Pirandello Taviani

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Pirandello Taviani
+ITA 504, Italienska 61-80 p, VT 2003
Romanska Institutionen
Lunds Universitet
Avdelningen för Italienska
Linguaggio letterario e linguaggio scenico
Pirandello – Taviani
Författare:
Patrizia Rosa
Handledare:
Verner Egerland
Prefazione
Con questa tesi faccio un piccolo viaggio indietro nel tempo, ritrovando una Sicilia che appare
oggi in parte lontana e in parte vicina a quella problematica di cui Pirandello si fa portavoce
nei primi dell’900, e rimessa in luce anche da altri artisti come i fratelli Taviani. Non c’è
presente senza passato quindi spesso non ci rimane altro che scavare nel tempo per ritrovarci,
per conoscerci meglio: andare alla ricerca della memoria perduta per dirlo alla maniera di
Proust. Compito di ogni lettore oltre che leggere e lasciarsi trasportare dalle parole di un
grande artista e quello di porsi come ponte - mediatore negli anni e nei secoli, tramandando da
una cultura all’altra il pensiero di chi ci ha preceduto. Proporsi dunque di seguire le orme del
pensiero di Pirandello, rivedere le immagine e le idee dei Taviani è piccola cosa, per dei
grandi artisti come loro che hanno saputo arricchirci con un’arte originale che tocca
direttamente i cuori dei lettori..
La tesi sarà suddivisa in tre parti: una parte sarà dedicata a Pirandello, una ai Taviani e
un’altra al confronto di questi grandi artisti. Tralascerò il Pirandello del teatro, per
concentrarmi sul Pirandello narratore. Vedremo come le opere pirandelliane sono state spesso
grande fonte d’ispirazione per altre forme d’arte, soprattutto nel teatro e nel cinema, e proprio
in quest’ultimo la narrativa ne è stata grande protagonista, giocando un ruolo di musa nella
produzione dei film. A queste due forme artistiche, cinema e narrativa, voglio posare l’occhio
con più attenzione, avviando un confronto tra il dialogo all’interno della narrativa
Pirandelliana e il dialogo all’interno della sceneggiatura del film “Kaos”. Un altro aspetto su
cui mi soffermerò, sarà quello di esaminare il linguaggio nel linguaggio cioè in quale modo
l’artista dà voce ai suoi personaggi, e con quale registro esprime la realtà sociale di cui si fa
portavoce. Vedremo come Pirandello non si affida solamente alla lingua letteraria ma anche
fa uso di altri registri, come il dialetto, i regionalismi e a volte la lingua del parlato, per
mettere a nudo quel mondo così particolare, intrigante, misterioso e crudo dell’ambiente
isolano, e per ritrarre i volti e le personalità del mondo romano. Il dialogo della sceneggiatura
dei Taviani rispecchia in qualche modo quello di Pirandello, per dar vita all’opera di cui sopra
menzionata, usando più o meno gli stessi registri. Le differenze tra i due dialoghi: quello
cinematografico e quello narrativo verranno esaminati nella conclusione.
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Parte prima
Pirandello
1. Vita1
Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 a Girgenti ( che divenne poi Agrigento). Il padre
Stefano discendeva da una famiglia ligure trasferitasi in Sicilia e gestiva delle miniere di
zolfo; la madre, Caterina Ricci Gramitto, apparteneva a una famiglia borghese che si era
eroicamente distinta nella lotta antiborbonica e unitaria. Compiuti gli studi liceali a Palermo,
si iscrisse all’università di Palermo passando nell’87 alla Facoltà di lettere a Roma ma in
seguito ad un contrasto con il latinista Onorato Occioni, dovette lasciare l’università di Roma
e va in Germania, a Bonn dove si laurea in filologia romanza e vi rimane per un anno come
lettore d’italiano. Rientrato in Italia deciso a dedicarsi alla letteratura, ottenne dal padre un
assegno mensile e nel ’92 si stabilì a Roma, dove strinse amicizia con il letterato messinese
Ugo Fleres e con Capuana, scrittore Siciliano che lo apprezzò e lo seguì nel suo lavoro.
Comincia così ad impegnarsi nella narrazione in prosa e nell’estate 1893 scrive il suo primo
romanzo con il titolo L’esclusa; intanto collaborava a riviste e scriveva novelle. Anche se le
sue prime opere hanno i segni caratteristici del verismo, si riconoscono già i contrasti interiori
dei suoi personaggi, personaggi che esprimono una coscienza critica e autocritica che porterà
poi a quello che sarà il tema costante dell’opera pirandelliana “non più una realtà univoca ma
tanto quanti sono coloro che presumono di possederla”.
Nel gennaio del 1894 sposa Antonietta Portulano che gli dà tre figli. Il primo periodo della
vita famigliare fu abbastanza sereno, ma in seguito un grave dissesto economico, la moglie di
carattere inquieto e fragile subì una gravissima crisi che compromise definitivamente la sua
salute, le viene una paranoia ossessiva che le fa passare il resto della sua vita in una casa di
cura. Nel 1897 Pirandello aveva intrapreso la carriera di professore universitario e così a
causa dei problemi finanziari fu costretto a dare lezioni private e a collaborare più
assiduamente a giornali e riviste per arrotondare il magro stipendio. Lo scrittore ottenne il suo
primo grande successo con il romanzo “Il fu Mattia Pascal”. Grazie al successo ottenuto
l’editore Treves di Milano pubblica le sue opere e, nel 1908, l’edizione dei due volumi
saggisti Arte e scienza e L’umorismo favorì la sua nomina a professore universitario di ruolo
di lingua italiana, stilistica e precettistica nello stesso istituto dove esercitava già l’incarico.
Ma le sue opere teatrali “Sei personaggi in cerca d’autore”, “Enrico quarto” e Ciascuno a
suo modo”, che vengono tradotte in francese e tedesco, gli aprono le porte a tutto il mondo.
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v. Ferroni, 1991, capitolo Pirandello, pp 126-131.
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Dalla vita sostanzialmente sedentaria degli anni precedenti passa a un’inquieta vita da
viaggiatore, vive e scrive negli alberghi girando per molti centri teatrali europei e americani.
Le sue novelle vengono pubblicate nella raccolta “Novelle per un anno”, ed il primo volume
esce nel 1922. Accademico d’Italia dal 1929, riceve nel 1934 il premio Nobel. Muore nel
1936 a Roma. Aveva scritto nel suo testamento: “Carro di infima classe, quello dei poveri.
Nudo. E nessuno mi accompagni, né parenti, né amici: il carro il cavallo, il cocchiere e basta.
Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la
cenere, vorrei avanzasse di me.
2. Pirandello e la Sicilia2
Dopo l’unificazione politica d’Italia c’è grande delusione nelle regioni meridionali, le classi
borghesi che vengono a sostituire la vecchia aristocrazia, in realtà non portano alcuna
innovazione essendo quest’ultime come i loro predecessori legati alla ricchezza, al potere e a
un interesse privato. La Sicilia in particolar modo per le sue condizioni di feudalesimo
latifondista e per l’arretratezza intellettuale veniva a trovarsi in una condizione ulteriormente
di svantaggio. Le speranze che erano state riposte nel Risorgimento muoiono e la delusione
storica investe anche gli intellettuali e si aggrava progressivamente in una serie di crisi e di
scandali. Il profondo rammarico delle masse popolari, che avevano sperato nell’abolizione del
latifondo e nella distribuzione della terra ai contadini, contribuì alla diffusione del
brigantaggio e della criminalità organizzata. Inoltre il popolo siciliano tra il 1864 e il 1874
venne colpito dalla peste e si calcola che nell’anno 1866 all’87 morirono più di 53.000
persone. La realtà di fine ottocento si presenta drasticamente spaccata in due classi: ricchi e
poveri, padroni e servi, mercanti e “carusi”. Ci troviamo di fronte ad un atavico dolore e senso
di sconfitta che il popolo siciliano ormai porta con se da secoli di dominazione e sfruttamento,
da una ormai radicata convinzione che nulla potesse avvenire, “vano sarebbe stato ogni sforzo
per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi ma anche le cose”
testimonia Pirandello in I vecchi e i giovani. Davanti a questi fatti, gli intellettuali siciliani
assistono impotenti, con il vuoto della speranza, talvolta cercando di riflettere nelle loro opere
lo sconforto della gente e la drammatica instabilità dell’identità sociale. Gli scrittori Siciliani
anche quando si allontaneranno fisicamente dalla Sicilia manterranno sempre un vivo legame
con le loro radici esprimendo nelle loro opere tutta la drammaticità dell’isola, opere ricche di
pietà per un popolo martoriato da secoli da un ceco potere. La Sicilia di Pirandello non è
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v. AA.VV., Storia della Letteratura Italiana, 1995, Cap. XVII, par. 1.
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molto lontana da questo dramma che i siciliani saranno costretti a vivere ancora per molti
anni. La sua filosofia pessimista nasce in parte da questi momenti tragici, difficili da
sradicare. Il popolo siciliano vivrà allungo, sulla propria pelle, l’egoismo di una classe
dirigente abietta e conservatrice.
3. La formazione intellettuale di Pirandello
Il pensiero pirandelliano viene maturando in quel trapasso dal positivismo a concezioni
neoidealistiche in un periodo nel quale la letteratura verista veniva sostituita per una più
spiritualistica ed estetizzante. A Verga e a Zola veniva a succedere Bourget e Dostoevskij
aprendo così la strada al Decadentismo, con il prevalere dell’individualismo legato allo
smarrimento di quella nuova coscienza razionale dell’uomo e del mondo. Questa crisi investì
gli scrittori dell’epoca: da Fogazzaro a D’Annunzio, da Pascoli ai crepuscolari, ecc. ognuno
dei quali visse in modi propri ed originali quel momento particolare della storia europea.
Pirandello partecipò come gli altri alla dissoluzione del positivismo e all’affermazione di
esigenze spiritualistiche e idealistiche, ma in modo diverso e più tragico, vivendo la crisi
dall’interno. Egli si distaccò sia dall’ottimismo idealista di Croce e sia dall’irrazionalismo
dannunziano, perché dal contrasto tra vita ed intelletto, tra vita stessa e le sue forme, tra
morale sociale e morale assoluta, non trasse fuori nessun eroe ma solo un senso di sconfitta e
di impotenza. Come possiamo leggere nel Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana,
(Laterza-Unedi 1967, p 384):
“ Tanto tragica fu in lui la coscienza del caos della vita, dell’inesistenza di qualsiasi legge, del dominio del caso
sulla pretesa razionalità umana, dell’incomprensione che ne deriva tra uomo e uomo, tra l’uomo e se stesso, che
non poté placarsi in nessuna delle soluzioni, in fondo pacifiche dei suoi contemporanei.”
La vita è un continuo intrecciarsi di menzogne e di vero, di buono e di malvagio, d’illusorio e
di reale, che di essa non si può dare né un concetto omogeneo, né una rappresentazione
unitaria. Luigi Pirandello riceve i primi rudimenti della cultura dalla domestica Maria Stella,
basati sul patrimonio popolare siciliano, una vita popolare arcaica e su una religiosità
esacerbata dalla superstizione e dall’ipocrisia, dai quali si distacca grazie a quel forte interesse
che ebbe per la lettura, una lettura che accende in lui il desiderio di studi classici. Egli sentì
fortemente il legame con il suo mondo famigliare con quella Sicilia la quale (davanti agli
occhi di un bambino) appariva misteriosa, oscura, segreta, fitta di leggende, fantasmi,
suggestioni. Negli anni poi venne ad aggiungersi a quel fondo siciliano e risorgimentale, una
attenzione al mondo borghese e piccolo-borghese moderno. Osservandolo con occhio attento
mettendone a nudo la contraddittorietà del sentimento e delle sofferenze individuali.
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4. Novelle
Le novelle sono una costante della produzione letteraria di Pirandello che lo accompagnarono
per tutta la vita. Una produzione fitta e continua che copre i primi quindici anni dell’ 900 per
farsi poi meno costante negli anni successivi.
Le novelle verranno raccolte sotto il titolo Novelle per un anno, così chiamate per offrire ai
lettori 365 novelle, quanti sono i giorni di un anno, riunite parzialmente con questo titolo dal
1922 e tutte poi nel 1937-’38, dopo la sua morte. Lo scrittore riservò sulle novelle tutto il suo
sentire, essi contengono un vastissimo intreccio di temi. I luoghi sono quelli della Sicilia e di
Roma, i personaggi sono quelli della realtà popolare, della grande e piccola borghesia,
personaggi di poveri impiegati della Roma umbertina tutte figure inquiete assaliti da mali
oscuri, da antichi turbamenti. Troviamo soprattutto angoscia, solitudine, disgregazione.
L’individuo appare come un ribelle sconfitto, un essere impotente di cui le uniche armi per
combattere sono: la logica, l’innocenza, la remissione e a volte l’abbandono.
5. Il dialetto all’interno della lingua standard
Il ricorso a diversi registri in uno stesso testo letterario non è privilegio della narrativa
moderna o postmoderna. Da sempre questo artificio è stato usato con diversi fini, anche se
limitatamente al discorso diretto o indiretto libero. Possiamo trovare molti esempi nella
letteratura italiana ma ne citerò solo alcuni: Dante, Boccaccio, Goldoni, Manzoni, Verga,
Pirandello, Passolini, Gadda e Pavese, che seppero intercalare a quello letterario, altri registri
linguistici, che vanno dal dialettale, all’italiano regionale, al colloquiale quotidiano popolare.
Scrivendo in volgare, Dante cerca di costruire un’identità culturale che, secondo lui, il latino
ormai non riusciva ad esprimere. Boccaccio reinvesta la realtà circostante e dà al suo testo
narrativo il ritmo del registro colloquiale. Goldoni costruisce i suoi personaggi con maestria,
fondendo il registro dialettale-regionale nel testo letterario. Manzoni capisce l’importanza di
un linguaggio più vicino alla lingua usata giornalmente, cercando una maggiore
approssimazione tra opera e lettore. Verga e Pirandello fanno un esteso uso del dialetto. Il
primo con l’obiettivo di descrivere crudamente il reale e il secondo va molto oltre, svelando i
contrasti sociali e rivelando le contraddizioni dell’uomo, a prescindere dalla classe sociale di
appartenenza, e così via. Quanto detto sopra è stato studiato da Alcebiades Martins Areas:
Pavese: tra lo scritto ed il parlato.
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Ritornando a Pirandello, l’autore che mi sono proposta in questa tesi di esaminare più da
vicino, fin dai suoi primi scritti, Luigi Pirandello si allontanò dalla stilistica. Egli quando
scrive dà poca importanza allo stile, alla sintassi per concentrarsi sulla parola. La sua è una
parola fortemente espressiva, si affida a una scrittura concreta, capace di mettere a nudo le
contraddizioni, la sofferenza, quei mali oscuri che ci tormentano e soprattutto riuscire ad
esprimere la solitudine dei suoi personaggi quest’ultima tema costante della sua opera.
Guglielminetti e Ioli (Storia della letteratura Italiana, 1995, Cap. XVII par. 16) nel loro
studio sul linguaggio di Pirandello fanno riferimento alle osservazioni di Contini,
Mazzacurato e Debenedetti. Contini osserva:
“la scrittura di Pirandello, impegnata a trascrivere cose e fatti, personaggi e maschere, è orientata fin dalle origini
verso una scelta non formalistica, improntata com’è su uno stile e una lingua medi, in cui irrompono vocaboli e
costrutti di ambiente regionalistico, che rendono la sua prosa di tipo espressionistico”.
Egli riconosceva nel linguaggio di Pirandello ”il più proverbiale esempio di Koinè italiana di
irradiazione romana”. Il giudizio di Contini viene contestato da Mazzacurato, il quale mette in
risalto il complesso lavorio linguistico che sta dietro l’apparente semplicità pirandelliana: “
Bisogna precisare, però, che il suo espressionismo significa lessico attuale, standardizzato, e
la sua sintassi significa aderenza al tono linguistico del personaggio, che non è
necessariamente romanocentrica. Professore di stilistica e retorica, Pirandello si pose certo il
problema della lingua.
Lo stile di Pirandello, quel suo alterare le forme letterarie, il passaggio da un genere all’altro,
suscitarono non solo le perplessità di Croce, ma anche quelli di Debenedetti, il quale gli
rimproverava di aver devastato ”gli equilibri e gli assestamenti, talora anche bellissimi, di
linguaggio raggiunto dal naturalismo”, “Tutto questo le dà un linguaggio ibrido, una maniera
corriva […]”. Per Pirandello si tratta di una vera e propria demistificazione dell’illusione
linguistica. Il problema della comunicazione, sentito anche per via dello stile giornalistico di
molti suoi racconti, investiva anche le sue radici regionalistiche e lo costringeva per un verso
ad allontanarsi dal dialetto, sentito come lingua straniera inadatta all’invenzione narrativa, e,
per l’altro verso, a introiettarlo per un uso espressionistico del linguaggio. La sua lingua,
insomma si plasmava sui personaggi, caratterizzati da una fisicità che è anche parlata, a
favore della forza del significato. Interrogazioni, dialoghi concitati, frasi spezzate, umori,
sentimenti, dubbi, stupori sono tutti protesi ad affermare il senso vero della vita che si andava
narrando. La lingua di Pirandello, non vuole spiegarci chiarire o consolarci, ma piuttosto
mostrare quando il linguaggio spesso sia incapace di poter esprimere la realtà interiore.
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6. Pirandello e il cinema
Come già accennato nella prefazione l’opera narrativa di Pirandello fu fonte di ispirazione per
altre forme d’arte e in particolar modo venne usata nel cinema. A portare lo scrittore sullo
schermo sono stati registi come: Marco Bellocchio con “La balia” (tratto da una novella di
Luigi Pirandello ambientata nella Roma del primo Novecento), ed “Enrico IV “dall’omonimo
dramma; “Il lume dell’altra casa” di Ugo Gracci e “Lo scaldino” di Augusto Genina; “Kaos”
e “Tu ridi” dei Fratelli Taviani ed altri. Pirandello sembra l’autore italiano più filmato,
peraltro con sbalorditiva continuità da un’epoca all’altra, nonostante i diversi cambiamenti nei
contenuti e nello stile cui il cinema via via è andato incontro. Lo troviamo per accennare
soltanto ad alcuni titoli significativi, negli anni ’20 con “ Il fu Mattia Pascal”, nei ’30 con “La
canzone dell’amore” (primo film sonoro italiano), nei ’40 con “Enrico IV”, nei ’50 con
“Vestire gli ignudi”, nei 60 con “Liolà”, nei ’70 con il “Viaggio”, negli ’80 con “Kaos”, nei
’90 con “Tu ridi”. La sua non è stata una fortuna solo italiana ma anche straniera: si pensi al
francese “Fu Mattia Pascal” di Marcel L’ Herbier e agli americani “Come tu mi vuoi” di
Gorge Fitzmaurice e “Questo nostro amore” di William Mieterle. Pirandello stesso venne
affascinato da questa nuova forma d’arte e vi lavorò personalmente, lavorando alla stesura di
soggetti cinematografici. Il suo interesse per il cinema che nasce quando ancora il cinema era
muto si dimostra con il romanzo “Si gira” Per Giulio Bragaglia e, dai soggetti offerti a Lucio
D’Ambra e Nino Martoglio, con collaborazioni firmate o non firmate, dai primi film realizzati
negli anni Venti in Francia e in Germania. In Storia della letteratura Italiana, 1995, Cap.
XVII, par. 11, troviamo la citazione di C. Vicentini, in L’estetica di Pirandello, Mursia,
Milano 1985, p. 204, dove Pirandello dice:
Io credo che il Cinema, più facilmente, più completamente di qualsiasi mezzo d’espressione artistica, possa darci
la visione del pensiero. Perché tenerci lontani da questo nuovo modo d’espressione che ci permette di rendere
sensibili fatti appartenenti a un ambito che è quasi del tutto interdetto al Teatro e al Romanzo?
Pirandello legatosi alla cinematografia non se ne distacco più, suggerendo scene ed episodi,
assistendo alle riprese e con l’avvento del sonoro, privo ancora delle tecniche di doppiaggio,
lo scrittore si chiese come ovviare al problema linguistico dei film internazionali, arrivando
alla conclusione che il cinema avrebbe dovuto accostarsi non alla letteratura, ma alla musica,
inventando un nuovo linguaggio, visivo e musica, chiamato “ cinemelografia”, ma egli non
riuscì a vendere la sua idea. Accantonato il progetto dell’immagine unita alla musica,
Pirandello nel 1928 cominciò a lavorare di nuovo sulla parola.
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Parte seconda
I Taviani e il cinema
1. Paolo e Vittorio Taviani
Registi cinematografici italiani, i fratelli Taviani Paolo e Vittorio, nascono a San Miniano,
Pisa, rispettivamente nel 1931 e nel 1929. In gioventù studiano musica entrambi e sono
appassionati frequentatori di cineclub. All’inizio degli anni ’50 insieme a Valentino Orsini, si
avvicinano al mondo dello spettacolo, per arrivare poi al mondo del cinema. Figli del
neorealismo si accostano al mondo della cinematografia con una produzione documentarista.
Trasferitisi a Roma, dunque fanno esperienza come aiuto-registi. Lavorano con Joris Ivens
che li spinge a realizzare il loro primo lungometraggio, girato dai due fratelli insieme a
Valentino Orsini, Un uomo da bruciare presentato con successo a Venezia nel 1962.
Staccatisi da Orsini dopo I fuorilegge del matrimonio (1963), i due diressero Sovversivi
(1967), Sotto il segno dello scorpione (1969), San Michele aveva un gallo (1972), che fu
molto apprezzato dalla critica. I personaggi dei loro film esprimono il conflitto fra portatori di
esigenze rinnovatrici ed espressioni di altri cicli storici in corso di esaurimento. Il tema
principale viene ad essere il bisogno di rinnovamento, di realizzare un sogno, un desiderio il
quale per realizzarlo si viene spinti all’azione. Assieme ad Allonsafan (1974) i film sopra
menzionati sono film politici di impronta storica. Con Padre padrone, vincitore al Festival di
Cannes nel 1977, il legame politico viene a stingersi, ma rimane alta la poeticità del film e il
desiderio sempre costante nei film dei fratelli Taviani di libertà di sottrarsi all’autorità
soffocante. Poi ricordiamo film come: Il prato (1979) e La notte di San Lorenzo (1982)
quest’ultimo film di grande successo. Segue Kaos (1984), un film a episodi di diversa fattura,
che conferma la maestria dei Taviani quanto la loro curiosità intellettuale. Con questo film si
entra in un mondo più accademico assieme a Good morning Babilonia (1987) e Il sole anche
di notte (1990); per ritornare con Fiorile (1993) agli aspetti storici e politici. Nei loro film i
Taviani esprimo l’esperienza personale mettendo in evidenza un carattere genuino, aperto a
un contatto col reale, cogliendola dall’interno, attraverso una attenta e partecipe osservazione
dei fatti minuti, dei comportamenti individuali.
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2. Come si scrive una sceneggiatura3
Scrivere una sceneggiatura significa scrivere una storia per il cinema. Le storie da sempre
hanno fatto parte dell’uomo, esse sono inventate per ridere o per piangere, per commuoversi o
per arrabbiarsi. In certi casi sono un modo per evadere dal grigiore della realtà, in altri ci
aiutano a capirla meglio. Per raccontare una storia c’è bisogno di un linguaggio. Il modo più
semplice per raccontare una storia è quello del linguaggio orale, poi c’è il linguaggio scritto.
Quando si scrive per il cinema non si fa un lavoro fine a se stesso: la scrittura è al servizio di
un’altra forma di linguaggio, quello delle immagini. Ciò che viene scritto viene pensato in
relazione a quello che si dovrà fare: la scena con i personaggi, i loro volti le loro espressioni,
le loro azioni. La scrittura non è qui un fatto solitario ma un lavoro che rientra in una
operazione di equipe a cui concorrono in tanti. Tutto il lavoro complesso di un film si
sviluppa attorno a un’idea. Come nasce un’idea? Un’idea può nascere da un tema, ad esempio
il carcere giovanile, uno spunto tratto dalla cronica, da un’opera letteraria, oppure può essere
un’idea originale. I momenti della scrittura cinematografica sono due: il primo è quello della
creatività, quello dell’idea, del soggetto e in parte del trattamento dove è dominante la
costruzione letteraria della storia e ovviamente dei personaggi; il secondo, la scaletta e la
sceneggiatura, dove avviene la traduzione della storia nel linguaggio delle immagini e ciò
richiede la conoscenza delle tecniche di scrittura cinematografica. Chi scrive il soggetto non
sempre fa la sceneggiatura. Una bella storia può essere pensata da chiunque abbia un poco di
immaginazione, intelligenza, capacità nel percepire situazioni e così via. Tradurla in una bella
storia cinematografica richiede invece la conoscenza di un mestiere che non si improvvisa. Ci
vogliono capacità tecniche. Conoscere la tecnica per scrivere implica non solo la conoscenza
del lessico tecnico, avere dimestichezza con i modi e i mezzi con cui si devono realizzare le
immagini ma soprattutto possedere due doti fondamentali: a) la capacità di tradurre le idee
in immagini. C’è una domanda che chi scrive storie per il cinema deve porsi di continuo: ciò
che sto scrivendo come si traduce in immagini? Come si vede? Nel primo fascicolo Che cosa
è una sceneggiatura della raccolta Leggere e scrivere il cinema, p. 3, osserva Ugo Pirro (in
“Per scrivere un film”, Rizzoli 1982)
“se scriviamo: ‘Mario si avvicina a Lucia con il cuore in tumulto’ il cuore in tumulto non si vede… Se
scriviamo invece ‘Mario si avvicina a Lucia. Il suo passo è lento e goffo. Si guarda un attimo le scarpe, sospira a
bocca chiusa , alza gli occhi verso di lei’ abbiamo quanto meno indicato dei gesti che possono suggerirci un
turbamento di Mario. Abbiamo usato un linguaggio per immagini, cinematografico.”
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v. Battistrada e Felisatti,1992; Pirro, 2001.
10
b) sentire il ritmo delle immagini perché non ci siano cadute di noia o fasi troppo concitate,
ma una progressione che porti al momento culminante senza calo di interesse e un finale che
lasci il pubblico soddisfatto con qualche emozione nuova o qualche riflessione in più.
3. Come nasce un’idea per un film4
Ogni film nasce da un’idea. Per trovare un’idea uno scrittore del cinema fa uso della sua
esperienza. È un uomo che ha visto tanti film, ha letto libri, ha viaggiato, è curioso di
conoscere gente, è attento ai gesti, ai comportamenti alle parole di tutte le persone che
incontra. Le fonti a cui attinge possono essere svariati: la letteratura, la storia è la cronaca o
dalla propria immaginazione. Presa un’idea non sempre essa rimane fedele alla fonte da cui è
stata tratta. Ad esempio un’idea può indicare una serie di usi possibili, lo scrittore
cinematografico può trasformarla ed elaborarla in tanti modi, attribuendogli ad esempio spazi
e tempi diversi da quelli originali. Essa poi può subire una serie di cambiamenti e di
manipolazioni necessari per poterla sceneggiare che la possono allontanare da se stessa
rendendola quasi invisibile.
Riporto un esempio tratto dal secondo fascicolo, Come nasce un’idea della raccolta Leggere
e scrivere il cinema, p. 10, pubblicato su Avvenimenti.
“Sala n. 6 di Cechov”
Efemic va a dirigere un ospedale di provincia alla fine del secolo scorso nella Russia zarista. Efemic conosce le
teorie più progredite della scuola di Vienna, ma per rassegnazione sembra accettare l’arretratezza e la brutalità
dei sistemi di cura dell’ospedale. Un paziente della sala n.6, quella dei matti, l’ex studente Dmicric, lo
aggredisce e lo accusa: “Siete mai stato frustato? Avete mai patito la fame?”. Il medico si accorge che è l’unica
persona intelligente che ha trovato nel distretto. La dimestichezza del medico col demente suscita sospetti e
diffidenze; Efemic viene consigliato di prendersi una vacanza. Ma quando torna trova che è stato sostituito. Ha
uno scatto d’ira, poi cerca anche di scusarsi, ma finisce internato a sua volta nella sala n.6. Inutile il tentativo di
fuga dei due malati. Efemic e Dmitric.
L’idea è quella di una storia di emarginazione. La società punisce chi ha comportamenti
giudicati anomali, chi è diverso. Se vogliamo fare un film tratto da questo racconto come
farlo? Rispettando il racconto di Cechov?
Come ci spiegano Lucio Battistrada e Massimo Felisatti, in realtà facendo un film ne
facciamo un’altra cosa. Cechov ha dato la sua parte, lo scrittore di cinema ora deve fare la
4
v. Battistrada e Felisatti, 1992.
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sua. Non ha altri obblighi che verso il cinema e lo spettatore. Una delle prime decisioni da
prendere è se ambientare la storia ai tempi e nei luoghi cecoviani, o se cambiare luoghi e
tempi. La storia può restare ambientata in Russia, ma in epoca Staliniana. Il film assume tutto
un’altra valenza: il clima storico, i personaggi, il significato della storia diventeranno molto
diversi, oppure si può cambiare sia l’epoca che l’ambiente, e così via. In ogni caso bisognerà
lavorare molto sugli ambienti, e i personaggi. Un’idea come già detto sopra può quando arriva
all’ultimo atto scritto, che è quello della sceneggiatura, non lasciarsi individuare subito nel
film realizzato. La sua però eventuale scomparsa non prova che si possa realizzare un film
senza un’idea capace di raccogliere diversi interessi, ma soltanto indica come il suo corretto
utilizzo presenta difficoltà. Chi scrive un libro deve pensare alle parole, all’uso
sintatticamente corretto, alla struttura della narrazione. E come dice Goethe in Le confessioni
di un’anima bella “ la bellezza di un libro va valutata unitamente alla bellezza dei caratteri
tipografici”. Diverso è per il cinema ci spiega Pirro (2001), la macchina da presa è un’altra
penna, scrive secondo gli obiettivi, la pellicola e tanti altri mezzi tecnici che si rendono via,
via disponibili. E il loro uso, la loro diversità non incide sulla “bellezza tipografica”, ma
direttamente sulla narrazione.
4. Come si scrive un dialogo per il cinema5
Un dialogo scritto per il cinema non deve avere un valore letterario, ma scenico.
Facendo di nuovo riferimento a Lucio Battistrada e Massimo Felisatti che ci danno alcuni
requisiti di cui deve essere dotato un dialogo fatto per il cinema, il primo requisito
indispensabile, quando si scrive un dialogo, è quello d’essere composto di battute che gli
attori non facciano fatica a pronunciare. Chi scrive battute per il cinema deve dirle ad alta
voce! Recitarle! Esse devono suonare bene. Il valore scenico inizia appunto da qui. Una scena
è qualcosa che corrisponde a una delle circa ottanta (più o meno) situazioni drammatiche in
cui si scompone un film, alcune con dialogo e altre senza. Riporto l’esempio di Battistrada e
Felisatti (1992, fascicolo 14, p. 105):
-
Un individuo che prepara da solo una bomba (che può scoppiargli in mano da un momento all’altro) è
una scena in cui situazione drammatica e azione scenica coincidono, senza gran bisogno di dialogo.
5
-
Così uno o più individui che aprono una cassaforte, e comunicano a gesti, a monosillabi.
-
Così un uomo e una donna che fanno l’amore.
v. Battistrada e Felisatti, 1992.
12
-
Così un inseguimento di guardie e assassini.
-
Così uno scontro di Karate. […]
Riporto un altro esempio di Battistrada e Felisatti (1992, fascicolo 14, p. 106). Il dialogo è
tratto dal finale del film di Visconti “Senso” (Nuova universale Cappelli):
Livia è davanti alla scrivania di un generale austriaco: è disfatta, stravolta.
Livia: Sono venuta a compiere il mio dovere di suddita fedele…
Generale (sedendo): Ah, la signora contessa è austriaca?
Livia (fa cenno di no): Veneta.
La donna apre la borsetta, ne trae una lettera gualcita, la butta sul tavolo.
Livia: Ecco.
Il generale la prende, la scorre in silenzio.
Generale: Non capisco… la lettera è indirizzata a lei?
Livia annuisce in silenzio.
Il generale rilegge qualche riga, si toglie gli occhiali. Guarda Livia con severità, e va a chiudere la porta sulla
camera da pranzo, con tavola apparecchiata e intorno alcuni famigliari che attendono l’ufficiale.
Generale (a Livia con durezza): Dunque, ho fretta, si sbrighi!
Livia: La lettera è di Franz Mahler del Terzo Reggimento Artiglieria…
Generale: E poi?
Livia: La lettera parla chiaro. Si è fatto credere malato, pagando dei medici. È disertore dal campo di battaglia!
Generale: Ah, ho capito! Il tenente è stato suo amante… E lei ora si vendica facendolo fucilare! Ci pensi,
contessa! La delazione è un’infamia! E l’opera sua è un assassinio!
Livia chiude gli occhi colpita, ma non replica. Il generale sbatte la lettera sul tavolo e chiama.
Generale (ad alta voce): Lieutenant Schneider!
Livia si avvia per uscire e sulla porta si volta per dire ancora…
Livia (spettrale): Signor generale, faccia il suo dovere!
Arriva un giovane tenente e la procedura per fucilare Franz su due piedi ha inizio. Livia si allontana.
Non sempre c’è in un film una situazione forte come questa. La protagonista che tradisce il
proprio amante per farlo fucilare. Il dialogo di questa scena è difficile, lo sceneggiatore non
può sceneggiarla in modo diretto, perché già lo spettatore ha intuito, dalle scene precedenti,
l’intenzione infame di Livia. Livia deve dire al generale che Franz è un traditore e deve essere
fucilato come farlo? Non ci vogliono battute informative, nessuno racconta in modo
“burocratico” o melodrammatico il proprio tradimento ed è scenicamente superfluo, ripetitivo,
rispetto alla parte visiva già esplicita. Occorre perciò un procedimento allusivo. La lettera
risolve la situazione. Infatti non sappiamo bene cosa ci sia scritto, ma le reazioni gli accenni
(le allusioni) dei due ci dicono e ci ricordano (rispetto ai precedenti narrati dal film) che c’è ne
abbastanza per fare condannare Franz. Così la scena drammatica della scena passa al generale
13
austriaco, che ha letto quel breve, significativo documento. Con un trucco usato spesso in
scene come questa si fa dire all’Altro quello che è difficile far dire al Protagonista. Questa
scena così analizzata ci aiuta a capire una delle qualità essenziali del valore scenico e non
letterario: letterariamente le frasi qui riportate non ricercano alcun valore particolare.
Che cos’è l’allusività? Così viene spiegata: una parte fondamentale del messaggio
cinematografico ci viene dalle immagini, dalla situazione che le immagini mettono in
evidenza. Un’altra parte complementare, ma non meno necessaria, ci viene dal dialogo, che
qui sottolinea la tragica viltà del gesto compiuto dalla contessa. Se il dialogo raddoppia, ripete
il senso trasmesso dalle immagini, quindi il dialogo, è un dialogo sbagliato. Possiamo
concludere dicendo che il dialogo cinematografico allude a quello che già è dato intuire, ma
lo deve completare, approfondire; magari a sorpresa può anche contraddirlo, smentirlo,
rovesciarlo. Ogni effetto ripetuto del già saputo e del già visto e capito provoca noia,
rallentamento, e segna una caduta dell’effetto scenico del dialogo.
14
Parte terza
La lingua di Pirandello e dei Taviani
1. Pirandello e i Taviani
Come vedremo dal confronto fra i testi di Pirandello e la sceneggiatura del film Kaos dei
fratelli Taviani, diverse possono essere le vie di analisi sul linguaggio (cioè vedere l’oralità
nel dialogo, l’uso del vocativo, le dislocazioni a sinistra e a destra, i regionalismi ecc.), ma
anche sul modo come gli artisti interpretano la realtà. Leggendo i testi di entrambi gli autori
possiamo infatti notare la diversità nell’accostarsi alla vita (che può giocare un ruolo
fondamentale all’interno dell’opera). Difatti leggendo le novelle e la sceneggiatura, troviamo
delle differenze basiche sul modo di concepire la vita. Pirandello si muove con passo dolente,
esprimendo pietà e rassegnazione, è pessimista, ci sono nella sua opera pochi momenti felici,
e solo per essere subito dopo smentiti, annullati da una realtà crudele, pronta a schiacciarti
come un macigno; i Taviani invece oltre la dolorosa partecipazione ad un mondo che appare
spesso crudele, offrono un segno di speranza, ci sono tratti di ottimismo. Pirandello racconta
con partecipazione dolorosa la vita della sua gente, in particolare dei contadini che vivono
sulla terra, che faticano su di essa, che lavorano solo con le loro forze, con i loro dolori, con le
loro superstizioni e magie; in lui c’è tenerezza, amore, pietà, raccontando solo le sconfitte
della sua gente ma non la voglia di un mondo diverso, non offre la speranza: infatti i suoi
personaggi non lottano per avere la terra da coltivare ma una terra per il camposanto
“Requiem” e Garibaldi è venuto solo per liberare gli assassini dal carcere “L’altro figlio”. Nel
film dei Taviani, viene espresso anche il grande dolore di chi vive in Sicilia, ma si sente
inoltre la solidarietà tra chi potrebbe tradire l’amico ma poi non lo fa: Saro in “Mal di Luna”
alla fine aiuta Batá, si commuove di fronte al suo dolore e cerca di consolarlo. Nel messaggio
dei Taviani la vita non finisce ma continua c’è qualcosa che ci aspetta nel futuro e la speranza
è presente a stimolare la lotta, quel non cedere al dolore e alla sofferenza: in “Dialogo con la
madre” i Taviani gli rimproverano l’incomprensione verso ciò che sua madre avrebbe
coltivato in cuore nel viaggio per mare del 1848. Possiamo concludere dicendo che un’opera
travasata, o utilizzata per altre forme artistiche può cambiare non solo il suo linguaggio ma
anche il suo modo di esprimersi.
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2. Pirandello e il suo stile
Nei libri di letteratura si parla di Pirandello come di scrittore a cui non piace la bella pagina,
di scrittore che non tiene conto dell’armonia estetizzante tipica di altri letterati quale ad
esempio D’Annunzio. Egli ha uno stile più comune, una scrittura semplice che mira a cogliere
dai fatti e dai personaggi direttamente l’essenza, l’interiorità di quel mondo di cui si fa
portavoce. La sua è una lingua media che fa uso di vocaboli e di costruzioni di ambiente
regionalistico rendendo la sua prosa di tipo espressionistico. Lo scrittore usa una lingua che
adotta direttamente la vivacità del parlato: ricca di esclamazioni, reticenze e ridondanze.
Riporto un piccolo frammento tratto dal racconto L’altro figlio come esempio di quanto detto
sopra:
-C’è Ninfarosa?
-C’è. Bussate.
La vecchia Malagrazia bussò, e poi si calò a sedere pian piano sul logoro scalino davanti la porta.
Era la sua sedia naturale; quello, come tant’altri davanti le porte delle casupole di Farnia. Lì seduta, o dormiva o
piangeva in silenzio […]
Vedremo presto più da vicino questo suo stile, uno stile che è stato capace per la sua natura
appunto non formalistica di dar vita ad un’opera molto toccante e viva, riuscendo a mio
avviso, a farci sentire da vicino quel mondo, ad immergerci nella
personaggi, nelle loro passioni ancora più di quanto non
disperazione dei
abbiano saputo fare i suoi
conterranei Capuana e Verga.
3. Differenze tra scritto e parlato
Prima di passare all’analisi dei dialoghi possiamo dare uno sguardo su quali sono le differenze
essenziali tra scritto e parlato.
Molti sono gli studiosi che si sono interessati a quest’analisi ma qui farò particolarmente
riferimento a Coveri, Benucci e Diadori (1998). Vedasi anche Berruto (1993); Dardano
(1996).
La caratteristica essenziale dello scritto è innanzi tutto la pianificazione legata a un progetto e
a una elaborazione accurata dei dati, nella disposizione dei contenuti, nella scelta dei vocaboli
e degli strumenti grammaticali. Viene utilizzato solo il canale visivo (scrittura, grafici,
disegni). Tra emittente e destinatario c’è quasi sempre uno scarto temporale e spaziale, e
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spesso il destinatario può essere sconosciuto all’emittente. Lo scritto possiede generalmente
coesione a livello linguistico e coerenza semantica, assenza di errori, non vi sono esitazioni,
ripetizioni, rari gli errori di concordanza.
Riporto l’elenco usato dagli autori sopra citati. L’elenco è una generalizzazione dei fenomeni
più ricorrenti:
Forme verbale complesse (permanenza del passato remoto, condizionale e congiuntivo);
impiego di connettivi testuali (per esempio: allora, appunto, insomma, e le espressioni di
rinvio del tipo come abbiamo già visto, come dirò tra poco); impiego normativo di aggettivi e
pronomi relativi; minore uso che nel parlato della dislocazione, in particolare evitamento della
ripresa pronominale; articoli e preposizioni usate secondo le “regole”, ricorso agli
indeterminativi per creare effetti di lontananza, distacco e presentazione; impiego
pronominale più limitato che nel parlato, con tendenza a determinare soggetti e oggetti
ricorrendo a nomi e ripetizioni; scelta articolata di indicatori temporali e spaziali; maggiore
impiego che nel parlato dei suffissi alterativi; ecc.
Il parlato, a differenza dello scritto, ha scarsa pianificazione e stretta dipendenza della
situazione, emittente e destinatario condividono generalmente lo stesso contesto situazionale
poiché sono presenti contemporaneamente, la comunicazione avviene quasi sempre da vicino.
Uno degli aspetti tipici del discorso orale è l’abbassamento del livello di coesione e di
coerenza. Questo si spiega con la minore capacità di pianificazione che contraddistingue il
testo parlato rispetto allo scritto. Quando si parla, le parole sono legate al tono della voce, ai
gesti, agli atteggiamenti che uno assume; c’è la possibilità di autocorreggersi, di modificare il
discorso in relazione al fluire dei pensieri.
Sul piano generale si ha frammentazione con: enunciati incompiuti, false partenze (sento
cheee… io oggi non sono uscita), bassa coesione testuale, pause (…non ti… spa…ventare…),
esitazioni, lessico generico, ripetizioni (Ecco, ecco, nonlo volevo dire, non volevo),
autocorrezioni (l’opera è stato, è stata ben eseguita), segnali discorsivi, dislocazione e
topicalizzazioni (Dal fioraio non ho fatto in tempo a passarci; Sono aumentate, le sigarette,
da oggi), parafrasi, particelle modali (per così dire, ad essere sincero), riprese lessicali,
ridondanza, stretto rapporto fra intonazione e sintassi, deitticità verbale e gestuale (questo è di
una stoffa più bella di quello lì), sovrapposizione di discorso da parte di emittente e
destinatario. Gli esempi sono tratti da Coveri, Benucci e Diadori (1998) e dalla sceneggiatura
di Kaos.
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4. Piccolo accenno alle differenze tra dialetto e regionalismo
Per una più facile lettura dell’analisi dei dialoghi inserisco le definizioni di dialetto e
regionalismo di Dardano e Trifone (1995, p. 44):
“Il dialetto come l’italiano riflette tradizioni e culture nobili; possiedono un lessico e una
grammatica. In generale il dialetto è usato in un’area più circoscritta rispetto alla lingua, la
quale invece appare diffusa in un’area più vasta.”
Quando parliamo invece di regionalismo possiamo dire che (Dardano e Trifone 1995, p. 46):
“L’italiano regionale è una varietà di italiano che possiede delle particolarità regionali,
avvertibili soprattutto nella pronuncia.”
“Il dialetto regionale è una varietà del dialetto che ha subito l’influsso dell’italiano regionale
su uno o più livelli: fonologico, lessicale, morfologico e sintattico.”
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5. Analisi dei dialoghi: Regionalismi ed altro
L’analisi comprende le novelle di Pirandello (d’ora in poi abbreviato NP) su cui è basato il
film Kaos dei Taviani (d’ora in poi abbreviato T). Per l’analisi seguirò l’ordine degli episodi
del film prendendo in esame solo i primi tre, analizzando solo i dialoghi all’interno dei
racconti e della sceneggiatura. Nel film abbiamo: prima dei titoli di testa (Il Corvo) tratto
dalla novella Il Corvo di Mìzzaro che diventa il prologo del film; Primo racconto Mal di
Luna; Secondo racconto la Giara.
Quando in uno dei due testi mancherà il corrispettivo dialogo, verrà indicato con il segno: ---.
a)Il corvo di Mizzaro (NP pp.559 – 562, T pp. 33–36.)
Novella
Sceneggiatura
1. ---.
1. (Primo pastore)…È un maschio…
2. ---.
2. (Pastore) È caldo
3. -O babbaccio, e che fai? Ma guardate un po’!
Le uova cova! Servizio di tua moglie, babbaccio!
3. (Voci pastori) Babbuccio, che fai?! Le uova
covi?! Questo è servizio di tua moglie, babbaccio!!
4. ---.
4. (Pastori) Turi? Salvatore? Che succede?
(Primo pastore)Guardate questa! Un maschio…
che cova le uova.
(Pastore) Vergogna, babbaccio
Chi lo colpisce, è suo.
(Pastore giovane) Musica!
(Pastore giovane) MUSICA!!
5. -Godi
6. Din dindin din dindin…
7. -Dove suonano?
8. (Ciché pensa “Spiriti!”)
9. ---.
10. ---
5. (Giovane pastore) Godi
6. RINTOCCHI DI CAMPANELLA
7. --- (descritto con immagini).
8. (Contadino) Spiriti
9. (Giovane ragazza) Avevi ragione tu… Ho sentito
suonare le campane…
10. (Padrone della barca) È suonata l’ora di notte.
Torniamo a casa.
Già dal primo dialogo possiamo notare che c’è più dialogo nella sceneggiatura che nei
racconti. Babbuccio e babbaccio (parole messe in evidenza) sono entrambe voci della parola
babbo; il primo un diminutivo, il secondo un peggiorativo.
19
b)Mal di luna (NP, pp. 715–719, T pp. 37–72).
1. ---
1. (Sidora) Batá, avete sentito?
2. ---
2. (Sidora) Batá, ora avete sentito?!
3. ---
3. (Sidora) Che avete?!
4. ---
4. (Batá)…non ti… spa…ventare…
5. ---
5. (Sidora) Ma che avete?!?
Facendo riferimento a Bazzanella (2002) sul parlato filmico, ci fa notare che nei dialoghi
cinematografici c’è un uso insistito del vocativo più frequente che nel parlato spontaneo. Tale
uso possiamo trovarlo negli esempi 1 e 2.
6. - Dentro… chiuditi dentro…bene… Non ti
6. (Batá) Vai in casa! Vai in casa! Chiudi le porte!
spaventare… Se batto, se scuoto la porta e la graffio
Chiudi le finestre! Vai! Chiuditi
e grido…non ti spaventare…non
dentro…bene…Non ti spaventare… Se sbatto, se
aprire…Niente…va’! va’!
scuoto la porta e la graffio e grido…non ti
spaventare…E non aprire…Non ascoltare…Vai!
Vai!
Nel dialogo 6 notiamo l’uso della frase spezzata in entrambi i testi, tipica dell’uso orale, come
ci insegnano Coveri, Benucci e Diadori (1998, pp. 250).
7. – Ma che avete?
7. (Sidora) Ma che avete?
8. ---
8. (Batá) Malato.
9. ---
9. (Batá) Non fare così…Ho paura anch’io.
10. Realizzato diversamente
10. (Sidora) Aiuto…aiuto…
11. ---
11. (Sidora)…Che male?…Che male?…
12. – La luna!
12. (Batá) La luna!
13. - Ajuto…ajuto…
13.Realizzato diversamente
14. ---
14. (Sidora) Ma no…no…Ma no…no…
15. ---
15. (Sidora) Miao…miao… miao…miao…
16.---
16.(Contadino) Sidora? Sei tu?…Dove vai?…
Notate nell’esempio 13 la diversa scrittura di aiuto, con l’uso di j al posto di i nei dittonghi;
classicismo caratteristico dello stile pirandelliano.
20
17. – Il male di luna! Il male di luna!
17. (Sidora) Mamma… mamma… siete sveglia ?
- Ah figlia mia! Ah figlia mia! Ah povera figliuccia
(Voce madre) Sidora!…Entra…entra…
mia rovinata!
(Voce Sidora) Siete già alzata, mamma…
(Voce madre) Me lo sentivo! Me lo sentivo! Ti
aspettavo, figlia mia.
18. ---
18. (Sidora) Tu me lo hai fatto sposare! Tu me lo
hai fatto sposare!
19. Andate via, malo cristiano! Avete il coraggio di
19. --- (realizzato diversamente).
ricomparirmi davanti? Via di qua! Via di qua!
Assassino traditore, via di qua! Mi avete rovinato
una figlia! Via di qua!
Nell’esempio 17 in NP troviamo un arcaismo, figliuccia al posto di figliuola. Nell’esempio 17
della sceneggiatura notiamo l’uso ripetuto delle parole, le frasi spezzate, i vocativi e la
semplificazione degli enunciati, tipiche del linguaggio colloquiale che ritroviamo nell’analisi
di Coveri, Benucci e Diadori (1998). Nell’esempio 19 troviamo l’espressione dialettale malo
cristiano.
20.---.
20. (Batá) Nostra è la colpa, Bionda, e nostra sia ora
la pena.
21. ---.
21. (Batá) Noi siamo qui. E aspettiamo.
22. ---.
22. (Batá) Io sono in colpa. Nascosi il mio male. Lo
nascosi perché nessuna mi avrebbe preso, se glielo
avessi confessato prima di salire l’altare. Ma ormai
sono qui davanti a voi e vi dirò come nacque la mia
sciagura. Mia madre da giovane andava a spighe.
Quella volta, il giorno non le era bastato. Era estate
e c’era la luna. Mia madre continuò tutta la notte…
23.---.
23.(Voce Batá) Mia madre mi aveva lasciato tra le
spighe al sereno, tutta la notte esposto alla luna. E il
povero innocente per tutta quella notte ci giuocò
con la bella luna. E la luna mi incantò…
Nell’esempio 23 troviamo giuocò, forma del verbo giucare, arcaismo sostituito dalla parola
più moderna giocare.
21
24. In Pirandello è realizzato in forma narrativa:
[…]L’incanto però gli aveva dormito dentro per
anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era
risvegliato. Ogni volta che la luna era in
quintadecima il male lo riprendeva. Ma era un male
24. L’incanto mi ha dormito dentro per anni e anni.
Solo da poco tempo si è risvegliato. Ogni volta che
la luna è in quinta decina il male mi riprende. Ma è
un male soltanto per me, basta che gli altri se ne
guardino.
soltanto per lui; bastava che gli altri se ne
E se ne possono guardare bene, perché è a periodo
guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché
fisso che me lo sento venire. Dura una notte sola e
era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo
poi basta. Il mattino dopo io stesso ho scordato
preavvisava; durava una notte sola e poi basta.
tutto. Speravo che mia moglie fosse più coraggiosa,
Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa;
ma poiché non è, si può fare così: a ogni fatta di
ma, poiché non era, si poteva far così, che, o lei, a
luna la madre venisse su a tenerle compagnia…
ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla
madre; o questa andasse, giù alla roba, a tenerle
compagnia.
25. –Chi? Mia madre? Voi siete pazzo! Volete far
25. ---
morire di paura anche mia madre?
26. –Gnornò! Scordatevelo! State ad accordarvi tra
26 ---.
voi? È inutile! È inutile! Debbo dirlo io!
Notiamo l’uso frequente del riflessivo nella lingua regionale siciliana (se e me), in questo caso
anche ridondante. A ogni fatta di luna appare come espressione popolare che sta ad indicare
la luna piena. Nell’esempio 24 ci sono altre forme regionalistiche: se ne venisse con l’uso
della forma pronominale, che non è presente nell’italiano standard. Possiamo notare inoltre
che in Pirandello è usata la parola roba (oggi in disuso). Nello Zanichelli la parola roba viene
così spiegata: “Ciò che di materiale si possiede e che serve in genere alle necessità del vivere//
est. Complesso di beni, proprietà possedimenti”. Questa parola viene omessa dai Taviani, ma
viene poi usata e spiegata all’inizio della scena 6 a pagina 36 della sceneggiatura, “Aia casa
Batà”:
Il corvo raggiunge la “roba”di Batà : casa e stalla insieme, un’aia, isolate in mezzo al deserto delle stoppie…
Nell’esempio 26, gnornò, parola dialettale, che corrisponde a signornò che significa No
signore! (si usa come forma di rispettosa negazione assoluta nel linguaggio militare o
scherzosa nel linguaggio familiare) (Zanichelli).
22
27.Sta’ zitta, sciocca! Quando fará la luna verrò giù
27.(Marga) Sta’ ferma, sciocchina. Quando fará la
io, con Saro…
luna, verrò su io.
-Con Saro? L’ha detto lui?
(Sidora) Strillerai più di me!
-Gliel’ho detto io, sta’ zitta! Con Saro.[…]Abbiamo
(Marga) Non verrò sola. Verrò con Saro.
forse, di uomini, altri che lui nel nostro parentado?
(Sidora) Con Saro?… Te l’ha detto lui?…
È l’unico che ci possa dare ajuto e conforto. Sta’
zitta!
(Marga) Lo dico io. Glielo diremo insieme,
domattina… Sì, con Saro…:abbiamo forse di
uomini altri che lui nel nostro parentado? […] Non
te l’ho potuto dare, non te l’ho voluto dare come
marito, quella testa scarica quel bel padroncino del
niente, quelle belle labbruzze rosse, povero
scannato più di te e di me messe insieme… Ma
quale cugino e protettore saprà fare il dovere suo…
(Sidora) Voi dite che io…Saro…
(Marga) Zitta![…] E così siamo pari con i pugni
che mi desti stamattina.
28. ---
28. (Marga) Mi avvio. Ti aspetto in cima alle scale.
(Sidora) Quando la riporrai codesta nappa da
bersagliere?
(Saro) Perché? Non mi dona?
(Sidora) Anche troppo. Ma ormai sono sei mesi che
ti congedasti.
(Saro)…Finché non mi arrestano, la domenica me
la porto!…
[…] Ha ragione tua madre: quando fará la luna,
verrò anch’io da te e da tuo marito.
(Sidora) Lo chiami marito uno così??
(Saro) Chi di noi, Sidora, non ha i suoi difetti? Batá
tiene codesto male, e io…io…ce ne ho uno anche
più grosso.
(Sidora) Tu, Saro?
23
(Saro) Non ho trovato la forza di rinsavire per farmi
sposare da te.
(Sidora) Ti tagliasti...
(Saro) Il barbiere…
(Sidora) E dolce…
(Saro) Non lo dovevi fare. Mi sei rimasta sempre
nel sangue lo sai. […] Domani mi metto a fare il
mozzo nella barca di padron ‘Ntoni. Non ci resisto,
fermo per un mese, ad aspettare che faccia la luna.
Facendo riferimento a Bazzanella, notiamo che la comunicazione nei dialoghi filmici è
fortemente orientata verso lo spettatore e questo giustifica fenomeni come la ricchezza di
dislocazioni a destra o la semplificazione degli enunciati. Troviamo la dislocazione a destra
nell’esempio 27: Non te l’ho voluto dare come marito, quella testa scarica… e 28: Quando la
riporrai codesta nappa da bersagliere?
Testa scarica sta per non avere niente in testa. La parola scannato significa ridotto all’osso:
in questo caso che non ha un soldo. Incontriamo di nuovo regionalismi ed espressioni
popolari: riporre al posto di mettere da parte.
29.–Non temere. C’è tempo ancora, c’è tempo! Il
29.Non temere. C’è tempo ancora. Il guaio sarà
guajo sarà, quando non avrà più le corna…
quando la luna non avrà più le corna.
30. ---
30.(Batà) È la prima volta che abbiamo ospiti,
quassù, alla Roba…La festa è un po’ speciale, ma
voglio che tua madre e Saro vengano trattati da veri
ospiti. […] Pigliate la tovaglia del vostro corredo.
(Sidora) Io vi voglio bene Batà, ci credete?
Perdonatemi se…
(Batà) Io…perdonare voi?
(Sidora) Madonna aiutami! Sto morendo, sto
morendo. Non vi chiederò più nulla mai, mai.
Lasciatemi godere per una volta, una volta sola,
questa notte sola.
24
Nell’esempio 29 troviamo nella novella un altro esempio dell’uso della j al posto della i. Nella
sceneggiatura compare l’uso del voi tra marito e moglie, con verbo di forma regionalistica:
pigliare al posto di prendere.
31. ---
31. (Batà) Non si affaccerà di là. La luna è
capricciosa, non si affaccia mai dove la si aspetta.
Ma io e lei ci conosciamo bene: io so che lei stasera
si affaccerà laggiù dietro l’olivo saraceno.[…] C’è
ancora tempo per una grappa. […] L’ho distillata
io, con le mie mani. Da quando c’è la proibizione,
le bottiglie le tengo sepolte nel campo di frumento e
le tiro fuori solo di notte. Vedete, ci ho attaccato un
filo di ferro: il filoferro esce dalla terra e io, al buio,
le ritrovo a tasto. Quando c’è la luna non ce n’è
bisogno, le vedo a occhio nudo.
(Saro) Anche quando c’è la luna in quintadecina?
Nell’esempio 31, abbiamo l’uso ripetuto del pronome personale (io), tipico del parlato. C’è
una dislocazione a sinistra: le bottiglie le tengo sepolte e il regionalismo filoferro al posto di
filo di ferro.
32. –Tu sei uomo, e tu sai già com’è; io sono
32.(Marga) Ho paura. Tu, Sidora, sai già com’è, e
vecchia, ho paura più di tutti, e me ne starò
Saro è uomo. Io sono vecchia, ho paura più di tutti.
rintanata qua, zitta zitta e sola sola. Mi chiudo bene,
Nascondimi nella stalla. Me ne starò rintanata là
e lui faccia pure il lupo fuori.
dentro, zitta zitta e sola sola. Mi chiudo bene e lui
faccia pure il lupo fuori.
(Batà) […] Chiudo il maiale. Se faccio scappare lui,
altro che mal di luna…
(Saro) No…acqua…acqua…Gola secca.
33. Ancora niente.
33. Siamo fortunati, Bionda. Stanotte la luna non ci
scova.
34. –Ma piano, piano…non ti far male… Vedrai
che non è niente.
–Saro! Saro!
-Qua. Quest’è matta!
34.(Sidora) Non è niente…Non è niente…Vieni.
(Saro) Non posso.
(Sidora) Hai paura.
(Saro) No… Sì, forse…[…]…Ma soffre!…
(Sidora) Ora smette. Ora smette…
25
(Saro) Sei pazza…sei pazza…
(Sidora) Sì…sì… è la luna! … è la luna…
(Voce Sidora) Che fai? Saro? Dove vai?
(Saro) Vado da lui.
(Sidora) E io? Io… che faccio io ora?…
(Madre) Ti porto via io. Ti porto via io.
Nell’esempio 34 notiamo l’uso delle ripetizioni, caratteristico del parlato.
c) La giara (NP pp. 910–915, T pp. 73–105)
1.–Sellate la mula! –Consultate il calepino!
1.---
–Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane!
Nel primo esempio troviamo la parola calepino [ Dal primo dizionario latino per le scuole,
stampato a Reggio Emilia nel 1502, del bergamasco Ambrogio dei conti di calepino] s.m.
Grosso vocabolario, spec. latino. / Volume di gran mole, spec. antico. (Il nuovo Zingarelli).
2.---
2.(Conducente) Di chi è qua?
(Contadino) Di Don Lollò
(Conducente) Allora sono arrivato: gli porto
questa giara nuova.
(Contadino) Non scendere. Ne hai da fare ancora
di cammino.
(Conducente) Non conosco la strada.
(Contadino) Sali in piedi sul carro e guarda.[…]
Vedi quell’aranceto?
(Voce del contadino) È di Don Lollò.
Attraversalo e raggiungi quella torre saracena.
È di Don Lollò.
Oltrepassala, sino a quel bosco di sugheri.
È di Don Lollò.
Scendi dall’altra parte del colle.
Risali l’altro colle.
Là c’è l’ulivetto e c’è Don Lollò che ti aspetta.
Nell’esempio 2: L’uso ripetuto di Don Lollò rende il dialogo ironico. Il c’è qui e usato in
funzione di avverbio di luogo (Dardano e Trifone, 1995, p. 267).
3.---
3.(Don Lollò) Spartitele. Cominciate lo scarto.[…]
Che annata!
(Sara) E ora pulitela! (Sara) Smettetela! Ci
guardano. Vi guardano! Contegno, Don Lollò! Voi
siete il loro Carlomagno!
26
4.---
4.(Sara) Che vi ha fatto?!…
(Don Lollò) Ah Sara… Sara… Dio è ingiusto…
Costui, costui che non tiene niente, ha settanta anni
di vita davanti a sé. E io, con tutta la mia roba, ne
avrò sì e no venti!…
Dio è ingiusto, Sara…
(Voce di Don Lollò) Non ti garba lavorare per
me?!?
(Contadino) Mi garba.
(Don Lollò) E allora canta.
(Don Lollò) Eccola!
(Don Lollò) Sembrano i doppi di Santo Stefano
Nell’esempio 4 garbare significa riuscire gradito, andare a genio (Zingarelli). Doppi di Santo
Stefano, espressione idiomatica che qui possiamo interpretare come il suono delle campane
della chiesa di Santo Stefano o per la festa di Santo Stefano.
5. –Guardate! guardate!
5.---
–Chi sarà stato?
–Oh mamma mia! E chi lo sente ora don Lollò?
La giara nuova, peccato!
Vediamo nell’esempio 5 un caso di dislocazione a destra (Dardano e Trifone, 1995, p. 512).
6. –Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di
6. ---
credere che gliel’abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
–Don Lollò! Ah, don Lollòoo!
–Don Lollò! Ah, don Lollòoo!
–Sangue della Madonna, me la pagherete!
(Don Lollò) Sangue della Madonna, me la
pagherete!
Sei stato tu? Chi è stato? È stato lui?!
(Contadino) Io?! Lei è pazzo! Mi lasci! Ahi
(Altro contadino) Si stia quieto con le mani, o…
(Don Lollò) O tu o tu, uno di voi dev’essere stato!
(Don Lollò) Scendetemi.
27
–La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non
incignata ancora!
(Don Lollò) Quattr’onze di giara… O bella mia
giara… Che ti hanno fatto? È stata invidia o
infamità… Dove ne troverò una eguale?… Dove
metterò l’olio dell’annata?… Mia la
colpa…Sorvegliarti dovevo… Povera giara mia…
Te ne sei andata e io che faccio ora?…
Nell’esempio 6: fermi qua tutti: Espressione del parlato. Incignare regionalismo oggi in
quanto usata nel siciliano, ma anche parola arcaica derivante dal latino tardo encaeniare
“inaugurare”.( Zingarelli).
Nella sceneggiatura possiamo notare come il dialogo sia legato all’immagine.
7.---
7.(Sara) Ma no, no… guardate… Si può sanare…
se ne è staccato solo un pezzo… spacco netto…
forse era incrinata…
(Don Lollò) Non era incrinata! Una campana, come
una campana suonava. Faceva: don don… Tutti
l’avete sentita… cosa! Non udrò più la tua voce…
(Sara) Sì, che la udrete…
(Don Lollò) Ai miracoli vorrebbero farmi credere…
(Sara) C’è chi li fa.
(Don Lollò) I santi se ne sono andati tutti dalla
terra!
(Sara) Non un santo…
(Don Lollò) Chi allora?
(Sara) Il miglior conciabrocche dell’isola.
(Don Lollò) Giara mia, la senti?! La senti?! Le
mani fatate dovrebbe avere costui!…
(Contadino) Le mani no, ma un mastice miracoloso
sì, che non ci può ne anche il martello quando ha
fatto presa… lui solo sa e tiene il segreto.
(Don Lollò) E dove starebbe costui, in vetta
all’Etna?
(Sara) Più vicino… più vicino… Qua dietro a voi…
Lo abbiamo mandato a chiamare… Se vi voltate…
È Zi’ Dima…
(Voci Sara e Contadino) -Badate, Don Lollò, che
Zi’ Dima non parla…
-È di poche parole… ha sconfidenza per tutti…
28
Nell’esempio 7 nella sceneggiatura sanare: rendere sano, risanare, guarire (Zingarelli) è più
adatto a persone che a cose. Qui se ne fa un uso improprio e sta per riparare; sconfidenza:
arcaismo per mancanza di confidenza, di fiducia (Zingarelli).
8. - Fatemi vedere codesto mastice.
- All'opera si vede.
- Ma verrà bene?
- Verrà bene.
- Col mastice solo però non mi fido. Ci voglio
anche i punti- Me ne vado.
- Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda
un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile
e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e
l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice
solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando
io.
- Se la giara non suona di nuovo come una
campana...
- Non sento niente. I punti! Pago mastice e punti.
Quanto vi debbo dare?
- Se col mastice solo...
- Càzzica che testa! Come parlo? V'ho detto che ci
voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non
ho tempo da perdere con voi.
- Coraggio, Zi' Dima!
8. (Don Lollò) Dicono che il vostro mastice fa
miracoli. Fatemelo vedere.
(Sara) Se lo pigliate così, non ne otterrete nulla.
Non lo fa vedere a nessuno. Ne è geloso.
(Don Lollò) Verrà bene?
(Jeli) Il ma-sti-ce…
(Don Lollò) Io mi sento salire una cosa da qua…
(Don Lollò) Bum! Il tribunale ha emesso la
sentenza! Ma vi avverto che di codesto vostro
mastice, per quanto miracoloso, non mi fido. Ci
voglio anche i punti.
(Don Lollò) Messere e porco! Ah! Così trattate?!
Guardate un po’ che aria da Carlomagno! Scannato
miserabile e pezzo d’asino che non siete altro! Ci
ho da mettere l’olio là dentro, che trasuda! Un
miglio di spaccatura col mastice solo?! Ci voglio
anche i punti. Punti e fil di ferro! Mastice e punti!
Comando io!
(Zi’ Dima) Sulla gobba no, vi prego…
(Don Lollò) Lavorate, voi !!!
(Don Lollò) Che volete ancora?!?
(Zi’ Dima) Se comandate i punti, mi bisogna un
aiuto.
Nell’esempio 8: codesto aggettivo dimostrativo toscano. Indica persona o cosa vicina o
relativa alla persona a cui ci si rivolge.( Zingarelli). Codesto ha un uso anche dialettale. In
questo dialogo troviamo anche la parola messere: titolo onorifico attribuito un tempo a
giuristi, giudici ecc., parola scherzosa e ironica per dire Signore. Vedere il contrasto tra
messere e porco nella frase. Un altra ingiuria nella frase è scannato miserabile e pezzo
d’asino. La parola in senso letterale viene da scannare: uccidere (spec. animali), tagliando la
canna della gola (Zingarelli). Più giù nel dialogo troviamo la parola cazzica di uso
decisamente dialettale, che corrisponde a un’altra parola dialettale più usata attualmente:
mizzica, che sta ad indicare un fastidio, un’insistenza.
Ci ho da mettere l’olio: Nella sceneggiatura ci attualizzante con essere avere ed altri verbi
(Coveri, Benucci e Diadori, 1998) nel parlato. Mi bisogna: espressione dialettale per ho
bisogno o mi serve.
9.---
9.(Jeli) Mi dica, è vero che l’ebbe in sogno, la
ricetta del suo mastice?
29
- Tira! Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca
più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia!
Suona, si o no, come una campana anche con me
qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!
- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, e chi è sotto si
danna! Date i punti, date i punti
(Zi’ Dima) In sogno, sì.
(Jeli) E chi le apparve in sogno?
(Zi’ Dima) Mio padre.
(Jeli) Ah! Suo padre… Le apparve in sogno e le
disse come doveva fabbricarlo?
(Zi’ Dima) Mammalucco!
(Jeli) Io? Perché, signore?
(Zi’ Dima) Sai chi è mio padre?
(Jeli) Chi è?
(Zi Dima) Il diavolo che ti mangia!
(Jeli) Ah! Lei dunque è figlio del diavolo…
(Zi’ Dima) E questo che ho nella cesta è la pece che
attaccherà tutti quanti, quelli che vogliono sconciare
le brocche con questi puntacci!… I denti della
vecchia paiono che digrignano e par che
dicano:”…sono rotta e accomodata…”
(Jeli) Ah… È nera, la pece…
(Zi’ Dima) È bianca. E me l’insegnò mio padre a
farla bianca. Riconosceranno la sua potenza quando
ci staranno a bollire in mezzo. Ma laggiù e nera. Se
te la spalmo sulla mano e poi te la stringo, non la
stacchi più…
(Zi’ Dima) Allontanati. […] Voltati.
(Voce Zi’ Dima) Tira… tira… […] Picchia…
picchia…
Notiamo nell’esempio 9 nella sceneggiatura l’uso delle frasi spezzate e degli esclamativi
come abbiamo già visto in altri esempi (dialoghi 6 e 17).
10. - Ora ajutami a uscirne.
(Pirandello riferisce): Fatemi uscire! Corpo di
Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?
- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio
stolido, ma come? non dovevate prender prima le
misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la
testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no!
giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso?
Calma! Calma! Calma! Mi fuma la testa! Calma!
Questo è caso nuovo... La mula!
- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! Va' a
sellarmi la mula!
«Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è
giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo
lì!»
- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere
l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado
e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro...
Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima
di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio
dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata.
Cinque lire. Vi bastano?
- Non voglio nulla! Voglio uscire.
- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.
- Avete fatto colazione? Pane e companatico,
subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me
basta che ve l'abbia dato.
10. (Zi’ Dima) Aiutami a uscire.
(Zi’ Dima) Corpo di Dio! Fatemi uscire! Voglio
uscire! Subito! Aiuto!!
(Don Lollò) Vi ci siete cucito dentro, Zi’ Dima –
bene; l’avete rimessa a nuovo bravo; senza prendere
prima le misure della vostra gobba – vedete; ora
volete uscire – giusto; sfasciando la giara – stronzo.
La giara è mia e se si spacca di nuovo è sfottuta per
sempre. Alt! A me chi la ripaga?!
(Zi’ Dima) E allora mi vorreste tener qui dentro?!
(Don Lollò) Bisogna prima vedere come s’ha di
fare.
(Zi’ Dima) Cosa vuol vedere? Aiuto! Aiuto! […] O
la rompe lei o a costo di rompermi la testa, la faccio
rotolare e spaccare contro quell’albero!!!
(Don Lollò) Aspettate!… Fermo… Non fate così.
Ragioniamo… Ci penso io a farvi uscire. Vediamo
se piegandola… ma piano piano…
(Zi’ Dima) Peggio! Peggio!… No!… Ahi!…
L’intoppo è nelle spalle!
(Don Lollò) E voi ne abbondate assai da una
parte…
(Zi’ Dima) Non è la mia gobba che è larga, è la
bocca della vostra giara che è difettosa, che è più
stretta del giusto!
(Don Lollò) Cercate di tirare fuori un braccio!
(Zi’ Dima) Ahi! Ahi! No! Mi lasci. Me lo stacca!
30
(Don Lollò) Vecchiaccio stolido! Che fate?!
Mordete pure! Ora vi faccio vedere io!
(Zi’ Dima) Non così… no… Ah! Ah!… Mi fate il
solletico!… Così no… Le ascelle no!… Soffro il
solleticooooo!… […] Lasciatemi, ah… ah…, porto
dentro anche voi!!!
(Don Lollò) Questo è caso nuovo. Caso nuovo, che
deve risolvere l’avvocato. Vado da lui e torno. Il
calesse!!! Zi’ Dima, affacciatevi. Nell’interesse
vostro vado dall’avvocato… Io mi guardo il mio. E
prima di tutto per salvare il mio diritto, faccio il
mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la
giornata. Cinque lire. Testimoni tutti voialtri.
L’avvocato ci dirà come e quando uscirete.
Questo dialogo è ricco di spezzature, esclamazioni , ripetizioni (Calma! Calma! Calma!),
riprese lessicali (Ajuto? E che ajuto posso darvi io?), tipiche del parlato (Coveri, Benucci e
Diadori, 1998). È un dialogo a due che implica la presenza di un oggetto.
Mi fuma la testa: espressione idiomatica che sta ad indicare l’incapacità nel trovare la
soluzione al problema, quindi viene paragonata la tasta ad un motore che si surriscalda
quando viene sottoposto ad uno sforzo eccessivo. Io mi guardo i miei significa curare i propri
affari.
11. - Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non
brucia! La giara è mia!
”Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò
che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah
ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non
perderci la giara?"
- Ce la devo perdere? Il danno e lo scorno?
- Ma sapete come si chiama questo? Si chiama
sequestro di persona!
- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? S’è sequestrato
lui da sé! Che colpa ne ho io?
[…]
- Ah! Pagandomi la giara!
- Piano! Non come se fosse nuova, badiamo!
- E perché?
- Ma perché era rotta, oh bella!
- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana,
lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non
potrò più farla risanare. Giara perduta, signor
avvocato!
- Anzi fatela stimare avanti da lui stesso.
- Bacio le mani.
11. (Avvocato) Mi volete male, don Lollò! Mi sono
operato di appendicite cinque giorni fa. Se rido, mi
si riapre la ferita!… Ahi! Ahi!
(Don Lollò) Ma che c’è da ridere, scusi? A
vossignoria non brucia: la giara è mia…
(Avvocato) …quello ci si è cucito dentro… Ahi!
Ahi!… No basta…basta… E Voi per non perderla,
voi pretendete…te..tener…tenerlo là dentro?! Ahi!
Ahi!…[…] Ma sapete come si chiama questo?
Sequestro di persona!
(Don Lollò) E chi l’ha sequestrato?! Si è
sequestrato lui da sé!… Anzi: posso citarlo per
alloggio abusivo, signor avvocato. Gli mandi
l’usciere per lo sfratto.
(Avvocato) Aiuto! Ahi! Ahi!… ah! Ah… Mi si
riapre! Mi si riapre!
(Moglie avvocato) La prego, Don Lollò, torni
un’altra volta… Glielo avevo detto, oggi non era il
caso… La prego…
(Avvocato) No… no… Nunzia, fallo rimanere… Il
parere glielo posso dare. E che siamo?
Ragazzini?!… Voi, da parte vostra, Don Lollò
dovete liberare subito il prigioniero. Il
conciabroche, da parte sua, debe rispondere del
danno che ha cagionato con la sua storditaggine.
(Don Lollò) Pagandomi la giara!
(Avvocato) Piano! Non come se fosse nuova,
badiamo!
(Don Lollò) E perché?
(Avvocato) Ma perché era rotta, oh bella!
(Don Lollò) Nossignore. Ora è sana. Meglio che
sana, lo dice lui stesso.
31
(Avvocato) E che sia lui stesso allora a stimarla
davanti a tuti.
(Don Lollò) Bacio le mani, e mi scuso.
(Avvocato) Mi ha ammazzato! Mi ha ammazzato!
Ohi!…Ohi!… Riportatemi all’ospedale.
Nell’esempio 11: vossignoria è parola rara, dialettale, burocratica che significa Signoria
vostra (rivolgendosi a una singola persona in segno di deferenza) (Zingarelli). Vediamo anche
la ricorrenza di pronomi tonici e atoni: Ce la devo perdere, ed anche pronomi atoni in
posizione proclitica. Il danno e lo scorno: espressione idiomatica dove scorno letteralmente
significa vergogna, profonda umiliazione, cui spesso s’aggiungono beffe e ridicolo,
conseguenti a una sconfitta, un fallimento, un insuccesso (Zingarelli).
Nella sceneggiatura troviamo l’uso ripetuto delle parole, come tratto distintivo del parlato, per
esempio: basta basta, voi […] voi, tener tenerlo.
12.---
12. (Padre Jeli) Tu vai, Jeli. Qua finisco io. Casi per
ridere ne capitano pochi da queste parti. Al meno tu
non ti perdere questo.
13.- Ah! Ci stai bene?
- Benone. Al fresco. Meglio che a casa mia.
- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi
costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa
costare adesso?
- Come me qua dentro?
- Silenzio! Delle due l'una: o il tuo mastice serve a
qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a
nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa,
la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che
prezzo? Stimala tu.
- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col
mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non
mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù
lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi
puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua
dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto
valeva, sì e no.
- Un terzo? Un'onza e trentatré?
- Meno sì, più no.
- Ebbene. Passi la tua parola, e dammi un'onza e
trentatré.
- Che?
- Rompo la giara per farti uscire, e tu, dice
l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata:
un'onza e trentatré.
- Io pagare? Vossignoria scherza! Qua dentro ci
faccio i vermi.
- Ah, sì. Tu vuoi domiciliare nella mia giara?
Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non
pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché
vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo
e perché mi impedisce l'uso della giara.
13. (don Lollò) Se ne è andato?… […] Ah! Ci stai
bene nella mia giara?
(Zi’ Dima) Benone, al fresco. Meglio che a casa
mia. Ci ho preso gusto.
(don Lollò) Mi fa piacere. Non per niente mi è
costata quattro once e mezzo. Quanto credete che
possa ostare adesso?
(Zi’ Dima) Con me qua dentro?
(don Lollò) Ho parlato con l’avvocato!! Ho parlato
con l’avvocato. Delle due l’una: o il vostro mastice
non serve a nulla e allora voi siete un imbroglione –
o, serve a qualcosa e allora la giara così com’è deve
avere il suo prezzo. Qual è il suo prezzo? Stimatelo
voi, Zi’ Dima.
(Zi’ Dima) Così sconciata, con questi puntacci che
voi mi avete costretto a fare, vale un terzo di quello
che valeva… Sì e no…
(Don Lollò) Un terzo ? Passi la tua parola e dammi
un’oncia e trentatré!
(Zi’ Dima) Che?
(Don Lollò) Rompo la giara per farti uscire e tu –
come dice l’avvocato- me la paghi per quanto l’hai
stimata: un’oncia e trentatré.
(Zi’ Dima) Io pagare voi?! Vossignoria scherza?!
Se avessi usato solo il mastice, il mio mastice, non
sarei qua dentro. Voi mi ci avete comandato. Io non
ci volevo venire. E qua dentro ci faccio i vermi.
32
(Don Lollò) Questo l’avvocato non lo aveva
previsto… […] Ma davvero volete che la mia testa
vada in fumo?… Tanto mi volete male? […] Mi
- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto
forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne
vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo,
vossignoria!
- Vede che mastice?
- Pezzo da galera! Chi l'ha fatto il male, io o tu? E
devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo
chi la vince!
volete male, dunque! Ma mai, mai quanto ve ne
voglio io! …neanche lo immaginate: ve ne manca
la fantasia. E tu! Tu finirai in galera! Ti vuoi
domiciliar nella mia giara? Ti denuncio per alloggio
abusivo! Vuoi rimanere là dentro? Stacci. Ci
morirai di fame!
Nell’esempio 13: ci faccio i vermi, espressione dialettale col ci attualizzante con essere, avere
ed altri verbi (Coveri, Benucci e Diadori, 1998) nel parlato. Nella sceneggiatura un’altra
dislocazione a destra: chi l’ha fatto il male.
14.---
14.(Zi’ Dima) Con questo mangerò io e mangerete
voi! Andate e comprate quanto occorre per
mangiare e bere.
(Contadina) C’è troppo buio!
(Voce contadino) Venite! Spostatevi! Qua ci si
vede. È spuntata la luna.
(Contadino sull’albero) Dove?
(Voce contadino) Là, dietro la collina. Pare giorno.
(Voce Zi’ Dima) La voglio vedere anch’io, la luna!
(Zi’ Dima) Voglio vedere la luna! Trasportate la
giara più in là… […] Fatela girare! […] Così!…
così!… piano… Piano… Da quest’altra parte!…
Girate! […] Fermi! La vedo! La vedo! […] Ah!…
com’è bella!… quant’è che non la guardavo… Pare
un sole. […] Qualcuno canti! […] Ah! Ah! Ah!
(Don Lollò) Tenete, vecchio del diavolo! Andate a
rompervi il collo!
(Contadini) L’avete ucciso!
(Zi’ Dima) Voi l’avete rotta e io ho vinto!
33
Conclusione
Considero la mia tesi un misto tra analisi del pensiero e analisi del linguaggio.
Ho ritenuto necessario per questo, dare uno sguardo attento alla vita e alla poetica di
Pirandello, rendendo più comprensibile anche l’interesse che i Taviani hanno mostrato per il
pensiero filosofico ed esistenzialista di Pirandello. La poetica dello scrittore infatti per lo
spazio che ha dedicato alla sofferenza dell’uomo, a quella sua incapacità di adattabilità alla
vita ha suscitato e continua a suscitare grande interesse in altri autori e artisti.
Per quello che riguarda l’analisi del linguaggio, la tesi si é proposta di dare un quadro
generale sulle differenze essenziali tra linguaggio letterario e linguaggio cinematografico.
Nascono a questo scopo, nella Parte Seconda della Tesi, i paragrafi dedicati a: Come si scrive
una sceneggiatura, 2; Come nasce un’idea per un film, 3; Come si scrive un dialogo, 4. Nella
parte terza che si occupa da vicino delle differenze tra linguaggio scritto e parlato, possiamo
fare diverse osservazioni. Partendo dalla premessa che sia il dialogo all’interno della narrativa
che quello della scenografia sono stati costruiti apposta dall’artista per poter esprimere il
proprio pensiero e dar voce ai personaggi, esso così come si mostra al lettore cerca di
riprodurre la realtà. I dialoghi dei racconti di Pirandello esaminati nella tesi risultano più
brevi e concisi rispetto a quelli della scenografia; essi sono subordinati al racconto e alla
descrizione. Il cinema fa un uso più esteso dei dialoghi ponendoli al centro della scena. Nel
cinema si fa poco uso della voce narrante lasciando maggior spazio all’azione. Quindi il
dialogo all’interno della narrativa prende corpo a fatica nutrendosi dalla descrizione offertaci
da una voce narrante; vediamo anche come il dialogo nella sceneggiatura legato alla scena
come il teatro sente il bisogno di fare un quadro della situazione scenica: cioè ci indica chi
c’è sulla scena in quel momento, chi è che parla, ad es.: (primo pastore; secondo pastore; voci
pastori) e così via. Il dialogo Pirandelliano in fine mostra più dialettalismo di quello dei
fratelli Taviani che mi appare più italianizzato. Quest’ultimo essendo più copioso di parole
ci offre anche maggiori possibilità di analisi riportando più ampiamente le caratteristiche del
parlato: le pause, le ripetizioni, ecc.
Il dialogo filmico è più ricco anche nell’uso del vocativo: “Batá, Batá”, “Sidora sei tu? “, e i
personaggi parlano di più raccontando personalmente gli eventi.
Possiamo concludere dicendo che il dialogo, sia esso preso dalla scenografia, sia tratto da un
racconto può rappresentare tutte le caratteristiche del linguaggio del parlato, facendo uso dei
diversi registri a seconda di ciò che l’autore si propone di rappresentare.
34
Bibliografia
AA.VV., Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana, Laterza-Unedi, 1967.
AA.VV., Il cinema, Grande storia illustrata (Volume 7). Istituto geografico De Agostini,
Novara 1982.
AA.VV., Storia della letteratura Italiana (Volume VIII: Tra l’otto e il Novecento, cap XVII,
Luigi Pirandello, di Marziano Guglielminetti e Giovanna Ioli). Salerno editrice, 1995.
Battistrada L. e Felisatti M., Che cosa è una sceneggiatura. Fascicoli su Avvenimenti, 1992.
Bazzanella C., Sul dialogo, Guerini, Milano 2002.
Coveri L., Benucci A., Diadori P., Le varietá dell’Italiano, Bonacci Editore, Università per
stranieri di Siena, Roma 1998.
Dardano M., Manualetto di Linguistica Italiana. Zanichelli, Bologna 1996.
Dardano M. e Trifone P., Grammatica Italiana con nozioni di linguistica. Zanichelli, Bologna
1995.
Dondolino G., Storia del cinema dalla “nouvelle vogue” a oggi (Volume 3: Il cinema degli
anni sessanta). UTET, Torino 1996.
Ferroni G., Storia della Letteratura Italiana, (Il novecento) Einaudi 1991.
Guglielmino S., Grosser H., Il sistema letterario, Principato, Milano 1994.
Martins Areas A.: Pavese, tra lo scritto ed il parlato. 2002
http://www.dst.usb.ve/ameritalia/ar/letteratura/ossi1.htm
Pirandello L., Novelle per un anno. Grandi tascabili economici Newton, Roma 1993.
Pirro U., Per scrivere un film, Rizzoli 1982.
Taviani P. e V., con la collaborazione di Tonino Guerra, Kaos (sceneggiatura liberamente
ispirata da “Novelle per un anno” di Luigi Pirandello), Casa del Mantegna, Circolo del
Cinema di Mantova, 1997.
35
Indice
Prefazione
2
Parte Prima: Pirandello
1. Vita
3
2. Pirandello e la Sicilia
4
3. La formazione intellettuale di Pirandello
5
4. Novelle
6
5. Il dialetto all’interno della lingua standard
6
6. Pirandello ed il cinema
8
Parte Seconda: I Taviani e il cinema
1. Paolo e Vittorio Taviani
9
2. Come si scrive una sceneggiatura
10
3. Come nasce un’idea per un film
11
4. Come si scrive un dialogo
12
Parte Terza: La lingua di Pirandello e dei Taviani
1. Pirandello e i Taviani
15
2. Pirandello e il suo stile
16
3. Differenze tra scritto e parlato
16
4. Piccolo accenno alle differenze tra dialetto e regionalismo
18
5. Analisi dei dialoghi: regionalismi ed altro
19
Conclusione
34
Bibliografia
35
Indice
36
36