Eddie Rosner, il jazzista del gulag

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Eddie Rosner, il jazzista del gulag
Eddie Rosner, il jazzista del gulag
Scritto da Guido Michelone
Venerdì 24 Luglio 2009 00:00
Foto: Copertina Libro Natalia Sazonova
Chissà se, il primo settembre 1939, quando la Germania invade la
Polonia e scatena la Seconda Guerra Mondiale, Eddie Rosner avesse
optato per gli Stati Uniti invece dell'Unione Sovietica come nuova patria
adottiva, la storia della musica sarebbe potuta cambiare, prendendo
una piega diversa da quella attuale, sia per l'intera umanità sia per lo
stesso protagonista. Non lo si saprà mai, anche perché i fatti non si
possono mutare e purtroppo le scelte di Eddie Rosnes risultano tali che,
sua malgrado, verrà forse ricordato, a memoria futura, come la vittima
più assurda dei peggiori totalitarismi del XX secolo - Hitler e Stalin vissuti entrambi sulla propria pelle in maniera tragica e paradossale.
Forse il musicista, l'improvvisatore, lo swinger che già sul finire degli
anni Venti, nella Repubblica di Weimar, viene felicissimamente additato
come il "Louis Armstrong bianco", la Tromba d'Oro, magari negli States
avrebbe superato lo stesso Satchmo o forse non ce l'avrebbe fatta e
sarebbe finito nel dimenticatoio, seguendo lo stesso reale destino di
tanti suoi colleghi esuli: uno su tutti valga il caso dei Comedian
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Harmonists, un sestetto, un gruppo vocale simil-jazz che spopola
nell'Europa tra il 1926 e il 1933, ma che, in quanto formato per la metà
da ebrei tedeschi, deve emigrare proprio in America, dove una spietata
concorrenza a livello di uno show business, completamente diverso
rispetto allo scenario del Vecchio Continente, li rilegherà in ruoli di serie
B.
Non così accade per Eddie Rosner che l'URSS comunista accoglie a
braccia aperte: dopo i trionfi prima tedeschi e poi polacchi, al
trombettista ebreo tedesco si prospettano altri grandissimi successi in
Bielorussia, dove è già noto al pubblico di massa e dove la sua big
band serve a far conoscere il jazz dal vivo e soprattutto a rallegrare gli
spiriti, a ricaricarli in vista di una lunga ininterrotta battaglia contro
l'invasore nazista. Incoronato 're del jazz' dalla nazione di Stalin, Eddie
Rosner con l'orchestra, negli anni del conflitto, tra pericoli e sacrifici,
però assai ben ripagati in termini economici, gira in lungo e in largo il
territorio sovietico, diventando una macchina da spettacolo e al
contempo uno strumento di propaganda, che ben si confanno allo
spirito dell'epoca. E così è anche alla fine della guerra, quando la libertà
di fare, di vivere, di agire, di esprimersi, una volta sconfitti la croce
uncinata e il fascio littorio, sembrano a portata di mano anche sotto la
bandiera rossa con falce e martello. Ma l'illusione dura poco: Stalin e i
suoi collaboratori instaurano un clima di terrore e di sospetto che mira a
perseguire chiunque, costringendo migliaia di persone ad autoaccusarsi
attraverso confessioni fasulle, che conducono al patibolo o ai gulag.
E al campo di rieducazione in Siberia non sfugge nemmeno Eddie
Rosnes (come pure diversi suoi orchestrali di origine polacca) tacciato
di spionaggio e di comportamento antipatriottico per suonare una
musica - il jazz - che, con le ferree regole estetiche del realismo
socialista inventato da Zdanov per compiacere Stalin, è una forma
d'arte borghese, decadente, lasciva e capitalista. Ma la fama di Eddie
Rosner è tale che persino nel gulag si pretende da lui buona musica e
un'orchestra coi fiocchi: pur tra mille difficoltà riesce a mettere in piedi
una big band con la quale gira i campi di lavoro (o meglio di prigionia) di
una zona fredda e remota della Siberia orientale. Questa sorta di buona
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condotta gli consente una riduzione della pena e di tornare a Mosca,
dopo circa dieci anni, dove viene via via ribilitato come artista, quando
con Kruscev al potere, vengono denunciati i crimini di Stalin: è il
cosiddetto disgelo che, per Eddie Rosner significa poter suonare il jazz
e chiamarlo come tale, potersi aprire alle novità occidentali: e si vanta in
tal senso di essere il primo in URSS a fare rock and roll. La fama, mai
sopita, aumenta al punto che radio e televisione sovietiche non
possono fare a meno di lui nei programmi musicali.
E' insomma la Russia tra le fine dei Cinquanta e l'inizio dei Sessanta,
quando per la prima volta arrivano a suonare i jazzisti dall'America: e gli
incontri in camerino con Benny Goodman e con Duke Ellington, che si
ricordano perfettamente del Louis Armstrong bianco e della tromba
d'Oro, restano memorabili, benché controllatissimi dal potere: al
concerto di Goodman Eddie Rosner non viene ufficialmente invitato e
deve comparsi il costososissimo biglietto, all'incontro con Ellington i
poliziotti gli sequestrano dati e indirizzi per una futura collaborazione tra
lui e il Duca negli States. Anche Kruscev viene estrosmesso e il
sopravvento di Breznev fa ricadere l'Unione Sovietica in una cupa
autarchia dove a farne le spese è ancora Eddie Rosner con il jazz
(come il rock) di fatto vietato ufficialmente in pubblico, in quanto simbolo
di decadenza, perversione, immortalità, eccetera, eccetera. Il jazz torna
a essere clandestino, ma ormai Eddie Rosner vuole tornare a vivere
nella sua Berlino. Purtroppo gli ultimi anni di esistenza saranno diversi
dalle aspettative. Privato del gruzzolo raccolto durante gli anni sovietici,
viene pure depauperato del curriculum artistico e dei documenti
necessari per fornirgli una minima pensione nella Repubblica Federale
Tedesca; persino i tentativi di ottenere un risarcimento quale
perseguitato dalle leggi razziali falliscono; non c'è nemmeno chi pensa
a lui per un onesto revival o per una rivalutazione critica, essendo il
jazz, nella Germania degli anni Settanta, impegolato nell'avanguardia
oltranzista in lotta contro ogni linguaggio precedente il free.
Ed Eddie Rosner muore in solitudine, completamente dimenticato fino
a quando il francese presenta il film Le jazzman du goulag (1999), un
docu-drama di un'ora, partecipato e commovente: una voce fuori
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campo in chiave autobiografica (visualizzata altresì dalla mano che
appunta i ricordi) offre immagini documentarie (rare e curiose quelle del
jazz sovietico) e interviste ai sopravvissuti (colleghi, funzionari, moglie e
figlia); è quasi un'opera speculare a quella dell'inglese John Jeremie,
Swing Under The Swastika (1988), che racconta dei jazzmen nella
Germania di Hitler e in genere sotto l'occupazione nazista. Ora tocca, a
onorarne la memoria, al libro Il jazzista del gulag (2008) di Natalia
Sazonova, edito da L'Ancora del Mediterraneo, il cui sottotitolo La
straordinaria vita di Eddie Rosner tra Hitler e Stalin è già di per sé
eloquente; costruito a mosaico, con i dodici capitoli chiamati con gli
appellativi che di volta il volta il protagonista si dà per avere successo o
sfuggire alla persecuzione o esaltare una fiera identità (Adolf, Jack,
Ady, Eddie Ignatevic, Edy Rozner, Zek, Mr. Smiling, Pinhas Ben Hzak),
il libro mette soprattutto in luce il lato ottimista e resistente del
personaggio, informando però come purtroppo della sua musica non
resti quasi nulla: le molteplici registrazioni radiotelevisive in Urss
vengono tutte cancellate per farne svanire il ricordo secondo i metodi
staliniani, mentre le lastre per le radiografie usate clandestinamente al
posto del nastro o del vinile sono ancor oggi un mistero insoluto, anche
perché manca ancora una ricerca sistematica sull'opera, la musica
l'arte di Eddie Rosner; ma nel frattempo, a mo' di conclusione, vengono
in mente le parole del romanziere boemo Josef Skvorecky nel
capolavoro Il sax basso (1967): "Il jazz è sempre stato un bastone nel
deretano di tutte quelle sanguisughe che, da Hitler a Breznev, si sono
alternate al potere nella mia terra natia".
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