa come bisogno di rivalsa per i recenti affronti subiti,
divenne sempre più diffusa ed intensa, esplicitandosi in invettive cruente contro il potere e
le sue istituzioni ogni qual volta capitava di parlarne, e se ne parlava sempre più spesso.
Insomma, questa piccola comunità di volenterosi uomini, che da tempo aveva quasi
dimenticato di essere portatrice di un messaggio universale e che si era adagiata nelle sue
forme di convivenza alternativa senza forse pretendere nient’altro che di essere lasciata in
pace, si risvegliò improvvisamente riscoprendo le ragioni profonde della propria esistenza.
Mi soffermai spesso anch’io a parlare nei dibattiti improvvisati che ovunque si
generavano, allo spaccio, nelle strade, a scuola e in ogni altro luogo capitasse di
incontrarsi. Di proposito cercai più volte Tenton, un po’ per stargli vicino e sostenerne il
morale, nei limiti del possibile, un po’ per carpire le sue “sagge” impressioni sul
predicatore; ebbi così modo di parlargli da solo a solo in diverse occasioni. Riguardo alle
sue vicende giudiziarie personali, non lo trovai molto scosso; affermava di non temere per
se stesso, perché alla sua età qualsiasi problema, in ultima analisi, non poteva che risultare
del tutto secondario rispetto all’approssimarsi dell’appuntamento con la morte. Il suo
rammarico si appuntava per lo più nel vedere sfumare la possibilità di realizzare la tanto
sospirata fabbrica di birra. Diceva di essere assai più preoccupato per la situazione generale
che si era andata creando che non prometteva nulla di buono per la comunità,
condividendo in pieno il pessimismo di Ramona. Riguardo al predicatore, si dimostrò
alquanto laconico, limitandosi ad apprezzare il risveglio degli ideali di pace e fratellanza
del quale, in un modo o nell’altro, la sua ormai mitica figura era stata causa scatenante.
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“Non so chi sia, non so nemmeno se “sia”, so solo che ciò che dicono di lui è ciò
che diciamo e crediamo di noi stessi, e questo ci offre l’opportunità di dare risonanza ai
nostri scopi di vita e alla nostra volontà di continuare ad esistere.” La saggezza che da lui
mi aspettavo si confermò anche in questa occasione, senza fare nemmeno una piega. Era
giunto il momento di affondare il piede sull’acceleratore degli ideali, costasse quel che
costasse.
Un gruppo di giovani e giovanissimi, dai 17 ai 22 anni di età, appartenente all’ala
più intransigente e ribellistica dell’opinione politica che trovava espressione nelle
assemblee, decise di tentare un contatto “diretto” col predicatore. Si propose di raccogliere
informazioni e testimonianze di “prima mano”, facendo visita ai luoghi cui si riferivano gli
ultimi avvistamenti, cercando di giungere, se possibile, ad intercettare almeno alcuni dei
fedelissimi proseliti, se non il predicatore stesso. Per quanto ritenuta dai più un’azione
illusoria e quindi inutile, e da alcuni addirittura pericolosa, in quanto avrebbe potuto
fornire una conferma ai sospetti di connivenza già avanzati dagli organi di polizia, qualora
ne fossero venuti a conoscenza, nessun membro della comunità si oppose concretamente
alla missione. Tutti quanti erano ormai convinti che non si potesse più restare con le mani
in mano, che qualcosa si dovesse fare per non subire passivamente il succedersi degli
avvenimenti, i quali stavano ormai comunque mettendo a repentaglio l’esistenza della
comunità. Così il gruppo, attrezzatosi di tutto punto con telecamere, macchine
fotografiche, computers portatili e quant’altro ritenuto utile per registrare fatti e
accadimenti e per trasmetterli repentinamente al villaggio, partì una mattina di fine ottobre
su un pulmino, portandosi dietro, nonostante tutto, le speranze e la solidarietà di tutti i
comunardi.
Tre giorni dopo la partenza pervenne ad alcuni membri della comunità il primo
resoconto, per posta elettronica, redatto dagli improvvisati giovani “reporters”. Riportava
le testimonianze di alcuni pochi osservatori che, garantiti dall’anonimato, avevano
accettato di essere intervistati. Costoro asserivano di aver assistito all’ultima predica, di cui
si aveva notizia, del misterioso personaggio che somigliava a Gesù. Sembra che
somigliasse in tutto e per tutto a Gesù, anche fisicamente: capelli lunghi, ondulati, castani,
barba rada, altezza circa un metro e settantacinque. Indossava abiti semplici, pantaloni
scuri consunti e sgualciti, maglietta chiara a casacca che scendeva larga fino a metà delle
cosce. Era accompagnato da dieci, quindici persone, vestite umilmente come lui, che si
limitavano a richiamare la gente per strada con cenni o espliciti inviti orali. Si era
intrattenuto in una piazza per pochi minuti riuscendo ad arringare una nutrita folla di
curiosi abitanti del posto. I testimoni non avevano notato alcunché di miracoloso, come
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sostenuto nei giorni seguenti dai mezzi di comunicazione di massa, pur ammettendo che
qualcuno degli abitanti, di cui si era taciuto il nome, dichiarava di essersi improvvisamente
scoperto guarito dai propri malanni conseguentemente al fugace transito in loco del
predicatore. Comunque sia, il breve discorso che costui aveva improvvisato in piazza,
scandito con semplici parole da una voce calda e profonda, aveva conquistato subito
l’attenzione degli ascoltatori. Erano parole che incitavano, con chiarezza e senza alcuna
retorica, a non perseguire i miti del denaro, del potere, del successo e ad impiegare le
proprie energie per aiutare il prossimo, in particolare quello più bisognoso, i sofferenti, i
poveri, gli emarginati. Ai testimoni era sembrata sbalorditiva la facilità con la quale, quelle
poche parole pronunciate in un brevissimo spazio di tempo, fossero riuscite a far presa
sulla folla, addirittura ad entusiasmarla, tanto che la dipartita del predicatore fu
accompagnata da intensi applausi e acclamazioni. A proposito dell’allontanamento della
comitiva di predicanti, uno soltanto dei testimoni disse di aver visto che se ne era andata su
semplici autovetture. Gli altri dissero di non essersi nemmeno resi conto di come
all’improvviso fosse scomparsa dal piccolo paesino, così come inspiegabilmente
all’improvviso era apparsa.
Era impossibile per chiunque, anche se corazzato con solide convinzioni
materialistiche o con una radicata predisposizione allo scetticismo, restare indifferente a un
simile rapporto. Confesso che anch’io rimasi sbalordito nell’udire il racconto di tale
rapporto che Manolito fece a me, a Ramona, a Jò e ad altri, presso il centro organizzativo.
Mentre Manolo parlava, mi sforzai di mantenere un mezzo sorriso ironico, rivolto ora a
Ramona, ora a Jò, come per comunicare una legittima incredulità, ma che, a ben riflettere,
era solo un modo per nascondere a me stesso la paura di dover credere a qualcosa che
metteva radicalmente in discussione la mia visione della realtà. Né il volto di Ramona, né
quello di Jò, assecondavano però, con la loro espressione seria, il messaggio che tentavo,
senza troppa convinzione, di comunicare. Ciò contribuì ad impressionarmi ancor più,
facendomi sentire come se fossi ormai l’unico al mondo a rifiutare ostinatamente di
credere alle vicende del predicatore. Ma a cosa, a chi e perché avrei dovuto credere? Seguì
un lungo silenzio alla fine del racconto. Poi….
“So a cosa stai pensando, Stephen…” - mi disse Ramona guardandomi con la coda
degli occhi – “…anzi, so, o credo di sapere, ciò a cui non vorresti pensare, anche se non
puoi farne a meno.” Si volse quindi a guardarmi frontalmente con espressione quanto mai
seria. “ Forse per te è giunto ormai il momento di mettere alla prova le tue convinzioni.”
Compresi al volo ciò che intendeva dirmi.
103
“Hai ragione, Ramona. A questo punto non mi rimane altro che verificare di
persona, mettere il dito nella piaga, altrimenti rimarrei prigioniero del sospetto nei
confronti di tutti, ma anche nei confronti di me stesso, non potrei più vivere in pace con le
mie idee. Dovrei raggiungere il nostro gruppo di giovani amici e collaborare alla sua
ricerca del famigerato personaggio. Ma come posso fare? Non ho alcun mezzo. E come
potrei lasciare la scuola per diversi giorni? Chi mi sostituirebbe?…”
“Riguardo al mezzo, non c’è alcun problema” – disse Jò – “ho in mente qualcosa
che può consentirti rapidi spostamenti…”
“Ma io non so guidare l’automobile, non ho mai avuto la patente di guida. Ho
sempre girato per il mondo, come sapete, in autostop o con mezzi pubblici.”
“Non hai mai guidato una motocicletta?”
“Sì, una moto sì; qualche hanno fa ne acquistai una, ma dopo pochi mesi la regalai
a un amico, quando decisi che avrei girato il mondo senza portare con me alcunché di
vincolante, qualsiasi mezzo che potesse costringermi ad accudimenti e manutenzioni
varie.”
“Bene!” – continuò Ramona – “Abbiamo qualcosa che fa al caso tuo. Riguardo alla
scuola…beh, sono convinta che i tuoi studenti saranno contenti di non vedere la tua faccia
per qualche giorno. In un modo o nell’altro qualcuno ti sostituirà, compresa la sottoscritta,
se me lo consenti. Mi farà piacere passare qualche ora con i ragazzi, in questo periodo che
siamo stati costretti a ridurre il nostro lavoro al centro.”
“Fareste tutto questo per….consentire di soddisfare la mia curiosità?”
“Per qualcosa di più che la soddisfazione della tua semplice curiosità, puoi starne
certo” – replicò di nuovo Jò – “Anche a noi interessa sapere qualcosa di più preciso e
attendibile circa il predicatore”.
L’idea mi ammaliò subito così tanto, che li salutai e me ne tornai al mio alloggio
per preparare le poche cose che mi sarebbero servite allo scopo, dimenticando di
ringraziarli.
Detto, fatto. Il giorno dopo, di mattina presto, mi trovai in sella ad una vecchia
moto “Ducati” italiana, modificata e perfezionata dai meccanici esperti del villaggio. Mi fu
garantita la sua piena efficienza, ma anche la sua estetica era stata curata a tal punto e con
tale passione da farla sembrare appena uscita di fabbrica. Mi sembrò di abusare della
generosità dei comunardi, ma era praticamente impossibile rifiutare qualsiasi loro offerta.
La proprietà delle cose, di qualsiasi cosa fosse stata prodotta per migliorare le condizioni di
vita, era davvero ritenuta proprietà collettiva. Chiunque avesse avuto bisogno del loro
servigio ne poteva disporre, compatibilmente alle esigenze di tutti gli altri, a proprio
104
piacimento. Prima di partire Jò mi offrì anche dei soldi. Fuori della comunità erano,
purtroppo, ancora indispensabili. Questi sì li potei rifiutare, perché possedevo ancora quelli
che mi aveva spedito l’ultima volta il mio amico editore, rimasti del tutto inutilizzati.
Ero di nuovo sulla strada, ma questa volta non a chiedere passaggi alle automobili
in transito. Mi sentivo un po’ a disagio perché da parecchio tempo non guidavo più una
motocicletta; ma dopo qualche decina di chilometri la mia mente era già tutta concentrata
sullo scopo del viaggio. Di tanto in tanto mi fermavo a consultare una mappa dettagliata
della zona, anch’essa fornitami da Jò. Dopo poche ore di viaggio, intervallate da un paio di
brevi soste, raggiunsi il gruppo di ragazzi che mi aveva preceduto e mi trattenei con loro
per il pranzo presso l’unica tavola calda presente nella zona. Chiacchierammo a lungo e
anche scherzosamente di ciò che costituiva motivo della nostra missione, ma, a parte
qualche dettaglio di scarso interesse, essi non seppero aggiungere alcunché di nuovo a
quanto già resocontato via e-mail e per telefono. Così prendemmo una decisione su due
piedi: non mi sarei aggregato a loro nella ricerca, ma avrei seguito un itinerario diverso,
concordato con loro stessi, per aumentare le possibilità di acquisire nuove informazioni e
testimonianze. Seguendo due direzioni pressoché opposte, avremmo dovuto setacciare i
piccoli comuni e i villaggi situati nello spazio di alcune centinaia di chilometri quadrati
intorno alla zona in cui era avvenuto l’ultimo avvistamento. L’unico dato certo fino a quel
momento era, infatti, che tutti i precedenti avvistamenti, o presunti tali, non avevano mai
avuto come contesto un centro urbano di media o grande estensione, ma solo piccole aree
urbane, sobborghi di periferia, villaggi e paesini rurali, agglomerati di case isolati dal resto
del mondo.
Il pomeriggio ci lasciammo. Io imboccai una stradina inerpicata su un gruppo di
colli e modesti rilievi montuosi, ammantati da fitte boscaglie di conifere. Ero felice di
essere investito dall’aria fredda intrisa di un penetrante aroma di resina. Mi sembrava quasi
un sogno attraversare quel magnifico paesaggio, alla ricerca niente di meno che…del
“nuovo redentore”. Nulla di simile avrei potuto mai immaginare solo pochi giorni prima.
Cosa mi attendeva? Cosa avrei scoperto? Forse stavo per vivere il più bel racconto che si
potesse sperare di poter scrivere. Un racconto il cui oggetto sarebbe stato semplicemente
improponibile per scrittori poco dotati di fantasia narrativa.
Verso sera, quando il sole era già tramontato da un pezzo, raggiunsi un villaggio di
poche decine di case, appena illuminato da vecchi lampioni che emanavano una tetra luce
gialla. Gli edifici, non più alti di due piani, di non recente costruzione e dall’aspetto
piuttosto modesto, si ergono ai lati della strada che attraversa l’intero abitato. In fondo, a
circa trecento metri dalle prime case, si apre una piccola piazza in cui domina la facciata di
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una graziosa chiesetta in mattoni, rustica ma gradevole nella sua linea estetica e nella sua
semplice architettura. Una scalinata di pochi gradini, realizzata con pietra di colore grigio
scuro, consente l’accesso ad un grosso portale di legno posto al centro della facciata, che
trovai chiuso nel momento in cui vi giunsi di fronte. La strada prosegue lateralmente alla
piazza e conduce fuori del villaggio. Percorsi in entrambi i sensi l’intero villaggio,
cercando di tenere basso il rumore del motore per non creare disturbo. Non scorsi anima
viva, né un solo locale pubblico aperto; solo qualche rara luce accesa che trapelava dalle
imposte delle finestre chiuse. Solo questi timidi bagliori provenienti dall’interno delle
abitazioni, nonché i lampioni accesi, lasciavano pensare alla presenza di qualche essere
umano nel villaggio, altrimenti si poteva anche credere che fosse stato abbandonato. La
sensazione che provavo era comunque di sconfortante desolazione. Però, riflettendoci
bene, considerai che la situazione non era anormale, se si teneva presente che mi trovavo in
un paesino quasi montano (circa 800-900 metri sul livello del mare), in pieno autunno, con
una temperatura abbastanza fresca se non proprio fredda e ad un’ora tarda dedicata,
generalmente, alla cena. Piuttosto, era il caso di preoccuparmi di trovare un posto per
mettere anch’io qualcosa tra i denti e un posto caldo per dormire. Ma a chi chiedere
informazioni? Decisi di lasciare la motocicletta in un angolo della piazza e di farmi un giro
a piedi, nella speranza di incontrare o di scorgere qualcuno tra i vicoli e le stradine che si
diramano dalla strada centrale tra una casa e l’altra. Fui subito abbastanza fortunato:
appena sceso dalla motocicletta scorsi una figura scura che usciva da una porta secondaria
laterale della chiesa. Era un prete.
“Padre….mi scusi….”, chiamai a voce non troppo alta, per non risultare
eccessivamente chiassoso nel silenzio quasi tombale che regnava. Il prete continuò a
camminare senza voltarsi come se non mi avesse sentito, o forse timoroso di fare qualche
brutto incontro. Ripetei il richiamo con tono più alto e deciso. Questa volta si fermò e si
volse dalla mia parte.
“Mi dica, cosa le occorre?”
“Non saprebbe indicarmi un ristorante o, comunque, un locale per mangiare, qui nei
dintorni? Magari anche una pensione per passare la notte?”
“Oh, caro signore…non credo che lei sia molto fortunato. Questo è solo un piccolo
villaggio che non offre gran che al viandante. Però, forse, posso esserle di aiuto, se non ha
molte pretese…...”
“Mi accontento di pochissimo, padre, nulla di più che l’indispensabile.”
“Bene. Allora guardi…..vede l’insegna spenta dell’emporio?” – indicò con il
braccio teso un edificio a poche decine di metri – “Là, al secondo piano di quella casa,
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proprio sopra l’insegna, vi abita una coppia di anziani signori. A quest’ora dovrebbero
essere ancora svegli. Ebbene….siccome parecchi anni or sono morirono tragicamente i due
fratelli dell’uomo, che vivevano nella casa insieme alla coppia, le due stanze in cui
alloggiavano rimasero vuote. Il fratello, di tanto in tanto, in passato, ha concesso il
pernottamento nelle due stanze a qualche signore di passaggio che cercava un posto per
dormire, proprio come lei ora. E’ una coppia molto gentile e sensibile, vedrà che
l’accoglieranno. Sicuramente le potranno offrire anche qualcosa da mangiare….beninteso,
niente di particolare, un pasto frugale. Sa, è gente modesta, che vive in modo semplice…”
“Anche solo un pezzo di pane, padre, per me andrà benissimo. Non ho molto
appetito e non sono un gran mangiatore.”
“Perfetto, allora vada, si sbrighi, prima che i due anziani si corichino. Di solito lo
fanno non più tardi di un paio d’ore dopo il tramonto. Dica pure loro che è stato mandato
dal parroco.”
“La ringrazio molto, padre e….mi scusi se le rubo ancora un minuto. Siccome sono
uno scrittore e mi diletto di tanto in tanto a scrivere articoli su riviste, e in questo momento
sono interessato a scriverne uno a proposito……ecco…..non so se ha mai sentito parlare
del predicatore….”
L’espressione del suo volto da sorridente divenne seria.
“Si riferisce a quell’impostore che gira per il mondo spacciandosi per il nuovo
redentore?”
“Esattamente, anche se non ho ben capito se sia un impostore. D’altronde sono i
mezzi di comunicazione che parlano di lui come di un nuovo redentore; addirittura alcuni
parlano di seconda resurrezione di Gesù e….”
“Attento figliolo, lei rischia di sproloquiare sul nome di Dio invano.”
“Non mi fraintenda padre, anch’io sono scettico su tutto ciò che si dice in proposito
ed ho dei forti dubbi sull’esistenza stessa di questo personaggio. Per questo sto cercando
informazioni….”
“Lasci perdere, figliolo, dia retta a me. Lasci perdere. Ignori tutte le chiacchiere che
si dicono, hanno solo il fine di incrinare la credibilità delle istituzioni della Chiesa.”
“Ma veramente….”
“Lasci che indaghino le forze di polizia e speri che mettano quanto prima le mani
addosso al miserabile furfante che si spaccia per …..non mi faccia dire altro, la prego. Ora
devo proprio scappare, devo far visita ad un povero malato. Si sbrighi, piuttosto, si sbrighi
ad andare dai signori di cui le ho parlato, altrimenti potrebbe non trovarli più svegli.
Arrivederci figliolo.”
107
Mi voltò le spalle e si allontanò di fretta, come se fuggisse dalle tentazioni
peccaminose di un diavolo apparso sotto mentite spoglie. Rimasi un po’ interdetto per
qualche secondo, poi mi diressi verso la casa che il prete aveva indicato.
Per fortuna, quando suonai l’unico campanello trovato sul luogo indicatomi dal
prete, trovai ancora sveglia l’anziana coppia. Si affacciò alla finestra un rugoso volto di
donna, cinto da una corona di capelli bianchi lisci, tirati e raccolti dietro la nuca in una
crocchia. Chiesi, in modo succinto, ciò di cui avevo bisogno, senza nemmeno far presente
che era stato il prete ad indicarmi quella casa. La donna non disse una parola, non mosse
un solo muscolo della sua faccia apparentemente scontrosa, resa spettrale dai riflessi
giallognoli dei lampioni stradali; richiuse le imposte e, per un paio di lunghi minuti, mi
lasciò là fuori con il dubbio se mi avrebbe oppure no aperto la porta. Fu quello, in realtà, il
tempo necessario per permetterle, stante le sue labili condizioni fisiche di ultra ottantenne,
di scendere le scale per venirmi ad accogliere sulla soglia a piano terra. Mi apparve una
donnina curva, di almeno trenta centimetri più bassa di me.
“Entri, si accomodi pure giovanotto”, mi disse con voce esile e aggraziata che
contrastava con i suoi lineamenti duri e segnati, senza risparmio, dal tempo. La seguii
all’interno di uno scarno e rustico soggiorno, scarsamente illuminato da un piccolo
lampadario, che pendeva dal soffitto al centro della stanza, e dalla fiamma languida di un
camino dove ardevano solo un paio di pezzi di legna. Accanto a quest’ultimo sedeva
l’ancor più anziano coniuge su un rozzo e vecchissimo dondolo, che, seppure privo di
eleganza e raffinatezza, quanto meno non sembrava difettare in solidità. Si voltò appena,
con la sua testa quasi completamente calva, lasciandosi sfuggire un misero “buona sera”
dalle labbra quasi serrate. Non un sorriso, un segno, una smorfia, trapelò dal suo volto
stanco e accigliato, come volesse comunicarmi di non infastidire troppo il clima sobrio che
regnava in quella casa. Rimasi in piedi in mezzo alla stanza per alcuni secondi,
imbarazzato, senza sapere che cosa dire o che cosa fare, ancora dubbioso se avrei potuto
ricevere quell’ospitalità cui il prete mi aveva fatto sperare. Ma, al di là di questa apparente
freddezza e delle facce burbere che mi si erano presentate, la coppia di anziani si dimostrò
assai generosa ed affabile. Non solo mi offrì vitto e alloggio per la notte, rifiutando
qualsiasi compenso monetario, ma si intrattenne, contravvenendo alle proprie abitudini
giornaliere, a dialogare cordialmente con me durante e dopo il pasto che mi era stato
approntato. Nemmeno un mezzo sorriso riuscii a scorgere sui volti dei due buoni vecchi
per il tempo che rimasi in quella casa, eppure ricevetti tutto ciò di cui avevo bisogno,
persino alcune informazioni sul predicatore. La donna mi disse che, due giorni prima, nel
tardo pomeriggio, quando il cielo aveva iniziato ad imbrunire, un gruppo di giovani
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sconosciuti, con età media intorno ai 25-30 anni, si era soffermato per una mezz’ora nella
piazza antistante la chiesa, tentando di avvicinare i passanti e di parlare con loro.
Appoggiata al davanzale della finestra, come era solita trascorrere gran parte della sua
giornata, stante le scarse capacità deambulatorie rimastele, aveva osservato incuriosita lo
strano comportamento di quel gruppo di giovani. Notò che, per quanto non si fosse formata
una gran folla, giacché la popolazione locale è quantitativamente esigua, ogni passante
sembrava comunque intrattenersi volentieri con gli sconosciuti, ascoltando quanto avevano
da dire e discutendo serenamente con loro. Nessuno mostrava segni di paura o intolleranza,
né appariva disinteressato o schivo. Non si era distinto uno specifico oratore o qualcuno in
particolare che attirasse l’attenzione dei presenti, ma si era sviluppato un confronto tra
tutti, molto cordiale e durante il quale ognuno aveva qualcosa da dire all’altro con cui
interloquiva. Ovviamente, l’anziana signora che curiosava dalla finestra, non aveva potuto
comprendere l’oggetto di tanto discorrere, e soltanto il giorno seguente, recatasi al mercato
a fare le spese quotidiane, era venuta al corrente di ciò che in quella mezz’ora si era
discusso. Quei giovani, che per opinione quasi unanime dei presenti erano da considerare
stranieri, ma che parlavano molto bene la nostra lingua nazionale, avevano prima rivolto
domande sulle abitudini della gente del posto, sul loro modo di vivere, sui valori ai quali
attribuivano importanza; poi si erano soffermati sul tema della solidarietà e della pacifica
convivenza degli uomini di tutte le razze, chiedendo a tutti opinioni in proposito. Insomma,
non sembra fosse accaduto niente di straordinario in quella mezz’ora in piazza, eppure la
vecchia non nascondeva affatto di essere in qualche modo rimasta suggestionata da
quell’avvenimento insolito, così come lo erano rimaste un po’ tutte le persone che si
trovarono a passare per la piazza durante quella sorta di sit-in improvvisato. Ad una mia
precisa domanda, la vecchia rispose che al mercato aveva sentito parlare anche di un certo
“predicatore”, senza però capire bene chi fosse costui e cosa centrasse con quanto era
accaduto.
Intorno alle nove e trenta del mattino, dopo avere espresso la dovuta riconoscenza,
salutai gli anziani coniugi e rimontai in sella alla Ducati, ancor più entusiasta del giorno
precedente di perseguire il mio incredibile obiettivo. Avevo acquisito qualche elemento in
più sul predicatore: probabilmente era straniero, ed era passato nemmeno tre giorni prima
da quel paesino. Forse era ancora nei dintorni e c’era la speranza di potermi imbattere in
uno dei suoi “comizi”. Comunicai col telefonino a Ramona quanto appreso, ed ella mi
esortò ad insistere nella ricerca, anche se non avevo affatto bisogno di essere incoraggiato.
Percorsi per alcune ore stradine tortuose immerse nel verde, avvicinandomi in un’area
territoriale che, dalla mappa fornitami da Jò, sembrava dislocata lontano dalle arterie viarie
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principali e dove sono localizzati solo centri abitati minori, appena segnalati con un
puntino, talvolta senza nemmeno un nome. Il tempo continuava a favorirmi, offrendo
splendide giornate di sole e una temperatura mite e gradevole. Sostai un’ora per il pranzo
in un piccolo ristorante isolato, dove fornivano pietanze semplici ma nutrienti. Poche
persone erano presenti, che credo fossero per lo più commessi viaggiatori e camionisti.
Finito il pasto mi avvicinai ad un tavolo dove due giovani stavano sorseggiando birra
mentre discutevano. Chiesi loro con cortesia, ma senza troppa convinzione di riceverne
preziose informazioni, se per caso sapessero qualcosa circa la comitiva di predicatori. In
effetti, erano allo scuro di ciò che mi interessava, non conoscevano nemmeno le notizie che
circolavano in proposito sui giornali o su altri mezzi di comunicazione. Rinunciai a fare
altri tentativi con le rimanenti scarse persone che stavano ai tavoli. Pagai il conto e ripartii
con la moto.
Il pomeriggio e i due giorni successivi continuai ininterrottamente a spostarmi da
un villaggio all’altro, da un casolare di campagna all’altro, senza riuscire a scoprire
alcunché di nuovo e significativo. Ritengo che…..
***
Stramaledetta porta…..stramaledetto guardiano…. Che c’è ancora?
“Sono le ultime pile che ti porto.”
“Ah….grazie, ne avevo proprio bisogno, non ci vedo quasi più….”
“Sono le ultime, lo sai? Dopo domani si parte. Contento?”
“Felice come una pasqua…”, razza di idiota, ridi ridi… solo i deficienti come te
ridono sempre. Mi devo affrettare, voglio finire. Chissà di là cosa mi aspetta. Poi dovrò
cercare un editore, non so come, con l’aiuto di chi….Dove sarà ora….ci penserà qualche
volta a me? Che darei per toccarti un po’, per sentire la tua voce….Ramona…..
***
Ritengo che una certa diffidenza, o forse paura irrazionale, abbia giocato contro di
me. Ho l’impressione che di questo argomento, ormai diffusosi in un modo o nell’altro, la
gente, e soprattutto questa gente abituata ad una vita tranquilla e isolata, non avesse voglia
di sentir parlare. L’atteggiamento repressivo delle autorità nei confronti delle comunità
libere, palesatosi con i recenti fatti di cui io stesso fui testimone, aveva evidentemente
causato una rapida diffusione delle notizie legate al predicatore, ma anche indotto un certo
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timore di restar coinvolti dalle iniziative repressive in tutti coloro che venivano in contatto
fortuitamente con la strana comitiva, della cui presenza nella regione ormai si parlava con
sempre maggiore insistenza. Ebbi una conferma a questa impressione da un episodio che
mi accadde tre giorni dopo aver lasciato la casa degli ospitali anziani coniugi.
Nel primo pomeriggio, con un sole splendente e addirittura insolito per una
stagione autunnale avanzata, giunsi in un villaggio rurale, composto da non più di una
trentina di case rivestite in legno, molto graziose ed edificate in cerchio intorno ad una
piazza centrale. Entrai nella piazza, vergognandomi per il rumore che la moto produceva,
esaltato dal gran silenzio che là sembrava regnare. Quasi al centro di essa mi apparve un
grosso fontanile in pietra, sul quale è scolpita una faccia di lupo di proporzioni almeno
doppie rispetto alla realtà e dalla cui bocca spalancata trabocca l’acqua che si raccoglie in
un vascone rettangolare. Un bambino, di circa dieci anni, era seduto sul bordo del vascone;
aveva in mano una barchetta di legno e mi fissava fortemente incuriosito. Non so perché, o
forse perché invogliato da quello sguardo curioso che non ne voleva sapere di staccarmisi
di dosso, mi accostai al bambino, cercando di mantenere il motore della moto al minimo
dei giri per limitare il disturbo. Quando mi fermai davanti ai suoi grandi occhi sbarrati,
spensi il motore.
“Eilà, ciao! Ci scommetto che è una nave pirata e va proprio forte in acqua…non è
così?” Rimase immobile a guardarmi senza rispondere. C’era probabilmente anche un vago
timore nei suoi occhi. Non attesi la sua risposta.
“Scusami, sono di passaggio e non voglio disturbarti, me ne vado subito. Sapresti
solo dirmi se qui, per caso, nei giorni scorsi, è passata una comitiva di signori un po’ strani,
ai quali piaceva fermarsi a chiacchierare….”
“Gesù.” Disse distintamente e con decisione il bambino, interrompendo la mia
domanda. Rimasi stupito da quella parola e dalla sicurezza con cui mi era stata rivolta.
“Come Gesù! Cosa vuoi dire?”
“Sì, ieri sera, proprio qui, al fontanile, si è fermato Gesù, insieme ad altri uomini
con la barba, i capelli lunghi….”, e si interruppe come per cercare altre parole da dire.
Compresi che ero assai vicino a scoprire notizie freschissime sul predicatore e lo incalzai
con nuove domande.
“Come era questo Gesù, in quanti erano i suoi amici, cosa dicevano? Dai
raccontami…”
Il bambino si ammutolì per alcuni secondi, fissando ora il suo sguardo sulla
barchetta che teneva in mano.
“Dai raccontami, sono proprio curioso.”
111
“No, non posso.” E rimase con lo sguardo abbassato, rigirando fra le mani il suo
giocattolo.
“Perché non puoi? Cosa te lo impedisce? In fin dei conti ti sto chiedendo solo delle
semplici informazioni, non c’è niente di male…”
“Non posso”, ribadì seccamente, e scese dal bordo della vasca tenendo sempre gli
occhi bassi. Mi voltò le spalle e si avviò verso una delle abitazioni.
“Aspetta…perché te ne vai? Dimmi qualcosa su questi signori, per me è
importante…”
“Non posso…”, ripeté ancora una volta allontanandosi con la testa china, “…papà
non vuole.”
Mi fu chiaro che non era il caso di insistere. Quell’ultima risposta del bambino
rinforzava la mia impressione: si stava diffondendo, almeno tra le popolazioni delle piccole
città e dei villaggi, un atteggiamento precauzionale di diffidenza nei confronti di chiunque
dimostrasse interesse per il predicatore. La sua fama andava crescendo. Non vi era più
alcun dubbio sulla sua esistenza; quasi tutti ne avevano sentito parlare, i più fortunati lo
avevano visto all’opera, ma erano sempre meno disposti a discuterne liberamente con
chicchessia. Si accresceva il fascino e il mistero intorno a questo personaggio, ma si
diffondeva anche il timore che la sua comparsa si associasse a possibili guai con la legge.
Nessuno poteva dire con certezza chi fosse e quali scopi perseguisse, e non era affatto
chiaro se coloro che lo identificavano col nome di Gesù lo facessero per una semplice
quanto irrazionale convinzione che fosse davvero il Cristo nuovamente risorto, oppure
perché le sue vicende ricordavano la storia del Cristo tanto da poter meritare, come epiteto,
il nome del nazareno. Di fatto, se volevo scoprire qualcosa di preciso sul suo conto, dovevo
farlo direttamente, senza più confidare molto nella raccolta di testimonianze né, tanto
meno, nella veridicità delle stesse. L’incontro con il bambino fu comunque importante: mi
aveva rivelato che il predicatore era transitato, meno di ventiquattro ore prima, in quel
minuscolo villaggio. Ora potevo davvero sperare di intercettarlo durante una delle sue
prediche, in qualche altro villaggio della zona. Non poteva essere andato tanto lontano,
occorreva mettersi immediatamente alla sua ricerca.
La ricerca rimase infruttuosa ancora per altri cinque giorni, mettendo a dura prova
la mia pazienza. Tra l’altro, si era quasi esaurita la scorta di denaro che possedevo, tra
pieni di carburante per la moto, pasti in taverne e trattorie, camere da letto in pensioni e
alberghi. Inoltre incominciai a preoccuparmi della strada di ritorno: già un migliaio di
chilometri mi separavano dalla comunità. Il tempo, poi, stava volgendo al brutto; il sole si
vedeva sempre più di rado e una pioggerella fitta prese a scendere ad intermittenza,
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rendendo ben presto umido e freddo il territorio. Fui sul punto di mollare tutto, anche
scoraggiato dal fatto che il gruppo di giovani compagni, che stava setacciando un’area più
a sud, mi comunicò l’intenzione di fare ritorno a casa, senza, ovviamente, essere riusciti
nel contatto col famigerato predicatore. Il gruppo aveva deciso di interrompere le ricerche
non per scoraggiamento, ma perché aveva ricevuto una telefona di Jò che lo informava di
nuovi problemi che si prospettavano a breve termine per la comunità. Stessa telefonata
ricevetti anch’io da parte di Ramona, solo che non riuscii a farmi spiegare con precisione
cosa stava accadendo. Ramona mi parlò, in modo vago e reticente, di nuovi guai in vista,
senza nemmeno darmi un’idea della loro gravità. Non voleva incutermi, evidentemente,
eccessive preoccupazioni, né tanto meno mi chiese esplicitamente di ritornare subito
indietro. In effetti, mi preoccupai un po’, più peraltro per ciò che non mi aveva detto che
per quello che mi aveva detto, ma non mollai subito tutto. Presi una decisione: in serata (la
telefonata mi giunse nel primo pomeriggio) avrei raggiunto un piccolo paese di circa tre
mila abitanti che si trovava a poche decine di chilometri. Alcuni indizi acquisiti nei giorni
precedenti, nonché la traccia dell’itinerario ipotetico seguito dal predicatore, che avevo
ricostruito sulla base delle testimonianze raccolte, m’inducevano a sperare ancora in un
possibile incontro proprio in quel paesino. Volli fare l’ultimo tentativo, prima di prendere
la strada del ritorno. Non so quanto per fortuna, quanto per reale capacità investigativa e
quanto per mero intuito, ma azzeccai il luogo e i tempi dell’incontro.
Intorno alle sei e trenta pomeridiane, quando era già buio da un pezzo, arrivai al
paese prefissato. Era ben illuminato e, qua e là, qualche insegna o qualche vetrina di
negozio, emetteva anche luci colorate che creavano un’atmosfera di vivacità e mondanità
abbastanza insolito, rispetto agli altri paesini e villaggi visitati fino a quel momento.
D’altronde, per mia scelta avevo evitato appositamente di fare le ricerche nei centri urbani
più grossi, che stimavo non fossero obiettivo prediletto del predicatore. Quest’ultimo
centro non è molto grande, ma sicuramente più moderno e meno isolato dei precedenti. I
miei “calcoli”, comunque sia, portavano ad esso. Anche se al primo impatto reputai che
forse avevo sbagliato destinazione, non avevo né tempo né voglia di cambiarla. Lasciai la
moto in un parcheggio situato all’ingresso della via principale che l’attraversa, ove è
vietato il transito ai veicoli. Intirizzito dal freddo e rattrappito per le ore passate a cavallo
della moto, fui contento di affidarmi alle mie gambe e anche, perché no, di svagare un po’
la mente curiosando all’interno delle vetrine. Una cosa mi apparve subito strana:
nonostante la strada, che stavo percorrendo, offrisse stimoli ai giovani e ai meno giovani
per una passeggiata serale o per acquisti di vario tipo, era pressoché deserta; e nonostante
sia abbastanza larga e, soprattutto, anche molto lunga, non più di tre o quattro persone vi
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scorsi durante il tragitto. All’interno, i negozi, erano vuoti; solo gli esercenti e i commessi
attendevano annoiati l’arrivo di qualche cliente. Un’altra cosa richiamò la mia attenzione:
di contrasto al silenzio che stranamente incombeva nella strada, e che certamente non
poteva costituire la sua normale condizione di sempre, si udiva un vociare confuso e
incomprensibile provenire da lontano, come se a qualche centinaio di metri si stesse
svolgendo una festa o un raduno o qualcosa del genere. Forse, pensai, è questo il motivo
per cui la strada che sto percorrendo è deserta. La gente del posto si doveva essere
presumibilmente riversata in un luogo, in una piazza poco distante per festeggiare un
qualche evento o una ricorrenza religiosa. Proseguii la passeggiata solitaria tra le vetrine
addobbate e illuminate. Alla fine della strada, attratto da quel vociare che percepivo
sempre più vicino, deviai in sua direzione per verificare di cosa si trattasse. Percorsi alcuni
vicoli stretti e scarsamente illuminati da radi lampioni che emanavano una luce gialla, e
d’improvviso, come se si spalancasse una porta su una grande sala giochi, mi affacciai su
una piazza in cui un migliaio di persone circa si accalcava intorno a qualcosa urlando,
gesticolando e cercando di farsi strada per penetrare all’interno dell’accerchiamento.
Alcune, per la foga, cadevano a terra, altre litigavano tra loro per accaparrarsi la
precedenza. Vidi persino tre uomini in carrozzella che, non potendo infilarsi nella mischia,
e che nessuno si degnava di far passare avanti, inveivano contro il muro di scalmanati che
si parava loro innanzi. Rimasi esterrefatto da quello spettacolo del quale non riuscivo a
comprendere la causa che lo aveva prodotto. Mi avvicinai sempre più incuriosito per
comprendere cosa stava accadendo. Ormai giunto a ridosso della calca, cominciai a
distinguere alcune frasi che erano gridate: “Lasciatemi passare, fatemelo vedere”, “Lo
voglio toccare, lo voglio toccare”, “Ho bisogno di parlarci, vi prego…”. Poi, dalle parole
strazianti di una donna che, piagnucolando ai margini della ressa, sollevava un bambino
ancora in fasce cercando di innalzarlo al di sopra delle teste della barriera di uomini che si
spingevano l’un l’altro davanti a lei, compresi tutto: “Gesù, guarda come è ridotto il mio
bambino! Tu puoi fare qualcosa…”. Finalmente! Ero là dove, da parecchi giorni, avrei
voluto essere. Frastornato dalle grida che si sovrapponevano fra loro generando una
confusione indescrivibile, sbigottito da quella visione così straordinariamente insolita, mi
gettai nella mischia senza nemmeno pensarci due volte. Dovevo vedere, dovevo capire. In
quel momento nulla contava per me più di sapere, di sapere chi fosse quell’uomo che
ancora non riuscivo nemmeno a intravedere in quella sorta di delirio collettivo. Cercai di
farmi largo con le mani, provando e riprovando, ma venni sempre ricacciato indietro,
spintonato, strattonato, fin quasi a rischiare di cadere in terra più di una volta. Era una vera
e propria bolgia, dove ognuno sembrava in preda ad un’isteria incontrollabile che non
114
aveva riguardi per tutti gli altri che si trovavano intorno. Non si poteva rivolgere parola ad
alcuno, nemmeno per chiedere spiegazioni, tanta era la foga da cui ognuno era trascinato.
Anch’io fui inesorabilmente contagiato da quell’isteria, senza, peraltro, ottenerne alcun
vantaggio, in termini di avvicinamento al soggetto desiderato. Alla fine dovetti desistere
dal tentativo di penetrare all’interno della cerchia. Feci un paio di passi indietro, mi
sollevai sulla punta dei piedi per cercare almeno di vedere qualcosa di ciò che accadeva
all’interno della cerchia. Niente da fare. Le decine di braccia alzate, i salti dei più
scalmanati, ostruivano ogni visuale. Mi guardai intorno per cercare una soluzione. A pochi
metri di distanza scorsi un monumento di marmo, tra l’altro molto bello, che raffigura un
uomo in piedi col pugno sollevato in alto e lo sguardo combattivo proiettato in avanti, della
cui esistenza, fino a quel momento, non mi ero per nulla reso conto. Si erge su un
piedistallo composto di alcuni gradini; corsi verso di esso e salii sull’ultimo gradino. Ora la
visuale mi consentiva di distinguere quanto accadeva all’interno della folla esaltata. Forse
tredici, o anche quattordici uomini al centro della mischia, alcuni di colore, si sforzavano
con le braccia e con le urla, di tenere a distanza la folla che premeva, in modo da lasciare
ampio spazio intorno a colui che, presumibilmente, doveva essere il famigerato
predicatore. Quest’ultimo, che nell’aspetto estetico corrispondeva pressappoco alle
descrizioni fatte da vari testimoni, era l’unico che riusciva a mantenersi calmo, addirittura
quasi imperturbabile. Sorridendo, parlava con le persone, mantenendosi però ad una certa
distanza, grazie al valido supporto di contenimento che gli offrivano i suoi compagni. Di
tanto in tanto, però, non disdegnava di accostarsi a qualcuno e di carezzarlo sulla testa o sul
volto. Il destinatario delle carezze rimaneva come tramortito, impressionato a tal punto da
restare inebetito, paralizzato, fino a che un’altra persona alle sue spalle lo strattonava
indietro per sostituirsi a lui. Certo che, con la fama che aveva raggiunto, con la sua vaga
somiglianza all’icona secolare del Cristo, col suo modo umile e tranquillo di avvicinare la
gente e con chissà quale altra incomprensibile proprietà che a me sfuggiva, il predicatore
sortiva davvero un grande effetto emotivo su chi lo avvicinava. Confesso di essere rimasto
anch’io fortemente suggestionato dall’evento che stavo vivendo. Rimasi abbracciato alla
statua a guardare per tutto il tempo ogni suo più piccolo movimento, ogni suo gesto. La
cosa andò avanti così per pochi altri minuti, poi alcune grida, ripetute più volte, furono
rivolte dai compagni del predicatore alla folla, accompagnate da gesti delle braccia:
“Dobbiamo andare, non possiamo più intrattenerci, ci dispiace…”, credo anche che uno di
essi aggiunse: “Potrebbe arrivare la polizia, non possiamo restare…” Riuscendo a stento a
mantenere spazio intorno al predicatore, la comitiva cominciò a spostarsi lentamente dal
punto in cui si era fermata per almeno, secondo quanto posso calcolare, venti o venticinque
115
minuti (questo era all’incirca il tempo intercorso da quando avevo sentito il vociare lontano
dalla strada dei negozi). La folla rimase tutta compatta attorno alla comitiva, seguendone lo
spostamento e aumentando ancor più i suoi schiamazzi. Non sembrava aver l’intenzione di
mollare la presa, anzi, accrebbe la sua forza di pressione mettendo a dura prova la capacità
di resistenza della comitiva, che faticava enormemente per impedire che il predicatore
rimanesse schiacciato. Man mano, comunque, come un grosso sciame di api, o un intenso
stormo di uccelli, la massa compatta si spostò di alcune decine di metri fino a raggiungere
tre automobili parcheggiate ai margini della piazza. Vi s’infilarono in fretta e furia tutti i
componenti della comitiva e il predicatore. Dopo di che, pur con la folla accalcata attorno,
da cui centinaia di braccia si protendevano per toccare la lamiera o poggiarsi sui finestrini
e da cui caoticamente si levavano voci di implorazione e acclamazioni di “Gesù”, le tre
auto avviarono i motori e iniziarono a muoversi, prima piano, poi, con la strada innanzi
sgombra, sempre più velocemente, fino a dileguarsi in una stradina che esce dalla piazza.
Ancora per qualche minuto rimasi appoggiato alla statua, pensieroso, con lo sguardo fisso
lontano, a immaginar quale destinazione si fosse data la comitiva in quel momento. Poi
scesi i gradini e mi mischiai alla folla che defluiva dalla piazza per tornare alle abitudini di
sempre. Intorno a me era tutto un chiacchiericcio di commento a quanto appena avvenuto.
Non ascoltavo ciò che si diceva, perché mi stavo ancora domandando che cosa di preciso
avessi visto e udito in quei dieci, quindici minuti che avevo assistito alla predica. Mi destò
per un attimo, da quello stato di attonita riflessione, la voce della donna che poco prima
invocava il predicatore col bambino in fasce sollevato in aria. Diceva ad un’amica,
indicandole il volto del bambino che teneva stretto al grembo: “Guarda…, non vedi? Sta
meglio, non ti pare? E’ come se fosse rinato, non credi?…” Quelle parole rafforzarono
l’impressione e la suggestione delle quali ero già caduto in balia. Avrei voluto chiedere,
domandare a tutti cosa pensassero, quali idee frullassero loro in testa; ma desistetti dal
farlo, perché, in fin dei conti, quanto di più avrebbero potuto dirmi di ciò che io stesso
avevo visto e udito durante la predica? E poi vi rinunciai anche perché, ora credo di
capirlo, ebbi paura di sentirmi dire che il nazareno era tornato di nuovo tra gli uomini per
offrirgli una seconda chance di salvezza. In tal caso sarei rimasto totalmente disarmato,
scoraggiato ad usare ogni argomentazione razionale di indagine.
In pochi minuti seppi e vidi tutto, o quasi tutto, ciò che c’era da sapere e vedere.
Eppure non sapevo e non avevo visto proprio un bel niente. Tutto era come prima, peggio
di prima. Tutto mi risultava ancor più incomprensibile e inspiegabile. Chi era il
predicatore? Cosa andava a fare in giro per il mondo? Quali erano i suoi scopi? Perché
molte, troppe persone, lo identificavano con Gesù? Perché il predicatore stesso non faceva
116
nulla per sfatare questa diffusa convinzione su di lui? Perché tra i vari Stati e apparati di
potere di tutto il mondo c’era chi ignorava le sue gesta, chi mirava a screditarne
l’immagine e chi invece aveva deciso di braccarlo e metterlo a tacere? Quando e come
sarebbe finita tutta la storia? Queste e tante altre domande mi si affollavano nella testa,
mentre mi riavvicinavo alla moto in sosta, tra il brusio della gente, le luci colorate delle
insegne pubblicitarie, le facce di nuovo allegre degli esercenti sull’uscio dei negozi, che
osservavano speranzosi l’improvviso ravvivarsi del flusso di possibili acquirenti. Era
venuto il momento di tornare. Ramona e compagni mi stavano aspettando. Salii in sella
alla moto e iniziai subito il percorso di ritorno, lasciando alle spalle la vivace cittadina alle
prese con le sue occupazioni ordinarie e con gli strascichi delle sue esperienze
straordinarie. Avevo molto da raccontare, non tanto in termini di fatti ed episodi concreti,
quanto in termini di impressioni ed emozioni vissute. Non immaginavo però minimamente
quanto gravi fossero le notizie che invece mi attendevano.
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CAPITOLO VIII
GESU’ E’ MORTO
Fui felice di fare ritorno alla comunità, come mi succedeva di esserlo quando
facevo ritorno a casa, da bambino, dopo essere stato in vacanza al mare o in montagna con
i miei genitori. Dopo la morte dei miei genitori, però, non provai mai più lo stesso piacere
nel rivedere la mia abitazione di ritorno da un viaggio. Anzi, un senso di angustia e anche
di tristezza mi afferrava ancor prima di fare rientro nel luogo dove avevo passato tanti anni
della mia vita. Anche per questo, ad un certo punto, decisi di non avere più una dimora
fissa e di fare del mondo intero la mia casa, evitando di sostare molto a lungo in un posto
qualsiasi per non incorrere nella trappola dell’affezione e dell’assuefazione alle cose che
quotidianamente ti circondano, ti ospitano, e che scandiscono le ore e i giorni della tua
esistenza. Iniziai così a girovagare come uno zingaro, facilitato in ciò anche dal tipo e dal
rapporto di lavoro che, per mia fortuna, potei intraprendere. Non sapevo per quanto tempo
avrei mantenuto questo modo di vivere né, tanto meno, ho voluto mai pormi un simile
problema. Credo che inizierò a pensarci solo quando determinate circostanze, non voglio
immaginare quali, mi costringeranno a farlo. Fatto sta che, inaspettatamente,
nell’avvicinarmi di nuovo al villaggio, che avevo lasciato giusto il tempo occorrente per
una vacanza, e soprattutto nel rivedere le sue bellissime case di legno immerse nel verde e
così atipiche per una civiltà dominata da megalopoli in ferro e cemento armato, provai
proprio la stessa contentezza di quando ero bambino. Riattraversando piazza Gandhi, in
quel grigio pomeriggio di un autunno che volgeva al termine, mi domandai, ancora in sella
alla moto, se non fosse in realtà una violenza alla nostra natura, quella di evitare ad ogni
costo di mettere prima o poi radici in un posto. Stavano forse già maturando le circostanze
che mi avrebbero costretto a riflettere sulla possibilità di porre termine al mio
vagabondare? Erano bastati quei pochi mesi passati tra gente generosa, pacifica, amabile a
farmi rinascere il desiderio di condividere stabilmente la mia vita con altri?
Non feci in tempo a smontare di sella che venni contornato da molti comunardi, i
quali mi accolsero con affetto e la consueta simpatia. Sembrava quasi che mancassi da
chissà quanto tempo. Mi tempestarono di battute scherzose ma anche di domande su come
fosse andata la ricerca. Accennai, ovviamente, solo alle vicende principali che mi erano
capitate, promettendo che mi sarei dilungato estesamente nel resoconto alla prima
occasione che sarebbe capitata. Mi colpì una frase molto schietta rivoltami con un sorriso,
credo però senza alcuna inconfessata cattiveria, da parte di un signore di media età, con cui
118
avevo scambiato solo una paio di volte qualche parola in passato: “Pensavo, e te ne chiedo
scusa, che non saresti più tornato. Sai…è già successo altre volte…” Già! Avrei potuto
pure non tornare, magari appropriandomi di una motocicletta non mia. Fortunatamente non
è stato mai nel mio carattere tradire così meschinamente la fiducia che qualcuno aveva
riposto in me. Soltanto, poi, il semplice pensiero di poterlo fare nei confronti di gente così
generosa mi risulterebbe assolutamente ripugnante. Ad un altro comunardo chiesi quali
erano le brutte novità alle quali mi aveva accennato per telefono Ramona. A questa
domanda i presenti si ammutolirono e assunsero un’espressione seria. “Sono proprio brutte
novità, Stephen, che più brutte non si può…E’ meglio che sia Ramona a illustrartele, lei è
al corrente di tutti i particolari.” Non insistetti, anche perché, con le facce rabbuiate, mi
salutarono uno appresso all’altro e si allontanarono, come se avessi toccato un argomento
del quale nessuno si sentiva di parlare.
Mi diressi immediatamente al centro organizzativo, senza concedermi un attimo di
riposo; d’altronde non sentivo la stanchezza del viaggio di ritorno, che avevo effettuato in
un paio di giorni a comode tappe, intervallate da sufficienti periodi di recupero delle
energie. Appena entrato nella sala ipertecnologica – che di tecnologia era rimasta però
priva dalla notte della perquisizione - mi si fece innanzi proprio Ramona, bella come
sempre, in pantaloni e maglione attillati che le esaltavano le forme sinuose del corpo.
L’abbracciai con calore e con un pizzico di commozione, avvertendo anche nel suo, di
abbraccio, qualcosa di speciale. Restammo avvinghiati per alcuni lunghi secondi, e solo il
richiamo di Manolo e degli altri tecnici dalla stanza adiacente, che si erano accorti del mio
ingresso, mi costrinse a separarmi da Ramona. Abbracciai tutti con sorrisi e pacche sulle
spalle, e anche qui scambiai qualche battuta spiritosa. L’ambiente mi apparve
meravigliosamente immutato, ma sapevo che non poteva che essere una parvenza. Ne ebbi
immediata conferma non appena mi resi conto dell’assenza di qualcuno. “E Jò dov’è?”,
domandai, presagendo una spiacevole risposta. Pure in questo caso le facce dei presenti
persero il sorriso con il quale mi avevano accolto. Rispose Ramona, con un filo di voce e
una palpabile amarezza:
“E’ di nuovo via, Stephen, per tentar di dirimere l’infinita controversia con le
autorità. Ma sarà di ritorno tra breve, tra un paio di giorni al massimo.”
“La solita questione dell’evasione fiscale…?”, e sperai dentro di me che le brutte
notizie si limitassero a questo.
“Non è questo, o non solo questo. C’è qualcosa di peggio, una minaccia assai più
grave che incombe sulla comunità. Ma leggi tu stesso.” Mi porse un foglio estratto da un
119
cassetto. “E’ una notifica giudiziaria, leggi, è tutto abbastanza esplicito. Ci è stata
recapitata pochi giorni fa da due ufficiali del Ministero di Giustizia.”
Lessi avidamente, con l’angoscia che sentivo crescere in petto parola dopo parola.
In sintesi, era un ordine di sgombero del villaggio da doversi attuare entro la data del venti
dicembre prossimo, ossia entro, ormai, solo i cinque giorni rimasti che ci separavano da
quella data. Il provvedimento era motivato con l’attribuzione di tutta una sequela di
presunti illeciti che non consentivano transazioni di alcun genere. In particolare, oltre alla
nota accusa di evasione fiscale protratta nel tempo, quello che mi sembrò soprattutto grave,
era l’addebito di abusivismo edilizio e di occupazione e sfruttamento illegale del territorio.
Entro la data prefissata, la popolazione locale avrebbe dovuto abbandonare e sgomberare le
proprie case; dopodiché si sarebbe proceduto alla demolizione degli abitati e al ripristino
ambientale.
“Ma sono pazzi! Questa è pura follia?”, mi uscii spontaneo di dire, con un senso di
smarrimento e paura.
“Sì, è follia, ma una lucida follia”, sottolineò Ramona con la stessa espressione
amara di poc’anzi.
“E’ un folle e lucido disegno criminale, che ha per obiettivo l’annientamento della
nostra libera comunità…”, aggiunse Manolo con voce rabbiosa, “…che è già stato
perpetrato nei confronti dei nostri compagni della comunità di Montefiore, in Italia.”
“Cosa…cosa stai dicendo….cos’è successo?”, e strabuzzai gli occhi nel chiedere
delucidazioni.
“Esattamente quello che ho detto. Già, ma tu non sei al corrente nemmeno delle
notizie che ci sono giunte fresche fresche proprio ieri. Devi sapere che, un giorno o due
dopo che tu partisti, i compagni della comunità italiana, con i quali abbiamo, o meglio
avevamo, intensi rapporti di interscambio sia culturale che materiale, ci comunicarono che
era stato recapitato loro lo stesso ordine di sgombero che ci hanno poi consegnato a noi,
con poche varianti riguardo le motivazioni addotte. Abbiamo seguito con ansia la vicenda
nei giorni scorsi, tenendoci in stretto contatto con loro. Eravamo increduli di quanto stava
accadendo e non riuscivamo a credere che sarebbe finito come poi è finito. Quindi ci è
stato notificato anche a noi, cinque o sei giorni or sono, l’ordine di sgombero; a quel punto
abbiamo iniziato a temere il peggio. Ieri mattina ci è stata comunicata la tragica notizia che
il peggio era davvero avvenuto. L’intera struttura edile della comunità di Montefiore è stata
rasa al suolo; molti dei compagni, che si rifiutavano di attuare l’ordine e che erano rimasti
in comunità per tentare di contrastare lo sgombero forzato, sono stati malmenati e poi
arrestati. Bilancio finale: circa settanta famiglie sono rimaste prive di tutti i frutti di anni di
120
lavoro e sono state costrette a cercare riparo da amici e conoscenti, non sappiamo ancora
dove; decine di compagni hanno riportato ferite, in alcuni casi anche gravi, e altre decine si
trovano da ieri in prigione, con gravi imputazioni dalle quali doversi difendere. Potrai
capire con quale stato d’animo dovremo affrontare i prossimi cinque giorni che rimangono
alla scadenza dell’ordine di sgombero che ci riguarda.”
Rimasi allibito e sconvolto, senza riuscire a pronunciare parola per parecchi
secondi. Poi mi sfuggì dalle labbra solo un breve commento:
“Ma è un bollettino di guerra!”
“Più o meno, Stephen, più o meno.”
“Cosa abbiamo mai fatto di male per meritarci questo? In fin dei conti vogliamo
solo vivere in pace la nostra vita, senza interferire sulla vita nel resto del mondo…” Mi
accorsi subito di aver accomunato involontariamente il mio destino a quello dei comunardi;
segno che, senza rendermene conto, stavo davvero mettendo radici. Incominciavo a
sentirmi parte integrante di quella comunità.
“Semplicemente hanno paura che il nostro modello di vita possa essere imitato da
altri e magari diffondersi, mettendo in discussione i principi fondanti stessi della società
autoritaria. Questo, per chi si avvantaggia dei privilegi del potere, in modo più o meno
diretto, è il massimo dell’interferenza, e non può tollerarlo. Deve stroncare subito
l’infezione prima che essa dilaghi.” Con questa semplice quanto efficace sintesi analitica
mi rispose Ramona, e proseguì: “Negli anni precedenti, gli organi di potere avevano usato,
nei confronti delle comunità nascenti, un atteggiamento di tolleranza, apparente tolleranza.
Probabilmente speravano che il fenomeno si sarebbe pian piano arrestato e quindi spento,
senza creare problemi alla credibilità delle istituzioni cosiddette democratiche. Il fatto che,
invece che scemare, le comunità si siano rafforzate e dimostrino grande vitalità, ha fatto
ricredere i governanti sull’atteggiamento più efficace da adottare per evitare rischi di
diffusione dell’epidemia libertaria. Mettici, inoltre, l’improvvisa comparsa del fantomatico
predicatore che, con la sua crescente popolarità e la capacità attrattiva delle sue azioni
potrebbe in qualche modo interagire positivamente con lo sviluppo delle libere comunità
(in fin dei conti il predicatore sta propagandando molti dei nostri stessi ideali di vita), ed
ecco allora che il conto torna. Hanno deciso la linea dura: a mali estremi, estremi rimedi.
Non credi sia così, Stephen?”
“Sì, il tuo ragionamento non fa una grinza. Ma ora….”, chiesi con profondo senso
di scoramento, abbattuto come un cane bastonato, “…ora cosa succederà…cosa si
farà…cosa pensate di fare?”
Seguì un lungo, significativo silenzio. Poi riprese Manolo:
121
“Magari avessimo delle soluzioni! Il guaio grosso è proprio questo, che non
abbiamo idee su come fermare questo terribile meccanismo che si è messo in moto.”
“Non fasciamoci la testa, prima di essercela rotta”, butto là Ramona, con l’evidente,
quanto inutile intento, di riattivare un minimo di spirito positivo. “Nulla è ancora perduto,
ragazzi. Intanto Jò e gli altri compagni che sono con lui, stanno tentando di trovare una
scappatoia legale per fermare o, quanto meno, prorogare i termini di scadenza dell’ordine.
Non è assurdo pensare che, adducendo validi motivi, come ad esempio la difficoltà ad
organizzare un’evacuazione dell’area nei dieci giorni circa che ci sono stati concessi, sia
possibile almeno ottenere una dilazione dei termini. Riuscendo in questo, avremo anche
modo di escogitare una strategia di difesa efficace a far ritirare definitivamente il
provvedimento. Potremo organizzare delle campagne d’informazione, anche di livello
internazionale, per smuovere l’opinione pubblica, coinvolgere enti e associazioni culturali,
insomma, per mobilitare una vasta solidarietà che….”
“Sì…ma se la proroga non ci verrà concessa? A Montefiore non è stata concessa.
Cosa ci può far pensare che a noi la concedano?”, colpì come una mannaia la domanda,
dolorosamente quasi retorica, di Manolo. Ramona abbassò gli occhi a terra.
“In questo caso non ci rimarrà altro da fare che opporre resistenza passiva.
Dovranno passare sui nostri corpi prima di demolire il villaggio”, e qui risollevò lo sguardo
su di noi con fierezza. “Questo è stato deciso in assemblea all’unanimità, e questo faremo.
Ti son venuti dei dubbi in proposito, ora, Manolo?
“Assolutamente no, non ho alcun dubbio su questa scelta. Ho solo il forte dubbio,
direi quasi la convinzione, che non servirà a nulla, non basterà a fermare un esercito di
mastini, e tu lo sai Ramona….”
“Cosa, cosa…? Fatemi capire anche a me. Ci sarebbe già stata un assemblea per
decidere il da farsi?”
“E’ ovvio, Stephen. Scusaci se non ti abbiamo aspettato, ma capisci che i
ristrettissimi tempi a disposizione ci hanno costretto ad una riflessione immediata; non
potevamo attendere che tu e il gruppo di ragazzi che era partito prima di te, e che è
ritornato soltanto ieri, foste presenti.”
“Ma…..i ragazzi, i bambini….ci avete pensato almeno a loro? Che fine faranno?”
“Mi stupisci, Stephen! Come potevamo non pensare a loro, soprattutto a loro? La
nostra principale ansia l’abbiamo avuta per i bambini. E’ principalmente per questo che
abbiamo indetto un’assemblea straordinaria: innanzi tutto porre al riparo i minori da
possibili tragiche esperienze.”
122
“Scusami Ramona, non intendevo mancarvi di fiducia. Ma…allora dimmi, cosa
avete deciso per i ragazzi?”
“Abbiamo deciso che tutti bambini e i ragazzi, fino ai diciotto anni d’età, siano
trasferiti altrove, prima del giorno fatidico. Sono già due giorni che sta avvenendo il
trasferimento. I più piccoli non ne conoscono nemmeno la vera ragione; è stato detto loro
che partono per una vacanza. Alcuni di essi saranno ospitati presso parenti sparsi in varie
parti del mondo; la maggior parte, invece, sarà ospitata, provvisoriamente, presso la
comune di Hilary, a poche ore di strada da qui. I compagni che vi abitano si sono offerti
con grande entusiasmo ad accoglierli, e anzi, ci hanno offerto anche qualsiasi altro tipo di
aiuto avessimo intenzione di chiedere loro. Siamo stati costretti persino ad estrarre a sorte
una decina di accompagnatori adulti, col compito di organizzare il soggiorno, a tempo
indeterminato, dei ragazzi. Il sorteggio si è reso necessario, come puoi immaginare, per il
fatto che nessuno aveva intenzione di abbandonare il villaggio. Capisci che questa
evacuazione, per via degli scarsi mezzi di cui disponiamo e di altri problemi logistici,
necessita di un intervento immediato, e, dunque, non potevamo sprecare nemmeno un
giorno. Siamo certi, comunque, che riusciremo, con sufficiente anticipo, al completo
trasferimento dei minori.”
“Siete stati grandi….davvero grandi…Insomma, non rivedrò più i miei scolari?”
Nessuno di loro se la sentì di rispondere. Il quesito vagò nell’aria come uno spettro.
Poi mi feci coraggio e continuai:
“Non ci resta, dunque, che sperare in Jò e compagni…”
“Per il momento, penso proprio di sì. D’altronde,” disse Ramona, “già forse da
stasera stessa, o da domani, sapremo con certezza se sarà stata una speranza ben riposta.”
Dopo un nuovo lungo silenzio, Manolo tentò di spezzare la cupa atmosfera che si
era creata.
“E tu, invece, cosa ci racconti? Saranno sicuramente notizie migliori quelle che ci
porti, non è vero?”
“Oh….di fronte a simile disgrazia, figuratevi che interesse possono suscitare i miei
racconti!”
“Ma no, ma no…tu non sai quanto abbiamo bisogno di concederci delle pause per
pensare ad altro di meno angoscioso. In fin dei conti, prima che ci notificassero…la bella
notizia, eravamo tutti in attesa di conoscere le tue e quelle del gruppo che era partito prima
di te. A dir il vero, quest’ultimo, ci ha riportato poche novità di rilievo. Speriamo che
almeno tu ci possa raccontare qualcosa di più entusiasmante, per quanto è possibile
entusiasmarsi nelle condizioni presenti. Lo sai cosa propongo? Adesso ce ne andiamo tutti
123
a cena nel mio alloggio. Ramona ci cucinerà la sua ricetta preferita (l’unica che sappia
davvero cucinare), e tu ci racconterai tutto. Poi, ovviamente, te ne andrai a letto dritto
dritto, per il meritato riposo. Che ne pensate?”
Non potemmo che guardarci in faccia l’un l’altro abbozzando una sorta di sorriso. E
concretammo la proposta.
La certezza della risposta l’acquisimmo alle undici del giorno dopo. Jò ci comunicò
telefonicamente che avrebbe fatto ritorno entro le ventiquattro ore successive. Ogni
tentativo possibile era stato fatto: i termini di sgombero rimanevano gli stessi. Un netto
rifiuto delle autorità interpellate aveva posto fine alle speranze di concessione di una
proroga. Già nel primo pomeriggio, grazie a un rapido passa parola, tutta la comunità ne
era al corrente. Una sottile angoscia, orgogliosamente controllata da un’inveterata
disposizione alla lotta e alla resistenza contro le avversità, si impossessò di tutti in breve
tempo, si rese evidente negli sguardi pensierosi, nelle discussioni a tratti accese e a tratti
sommesse che si diffusero ovunque, nel via vai caotico che d’improvviso s’impossessò del
villaggio, dandomi l’idea di un formicaio impazzito. I dibattiti sul “che fare” furono presto
sostituiti da un fare disordinato concretamente finalizzato ad un qualche obiettivo. Tutti
davano consigli, suggerimenti, disposizioni ad agire a tutti; e tutti si muovevano, agivano,
come se, facendo, si potesse esorcizzare il problema di fondo. Neppure tra me, Ramona e
gli altri compagni del centro, si riuscì più propriamente a discutere; si davano indicazioni
su come fare o non fare una certa cosa, su come disporre dei propri oggetti, sui contatti da
prendere, su come organizzare le possibili contromisure. Riguardo ai minori, gran parte dei
genitori decise di accelerare il trasferimento: entro il giorno dopo, utilizzando tutti i mezzi
disponibili, occorreva portarlo a termine. Sgomberando la mente da questa essenziale
preoccupazione, si poteva meglio organizzare una strategia difensiva. Nessuno,
realisticamente, confidava più molto sulla possibilità di escogitare ed allestire valide
contromisure, tali comunque da arrestare quello che ormai sembrava un ineluttabile
destino; ma nessuno voleva nemmeno rimproverare se stesso e gli altri di non aver tentato
tutto il possibile. D’altronde erano in gioco, non solo anni di duro lavoro, di speranze e di
sogni più o meno realizzati, ma anche il futuro di tutte quelle persone. Cosa si prospettava
loro per gli anni a venire? Avrebbero dovuto ricominciare tutto da capo? E ricominciare
che cosa, in che modo, insieme a chi, con quali obiettivi? Queste erano sicuramente le
paure che si affollavano nelle loro menti in quelle tristissime ore.
Jò fece ritorno la mattina successiva, in tempo per salutare gli ultimi bambini e
ragazzi che stavano lasciando il villaggio, stipati all’interno degli automezzi già
incolonnati in uscita verso la strada asfaltata. Assistetti di lontano ad una scena straziante:
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quell’omone, così forte e coraggioso, uno dei leaders indiscussi della comunità, uno dei
pochi capace di tenere unita tutta quella gente, di mantenere sempre alto il suo spirito e la
sua voglia di andare avanti con caparbietà anche nei momenti più difficili, era visibilmente
scosso. Mentre salutava i ragazzi che pian piano defluivano con le macchine, mentre
toccava le loro mani protese dai finestrini sforzandosi di sorridere e promettendo che si
sarebbero rivisti presto, era un uomo distrutto. Il vento gli scompigliava i capelli, e forse,
in quel momento, desiderava di esserne travolto e portato via. Rimase immobile in piedi a
salutare fino a che la colonna di auto non si dileguò lontano. Volli assolutamente andargli
vicino. Abbracciai il suo possente corpo, ed egli nascose il volto dietro le mie spalle.
Rimanemmo abbracciati per alcuni secondi, poi quando ci staccammo, tentò di volgere lo
sguardo altrove per non incrociare il mio, e mi disse dolcemente, con un timbro di voce
irriconoscibile per chi era abituato al suo vigoroso, consueto modo di parlare: “Come va
Stephen, sei riuscito ad incontrare Gesù?” Scherzosamente cercava di celare il suo stato
d’animo, ma non dimenticherò mai i suoi occhi fuggitivi gonfi e lucidi, intravisti per un
attimo, che non potevano reprimere una sofferenza interiore indicibile. Fui costretto
anch’io a guardare altrove, ero rimasto istantaneamente contagiato dal suo dolore, e non
ero capace di fornirgli alcun conforto. Ramona sopraggiunse quanto mai opportunamente a
toglierci dagli impicci. Abbracciò con calore il suo compagno, baciandolo ripetutamente, e
con grande forza d’animo, seppe rivitalizzarci: “Forza ragazzi, dobbiamo metterci al
lavoro.” In quell’occasione non provai gelosia per le effusioni di Ramona nei confronti di
Jò, come, ahimè, capitò in altre occasioni.
Rimanevano solo tre giorni utili per organizzare….non capivo bene che cosa; non
immaginavo nemmeno che cosa si potesse organizzare di efficace per contrastare quel
provvedimento liberticida. Stavamo vivendo una situazione così estrema, inverosimile,
inusuale, da lasciarmi quasi incredulo e assolutamente disarmato. I comunardi, però,
avevano un’altra stoffa rispetto alla mia, erano assai più navigati di me in fatto di
sopportazione e di capacità reattiva alle disavventure, e anche di fronte ad una minaccia
così catastrofica non si persero d’animo. D’altronde, erano soprattutto le loro vite e le loro
speranze a rischiare di restarne sopraffatte. Venne aperta, in seduta permanente giorno e
notte, l’assemblea straordinaria. Nell’apposita aula furono allestiti molteplici tavoli di
discussione, ai quali, chiunque voleva, poteva apportare il proprio contributo d’idee,
proposte e soluzioni, o semplicemente ascoltare quello degli altri. Nel caotico affollarsi
delle problematiche che si affrontarono, emersero, in particolare, tre questioni importanti
da risolvere nel breve tempo rimasto a disposizione: raccogliere e mettere in salvo tutto il
materiale ritenuto di prioritaria rilevanza (apparecchiature meccaniche, elettroniche e
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informatiche, documenti di varia natura, archivi multimediali e bibliografici, denaro
contante e in titoli di investimento utilizzati per gli scambi commerciali ecc.); divulgare,
per quanto possibile, informazioni sull’avvenimento e sulle sue prevedibili conseguenze,
onde ricevere il massimo di concreta solidarietà dal mondo esterno; approntare efficaci
strategie di difesa fisica per impedire, o almeno ritardare, l’azione di sgombero delle forze
dell’ordine. Il primo dei tre giorni disponibili fu interamente impiegato per trovare una
soluzione ottimale alle tre questioni, i due rimanenti per realizzarla. Riguardo alla prima
questione, si valutarono diverse opzioni, poi, a causa dell’insufficiente tempo per
privilegiare quella che sembrava più sicura – ovvero, trasferire il materiale presso alloggi
di persone fidate, dislocati in località geografiche lontane dal villaggio – e a causa del
grosso ingombro di alcuni macchinari, si scelse di trasportare, tutto ciò che si sarebbe
riusciti a racimolare, in un rifugio poco distante, nascosto sui monti nel fitto della
boscaglia, utilizzando carri, cavalli e altri mezzi di fortuna, nonché la manodopera di una
trentina di volontari. Riguardo alla seconda questione, s’incaricarono una decina di
persone, tra le quali io stesso, di redigere ed emettere comunicati, richieste di solidarietà e
di intervento a sostegno, appelli alla mobilitazione, rivolti a tutti i mezzi di comunicazione
di massa (stampa, emittenti tv e radiofoniche, siti internet ecc.) e di inviare interpellanze di
ricorso presso organi istituzionali. Personalmente, non tralasciai di prendere contatto,
tramite e-mail, col mio amico editore, tentando di sfruttare i miei buoni rapporti con il
medesimo e rivolgendogli una calorosa supplica a darsi da fare per quanto fosse in suo
potere. Non attesi una risposta, tanto il lavoro mi assorbiva senza residui, ma una risposta,
comunque, non venne mai. Tutti gli altri compagni, non impegnati nelle due precedenti
azioni, che se la sentivano di farlo – ovviamente nessuno si tirò indietro, comprese le
numerose donne, più o meno giovani, che erano rimaste al villaggio – avrebbero dovuto
occuparsi della terza questione. In questo caso, si progettò, e poi si realizzò con efficacia,
un intervento di difesa dei due accessi principali al villaggio, consistente nell’installazione
di barriere per ostacolare l’ingresso dei mezzi gommati e cingolati preposti ad eseguire lo
sgombero. Con ingegno e tanta fatica, fu creata una prima fascia di protezione, prossima
alla strada asfaltata, composta di materiale vetroso e ferroso acuminato, nascosto nel
terreno, per danneggiare i pneumatici delle vetture; una seconda fascia, a poca distanza
dalla prima, realizzata come un fossato semicircolare lungo una quindicina di metri, largo
tre metri e profondo un metro, per bloccare il transito dei cingolati; una terza fascia, infine,
a ridosso del villaggio, costituita da una muraglia di oggetti grossi e ingombranti, a mo’ di
barricata. Tutte e tre le fasce protettive furono poste a difesa di entrambi gli accessi.
126
Quei tre giorni furono intensissimi e spossanti, come è facile immaginare, ma ci
consentirono di portare a termine nel migliore dei modi i nostri peculiari propositi. All’alba
del quarto giorno, nonostante la stanchezza accumulata e una notte passata quasi insonne,
ci trovammo tutti in piedi svegli per affrontare la terribile scadenza, che ci attendeva come
una mannaia sospesa sul collo del condannato. Nel delicato chiarore mattutino di quel
rigido venti dicembre, mi incamminai verso piazza Gandhi, dove si era deciso di radunarci.
Raggiunsi Tenton che mi precedeva di pochi metri insieme a Sciark, quest’ultimo
scodinzolante e festoso come sempre, ignaro del significato che si celava nell’inconsueto
risveglio generale del villaggio.
“Hei, giovanotto, sei pronto?..” – mi chiese il vecchio con un mezzo sorriso forzato,
battendomi la mano sulla spalla – “…Coraggio, mi raccomando, ci aspetta una brutta
giornata”, continuò, lasciando svanire anche quel mezzo, inutile sorriso. Feci cenno di sì
con la testa, senza dire una parola, perché non sapevo cosa dire e la mia mente era incapace
di pensare alcunché; e poi mi stavo difendendo dall’assalto di Sciark che mi piantava le sue
zampacce sulle costole. Dopo circa un quarto d’ora tutti gli abitanti si trovarono in piazza,
e non per ballare e bere insieme come avevano fatto tante altre volte. Sarebbe stata l’ultima
volta? Non potei fare a meno di domandarmelo nella mente.
Nello spettrale scenario di quell’affollamento silenzioso, raro da vedere, se non
unico, nel suo genere, intravidi Ramona che, stringendosi tra le braccia per il freddo,
guardava lontano verso la strada asfaltata, come anche molti altri stavano facendo. Mi
accostai a lei e, di primo acchito, le rivolsi una domanda, inspiegabilmente balzatami in
testa:
“Pensi che quei gamberi di fiume, di cui mi parlasti tempo fa, riusciranno a
sopravvivere al cataclisma?”
Si voltò verso di me guardandomi stralunata, come se la domanda le sembrasse
strana e incomprensibile, poi riprese a guardare la strada, forse riflettendo sulla risposta
adeguata da darmi. Dopo una breve esitazione, si decise a rispondere, continuando a
scrutare davanti a sé.
“I gamberi forse….anzi….probabilmente, se colpiti da un qualche evento
catastrofico, riuscirebbero, almeno come specie, a sopravvivere. Spazzati via da una
determinata area geografica per un disastroso e improvviso fenomeno, potrebbero
continuare a popolare altre aree non interessate dallo stesso fenomeno. D’altronde, la loro
presenza sulla terra dura da milioni d’anni ed ha resistito ad innumerevoli avversità
ambientali, e ciò la dice lunga sulla capacità di adattamento di questa come di tante altre
specie
animali.
Ma…ho
ben
capito
che
la
tua
domanda
ha
un
carattere
127
metaforico….vorresti sapere se noi uomini sognatori, abitanti di questo piccolo villaggio,
potremo sopravvivere al cataclisma che ci si sta per scatenare contro. Il guaio è che, il
cataclisma che ci riguarda, se ci sarà, sarà attuato dai nostri stessi simili. E i nostri simili, li
conosciamo bene attraverso la storia, difficilmente lasciano superstiti quando
intraprendono un’azione distruttiva, difficilmente permettono che, ciò contro cui hanno
deciso di sferrare la loro carica annientatrice, possa tornare a riprodursi e ad espandersi
nuovamente. Sai Stephen, comincio a credere che i dubbi che tu sollevasti, durante quello
splendido tramonto in riva al fiume, sulla durata del nostro modello di vita comunitaria,
abbiano un fondamento di realismo, inconfutabile anche se duro da accettare, con il quale
noi ingenui ‘gamberi di fiume’ non ce la faremo mai a familiarizzare troppo.”
“Non posso credere a quello che sento. Pensi dunque che qui, oggi, finirà in
tragedia?”
“Non prendere alla lettera ciò che dico. Non parlavo di annientamento in senso
necessariamente ed esclusivamente fisico. Intendevo dire che il potere dell’uomo
sull’uomo è spietato, non consente che idee capaci di mettere in discussione le sue
fondamenta possano usufruire della libertà di propagarsi, di diffondersi oltre misura.”
“Capisco, ma non posso nemmeno credere che proprio queste idee, le idee di cui le
libere comunità si sono rese concreta espressione negli ultimi anni, scompaiano di botto,
siano cancellate per sempre dal patrimonio culturale umano a causa di una sconsiderata,
sciagurata azione repressiva.”
“Neanche questo intendevo dire. Anch’io credo che le idee, soprattutto le buone
idee, non siano sopprimibili in modo definitivo. Prima o poi trovano terreno fertile per
rifiorire, per imporsi all’attenzione di tutti. Ma, vedi Stephen, essere ingenui, essere
sognatori, confidare nell’utopia come un valore indistruttibile in sé, come un potente
motore capace di scuotere la sensibilità e la coscienza degli uomini e di lasciare sempre
aperta la strada del progresso e del miglioramento delle condizioni di vita di tutti, non
significa essere stupidi. Anche noi ‘gamberi di fiume’, per usare questa espressione che
sembra ti piaccia, sappiamo valutare i reali rapporti di forza tra gli schieramenti che si
contrappongono in una battaglia. E nella battaglia che abbiamo intrapreso da anni, siamo
consapevoli di essere ancora un’infima minoranza, armata, tra l’altro, di soli buoni
propositi e buona volontà. Dall’altra parte, invece, quella a noi contrapposta….”
“D’accordo…d’accordo. Ma non è poco, non è affatto poco. Non credi che la storia
si faccia anche con i buoni propositi e la buona volontà?”
Un sorriso fece breccia tra le sue labbra.
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“Vedo con piacere che anche tu stai mutando in un ‘gambero di fiume’. Benvenuto
tra i sognatori. Forse sei sempre stato un mutante, senza rendertene conto. Mi fa piacere,
Stephen, mi fa molto piacere.”
Non ebbi il tempo di inorgoglirmi per quelle parole, addirittura quasi di
commuovermi. Un grido si levò dalla folla.
“Guardate là….sta arrivando qualcuno.”
Una lunga scia di autoveicoli di ogni tipo, compresi piccoli autobus, comparve di
lontano sulla strada asfaltata e si approssimava all’ingresso della strada sterrata di
congiunzione al villaggio. Tutti fissarono con attenzione il punto indicato.
“Sono nostri compagni….sono venuti a darci una mano”, precisò un’altra voce.
Subito seguì quella potente di Jò:
“Presto…dobbiamo avvertirli di non entrare sulla strada sterrata di ingresso.”
Lo stesso Jò, insieme ad altri quattro comunardi si diressero, a passo sostenuto,
verso la strada asfaltata, superando di lato la barricata, attraversando il fossato, ed
eludendo, con molta attenzione, il tratto chiodato. Fecero in tempo a fermare gli
autoveicoli prima che deviassero verso il villaggio, e si intrattennero a parlare con i
compagni. Durante l’assemblea permanente si era deciso che i compagni giunti da fuori per
portare solidarietà, non sarebbero dovuti entrare all’interno del villaggio, ma rimanere a
manifestare all’esterno. Ciò per evitare un inutile coinvolgimento negli imprevedibili
sviluppi che l’intervento delle forze dell’ordine poteva produrre. La loro azione di protesta
si sarebbe potuta rivelare preziosa soprattutto in un secondo momento, se l’intervento
avesse prodotto gravi conseguenze. Man mano che gli autoveicoli sopraggiungevano,
sostavano dove possibile ai bordi della strada e sui campi adiacenti. Gli occupanti
scendevano e si raggruppavano; molti sollevavano cartelli scritti o li conficcavano nel
terreno, altri srotolavano striscioni lunghi alcuni metri, che contenevano brevi frasi a
caratteri molto grandi. Su uno di essi era scritto “Libertà di autogoverno”, su un altro
“Contro il potere e le disuguaglianze”, su un altro ancora “Guerra e denaro strumenti di
sopraffazione”. Dopo circa un’ora, quando il sole aveva schiarito completamente il cielo, si
potevano stimare circa duecentocinquanta o trecento persone, ma le macchine
continuavano ad arrivare. Non ci attendevamo folle oceaniche, anche perché soltanto gli
ultimi due giorni erano stati dedicati a pubblicizzare l’avvenimento e a contattare
compagni e simpatizzanti. Ci sentivamo già tutti abbastanza contenti di aver mobilitato
quel discreto numero di persone. Inoltre, stavano sopraggiungendo anche inviati di famose
testate giornalistiche e di emittenti televisive e radiofoniche. Ce ne accorgemmo quando Jò
si avvicinò anche a loro per parlare. Dopo di che, egli e gli altri quattro comunardi
129
tornarono in piazza. Ci dissero che avevano scoraggiato anche i giornalisti ad entrare al
villaggio, in particolare li avevano avvertiti a non tentare di farvi ingresso con gli
automezzi, per via del fossato che lo rendeva impossibile.
Verso le dieci, quando il sole aveva iniziato a intiepidire l’aria e dava l’impressione
che l’inverno fosse ancora lontano da venire, tra giornalisti e nostri sostenitori si era
formata, all’esterno del villaggio, una folla di cinquecento, seicento persone. Tra i
comunardi che da piazza Gandhi osservavano minuziosamente ogni particolare di quel
raduno esterno, cominciò a serpeggiare un’inconfessata, e pur palpabile, euforia. Le facce
serie e adombrate del primo mattino, s’erano man mano illuminate di qualche sorriso; il
pesante silenzio, che non poteva nascondere ansia e preoccupazione, lasciava sempre più
spazio a battutelle ironiche, risatelle, chiacchiere distensive. L’illusione di poterla fare
franca, di poter sfuggire in qualche modo all’assurdo e funesto appuntamento, sperando
magari che l’ordine di sgombero fosse stato ritirato in estremis, sembrava essersi
impossessata delle nostre menti. La disillusione improvvisa che ne seguì, fu come se si
aprisse una voragine sotto i piedi. Quella sporca e tragica vicenda ebbe inizio intorno alle
dieci e un quarto. Un rumore cupo, pari ad una sorta di brontolio ininterrotto, prima appena
percepibile, poi sempre più penetrante e terrificante, ne diede l’annuncio. In molti
avvertimmo la sensazione di un formicolio sotto le scarpe o di una leggera vibrazione del
terreno, che amplificò l’incombente sentore di una vicina catastrofe. Davvero era l’inizio
della fine? Con l’espressione smarrita e incredula qualcuno di noi ancora se lo domandava.
Pochi minuti dopo ogni dubbio scomparve, la certezza di ciò che stava accadendo divenne
unanime. La folla esterna al villaggio prese a rumoreggiare, a gesticolare, a innalzare i
cartelli a gridare slogans: dal fondo del rettilineo stradale apparve una colonna di
automezzi, blindati e non, molti dei quali forniti di lampeggiatori in funzione. Raggiunta la
folla urlante e scalpitante dei contestatori, diminuì la già lenta andatura, per evitare di
investire chi si mostrava recalcitrante a spostarsi sul campo adiacente. Nel mezzo della
colonna svettavano quattro gigantesche ruspe con possenti artigli di ferro, principali
responsabili del rumore che era divenuto assordante, gli strumenti che portavano la
distruzione. Quando le prime vetture accennarono a svoltare all’interno della strada sterrata
che conduceva al villaggio, si poté vedere la coda di quella colonna. In tutto si contavano
una quarantina di mezzi. Un’operazione in grande stile alla quale partecipavano almeno
trecento uomini, quasi tutti in divisa. Le fila di contestatori che campeggiavano all’ingresso
della strada sterrata si aprirono senza opporre alcuna resistenza agli automezzi di testa. Il
perché fu subito chiaro ai comunardi come anche alle rappresentanze giornalistiche, non
invece ai tutori dell’ordine. Passate le prime cinque o sei macchine, tutte gommate, si rese
130
evidente anche per questi ultimi la trappola in cui erano caduti. L’autocolonna si fermò. I
funzionari trasportati sulle prime vetture scesero a terra e si misero a scrutare i pneumatici,
molti dei quali danneggiati, e la superficie del terreno che rimaneva da percorrere, fino al
fossato. Uno scroscio di applausi e grida di soddisfazione, alternate da ripetuti slogans, si
levarono dalla folla di contestatori e anche dai comunardi in piazza Gandhi. Frattanto, un
elicottero della polizia stava volando a bassa quota sopra il villaggio. Evidentemente
partecipava all’azione di sgombero, fornendo informazioni sulle eventuali tattiche
difensive che avremmo adottato, ma forse anche per incuterci maggior timore e indurci a
desistere da qualsiasi proposito di resistenza. Le macchine danneggiate furono spostate di
lato e intervennero le ruspe a “bonificare” il tratto di terreno con le potenti pale.
Impiegarono circa un’ora per rastrellare la superficie del terreno e poi per ricompattarla,
onde consentire un sicuro e agevole passaggio agli automezzi gommati. Si presentava ora,
alle forze dell’ordine, il problema del fossato. La folla, sia interna che esterna, all’unisono
continuava a gridare contro di esse tutto un inventario di slogans, già ben collaudato in
occasioni passate, ma anche frasi e parole di scherno, denigrazione, e di invito a tornarsene
indietro, a non dar seguito all’ordinanza. Con quel fiume assordante di parole non
credevamo, certo, di dissuadere la polizia dal proprio intento, ma almeno di scalfire la sua
determinazione psicologica, di incrinare la sua certezza di operare per il bene pubblico, di
smussare la sua carica bellicosa, insomma, di far breccia nella sua sensibilità e intelligenza
umana. In fin dei conti, di uomini pur sempre si trattava, anche se in uniforme.
Il fossato, sul quale avevamo investito gran parte delle nostre speranze di poter
ritardare per parecchie ore, magari per un intero giorno, l’azione di sgombero (un giorno,
nella nostra situazione, si sarebbe potuto rivelare di enorme importanza per far crescere il
clamore su quanto stava accadendo e, dunque, sollecitare un ampio, travolgente dissenso
da parte del mondo esterno), ci lasciò invece alquanto delusi e sconfortati. Con le potenti
quattro ruspe di cui disponeva, il piccolo e fedele esercito di tutori dell’ordine riuscì, in
sole poche altre ore, a riempire il fossato di terra e a ripristinare un tracciato carrabile
sufficiente a consentire l’attraversamento di tutti i veicoli. A pomeriggio inoltrato, quando
il sole era prossimo ad eclissarsi dietro le colline e si stava consumando anche quella breve
giornata di inizio inverno, il piccolo ed efficiente esercito era tutto schierato di fronte
all’ultima, esile barriera di protezione, la barricata di rottami posta proprio all’ingresso del
villaggio. Dall’altra parte campeggiava il nostro piccolo esercito, attonito, ormai
ammutolito, esausto, senza altra arma di difesa che la propria ostinazione a far
sopravvivere il frutto di anni di fatiche e di sogni. Nessuno di noi dava più alcun
affidamento a quella barricata: discutevamo sottovoce su quello che sarebbe successo
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appena fosse stata aperta. Rassegnazione e sgomento leggevo sugli sguardi dei miei
compagni, ma non vi fu uno solo di essi che suggerì di fare, ciò che una qualsiasi persona
dotata di comune buon senso avrebbe suggerito di fare, cioè di abbandonare il campo, di
mollare tutto ed evitare almeno i pesanti guai fisici e legali che a quel punto si
prospettavano. Confesso che fui tentato di proporlo, fui più volte spinto, dalla paura, direi
quasi dal panico, a chiederlo a Jò. La vergogna ebbe la meglio: provai anche più paura del
giudizio dei comunardi. Ci tenevo moltissimo alla stima e alla fiducia che in quei pochi
mesi di convivenza ero riuscito a conquistare da loro. D’altronde, comprendevo assai bene
che per i comunardi era in gioco, non solo l’orgoglio e l’attaccamento ad un ideale di
giustizia, ma una lunga esperienza di vita per la quale si erano impegnati senza risparmio.
Tacqui, dunque, e non sono pentito oggi di averlo fatto.
Dopo nemmeno mezz’ora le ruspe avevano di nuovo fatto il loro dovere. Un varco,
sufficiente a far transitare anche i mezzi più ingombranti, fu aperto. Senza nemmeno
accorgercene, anche a causa del gran trambusto creato dalle ruspe, eravamo retrocessi di
alcune decine di metri, compattandoci ai margini di Piazza Gandhi. Inesorabilmente, uno
dopo l’altro, gli automezzi delle forze dell’ordine penetrarono all’interno, schierandosi,
dietro precisi ordini di un ufficiale in divisa, di fronte a noi su più file ordinate. Fuori del
villaggio, i compagni e i sostenitori, che nel frattempo erano diventati un migliaio, non si
risparmiavano di far sentire la propria voce, tutta la solidarietà di cui erano capaci. I
paparazzi e i cameramen si davano da fare per riprendere scene ed immagini, cercando
postazioni di ripresa idonee, qualcuno anche avventurandosi all’interno della piazza. E’
facile immaginare che alcuni si augurassero, pregustandone i risultati, sviluppi scintillanti
della vicenda. Di certo, poi non rimasero delusi. Noi, sempre più stretti l’uno all’altro, per
infonderci più coraggio, avevamo cessato completamente di parlare. Come potevamo non
essere tutti coscienti che le parole non servivano più a nulla?
Una voce cupa e confusa, rozzamente amplificata da un megafono, risuonò nella
piazza. Era quella di un commissario in abiti civili, con paltò scuro, che presumibilmente
sovrintendeva a tutta l’operazione. Parlando, teneva sollevato con la mano destra il
megafono all’altezza della bocca, e con la sinistra ostentava un foglio di carta, come per
mostrarne a noi tutti il contenuto, incurante delle decine di metri che ci separavano da lui.
“Ho con me, come potete vedere, un regolare mandato per far compiere, al
personale che mi accompagna, attrezzato di mezzi idonei, opera di demolizione delle
strutture edili di questo villaggio, nessuna esclusa.” Una bordata di fischi, invettive e
parole più o meno sconce, interruppe l’esposizione del commissario. I comunardi non
lesinarono di manifestare tutto il proprio risentimento e la propria rabbia. Ciò si protrasse
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per alcuni minuti, sotto lo sguardo imperturbabile del commissario, che alla fine riprese a
parlare, come se non avesse udito nulla. “E’ quasi superfluo sottolineare che una tale opera
risulta pericolosa per chiunque intenda assistervi a distanza ravvicinata, a causa dei
necessari movimenti dei pesanti e ingombranti mezzi preposti allo scopo. Pertanto, al fine
di proteggere l’incolumità fisica di tutti, si da l’obbligo ai presenti di evacuare, entro e non
oltre i trenta minuti, l’intera area interessata. Chi dovesse ancora prelevare oggetti
personali dagli edifici, è tenuto a farlo entro questo margine di tempo. Allo scadere dei
trenta minuti, chiunque sia trovato a transitare o sostare nelle case, nelle strade e in altri
luoghi dell’intero villaggio, verrà forzatamente allontanato. Ogni ulteriore tentativo di
resistenza sarà perseguito penalmente nei termini di legge.”
Per tutta risposta, seguendo l’esempio di due o tre anziani, tutti i comunardi si
sedettero simultaneamente a terra, compreso io stesso. La sfida era lanciata. Il
commissario, continuando a mantenersi calmo e mostrando uno sguardo sprezzante, si
mise in tasca il foglio di carta che poco prima aveva agitato e posò il megafono all’interno
di una jeep. Si voltò verso i propri subordinati, per lo più ancora seduti dentro gli
autoveicoli, e fece un semplice cenno col braccio. Di lì a pochi minuti, tutto il piccolo
esercito di uomini, in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli, discese dagli
automezzi e si schierò in ordine compatto ad una decina di metri dinanzi ai comunardi
seduti. Aveva formato un muro impenetrabile di scudi perfettamente allineati, e si era
immobilizzato in attesa di istruzioni. Ormai, tra noi e la tragedia, non si frapponeva
nient’altro che la volontà di un uomo in paltò di far eseguire un mandato. Il tempo passava,
il cielo imbruniva rapidamente, si accesero i lampioni della piazza e delle strade, e un
silenzio apocalittico regnava nel villaggio. Anche i compagni venuti da fuori, raggruppati
vicino a quel che rimaneva della barricata, erano ammutoliti, nemmeno scuotevano più i
cartelli e gli striscioni, perché consapevoli che non c’era più niente da fare: il dado era
tratto. Sui loro sguardi traspariva ansia, sgomento, senso d’impotenza; sui nostri, quelli dei
comunardi, divenuti un unico groviglio inestricabile di carne, regnava una sorta di
rassegnazione mistica al destino ineluttabile, si leggeva una vocazione al martirio. Ripetuti
lampi squarciavano l’ombra incombente, per immortalare il momento. Forse proprio a
causa del flash emesso dalle fotocamere dei giornalisti, a qualcuno venne l’idea della luce.
“La luce….tagliamo la luce dei lampioni.”
“Ci penso io”, disse un altro sottovoce, in modo che soltanto chi era vicino a lui
poteva sentirlo. Subito si alzò e si allontanò di fretta, e nessuno badò al suo
allontanamento. Il buio della sera avvolse infine le campagne circostanti. Solo i lampioni e
i lampi del flash illuminavano il villaggio. Il tempo scorreva veloce, e la mezz’ora
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concessa stava per scadere. D’improvviso il buio totale: il compagno allontanatosi era stato
rapido ed efficace, come solo uno del mestiere poteva esserlo. Un mormorio generale ne
seguì. Nelle fila delle forze dell’ordine si creò un minimo di scompiglio e d’agitazione. Si
sentivano voci stizzite e concitate, espressioni di malumore, rumori di movimenti strani,
incomprensibili. Come incoraggiata da quel trambusto, provocato dallo spegnimento
improvviso dei lampioni, la folla di sostenitori all’esterno ricominciò di nuovo a
rumoreggiare, a gridare slogans, a lanciare invettive contro le forze dell’ordine. Altrettanto
improvvisamente, due enormi fasci di luce, uno di seguito all’altro, si accesero,
illuminando a giorno la piazza. Erano stati azionati due fari che corredavano l’attrezzatura
trasportata fin lì per attuare l’opera di demolizione. Evidentemente era stata prevista anche
la possibilità che le operazioni si potessero prolungare oltre le ore diurne. Non ci fu
nemmeno il tempo di guardarci l’un l’altro in faccia per valutare appieno la delusione che
ne trapelava. Un grido macabro, amplificato dal megafono, lacerò il diffuso brusio nella
piazza.
“Sfollate!”
Un brivido di paura percorse la mia pelle, lo ricordo bene. Poi, quando le prime due
fila di poliziotti si staccarono dal resto della pattuglia, facendo tremare il terreno al ritmo
dei piccoli salti cadenzati con i quali ci piombarono addosso, fui colto dal terrore. Non
avevo mai assistito ad un pestaggio ed ora ne sarei divenuto persino una delle vittime
designate. Quando i manganelli cominciarono ad abbattersi sulle teste dei miei compagni,
caddi per lunghi secondi in una specie di trance confusionale, sotto una moltitudine di
corpi che mi cadevano addosso nel tentativo di schivare i colpi. Urla di rabbia e di dolore
mi rimbombarono nelle orecchie, il puzzo di terra e di sudore mi invase le narici. Soffocato
dal peso, impossibilitato quasi a respirare, mi sentii mancare, fui sul punto di svenire. Non
so come, trovai la forza di sottrarmi a quel groviglio asfissiante e di mettermi in piedi. Un
colpo alla schiena, datomi dalla testa di un compagno che stava cadendo, mi fece di nuovo
ruzzolare a terra. La botta al torace mi tolse il respiro per alcuni secondi, lasciandomi
accasciato un po’ distante dalla mischia. Sentii gridare qualcuno “Via, via…indietro…”, e
in preda alla disperazione e al panico mi risollevai ancora una volta. Non mi voltai a
guardare e presi a correre lungo la strada principale del villaggio, allontanandomi dalla
piazza. Come me stavano facendo tanti altri, chi lamentandosi per qualche ferita, chi
sbraitando come un ossesso per la collera, chi continuando ad incitare i compagni a farsi
indietro per sottrarsi alla furia dei poliziotti. Percorso un centinaio di metri, mi fermai a
riprendere fiato, di cui avevo estremo bisogno. Mi voltai e, anche se parzialmente accecato
dai potenti riflettori, potei scorgere in controluce le sagome dei mastini che perseveravano
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a picchiare come invasati. Era una scena allucinante, che avevo già visto solo nei films e
nei documentari, e per un attimo credetti davvero che quelle immagini non fossero reali. Il
dolore alla schiena, il respiro affannoso, mi sottrassero subito da quella facile illusione. Da
quanto potevo riuscire a distinguere, decine di corpi giacevano a terra e, ad uno ad uno,
venivano sollevati e trascinati verso gli automezzi. La maggior parte dei comunardi, però,
per quanto feriti, sanguinanti, stravolti, in qualche caso piangenti, erano riusciti a
retrocedere e a sfuggire almeno all’arresto.
“Cosa possiamo fare…”, sfuggì di bocca ad un compagno che si era fermato
accanto a me e stava osservando, sconvolto, con gli occhi sbarrati, incredulo, la stessa
scena.
“Già…cosa possiamo fare…”, ripetei quasi meccanicamente. Avvertii dentro di me
un
disgusto
e
un’ira
crescere
d’improvviso,
irrefrenabili.
“Difendiamoci…sì,
difendiamoci!”
“E come….come…”
“Con i sassi, prendiamo i sassi….è giusto difendersi, è giusto!”
“No, Stephen, questo no…non è possibile.”
“Perché no, perché….”
“Non è possibile, non è possibile…”, continuò a ripetere, si voltò e proseguì lungo
la strada, a capo chino.
In quel momento mi attrasse il pianto di una ragazza, poco più che ventenne, di
nome Sofia che, singhiozzando, si teneva il viso tra le mani. Mi accostai a lei pregandola di
non piangere e stringendola con un braccio sulla spalla.
“Hanno preso il mio ragazzo, lo hanno arrestato…”, e piangeva, piangeva come una
bambina. Le dissi quello che era possibile dirle per incoraggiarla.
“Non ti preoccupare, lo faremo uscire subito, vedrai…stai tranquilla.” E la rabbia
dentro di me continuava a crescere, aveva sostituito completamente la paura iniziale.
Un potente rombo di motori giunse dalla piazza.
“Gli autoblindo…stanno prendendo gli autoblindo”, si sentì gridare. Fu di nuovo il
caos, un fuggi fuggi generale. Riprendemmo tutti a correre in direzione opposta alla piazza,
cercando di sottrarsi ai fasci di luce, nascondendoci all’ombra delle case. Raggiunsi il mio
alloggio, mi nascosi dietro di esso, mi sedetti sull’erba a riprendere fiato, appoggiato con la
schiena alla parete di legno. Mi raggomitolai tutto con la testa tra le ginocchia, cercando di
non pensare. Alcuni scoppi mi fecero sussultare. Mi alzai e feci capolino da dietro la parete
per capire che cosa stava succedendo. Sulla strada, a circa duecento metri in direzione della
piazza, un fumo denso si stava sollevando verso l’alto, invadendo man mano tutta la
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carreggiata e le case circostanti. Lacrimogeni. Stetti a guardare per alcuni minuti incapace
di pensare a qualsiasi cosa, fino a che quel fumo si diradò, lasciando intravedere le sagome
degli autoblindo che avanzavano. Da più parti continuavano a giungere grida di ogni tipo;
percepivo distintamente anche il coro di urla che proveniva dalla folla di sostenitori, per
quanto lontana. Ripeteva senza sosta: “Assassini, assassini”. Un drappello di poliziotti
accompagnava, dietro e di lato, il primo autoblindo, che avanzava lentamente.
Quest’ultimo, ogni tanto si fermava se avvistava qualche fuggitivo nascosto o che si
spostava tra uno stabile e l’altro e immediatamente scattavano i poliziotti a piedi con i
manganelli sollevati, pronti a colpire. Tra non molto sarebbero giunti all’altezza del mio
alloggio. Cosa dovevo fare? Fuggire? E dove? Spostarmi tra una casa e l’altra, per ritardare
l’evacuazione e quindi la demolizione? Per quanto avrei potuto resistere, senza farmi
beccare? E i compagni, che ogni tanto scorgevo guizzare da una parte all’altra, cosa
avevano intenzione di fare? Quali erano le loro contromosse difensive, se queste stavano
provando? Ero paralizzato da un senso d’impotenza, incapace di immaginare una
scappatoia alla mia situazione. Non staccavo gli occhi di dosso a quelle sagome minacciose
contorniate dai riflessi di luce dei riflettori, che avanzavano e si muovevano come ombre
cinesi e che proiettavano altrettante ombre, lunghissime ed enormi, sulla strada e sulle
pareti delle case. Fui scosso dall’improvvisa apparizione di Sciark che, saltando fuori da un
vicolo, si parò di colpo innanzi all’autoblindo, abbaiando e ringhiando furioso contro di
esso. Avvertii il pericolo che quel povero cane stava correndo di finire sotto le gomme o di
esser preso a manganellate dai poliziotti. Scattai d’impulso sulla strada come una molla, e
chiamai ripetutamente Sciark per farlo avvicinare a me. Chiamai e chiamai ancora come un
disperato, ma il cane non ne voleva sapere di ascoltarmi, o forse il rumore dell’autoblindo
copriva il mio richiamo. Sta di fatto che continuò a saltellare, ringhiante e inferocito, qua e
là sulla strada davanti all’automezzo, quasi fosse convinto di fermarne l’avanzamento.
Accortisi della mia presenza, i poliziotti presero a correre verso di me e l’autoblindo
accelerò l’andatura, ovviamente incurante del cane che abbaiava davanti ad esso. Successe
proprio, e forse proprio per colpa mia, quello che disperatamente avevo tentato di evitare:
il povero Sciark cessò di esistere in un istante, stritolato dalle ruote dell’impietoso mezzo.
Un’ira incontrollabile, che già poc’anzi avevo iniziato a provare, esplose dentro di me.
Senza riflettere scrutai rapidamente ai lati della strada per cercare qualcosa. Vidi alcune
pietre ammucchiate di diversa grandezza; ne afferrai un paio che ritenevo adatte e le
scagliai, con tutta la forza che avevo, davanti a me, non puntando uno specifico bersaglio,
ma l’insieme minaccioso che avanzava. Ripetei quei gesti più volte, in modo convulso,
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urlando non so bene cosa, quasi piangendo dal dolore. Fui strattonato con tale veemenza
alla spalla destra che persi l’equilibrio, rischiando di cadere a terra di schiena.
“Vieni via, sciocco! Cosa stai facendo….vieni via!”
Era così alterata che non riconobbi subito la voce di Ramona. Per un istante pensai
che un poliziotto mi avesse raggiunto alle spalle.
“Ramona!…hanno ammazzato Sciark, l’hanno stritolato….quei bastardi!”
“Ho visto, ho visto….ma vieni via o finiranno per ammazzare anche qualcuno di
noi….presto!”, continuava a gridarmi col viso sconvolto, i capelli scompigliati e una
striscia sottile di sangue rappreso sulla guancia, che i potenti fasci di luce lasciavano
intravedere tra le ombre.
“Ramona…l’hanno ammazzato…”, continuai invece a ripeterle come imbambolato,
non ancora uscito dallo stato di subbuglio collerico che mi aveva impossessato.
“Ti ho detto di venir via, stupido! E’ finita….non c’è più niente da fare! Ci sono
addosso….stanno venendo….non vedi?” Mi prese per mano tirandomi energicamente dalla
sua parte e incitandomi a correre. Frastornato, mi lasciai trascinare per qualche metro, poi,
senza lasciarle la mano, che mi infondeva conforto nonostante tutto, impressi energie delle
mie nelle gambe, e presi a correre sempre più velocemente accanto a lei nella direzione che
aveva scelto. Mi voltai per un momento in corsa, per assicurarmi di non avere ancora
qualcuno alle spalle. Si erano fermati; era chiaro che non avevano disposizione di
inseguirci ovunque, ma solo di scacciarci dal villaggio. Corremmo ancora per alcuni
minuti, inoltrandoci nella campagna, dove il buio era quasi totale e non giungeva più alcun
chiarore dei riflettori. Arrestammo la corsa e proseguimmo a passo normale, ansimando e
tossendo. Non c’era la luna e un cielo lievemente velato nascondeva anche gran parte delle
stelle; solo con molto intuito e abituandomi man mano all’oscurità, potevo capire su cosa
stavo camminando.
“Dove stiamo andando?”, le domandai ad un certo punto.
“Non ti preoccupare, conosco molto bene tutta la zona per chilometri. L’importante
è ora allontanarsi il più possibile. Troveremo un posto per passare la notte, stai tranquillo”.
In verità, non ero affatto preoccupato per la notte da trascorrere, e accanto a lei
stavo riacquistando pian piano la mia normalità. Il pensiero di Sciark, però, e quella
straziante scena di morte avvenuta sotto i miei occhi, non potevo cancellarli dalla mente.
Mi sfuggì di nuovo dalle labbra, il suo nome, mentre a stento trattenevo le lacrime.
“Sciark…l’hanno ammazzato quei vigliacchi….”
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Ramona mi strinse al suo fianco, fasciandomi la schiena con un braccio. Non disse
una parola. Restammo parecchi minuti in silenzio, ognuno col proprio dolore, e intanto ci
allontanavamo sempre di più dal villaggio.
***
Di nuovo! Ancora quella faccia da….
“Eh, Eh, Eh, si parte tra un paio d’ore. Contento? Eh, Eh, Eh.”
“Sprizzo gioia da tutti i pori.”
“Ora viene il bello. Comincia la tua nuova vera vita da detenuto…Eh, Eh.”
“Perché, fino a questo momento ho fatto una vacanza ai tropici?”
“Oh, non sarà la stessa cosa, vedrai! Quella che hai fatto in questi trenta giorni la
ricorderai davvero come una vacanza, ci puoi scommettere, caro il mio anarcoide ribelle
scribacchino…Eh, Eh.”
“Non ti preoccupare per me, saprò cavarmela.”
“Questo è certo, dovrai imparare presto a cavartela, altrimenti…saranno guai
grossi. Prepara le tue cose che si trovano qui in cella, il computer, le tue memorie e tutto il
resto. Prima di uscire le consegnerai a me; ti saranno restituite nella tua nuova dimora.
Tutto chiaro?”
“Chiarissimo.”
“Bene, a più tardi.”
Quanto meno non vedrò più la tua facciaccia. E poi sia quel che sia. Non sono il
primo e non sarò nemmeno l’ultimo a passare cinque anni in galera. Finiranno, prima o
poi, finiranno…
***
Attraversammo campi di ogni tipo, incolti, coltivati, arati di recente. Di tanto in
tanto inciampavo contro qualcosa, su una zolla, un arbusto, ma cercavo di rimanere sempre
incollato al fianco di Ramona. Ella avanzava con passo sicuro, non fermandosi mai;
sembrava capire esattamente dove stesse andando. Dopo circa mezz’ora mi arrestai di
colpo, per un pensiero improvviso che mi era baluginato in testa.
“Ramona!….ma….. Jò? Che fine ha fatto Jò?”
Si fermò anche lei, voltandosi verso di me.
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“Era seduto accanto a me quando c’è stata la carica dei poliziotti. Poi, nella gran
confusione che si è creata, l’ho perso momentaneamente di vista. In quel frangente sono
stata colpita di striscio al volto da un manganello e…..”
“Ah, sì…ho visto. Hai del sangue su una guancia…fa vedere bene di che si tratta,
se ci riesco a vedere con questo buio.”
“Lascia perdere, è una sciocchezza. Insomma, poco dopo, mentre stavo
indietreggiando per sottrarmi a quelle belve scatenate, l’ho rivisto in piedi che esortava i
compagni a tirarsi fuori di là. Quindi, impressionata da quella ferocia – non mi vergogno a
confessarlo – ho preso a correre a caso, tra le case, evitando di espormi ai riflettori, e ho
perso di vista Jò. Sono però convinta che è riuscito a cavarsela, è assai in gamba, niente
affatto impulsivo o imprudente. Sono preoccupata per molti altri, invece, per i più anziani e
per i più giovani. Ne ho visti cadere molti sotto i colpi, e molti li ho visti trascinati via
insanguinati e malconci. Un vero massacro. Non avrei mai creduto che si sarebbero spinti a
tanto, che avrebbero infierito con tanta crudeltà contro persone inermi. Nessuno dei nostri
ha alzato un dito, di questo sono sicura. Beh….eccetto te. Ora non è prudente mettere
mano ai cellulari per tentare un contatto con tutti gli altri. Potrebbe essere pericoloso,
correremmo il rischio di farci rintracciare. Ci aspetta domani un duro lavoro per
ricomporre le fila, per capire quanti sono rimasti feriti e quanti sono stati arrestati, e quindi
per avviare l’organizzazione di tutte le iniziative necessarie ad ottenere una rapida
scarcerazione di chi è stato messo dentro e a imbastire incisive campagne di protesta contro
le autorità. C’è una cittadina a pochi chilometri di distanza da qui, abbarbicata sulla cima
di un colle, Hightower. Conosco alcuni compagni in gamba che vi abitano. Cominceremo
da lì, domani. Ci alzeremo all’alba, domattina, e in un paio d’ore di cammino
raggiungeremo Hightower. Ed ora….”
“Ora dove stiamo andando?”
“Ecco, ti stavo appunto dicendo che ora ci fermeremo presso un casolare disabitato.
Si trova a circa quindici minuti di strada, se ho calcolato bene. E’ di proprietà di un
conoscente. Non se la prenderà a male se scoprirà che qualcuno ha usato il suo fienile per
passare la notte. Anzi, quando avrò un momento di tempo, lo metterò al corrente io stessa
di averlo utilizzato per questa emergenza.”
Ci volle ancora un’altra ora di cammino, in realtà, per arrivare al casolare di cui
parlava Ramona. Erano circa le dieci. La vecchia e rustica abitazione in pietra, collocata
molto all’interno della campagna, distante parecchie centinaia di metri dalla principale
strada di comunicazione e anche da altre fattorie abitate, si presta assai bene ad offrire un
tranquillo riparo per la notte. Non ci lasciammo tentare dal silenzioso isolamento del posto
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per forzare l’entrata e riposare più comodamente in una delle sue stanze. Preferimmo
adattarci alla meglio, come aveva previsto Ramona, nel vicino fienile, che è una semplice
baracca in legno alloggiante attrezzatura agricola e qualche balla di fieno, ma più che
sufficiente ad ospitarci per quella notte, dopo la terribile, burrascosa giornata trascorsa.
Appena entrati, ci volle un po’ per renderci conto di come erano dislocate le cose e di dove
si trovassero le balle di fieno per farne il nostro giaciglio. Ne decompattammo una
spargendo il fieno per rendere il giaciglio più morbido, e ci lasciammo andare esausti,
l’uno accanto all’altra.
Non me l’aspettavo. Non avevo mai osato sperarlo. Non ci avevo mai creduto che
potesse accadere. Mi si accostò fino ad appoggiare il suo corpo al mio. Mi accarezzò
dolcemente il volto.
“Come ti senti, giovanotto?” Credo che arrossii, ma lei non poteva vederlo.
“Stanco….e triste. Ma perché insisti a chiamarmi ‘giovanotto’? Ti sembro proprio
così immaturo?”
“Ma no, al contrario. Ti chiamo così forse perché sono io a sentirmi troppo matura
di fronte a te.”
“Troppo matura? Per che cosa troppo matura? A me, la tua presenza, trasmette solo
una grande sensazione: quella della pienezza e della bellezza della vita. Ramona, non te
l’ho mai detto, ma accanto a te mi sento sempre così profondamente appagato, così…”
“Dai, piantala di adularmi…”
“Non ti sto adulando, sto solo dicendo una piccolissima parte di ciò che penso di te.
Quante cose vorrei poterti dire, ma….non so….non ne ho mai avuto il coraggio….”
“Davvero mi apprezzi così tanto?”
“Io penso…Ramona…penso sia molto di più di un semplice apprezzamento,
penso….”
“Va bene, non pensare, ti credo. Sai….anch’io non ti ho mai detto una cosa….”
Ci furono dei lunghi momenti di silenzio. Aspettavo che mi dicesse qualcosa,
qualcosa di sconvolgente. Il buio, per fortuna, nascondeva, o comunque mascherava, le
nostre emozioni, e lasciava libero gioco solo all’attesa e alla sorpresa. E quale sorpresa mi
attendeva! Sentii il suo alito caldo sul viso, un attimo prima che le sue labbra si posassero
sulle mie. Restai a lungo senza fiato, penetrato dalla sua lingua che mi cercava, mi
desiderava, si nutriva di me, soltanto di me. Fu come se si spalancassero le porte di un
mondo mai visto e che nemmeno immaginavo potesse esistere. Ci amammo per tutta la
notte, in quella magnifica notte. Restammo avvinghiati per ore. Le baciai ogni angolo del
suo corpo e avrei continuato all’infinito, se lei non avesse preteso di fare altrettanto con il
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mio. La passione ci travolse, sfidando la nostra capacità fisica di resistenza, di
sopportazione alla spossatezza, via via crescente. Ci abbandonammo ripetutamente ad
orgasmi che, per quanto intensi, non bastavano mai ad appagare voglie smisurate.
Interruppi quella frenesia inestinguibile solo quando lei, pur accondiscendendo
all’ennesimo amplesso, mostrò degli evidenti segni di stanchezza. Le sue membra
divennero meno attive, i suoi baci meno appassionati, i suoi occhi stentavano a riaprirsi..
La liberai dal peso del mio corpo e giacqui al suo fianco, l’accarezzai affettuosamente sul
viso e sui seni fino a quando il suo respiro non divenne pesante. Avvolsi entrambi con i
giacconi e i vestiti che ci eravamo tolti, anche perché il freddo cominciava a pungere.
Appoggiai il viso sul suo petto inebriandomi dell’odore della carne. Sprofondai nel sonno
come un bambino nel grembo di sua madre. Saranno state le tre o le quattro del nuovo
giorno.
Sentii chiamare il mio nome, più volte, da una voce che sembrava venire di lontano
o da un’altra dimensione. Ramona faticava a svegliarmi perché non voleva farlo
bruscamente, e sussurrava appena mentre mi guardava, restandosene distesa con la testa
sollevata e appoggiata su una mano, il gomito puntellato sulla paglia. Aprii gli occhi, una
debole luce pervadeva le cose intorno. Il suo splendido viso, nonostante fosse sporcato da
ombre nerastre di sangue rappreso e mostrasse una leggera tumefazione al sopracciglio
sinistro, mi era dinanzi a pochi centimetri di distanza e mi scrutava sorridente. Era l’alba.
“Svegliati, Stephen, è ora di alzarsi”, ripeté delicatamente. Mi si riempì subito il
cuore di gioia a quella prima visione, ma ero talmente intorpidito e annichilito dal sonno
che richiusi gli occhi, biascicandole appena con la voce impastata: “Dormiamo ancora un
po’..”
“Non è possibile, dobbiamo alzarci, ci aspettano tante cose da fare.”
Riaprii a fatica gli occhi.
“Hai ragione.”
Mi voltai su me stesso, mettendomi supino, e mentre avvertivo addosso ancora il
suo sguardo dolce che mi accompagnava nel difficile risveglio, spostai prima gli occhi, poi
tutta la testa, da destra a sinistra, per osservare ciò che mi circondava. Notai una scala di
legno, alcuni attrezzi agricoli, una lunga ma stretta finestra, una sorta di feritoia, dalla
quale penetrava il chiarore che aveva invaso il fienile. Restammo così, in silenzio, per un
paio di minuti, poi mi venne un pensiero. Senza voltarmi verso di lei, continuando a
guardare gli oggetti intorno a me, le dissi quello che stava passandomi per la testa.
“Mi dispiace per Jò, non avrei mai voluto fargli un torto…mi credi Ramona?”
Con la mano mi stava togliendo le pagliuzze ingarbugliate tra i capelli.
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“Ti credo, Stephen, ti credo. Sai…a me dispiace anche di più…”, il suo volto si
rabbuiò. “…Quando glielo dirò, e glielo dirò alla prima occasione in cui mi sembrerà più
tranquillo, meno angustiato dalle attuali vicissitudini, credo che ne soffrirà molto. Per
quanto intelligente, forte, comprensivo, libero da qualsiasi pregiudizio….ne soffrirà. Non è
possibile non soffrirne. E’ nella natura umana. Non so quale reazione avrà, ma ne soffrirà,
di questo sono sicura. E io ne soffrirò con lui.”
“Allora perché hai fatto l’amore con me, se sapevi che poi ne avresti sofferto tu
stessa per il torto arrecato a Jò?”
“Perché non è possibile immunizzarsi contro il dolore. Piacere e dolore, gioia e
tristezza, felicità e sofferenza, coesistono necessariamente. Non può esistere l’una senza
l’altra. Anzi, l’una esiste solo in quanto esiste l’altra. Questa è la vita, e non possiamo farci
niente, Stephen. Ho provato gioia e piacere, con te, questa notte. Ma sapevo che avrei
procurato anche dolore a Jò e a me stessa. Bisogna farsi carico delle conseguenze delle
proprie azioni. Sono stata egoista, tu mi dirai. Ma chi non lo è egoista? Anche Gesù, nelle
sue grandi opere di bene per gli altri, in fin dei conti realizzava se stesso, il suo essere,
dunque si adoperava per una finalità egoistica. E non credere che anche Gesù non abbia
fatto del male ad altri, realizzando se stesso. Pensa a tutti coloro che, a causa delle sue
predicazioni e delle sue opere, vedevano crescere una potente minaccia al proprio potere e
ai propri privilegi. Di certo costoro non ricavavano un grande piacere dall’esistenza di
Gesù. Oggi, poi, ironia della sorte, gente come questa, che ha da difendere i propri
privilegi, si serve del nome di Gesù proprio per nascondere le peggiori malefatte nei
confronti dell’umanità. Ma questo è un altro discorso.”
“Secondo te allora non è possibile essere felici, realizzare la propria felicità, senza
provocare dispiacere o dolore a qualcuno?”
“Penso di no, penso che, direttamente o indirettamente, in un modo o in un altro,
volutamente o no, il nostro agire, o la nostra semplice esistenza, sia responsabile di un
qualche dispiacere altrui. L’importante, secondo me, è riuscire ad esserne consapevoli e a
non nascondere questa verità né a sé né agli altri. L’importante, insomma, è non essere
ipocriti ed esser pronti a pagare le conseguenze delle nostre azioni.”
“Ma tu lo ami Jò, gli vuoi bene?”
“Io lo amo, gli voglio molto bene, lo stimo tantissimo, ho provato sempre una
grande attrazione per lui. Il fatto è che non esiste solo lui, e talvolta può capitare che provi
una forte attrazione anche per altri. Questa volta sei tu l’oggetto delle mie brame,
giovanotto. Ho provato anche a resistere ad esse, a minimizzarle, ma come puoi vedere,
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non ce l’ho fatta a dominarle. Forse sono debole. Ma cosa posso farci! D’altronde, Jò già
sapeva che non mi eri indifferente.”
“Dici davvero?”
“Certamente, l’avevo informato io stessa dei miei desideri, non appena mi ero resa
conto di averli.”
“E lui? Come ha reagito lui?”
“Mi ha solo domandato se tu potevi costituire un’alternativa a lui. Lo rassicurai che
non doveva temere di essere sostituito da nessuno, perché non credevo potesse esserci
qualcuno in grado di farlo. Poi non mi ha chiesto più nulla e non ha mai cercato di
condizionarmi in alcun modo.”
“Lo sai che lui mi disse apertamente di aver capito che tu mi piaci?”
“Certo che lo so, te lo disse sui monti, durante la passeggiata che facemmo
insieme.”
“Tra voi proprio non esistono segreti!”
“Esatto, non esistono segreti di alcun genere.”
Esitai qualche secondo, poi le domandai ciò che più mi premeva.
“A questo punto, Ramona, devi dirmi una cosa. Se ho capito bene, non sarò mai
una possibile alternativa di Jò; d’altronde, nemmeno io ho mai aspirato a costituire
un’alternativa di qualcun altro agli occhi della persona che desidero. Cosa rappresento,
allora, per te: una delle tue attrazioni momentanee, un oggetto da consumare fino ad
esaurimento del desiderio, o cos’altro?”
“Troppe domande mi poni, Stephen, e non ho una risposta pronta da dare a
qualsiasi domanda. Su questa, in particolare, non ho mai avuto modo di riflettere
abbastanza, anche perché non avevo previsto che stanotte sarei finita in un pagliaio insieme
a te. Di sicuro posso dirti che ho passato una notte indimenticabile con te. Ma non posso
dirti nulla di più, Stephen, nulla di più. Ora, però, è bene chi ci vestiamo, ed anche in fretta.
La bella parentesi appena trascorsa è finita; ci sono cose molto importanti a cui pensare,
innanzitutto a quale fine hanno fatto i nostri compagni. Non credi?”
“Sì, certo, hai ragione.”
“Allora su, coraggio giovanotto, in piedi.”
Ci vestimmo, ci togliemmo di dosso tutte le pagliuzze rimaste attaccate, ci
sciacquammo la faccia con l’acqua gelida di una fontana che si trova nel piazzale antistante
al casolare: tutto in silenzio, senza più scambiarci una parola. Il sole doveva ancora
apparire al di là delle colline, la brina imbiancava i prati; gli intensi odori della campagna,
l’aria frizzante e il cielo terso che prometteva una bella giornata, ebbero l’effetto di
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ritemprarmi, di sottrarmi in breve tempo al torpore. C’incamminammo attraverso i campi,
lei avanti io subito dietro, mantenendoci distanti da ville e casolari per non provocare
l’abbaio dei cani da guardia. Qualcuno di questi, però, avvertì ugualmente la nostra
presenza, fiutando i nostri odori, e sollevò un gran baccano. Giungemmo, dopo circa due
ore di cammino ininterrotto e senza alcun tipo d’inconveniente, alle pendici di Hightower.
Percorremmo le ultime poche centinaia di metri di strada asfaltata e in salita, che ci
separavano dalla cittadina, intorno alle nove e trenta, quando il sole cominciava a scaldare
l’aria. Avevamo entrambi denaro contante in tasca (tutti i comunardi se ne erano muniti
prima del giorno fatidico, in via prudenziale). Il piano di Ramona prevedeva che avremmo
alloggiato in un albergo, e così facemmo, scegliendo, tra i tre esistenti, quello più
tranquillo e meno frequentato. Verso le undici ci alternammo alla doccia di una camera
doppia, per ripulirci dalla polvere accumulata il giorno prima, durante la snervante prova di
resistenza, e dal sudore versato nell’estenuante e gioiosa notte d’amore. Non avevamo di
che cambiarci, ma ci sentivamo comunque rinfrescati e rinfrancati. Nell’ora successiva,
mentre riposavamo nella piccola sala mensa dell’albergo, divorando un’abbondante
colazione, concordammo le mosse da attuare nell’immediato. Lei sarebbe andata dai
compagni del posto, tentando, insieme a loro, di ripristinare i contatti con i comunardi, di
appurare, quantizzare e valutare le conseguenze, in termini di feriti e arresti, subite con lo
sgombero forzato, di programmare interventi di sostegno e di mobilitazione e quant’altro si
fosse reso necessario. Poi sarebbe tornata all’albergo, non prevedendo però di preciso
quando. Io avrei dovuto cercare un ‘internet point’ per collegarmi col mio amico editore (il
mio computer portatile era stato portato al sicuro nel rifugio di montagna), metterlo al
corrente dei fatti e invitarlo a diffondere notizie sugli avvenimenti accaduti. Quando ci
salutammo, subito dopo colazione, c’era qualcosa d’inquietante nei suoi occhi, e forse
anche nei miei. Sospettavamo entrambi, ma non volevamo però crederci, che non ci
saremmo più visti. Ci lasciammo dopo un abbraccio alquanto fugace, per nascondere il
senso di incertezza sul futuro. Almeno per quanto mi riguarda, questa incertezza pesava
come un macigno. Non si dimostrò infondata, perché, in effetti, fu proprio quella l’ultima
volta che la vidi.
Nel pomeriggio, una volta rimasto solo, mi recai in un negozio di abbigliamento,
acquistai degli abiti nuovi (con quelli che avevo indosso ero impresentabile), tornai
all’albergo per cambiarmi, quindi scesi di nuovo in strada per cercare un locale che
consentisse connessioni internet e invio di e-mail. Lo trovai quasi subito e mi ci trattenei
per un paio d’ore. Trasmisi una lunga lettera a Mike, nella quale riportavo in dettaglio gli
avvenimenti del giorno prima e lo pregai amichevolmente, come avevo già fatto in
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precedenza, di divulgarne il contenuto, almeno sui principali quotidiani nazionali. Feci il
grave errore – lo capii solo alcuni giorni dopo – di rivelargli il posto in cui mi trovavo,
addirittura di indicargli l’albergo in cui alloggiavo, per recapitarmi eventuali
comunicazioni. I due giorni successivi li trascorsi tra rilassanti docce calde, frugali pasti in
camera e sogni ad occhi aperti disteso sul letto. Non uscii più dall’albergo. Il tempo
passava senza alcuna notizia di Ramona e cresceva l’ansia per l’attesa. Non riuscivo a far
altro che pensare a lei, a quel corpo dalla pelle olivastra che avevo baciato e carezzato per
un’intera notte. Ancora non riuscivo a capacitarmi che fosse accaduto davvero. E poi
riflettevo su quali sviluppi avrebbe potuto avere il nostro rapporto; immaginavo
intensissimi momenti di vita insieme a lei in esaltanti contesti di rara bellezza. In attesa del
suo concreto apparire, vivevo in incredibili favole che la mia mente produceva senza freno.
Di tanto in tanto, però, ero colto dalla preoccupazione, e forse anche dal senso di vergogna,
pensando a quando avrei rivisto Jò. Come potevo guardarlo di nuovo con tranquillità negli
occhi? Come mi sarei giustificato, se mai avessi tentato di farlo? Mi avrebbe conservato la
sua amicizia? Mi avrebbe saputo comprendere e perdonare? Sarebbe rimasto immutato il
suo atteggiamento nei miei confronti?
Il terzo giorno di attesa divenni estremamente nervoso. Passeggiai per tutto il tempo
nella mia stanza, sbirciando continuamente dalla finestra, controllando spesso il mio
cellulare per verificare se vi fossero chiamate o messaggi che non avessi udito, sperando
che qualcuno bussasse alla porta, dimenticandomi persino di mangiare qualcosa. La
situazione era intollerabile. Ero tentato di telefonarle o di telefonare a qualche compagno,
nonostante fossimo rimasti d’accordo con Ramona che era preferibile non farlo, almeno
per qualche giorno. Il pomeriggio mi raggomitolai sul letto, tentando di dormire per non
pensare, ma inutilmente. L’ansia stava trasformandosi in autentica paura che potesse essere
accaduto qualcosa di grave. Ricordo perfettamente che, rannicchiato, stavo fissando la
finestra. Il sole tramontava e la luce nella stanza si affievoliva a vista d’occhio. Il buio era
prossimo, di nuovo il buio e l’angoscia che cresceva. Tre tocchi secchi ed energici alla
porta. Rimasi ancora alcuni secondi immobile sul letto, non credevo di aver udito bene. Poi
saltai giù con uno scatto felino pensando a Ramona. Era tornata, non avevo alcun dubbio.
Come potevo immaginare che invece ero giunto alla fine della mia indimenticabile
esperienza? Corsi alla porta, la spalancai senza esitazione. Apparvero quattro poliziotti in
divisa e uno in abiti civili. Quest’ultimo, tenendo in mano un foglio di carta, chiese con
voce dura:
“Il signor Stephen Crosby?” Non potei che confermare.
“Bene, ci deve seguire. Abbiamo un mandato di cattura nei suoi confronti.”
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Sentii il mondo crollarmi addosso. Non seppi che cosa dire e che cosa fare. Mi
diedero il tempo di infilarmi le scarpe, prendere i pochi oggetti che avevo appoggiato sul
tavolino e poi mi portarono via con loro.
Finisce qui la storia che intendevo raccontare. Non ho altri particolari significativi
da aggiungere. Solo una brevissima considerazione. Se posso mettere la parola fine
all’esperienza che ho vissuto, non altrettanto posso fare con molte delle questioni che ho
sollevato, con i personaggi che ho ricordato o con i fatti stessi che ho narrato. Per esempio:
che fine hanno fatto Ramona, Jò, Tenton, Manolo e tutti gli altri compagni? Li rivedrò
ancora? Rinascerà la comunità? E il predicatore? Chi è il predicatore? Che fine ha fatto?
Cosa prova in realtà per me Ramona? Sono stato per lei una semplice avventura di una
notte oppure ella nutre un affetto più o meno profondo nei miei riguardi? Che ne sarà del
mio futuro quando uscirò di qui? E potrei continuare con gli interrogativi. E’ una storia che
si conclude con molti interrogativi e poche certezze, quest’ultime tutte negative: la
distruzione di un villaggio e di una grande esperienza di vita comunitaria, la morte di
Sciark, la galera per me ed altri compagni. Che ci posso fare! Questa è la vita, almeno
quella che mi ha riguardato da vicino negli ultimi mesi. A me non ha saputo offrire né
chiarezza né certezze. Ma non ho potuto fare a meno di raccontarla. In trenta giorni ce l’ho
fatta. Ed eccomi qua. Tra poco verranno a prendermi per trasferirmi. Spero solo che questa
storia non sia la sola e l’ultima vera storia che sono riuscito a scrivere. Spero anche, se non
chiedo troppo, che ci sia un editore disposto a pubblicarla. Non un editore amico,
però…non vorrò mai più editori per amici, mai più.
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EPILOGO
Chi ti vedo! Pensavo avessi fatto una finaccia. Così ci possiamo anche salutare.
Hei…fatti toccare. Perchè scappi….non ti faccio del male. Voglio toccare le tue zampette...
appena appena, non ti preoccupare. Ecco, così…Ci siamo, stanno venendo, è già ora di
salutarci. Ciao piccolo…
“Forza ragazzo, è il momento. Consegnaci le tue cose. Quest’altro bel gaglioffo
viene con te, ti farà compagnia lungo il viaggio.”
“Salve fratello. Contento che ci portano via?”
“Infinitamente.”
“Cosa hai fatto…furto, rapina, stupro, omicidio…cosa?”
“Oh…niente di tutto questo.”
“Non mi dire che stai dentro per sbaglio!”
“Beh …non so...non proprio.”
“Ho capito, sei un politico.”
“Camminate, avanti, vi racconterete le vostre malefatte sul furgone. Non abbiamo
tempo da perdere.”
“Hei…sei poco gentile, fratello. Che brutte maniere!”
“Non mi chiamare fratello, non sono tuo fratello….chiaro? Le conoscerai le brutte
maniere, vedrai.”
“Tremo tutto dalla paura….fratello.”
“Su le braccia, ragazzo. Ti devo mettere questi bei braccialetti.”
Questo è proprio incallito. Chissà cosa ha combinato. Certamente non è alle prime
armi. Beh…credo che ne conoscerò parecchi di tipi simili, probabilmente anche di
peggiori. Non vado certo in un convento di carmelitane. Dovrò abituarmici. Sarà dura, lo
so. Ma passerà, anche questa passerà. Addirittura le manette. Hanno paura che chissà cosa
io possa fare. Ramona…quanto mi manchi. Ti rivedrò più? La tua faccia, la tua carne…mi
aiuteranno a far passare il tempo. O forse no…forse sarà anche peggio pensare a quello che
ho perso. Spero di no, spero…
“Ah…fratello, senti che aria frizzante, e che profumi. Scarichi di macchine, odore
di gente libera…respira tutto a pieni polmoni, fratello, là non li sentirai più.”
Come farà ad apprezzare questa puzza. Deve aver passato tanto tempo dentro, forse
più dentro che fuori, per estasiarsi di questa aria. Il cielo però è bello da vedere. Sono
trenta giorni che non vedo sopra di me la volta del cielo. Forse tra un paio d’anni anch’io
rimpiangerò gli odori, i rumori della città, questo malefico caos che ho sempre cercato di
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evitare; rimpiangerò le cose più brutte e insignificanti di questo mondo, purché si trovino
fuori della prigione. Penserò a questa gente indaffarata, ai negozi illuminati, ai ragazzi che
vanno a scuola, ai cani che pisciano nelle aiuole o sui tronchi d’albero, ai lampioni delle
strade, alle auto in sosta o che ti sfrecciano vicino, all’immondizia che deborda dai
cassonetti, a….
“Forza, salite sul furgone.”
“Non spingere, fratello, faccio da solo.”
“Non chiacchierare e muoviti a salire…hei Bob, la scorta è pronta?”
“Tutto a posto, Jeff. Ci accompagneranno due auto, una avanti, una dietro.
Eccole…possiamo partire. Guiderò io, oggi. Qualcosa in contrario?.”
“Assolutamente no. Andiamo pure…..Accomodatevi qui voialtri.
Tirate su i
braccialetti. Ecco, bravi, così. Fissati a questa sbarra staremo tutti più tranquilli…non è
vero? Eh, eh, eh.”
“Quanto sei malfidato, fratello. Mica ti mangio. Sei troppo grande…a me piace solo
la carne tenera dei bambini…Ah, ah, ah.”
“Ridi, ridi…chiudiamo anche il portello ben benino. Okey, a posto. Possiamo
andare Bob, segnalalo alla scorta.”
“Guardia…quanto ci vorrà per arrivare?”
“A cosa ti serve saperlo? Il tempo sarà sempre troppo lungo per te…comunque, se
proprio lo vuoi sapere, tra un paio d’ore arriveremo a destinazione…a casa vostra, voglio
dire, eh, eh.”
Come fanno ad essere tutte così idiote queste guardie! Sembrano fatte con lo
stampino. Sono sadiche e cattive, proprio come le fanno vedere nei films. Non è affatto un
luogo comune, è la verità. Chi va a fare questo mestiere, o lo è già, o lo diventa cattivo,
non si scappa. Ci sarà questa benedetta eccezione che conferma la regola, la guardia più
umana e buona, più sensibile e comprensiva verso i detenuti, quella con cui puoi scambiare
di tanto in tanto quattro chiacchiere senza che ti denigri e offenda, come anche talvolta ci
fanno vedere sempre nei films? Per ora non l’ho incontrata, ma è ancora troppo presto per
dirlo, ho ancora tanto tempo per incontrarne una, tanto tempo…Quante macchine ci sono, è
davvero caotica questa città. Pensare che fino a poco tempo fa avrei assolutamente evitato
di passarci in una città del genere….ora mi sembrerebbe un sogno potermici stabilire per il
resto dei miei giorni. Eh…andiamo male, proprio male. Se ragiono così adesso….tra
qualche mese…Ramona, mia cara. Non so se è un sogno quello che sto vivendo ora,
oppure quello che ho vissuto insieme a te, ai tuoi compagni, a Jò, a Tenton, a Sciark…già
Sciark…povera bestia, non meritava quella fine…era innocente, non la meritava
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proprio…Ma è esistito davvero? Esisti davvero tu, Ramona? Ho vissuto davvero quei mesi
incredibili, là dove il mondo sembrava una bellissima favola, tra gente che non conosceva
l’odio, ma solo l’amicizia, la solidarietà, il semplice stare insieme senza invidie, senza
bisogno di arraffare denaro, senza bisogno di raggiungere alcuna posizione di privilegio e
di potere rispetto agli altri, là dove il mondo non ti chiedeva niente di più di ciò che potevi
e sapevi dare, e ti offriva tutto ciò che la vita può offrirti di meglio? Sì…probabilmente è
stato un sogno, solo un sogno dal quale faccio fatica a svegliarmi. Mi dovrò rassegnare,
prima o poi mi dovrò rassegnare alla vera realtà, a questa realtà, se voglio continuare a
sopravvivere. Le favole si possono solo scrivere, non vivere…almeno potessi scriverne! Sì,
ecco, voglio dedicare la mia vita a scrivere favole, mi sforzerò di scrivere favole.
Quantomeno con la mente cercherò di fuggire da questa prigione e darò la possibilità, a chi
lo desidera, di sottrarsi almeno con la mente alla prigione, di evadere almeno per poche
ore…Sì, solo questo mi rimane di fare, non voglio fare nient’altro che questo…
“Hei…fratello, lo senti anche tu questo casino?”
“Eh…? Cosa?”
“Sì, questo casino, tutte queste voci….mica sono scemo, le sento cazzo….”
“Sì, hai ragione, è come se…”
“Ha proprio ragione il tuo fratellino. Bob…hei Bob, là davanti, lo senti tutto questo
casino? Vedi qualcosa?”
“Accidentaccio…certo che lo sento…anzi lo vedo. Ci troviamo nel bel mezzo di un
corteo…e che corteo! Scorgo un mare di gente. Chissà cosa hanno da strillare. Guardate
là…proprio la strada che dobbiamo fare, e non ce ne sono altre. Ma perché non ci hanno
avvertito? Alla centrale non sapevano di questo corteo? Accidentaccio….”
“Hai…non ce la faremo ad arrivare per il pranzo, vero Bob?”
“Temo proprio di no, Jeff…maledizione!”
“Ma che sta facendo la scorta? Comunica loro di andare a farci strada. Non
possiamo restar qui ad aspettare che il corteo scorra per intero.”
“Chi sono tutte quelle persone? Cosa vogliono?”
“Sono giovani che contestano…magari sono sfaccendati amici tuoi, vero Crosby?”
“Cazzo, fratello, sono davvero amici tuoi quelli? Ma che hanno da strillare tanto?”
“Non so cosa dirvi….forse sono studenti.”
“Già, non gli piace di andare a scuola a questi studenti…eh, eh…hanno ragione
cazzo, hanno proprio ragione. Chi glielo fa fare di andare a scuola…cosa vuoi che
imparino…eh, eh…ho imparato a vivere in mezzo alla strada io, non certo sui banchi di
scuola.”
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“Si vedono i risultati, infatti, hai imparato a fare il furfante, ecco cosa hai
imparato.”
“E tu cosa hai imparato? A indossare quella divisa del cazzo? E cosa altro hai
imparato? Su, avanti, dimmi cosa altro hai imparato….”
“Ma cosa ci parlo a fare con un delinquente come te…”
“Proprio così, è meglio che non ci parli con me, tanto non capisci un cazzo.”
“Hei, bifolco che non sei altro…se parli ancora con quel tono ti faccio saltare tutti i
denti con questo. Mi sono spiegato?”
“Eeeh…quanto sei suscettibile, fratello…”
“E non sono tuo fratello, ti ci entra in quella zuccaccia vuota?”
“Uh…va bene, non ti arrabbiare. Tu…come ti chiami…Crosby, se ho capito bene.
E’ meglio che parlo con te. Ma insomma, che dicono quelli là fuori. Mi sanno simpatici.
Riesci a capire cosa dicono?”
“Ci sto provando. Mi giungono confuse quelle parole. Ecco…forse ci
sono…proprio così…”
“Cosa hai da ridere, fratello, dimmi…che stanno dicendo?”
“Dicono… ‘fuori..i compagni…dalle galere’, sì, dicono così.”
“E cosa hai da ridere…sembri contento. Oh…capisco…tu sei uno di quelli,
insomma…sei uno di quelli che chiamano compagno…un comunista…un sovversivo.
Dico giusto? Per questo che sei contento…avevo ragione a dire che sei un politico.”
“Bravo, hai indovinato, è uno scioperato sfaccendato come quelli li fuori. E quelli,
prima o poi, faranno la sua fine…in galera.”
“Hei, fratello sovversivo, tengono un grande striscione là, dove c’è scritto…cosa
diavolo c’è scritto…sì, c’è scritto ‘Gesù…’ e poi…ma che cazzo centra Gesù?…e
poi…non riesco a leggere, cazzo…”
“Dove lo vedi?”
“Eccolo, se ti volti di qua lo vedi…cosa dice?”
“Già, hai ragione, c’è scritto… ‘Gesù è morto….Gesù è con noi’. Sì, sì sì..Ah, ah,
ah, ah…hai proprio ragione, cazzo, c’è scritto ‘Gesù è morto Gesù è con noi’, ah, ah, ah,
ah.”
“Hei…fratello….calmati, che cazzo hai da ridere come un matto….spiegami…che
cazzo significa quella frase…”
“Non è facile da spiegare, non è facile…ma avevate ragione voi ah, ah, ah, ah…
sono amici miei, sono miei compagni, e che piacere mi fa ah, ah, ah, ah…”
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“Lo dicevo io che erano degli scioperati…strillano strillano e non si capisce mai
che cosa vogliono. Sono solo scansafatiche e perditempo…dimmi tu se capisci che cosa
vogliono…ci mettono di mezzo anche Gesù, ora.”
“Certo che ha ragione lo sbirro….siete proprio tutti matti voi sovversivi. Ma che
cazzo cercate?…Vedi, fratello…io capisco una cosa…a voi non va di lavorare come non
va a me eh, eh, eh…però io so cosa voglio…vado a rubare eh, eh eh…ma voi? Voi cosa
fate, cosa volete? Certo che siete strani, proprio strani…”
“Non è facile da spiegare così su due piedi. Se avessimo un po’ di tempo ve lo
spiegherei volentieri cosa vogliamo. In fin dei conti sono poche e semplici cose, anche se
grandissime, quelle che vogliamo, e le vogliamo per tutti, badate bene, non solo per noi.”
“Beh..di tempo ce n’è quanto ti pare, fratello, prima che arriviamo in
prigione…dicci, dicci…sono proprio curioso…”
“Sì, buonanotte, adesso ci dovremmo sorbire anche il sermone di questo
sfaccendato! State zitti, piuttosto, che qui abbiamo un problema serio da risolvere.
Bob…ma che diavolo sta combinando la scorta? Se non fa qualcosa e subito qui restiamo
paralizzati per ore. Il corteo ci sta investendo in pieno….è una marea…lo vedi anche tu,
no?…”
“Certo che lo vedo, Jeff…ma l’auto di scorta là davanti è già rimasta praticamente
bloccata…non riescono nemmeno ad uscire da dentro…”
“Porca puttana….cosa facciamo adesso?…”
“Proviamo ad aspettare un po’, sperando che quelli della scorta ce la facciano ad
aprirsi un varco….poi, caso mai, vedremo….Al limite avvertiremo la centrale.”
“Maledetti scansafatiche, a calci in culo vi prenderei…ad uno ad uno.”
“Jeff…guarda questi che stanno arrivando adesso….sono tutti incappucciati. Sono
proprio fuori di cervello, questi qua. Ma chi li ha autorizzati? Come si fa a permettere a
questi di girare con il volto coperto? Roba da matti, Jeff. A me la cosa non piace affatto…”
“A chi lo dici, Bob…ehi…ma che stanno facendo…..prendono a calci e pugni il
furgone…questi sono proprio matti…vanno in cerca di guai…comunicalo alla scorta, Bob,
presto…”
“Stanno peggio di noi, Jeff….li hanno bloccati in macchina e non li fanno
uscire…sono praticamente sommersi…”
“Cazzo….qui si mette male!”
“Tira fuori la pistola, Jeff…tirala fuori.”
“Sì…e cosa ci faccio….sparo a qualcuno? Così ci fanno a pezzetti…”
“Tirala fuori ti dico, si impressioneranno e si calmeranno.”
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“Se lo dici tu….eccoti servito…gliela faccio vedere dal finestrino…ehi Bob..questi
stanno facendo saltare il portello posteriore…vogliono entrare…”
“Per la miseria…chiamo la centrale, ora basta…chiamo la centrale…acc….state
calmi…cosa volete…Jeff…sono entrati in cabina…Jeff…”
“Stanno entrando anche dietro….stanno forzando la serratura…..cosa faccio….gli
sparo?…Bob…cosa faccio…”
“Fermi tutti! State calmi e non si farà male nessuno. Sbirro..metti via la pistola, non
ti serve a niente. Se mi ascolti finirà tutto liscio.”
“Chi siete? Cosa volete…toglietevi quei ridicoli cappucci. State rischiando grosso,
ragazzi.”
“Non ti preoccupare per noi, preoccupati di te. Forza ragazzi, tutti dentro.
“Statevene indietro, statevene indietro ho detto….”
“Ecco, bene ragazzi, immobilizzatelo e toglietegli la pistola a quest’eroe. Così non
rischiamo di farci male nessuno. Bene.”
“Ma cosa volete…siete pazzi….finirete tutti in galera…”
“Okey, ora non dipende più da noi. C’è poco tempo. Siamo qui per te Stephen.”
“Per me?”
“Esatto, per te. Cosa intendi fare: vieni via con noi, o preferisci farti cinque anni di
galera? Hai un minuto di tempo per pensarci. Decidi in fretta. Se non vuoi venire, lasciamo
tutto com’è e vi lasciamo proseguire.”
“Dovrei venire con voi? Ma dove?”
“Fuori di qua, libero come un uccellino. Il movimento ti coprirà. Occorre solo il tuo
consenso. Allora, cosa decidi?”
“Non me l’aspettavo una cosa del genere….cosa faccio?”
“Fai subito la tua scelta, Stephen, non abbiamo tempo da perdere. O dentro o
fuori…ora, subito.”
“Fuori, sì, fuori di qui…vengo con voi.”
“ Bene, molto bene. Forza ragazzi, levategli le chiavi allo sbirro e liberate
Stephen.”
“Ma vi rendete conto di ciò che state facendo? Vi costerà molto cara, lo sapete…”
“Lo sappiamo, risparmiaci la predica….forza ragazzi….e poi mettete le manette
allo sbirro…più veloci…”
“Ehi…fratelli…compagni…ma cosa fate….mi lasciate qui a me?”
“E tu chi sei?”
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“Chiamatemi Drudy, fratelli compagni…fatemi uscire con voi…suvvia, che vi
costa…uno in più che problemi vi da…”
“Se ti liberiamo, dove te ne vai? Con quei vestiti addosso ti riprendono subito. Non
ti conviene.”
“Ma no, no..non vi preoccupate…me la so cavare…fatemi uscire…vi scongiuro…”
“Se sta bene a te….okey ragazzi, toglietele anche a lui. Sono affari suoi.”
“Grazie fratelli compagni, grazie…mi piacete proprio, lo sapete?”
“Non è possibile, non è possibile! Guarda cosa mi doveva capitare oggi…incappare
in questo branco di esaltati….ma vi costerà cara, ah se vi costerà cara…”
“Sì, sì, d’accordo…tutto a posto voi? Chiuse bene quelle manette? Allora fuori di
qui, alla svelta…Lo sportello…non dimentichiamo di chiudere lo sportello. Ecco, così va
bene. E ora, prima di toglierci i passamontagna, dileguiamoci nella massa…e tu, Stephen,
segui quei due col passamontagna…ti stanno aspettando. Penseranno a tutto loro. E allora
non mi resta che salutarti…”
“Non so come ringraziarvi…non so nemmeno se vi conosco…”
“E’ meglio così, Stephen, è meglio per tutti che non ci conosci, credimi…e non ci
ringraziare, ti aspettano comunque tempi duri qua fuori. Piuttosto…cerca di non farti
riacciuffare. Buona fortuna.”
“Grazie, grazie davvero…”
“Hei…ti vuoi muovere?”
“Sì…eccomi…”
“Lo sapevamo che avresti accettato, non ne abbiamo mai dubitato. Non è vero?
“Ma voi…voi….”
“Sì, togliamoci il passamontagna, ormai non ci possono più vedere.”
“Ramona…Jò..!!”
“Proprio noi, Stephen, pensavi che ci eravamo dimenticati di te?”
“Grandi…davvero grandi…non ho parole..”
“Ecco, risparmiatele…c’è da correre, adesso, ed anche velocemente. Seguici, non ci
mollare, e tra un’oretta starai al sicuro. Abbiamo progettato tutto. Non ti devi preoccupare
di nulla.”
“Allora…sei convinto di seguirci?”
“E me lo domandi?”
“Bene, dammi la mano, giovanotto, e corri insieme a noi.”
“Sì …vengo…corro…ma dove andiamo, Ramona?”
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“Non ti preoccupare e corri… e non dimenticare che…siamo gamberi di
fiume…non ricordi?”
“Sì…hai
ragione….siamo
gamberi
di
fiume…ah,
ah,
ah,
corro
Ramona….corro…ah, ah, ah….”
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