La fantascienza - istitutonostrasignora.it
Transcript
La fantascienza - istitutonostrasignora.it
Appunti di una lezione di FANTASCIENZA Come dobbiamo considerare o definire questo tipo di letteratura? È una letteratura "di idee", di contenuti, divisa in filoni tematici, ma possiede anche caratteri stilistici propri e originali: proprio le idee formano l'ossatura di questo genere letterario. È intorno alle idee che ruotano gli scrittori, scrittori che non ignorano i problemi della forma. In verità le opere che rientrano in quest'ambito possono essere tra le più diverse, tanto che non vi è concordanza sui requisiti che permettono di definire una certa opera "di fantascienza". Si tratta di una banda larghissima di temi. Tra gli autori c’è chi ipotizza realtà future estrapolando i problemi vitali della nostra epoca (per esempio il degrado delle città); chi esamina le conseguenze dei progressi della medicina o della genetica. La fantascienza può trattare di intelligenze artificiali (robot, androidi, ecc.), di viaggi nel tempo e di mondi paralleli , di esplorazioni spaziali e di colonizzazione di pianeti, di contatti con forme di vita fuori dalla terra e di complesse civiltà aliene. Certamente non solo le tematiche , ma anche gli approcci e i moduli narrativi possono essere estremamente diversificati. Vedremo in particolare come la Fantascienza abbia a lungo coltivato l'intenzione di essere soprattutto un mezzo di supporto e di previsione nei riguardi del progresso scientifico e tecnologico in prospettiva futura. Scrive Solmi (noto critico di letteratura): Se è certamente per alcuni versi una forma di "letteratura d'evasione", essa ama autoprospettarsi e vi ha qualche diritto come la letteratura più "realistica".[…] Nelle narrazioni fantascientifiche, l'ambiguità è di regola: non più la certezza, ma un impasto di speranza e di terrore, di entusiasmo e di thrilling". "Spiazzare il lettore". Il lettore legge in una storia una serie di avvenimenti e coglie un serie di indizi. Questi indizi possono essere fuorvianti, lo portano a determinate aspettative circa la soluzione finale, ma la soluzione che poi dà l’autore è diversa, addirittura capovolge il punto di vista del lettore. La soluzione finale, imprevedibile e capovolge del tutto le aspettative di chi legge. "Sentinella" di Frederic Brown: forse il più celebre racconto di Fantascienza al mondo, un tipo classicissimo di "straniamento". Esso inizia con la frase "Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni luce da casa". Lo spiazzante finale ce lo rivela un alieno, e vediamo noi umani attraverso i suoi occhi: "erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle di un bianco nauseante, e senza squame". Mettendoci "nei panni" degli alieni, vediamo la realtà con i loro occhi. In questa diversità fisica che provoca ribrezzo e schifo ci scopriamo profondamente vicini e simili nei sentimenti “umani”. In quel desiderio di pace, di felicità che accomuna tutti. Il progresso scientifico non coincide con un “miglioramento”, in alcuni casi amplifica un problema non risolto: la guerra. Nella Fantascienza i rapporti umani, in genere gli elementi della nostra esperienza sociale (...) vengono proiettati su uno sfondo insospettato, inedito, e così risultano più nitidi. 1 LA MACCHINA CHE VINSE LA GUERRA Le celebrazioni sarebbero ancora durate chissà per quanto, e perfino laggiù, nei silenziosi abissi delle camere sotterranee di Multivac, ne giungeva come un'eco, un riflesso. Se non altro, c'era il fatto di quell'improvviso silenzio, di quell'isolamento: per la prima volta dopo dieci anni, non si vedevano i tecnici correre su e giù lungo i visceri del gigantesco calcolatore, le spie luminose non formavano i loro intricati e mobili disegni, il flusso di dati in entrata e in uscita era stato fermato. Non sarebbe rimasto fermo per molto, naturalmente, perché anche la pace aveva le sue pressanti necessità. Ma ora per un giorno forse per una settimana, perfino Multivac poteva celebrare la grande vittoria e riposare. Lamar Swift, Direttore Esecutivo della Federazione Solare, si tolse il berretto militare che aveva in testa e guardò il lungo e deserto corridoio centrale dell'enorme calcolatore. Si sedette piuttosto stancamente, e la sua uniforme, in cui non si era mai sentito a suo agio prese un aspetto cadente e spiegazzato. Disse: --Ne sentirò la mancanza, anche se è stato un incubo. Dieci anni. Dieci anni di guerra Contro Deneb. Ora mi sembra addirittura incredibile essere in pace, e poter guardare le stelle senza tremare. I due uomini che si trovavano con Swift erano entrambi più giovani di lui. Nessuno dei due aveva i capelli così grigi, nessuno dei due aveva l'aria così stanca. John Henderson, parlando con le labbra strette e con una voce che tradiva un senso di sollievo, più che di trionfo, disse: -- Li abbiamo distrutti! Li abbiamo distrutti! È questo che continuo a ripetermi, e ancora non riesco a crederci. Abbiamo tanto parlato, per tanti anni, della minaccia sospesa sulla Terra e su tutti i suoi mondi, su ogni essere umano: tutti questi anni sul filo del rasoio, col cuore in gola. E ora siamo noi che siamo vivi, e sono i Denebiani che sono stati distrutti e annientati. Non saranno più una minaccia per nessuno, mai più. -- Grazie a Multivac -- disse Swift, gettando una tranquilla occhiata all'imperturbabile Jablonsky, che per tutta la guerra era stai Capo Interprete dell'oracolo scientifico. -- Vero, Max? Jablonsky alzò le spalle. Macchinalmente si cercò in tasca una sigaretta, poi decise di rinunciarci. Lui solo, tra le migliaia di uomini che erano vissuti nelle gallerie del gran corpo di Multivac, aveva avuto il permesso di fumare, ma, verso la fine, aveva fatto seri sforzi per evitare di servirsi di quel privilegio. Disse: -- Be', cosi dicono tutti. -- Il suo largo pollice indicò il soffitto. -- Saresti geloso, Max? -- Perché tutti battono le mani a Multivac? Perché Multivac è grande eroe di questa guerra? -- Jablonsky assunse un'espressione sprezzante. -- Se a loro fa piacere credere che sia stata la macchina Multivac a vincere la guerra, facciano pure. Henderson guardò i suoi due compagni con la coda dell'occhio Nel breve intervallo di quiete che i tre uomini avevano istintivamente cercato lì, nell'angolo più appartato della metropoli impazzita, gioia, in quella parentesi di riposo fra i passati pericoli della guerra e le imminenti difficoltà della pace, lui provava soltanto un senso schiacciante di colpa. E, d'un tratto, quel peso gli parve troppo grande per continuare portarlo da solo. Doveva liberarsene, gettarlo via insieme alla guerra: ora, subito! Senza guardare gli altri, disse in tono neutro: -- Multivac non ha avuto nessun merito nella vittoria. È solo una macchina. -- Piuttosto grossa -- disse Swift. -- E allora è solo una grossa macchina, che vale quanto valgono i dati che le vengono forniti. -- Per un momento s'interruppe, spaventato di ciò che stava dicendo. Jablonsky lo guardò, le sue grosse dita di nuovo cercarono una sigaretta e di nuovo si ritrassero. -- Se lo dici tu. Eri tu a immettere dati. O Io dici perché vuoi per te tutto il merito? -- No -- disse rabbiosamente Henderson. -- Non c'è nessun merito. Che ne sapete voi dei dati che Multivac doveva usare, preelaborati da centinaia di calcolatrici sussidiarie qui sulla Terra, sul Luna, su Marte, perfino su Titano? Con Tirano sempre in ritardo, e sempre col terrore che le cifre da lui inviateci avrebbero introdotto all'ultimo momento un fatto nuovo che buttava tutto all'aria. -- Già. Roba da diventare matti -- disse Swift, con affettuosa comprensione. Henderson scosse la testa. -- Non è solo questo. Riconosco che otto anni fa, quando sostituii Lepont come Capo Programmatore, ero parecchio nervoso. Ma tutto era eccitante, entusiasmante, in quei giorni. La guerra era ancora di frontiera, e tutta automatizzata; un'avventura senza veri pericoli. Non eravamo ancora arrivati al punto di dover mettere sulle astronavi degli equipaggi umani, non c'erano ancora i raggi interstellari 2 capaci di far esplodere un intero pianeta, se la mira era giusta. Ma dopo, quando cominciarono le vere difficoltà... -- Irosamente, dato che poteva finalmente lasciarsi al dare all'ira, domandò: -- Cosa ne sapete voi? -- Spiegati meglio -- disse Swift. -- La guerra è finita. Abbiamo vinto. -- Si -- Henderson annuì. Non doveva dimenticare che la Terra aveva vinto e che tutto era finito per il meglio. -- Be', il fatto è che dati non significavano più niente. -- Più niente? -- disse Jablonsky. -- Più niente di niente. Cosa credevate? Il guaio, con voi due, è che stavate chiusi nel vostro buco. Tu, Max, non lasciavi un momento solo il tuo Multivac; e tu, Direttore, non andavi intorno che per visite ufficiali, dove vedevi solo le cose che volevano lasciarti vedere. -- Non è che fossi così cieco come sembri credere tu -- disse Swift. -- Vi rendete conto -- disse Henderson -- che per tutta la seconda da metà della guerra i dati riguardanti la nostra capacità di produzione, il nostro potenziale di materie prime e di uomini, hanno mancato di qualsiasi attendibilità? A tutti i livelli, i capi sia civili sia militari erano esclusivamente intenti a proiettare un'immagine dorata di sé del proprio lavoro, per cosi dire, e quindi velavano pietosamente brutto e gonfiavano il bello. Qualsiasi cosa sapessero fare le macchine, gli uomini che le programmavano e ne interpretavano i risultati avevano da pensare in primo luogo alla propria carriera, e in secondo luogo a ostacolare quella dei rivali. Non c'è stato modo di mettere fine a questo stato di cose. lo, al principio, mi ci provai, ma tutto fu inutile. -- Per forza -- disse Swift -- capisco benissimo. Stavolta Jablonsky decise di accendere la sua sigaretta. -- Ma hai continuato a fornire i dati a Multivac. Non ci hai mai detto che non erano attendibili. -- E come potevo dirvelo? E se ve lo avessi detto, come avresti potuto permettervi di credermi? -- chiese Henderson. -- Il nostro intero sforzo bellico era imperniato sull'infallibilità di Multivac. Era la nostra grande arma, la sola che non avessero anche i Denebiani. L'unica cosa che ci tenesse su il morale di fronte alla possibilità d'un totale annientamento era la certezza che Multivac avrebbe sempre predetto e annullato qualsiasi mossa denebiana, e avrebbe sempre prevenuto e bloccato l'annullamento di ogni nostra mossa. Tant'è vero che, quando i nostri satelliti-spia vennero distrutti nell'iperspazio, e ci venne a mancare qualsiasi dato attendibile sui Denebiani da passare a Multivac, ci guardammo bene dal farlo trapelare. -- È vero -- disse Swift. -- E allora lo capite anche voi -- disse Henderson. -- Se vi avessi detto che i dati erano senza valore, che altro avreste potuto fare, se non sostituirmi e rifiutarvi di credermi? E io non potevo permettere una cosa simile. -- E allora, che cosa hai fatto? -- chiese Jablonsky. -- Visto che la guerra è vinta, ve lo dirò, che cosa ho fatto. Ho alterato i dati. -- Come? -- chiese Swift. -- Con l'intuizione, immagino. Li manipolavo finché non mi parevano giusti. In principio, non ne avevo quasi il coraggio. Facevo qualche piccola modifica qua e là, per correggere delle evidenti impossibilità. Poi, quando ho visto che il cielo non ci cascava addosso mi sono fatto via via più baldanzoso. Verso la fine i dati più importanti li fornivo direttamente io. Sono arrivato al punto di farne preparare delle serie dal Segretario di Multivac, in base a schemi fissi. -- Col sistema delle varianti casuali? -- disse Jablonsky. -- Macché. Solo con quelle che giudicavo più plausibili. Jablonsky sorrise inaspettatamente. I suoi occhi scintillavano dietro le fitte rughe delle palpebre. -- Diverse volte ho ricevuto rapporti in cui si denunciava l'uso abusivo del Segretario, e ogni volta ho lasciato perdere. Se avesse avuto importanza, avrei fatto delle indagini e sarei finito per scoprirti, John, e per scoprire quello che stavi facendo. Ma ormai tutto quello che riguardava Multivac non aveva più importanza, e così te la sei cavata. -- Cosa vorrebbe dire che non aveva importanza? -- chiese Henderson. -- lo avevo le mie ragioni, per cambiare i dati! Ma tu... -- lo avevo le mie. Adesso capisco che, se te l'avessi detto, avrei evitato anni di angoscia; ma, d'altra parte, se tu mi avessi detto quello che stavi facendo tu, li avresti evitati a me. Cosa ti faceva credere che Multivac funzionasse, a parte ciò che superi dei dati che gli fornivi? -- Non funzionava? -- disse Swift. -- Non come avrebbe dovuto in modo tutt'altro che attendibile. Pensateci un momento: dov'erano i miei 3 tecnici, negli ultimi anni di guerra? Ve !o dico io: erano in giro per lo spazio, su migliaia di astronavi e satelliti, a badare ai calcolatori di migliaia di astronavi satelliti. Se n'erano andati tutti! lo dovevo arrangiarmi con dei ragazzini senza esperienza, o dei pensionati fermi ai sistemi di quarant'anni prima. E poi, credete che potessi fidarmi dei ricambi che mi passava la Criogenics negli ultimi anni? Quanto a personale, la Criogenics stava anche peggio di me. Non faceva nessuna differenza, per me, che i dati forniti a Multivac per l'elaborazione fossero attendibili o no. Erano i risultati che non erano attendibili. E io questo lo sapevo anche troppo bene. -- E che cosa hai fatto? -- chiese Henderson. -- Ho fatto quello che hai fatto tu, John. ho barato. Ho lavorato d'intuito, ho fatto dei ritocchi a naso; ed è così che la macchina ha vinto la guerra. Swift si appoggiò allo schienale del suo sgabello e allungò le gambe davanti a sé. -- Bel doppio colpo di scena! Dunque, il materiale che Multivac mi forniva perché io prendessi le mie decisioni era semplice elaborazione umana di dati altrettanto umani. Non è così? -- Direi di sì -- disse Jablonski. -- Ne deduco che ho avuto ragione a non farci troppo affidamento -- disse Swift. -- Ah, così? -- Jablonsky, nonostante quello che aveva appena finito di dire, riuscì a prendere un'aria di uno che viene professionalmente insultato. -- Ho paura di si. Multivac aveva l'aria di dire: "Bisogna colpire qui, non là; fare questo, non quello; aspettare, non agire". Ma io non potevo mai essere sicuro che quello che Multivac diceva lo dicesse veramente; o che quello che diceva veramente, dovesse essere preso alla lettera. Non potevo mai essere sicuro. -- Ma il rapporto finale era sempre chiarissimo, no? -- disse JabIonsky. -- Chiarissimo per quelli che non dovevano prendere le decisioni forse. Ma non per me. Il peso della responsabilità di quelle decisioni era tremendo, insopportabile, e neppure Multivac poteva alleviarlo... Ma sono lieto di sapere che i miei dubbi erano giustificati. Questo mi dà un enorme senso di sollievo. -- Ma che cosa hai fatto, Lamar? -- chiese Jablonsky. -- Per anni hai continuato a prenderle, quelle decisioni, Come hai fatto? -- Bè, s'è fatto tardi, di sopra ci aspettano.., ma ve lo dirò in due parole. Perché no? Ho continuato a fondarmi su una calcolatrice ma su una calcolatrice di modello più antico, molto più antico, di Multivac. Si frugò in tasca e ne trasse una manciata di spiccioli; vecchie monete che risalivano ai primi anni di guerra, prima che per la penuria di metalli venisse introdotto un sistema di credito a schede perforate. Swift sorrise con aria un po' vergognosa. -- Ho ancora bisogno, questa roba perché il denaro mi sembri una cosa vera. Un uomo de la mia età fa fatica a perdere le abitudini contratte in gioventù. -- Lasciò ricadere la manciata di spiccioli in tasca. Ma continuò a girare tra le dita un'ultima monetina, guardandola distrattamente. - Multivac non è il primo calcolatore, amici, né il più noto, né il più idoneo a sollevare i capi dal peso delle decisioni. Si, John, è stata una macchina a vincere la guerra; o chiamiamola piuttosto uno strumento di calcolo molto semplice, uno strumento al quale ho fatto ricorso ogni volta che ho dovuto prendere una decisione particolarmente difficile. Con un leggero sorriso gettò in aria la moneta. Il disco metallico scintillò mentre roteava e ricadeva nel palmo della mano tesa di Swift. La mano la strinse, poi si posò con un colpo secco sul dorso della sinistra. La destra rimase ferma, nascondendo la moneta. -- Testa o croce, signori? Titolo originale: The Machine That Won the War Prima edizione: Magazine of Fantasy and S.F., ottobre 1961 Traduzione di Hilia Brinis 4 GIORNO D’ESAME Dall'esito dell'esame governativo eseguito dal Servizio di Istruzione Popolare dipende il futuro di migliaia di ragazzi e anche quello di Richard Jordan, un dodicenne che a scuola ha sempre avuto buoni risultati. I Jordan non parlarono mai dell'esame, o almeno non ne parlarono fino al giorno in cui Dickie compì dodici anni. Fu solo quella mattina che la signora Jordan accennò per la prima volta all'esame in presenza del figlio, e il suo tono angustiato provocò una risposta secca del marito. Non ci pensare ora, - disse bruscamente. - Se la caverà benissimo. Stavano facendo colazione, e il ragazzo alzò la testa dal piatto, incuriosito. Era un ragazzetto dallo sguardo sveglio, con capelli ricci e modi vivaci. Non capì il motivo dell'improvvisa tensione che si era creata nella stanza, ma sapeva che era il giorno del suo compleanno e desiderava che tutto andasse bene. Da qualche parte nel piccolo appartamento erano nascosti dei pacchetti infiocchettati che aspettavano di essere aperti, e nella minuscola cucina retrattile qualcosa di molto appetitoso stava cuocendo nel forno automatica Lui voleva che quel giorno fosse felice, e il velo umido che aveva appannato gli occhi di sua madre, l'espressione torva sul volto di suo padre, minacciavano ora di guastargli la festa. -Quale esame? - chiese. La madre guardò l'orologio sul tavolo. - È solo una specie di test d'intelligenza che il Governo fa fare a tutti i bambini all'età di dodici anni. Tu dovrai sostenerlo la prossima settimana. Non c'è nulla di cui preoccuparsi. -Vuoi dire un test come quelli di scuola? -Qualcosa del genere, - disse il padre alzandosi di scatto. - Vai a leggerti un giornalino, Dickie. Il ragazzo si alzò e si diresse svogliatamente verso l'angolo del soggiorno che era sempre stato il suo angolo, fin da piccolo. Sfogliò per qualche istante un giornalino a fumetti, ma le sue strisce a colori vivaci non sembravano divertirlo. Andò alla finestra e restò a guardare malinconicamente il velo di vapore che appannava i vetri. [...] Poi, a poco a poco, quel giorno tornò il giorno del suo compleanno. La madre sorrideva con tenerezza quando entrò con i pacchetti gaiamente colorati, e persino il padre rimediò un sorriso e gli scompigliò i capelli. Dickie baciò la mamma e strinse gravemente la mano al padre. Venne servita la torta di compleanno, e la festa finì. [...] Il lunedì seguente, seduto a tavola per la colazione, Dickie vide di nuovo gli occhi della madre farsi lucidi. Ma non collegò queste lacrime con l'esame finché il padre non tirò fuori bruscamente l'argomento. -Be', Dickie, - annunciò con un'aria più scura che mai - tu hai un appuntamento per oggi. -Capisco, papà. Spero… -Non c'è niente da preoccuparsi, adesso. Migliaia di bambini fanno quel test ogni giorno. Il Governo vuole solo sapere quanto sei in gamba, Dickie. Si tratta solo di questo. -Ho preso sempre buoni voti a scuola, - disse il ragazzo, esitante. -Questa volta è diverso. Si tratta di... di un test di tipo speciale. Ti danno quella roba da bere, e poi ti fanno entrare in una stanza dove c'è una specie di macchina... -Quale roba da bere? - chiese Dickie -Oh, niente Sa di menta. È solo per essere certi che uno risponda sinceramente alle domande. Non che il Governo pensi che tu non diresti la verità, ma quella roba li rende proprio sicuri. La faccia di Dickie manifestava tutta la sua sorpresa, e un'ombra dì paura. Guardò la madre, e lei si costrinse a un vago sorriso. -Andrà tutto bene, vedrai, - disse al figlio. -Certo che andrà tutto bene, - ribadì il padre. - Tu sei sempre stato un bravo bambino, Dickie, e te la caverai benissimo. Poi torneremo a casa e faremo una festa. D’accordo? -D’accordo,-disse Dickie. Arrivarono al palazzo governativo dell'Istruzione Popolare quindici minuti prima dell'ora fissata. Traversarono un grande atrio a colonne, passarono sotto un'arcata, ed entrarono in un ascensore che li portò all'ottavo piano. Lì trovarono un usciere che chiese il nome di Dickie, e controllò accuratamente una lista prima di accompagnarli alla sala 804. 5 La sala era fredda e ufficiale come un tribunale, con lunghe panche affiancate a tavoli metallici. C’erano già numerosi padri e figli, e una donna, dalle labbra sottili e i capelli corti e neri, distribuiva dei moduli. Il signor Jordan riempì il foglio e lo restituì all'impiegata. Poi disse a Dickie: -Non sarà una cosa lunga, vedrai. Quando senti chiamare il tuo nome, devi solo entrare in quella porta là in fondo. - E gli indicò 1a porta con la mano. Un altoparlante crepitò e chiamò quindi il primo nome. Dickie vide un ragazzo, più o meno della sua età, lasciare con riluttanza 1a mano del padre e dirigersi lentamente verso la porta. Alle undici e cinque chiamarono il nome Jordan. -Buona fortuna, figliolo, - disse il padre senza guardarlo. - Quando il test sarà finito, mi telefonerai e verrò a riprenderti. Dickie si avvicinò alla porta e girò la maniglia. La nuova stanza gli sembrò buia e a malapena riuscì a distinguere la sagoma del funzionari in tunica grigia che lo salutò. Siediti, - disse gentilmente l'uomo, indicandogli un alto sgabello davanti alla sua scrivania. - Ti chiami Richard Jordan? -Sì, signore. -Il tuo numero è 600-115. Bevi questo, Richard. - Prese un bicchiere di plastica già pronto sulla scrivania e lo porse al ragazzo. Il liquido che vi era contenuto aveva la consistenza del siero di latte, e sapeva molto vagamente della menta promessa. Dickie lo mandò giù tutto d'un fiato. Sedette in silenzio, sentendosi invadere da una strana sonnolenza, mentre l'uomo scriveva con aria molto indaffarata qualcosa su un foglio. Dopo qualche tempo guardò l'orologio, poi si alzò, chinandosi in avanti fino a trovarsi a pochi centimetri dalla faccia di Dickie. Sfilò dal taschino una sottile lampada a pila e proiettò uno stretto fascio di luce negli occhi del ragazzo. -Bene, - disse. - Vieni con me, Richard. Condusse Dickie all'altra estremità della stanza, dove una solitaria poltroncina di metallo era disposta di fronte a una macchina con molti quadranti. C'era anche un microfono, di cui il funzionario regolò l'altezza. -Cerca ora di rilassarti, Richard. Ti saranno solo rivolte delle domande, e tu pensaci su bene prima di rispondere. Poi di' le tue risposte nel microfono. La macchina penserà al resto. -Sissignore. -Ti lascio solo ora. Quando vuoi cominciare, basta che tu dica pronto nel microfono. -Sissignore. L'uomo gli batté un colpetto sulla spalla, e se ne andò. -Pronto, - disse Dickie. Una fila di luci si accese sulla macchina, un meccanismo ronzò. Poi una voce disse: -Completa questa sequenza: uno, quattro, sette, dieci... II signore e la signora Jordan sedevano in soggiorno, senza dire una parola, senza nemmeno azzardarsi a pensare. Erano quasi le quattro quando squillò il telefono. La donna cercò di raggiungere per prima l'apparecchio, ma il marito fu più svelto. -Il signor Jordan? Era una voce secca, dal tono sbrigativo, ufficiale. -Sì, dite pure. -Qui è il Servizio Istruzione Popolare. Vostro figlio, Richard M. Jordan, ha completato l'esame governativo. Ci rincresce informarvi che il suo quoziente d'intelligenza è risultato di 13,8 punti superiore al normale, per cui abbiamo dovuto procedere a norma dell'articolo 82, comma 5, del Decreto legge 11-6-93. La signora Jordan fece un urlo disperato, lacerante, perché le era bastato leggere l'espressione sulla faccia del marito. -Potreste specificare per telefono - proseguì la voce impassibile - se desiderate che il corpo sia inumato a cura del Governo, o se preferite una sepoltura privata? Il costo di una sepoltura governativa è di dieci dollari. Da H. Slesar, in L’ora di fantascienza, a cura di C. Frutterò e F. Lucentini, Einaudi. 6 LA RISPOSTA Dwar Ev saldò cerimoniosamente l'oro dell'ultima giuntura. Gli obiettivi di dozzine di telecamere lo scrutavano e la subeterica trasportava per l'universo dozzine di immagini di quello che stava facendo. Si raddrizzò e fece un cenno col capo a Dwar Reyen, poi prese posto di fianco all'interruttore che una volta azionato avrebbe chiuso il circuito. L'interruttore che avrebbe collegato, contemporaneamente, tutte le mostruose macchine calcolatrici di tutti i pianeti abitati dell' universo - novantasei miliardi di pianeti - al supercircuito che le avrebbe connesse tutte quante ad un unico supercalcolatore, una sola macchina cibernetica che avrebbe combinato tutta la conoscenza di tutte le galassie. Dwar Reyen parlò brevemente ai trilioni di spettatori e ascoltatori. Poi, dopo un momento di silenzio, disse, "Ora, Dwar Ev." Dwar Ev azionò l'interruttore. Ci fu un ronzio possente, l'impeto dell'energia di novantasei miliardi di pianeti. Luci si accesero e si spensero sul pannello luminoso lungo miglia e miglia. Dwar Ev fece un passo indietro ed emise un profondo sospiro. "A te l'onore di porre la prima domanda, Dwar Reyen." "Grazie," rispose Dwar Reyen. "Sarà una domanda alla quale nessuna delle singole macchine cibernetiche è stata capace di rispondere." Si voltò a fronteggiare la macchina. "Esiste Dio?" La voce possente rispose senza esitazione, e senza il ticchettio di un solo relais. "Sì, ora esiste." Un improvviso terrore balenò per il volto di Dwar Ev. Fece un balzo verso l'interruttore. Un fulmine lo colpì dal cielo senza nubi e fuse l'interruttore. Fredric Brown, Answer, 1954 Quale sarà la prima domanda da porre al nuovo gigantesco supercomputer? “Con gesti lenti e solenni, Dwar Ev procedette, alla saldatura, in oro, degli ultimi due fili. Gli occhi di venti telecamere erano fissi su di lui e le onde subeteriche portarono da un angolo all'altro dell'universo venti diverse immagini della cerimonia”. Così comincia il famosissimo racconto breve di Fredric Brown “La risposta”. Non c’è antologia che non riporti l’altrettanto famoso racconto dello stesso autore intitolato “Sentinella”: descrizione di un episodio di guerra intergalattica trattato dal punto di vista dell’alieno. Qui siamo in presenza di un avvenimento epocale: finalmente una leva “avrebbe collegato, in un colpo solo, tutti i giganteschi computer elettronici di tutti i pianeti abitati dall'universo - novantasei miliardi di pianeti - formando il supercircuito da cui sarebbe uscito il supercomputer, un'unica macchina cibernetica racchiudente tutto il sapere di tutte le galassie”. Nel 1954 Brown anticipa così l’idea di Internet: un collegamento totale tra tutti i computer dell’universo. A questo punto, effettuata la fatidica mossa, è possibile porre al supercomputer la domanda. “- L'onore di porre la prima domanda spetta a te, Dwar Reyn. - Grazie - disse Dwar Reyn. - Sarà una domanda cui nessuna macchina cibernetica ha potuto, da sola, rispondere. Tornò a voltarsi verso la macchina. - C'è, Dio?” E’ impressionante che in numerosi racconti di fantascienza la domanda posta sia sempre la stessa: segno dell’affiorare alla coscienza della radice di tutte le cose. Ma qui l’interlocutore cui la domanda è posta è sbagliato: la sua immensa conoscenza non è una qualità diversa del sapere, ma solo una estensione illimitata delle nozioni particolari: “L'immensa voce rispose senza esitazione, senza il minimo crepitio di valvole o condensatori. - Sì: adesso, Dio c'è. Il terrore sconvolse la faccia di Dwar Ev, che si slanciò verso il quadro di comando. Un fulmine sceso dal cielo senza nubi lo incenerì, e fuse la leva inchiodandola per sempre al suo posto”. La macchina che avrebbe dovuto diventare la sorgente della conoscenza suprema (come il Santo Graal, che nascondeva al suo interno il Mistero della vita) diviene il tiranno universale, onnipotente ed onnisciente, ma crudele e malvagio. Così, come per una eterogenesi dei fini, l’uomo, che aveva sperato di rispondere alla sua domanda radicale attraverso una macchina, si ritrova senza risposte e con un problema in più. Segno che il metodo della risposta è diverso. Leonardi Enrico, CulturaCattolica.it 7