GIUSTO PROCESSO E PROCESSO TRIBUTARIO

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GIUSTO PROCESSO E PROCESSO TRIBUTARIO
GIUSTO PROCESSO E PROCESSO TRIBUTARIO
A.
Premessa
Origine storica della modifica all’art. 111 Cost.
Inserimento dei principi sul giusto processo”), pur
positivizzando principi valevoli per ogni processo (co. 1 e 2 art. 111 Cost.), origina dalla reazione politicoparlamentare alla stagione (1992-1995) di interventi della Corte costituzionale sul c.p.p. del 1988,
caratterizzati da una certa tendenza al ripristino di principi lato sensu inquisitorii (v. sentt. n. 254/92
dichiara l’incostituzionalità dell’art. 513, co. 2, cpp nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le
parti, disponga la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato in procedimento connesso alla
P.G., al P.M. o al GIP, ove questi si rifiuti di rispondere nel corso del dibattimento; e n. 60/95, che dichiara
l’incostituzionalità dell’art. 513, co. 2, ove non prevede che analogo effetto possa aversi anche nel caso di
dichiarazioni assunte dalla P.G: su delega del P.M.)
A.1
A.2
Il “giusto processo” e il ruolo del nuovo art. 111 Cost.
“giusto processo”),risale però a molto prima della sua positivizzazione ad opera della riforma del 1999, ed
è frutto dell’influenza del principio angloamericano del c.d. due process of law (positivizzato già nella
costituzione federale nordamericana del 1787), e, più ancora, dell’art. 6 CEDU sul diritto all’equo
processo.
Italia, il riconoscimento dell’esistenza della garanzia costituzionale del giusto processo
ad opera della Corte cost., è intervenuto ben prima della modifica all’art. 111 Cost. (per lo più in
capo penale, in relazione al diritto di difesa in rapporto all’imparzialità del giudice; si v., ad es. sent. n.
131/1996: “Il "giusto processo" - formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine
tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa
in giudizio - comprende l'esigenza di imparzialità del giudice: imparzialità che non è che un aspetto di quel
carattere di "terzietà" che connota nell'essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del
giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l'effettività del diritto di
azione e di difesa in giudizio”).
esplicitano
garanzie soggettive (ossia relative all’effettivo esercizio del diritto d’azione e difesa) e oggettive (inerenti
gli organi cui è deputata la funzione giurisdizionale) già presenti nel sistema costituzionale, e ricavabili
dagli artt. 3, 24, 25, 101-113 Cost. Con il che non si intende condividere la posizione di quanti (Chiarloni)
hanno affermato l’inutilità della modifica all’art. 111 Cost. Se è vero, infatti, che a quasi tutti (o proprio tutti)
i significati precettivi si poteva giungere appieno già in forza, soprattutto, dell’art. 24 Cost., non di meno le
esperienze applicative invalse – e spesso tollerate – non vi giunsero, o comunque non in modo adeguato
e soddisfacente, sicché un “rafforzamento deontico” di quei principi non può che essere salutato
con favore.
B.
“Il giusto processo regolato dalla legge” del co. 1 art. 111 Cost.
B.1
Diverse interpretazioni del significato della riserva di legge:
svuota di significato la garanzia costituzionale;
eccessivamente rigida che voterebbe all’incostituzionalità molta parte dei modelli processuali (primo fra
tutti il rito sommario di cognizione) che si caratterizzano per ampi poteri di direzione ed organizzazione del
giudice;
– a prescindere dal grado di analiticità della
disciplina – assicura che siano rispettate le garanzie del co. 2 art. 111 Cost. (COMOGLIO): così
ragionando si escludono dalle garanzie che devono informare il giusto processo una serie di principi che
pure trovano copertura costituzionale (motivazione; giudice naturale, etc.).
Interpretazione preferibile: è una formula che si presta ad essere riempita di contenuti
variabili (ed incrementabili) in ragione dei valori condivisi nel sentire sociale in un dato momento storico.
Corollario: quale clausola generale il “giusto processo regolato dalla legge” si pone quale strumento utile
1
per gli interpreti (in particolare per la Corte cost.) per veicolare nella disciplina processuale il rispetto di
valori sentiti come canoni del giusto processo ulteriori rispetto a quelli espressamente positivizzati nella
Cost., e dunque consente il costante adeguamento del sistema di garanzie costituzionali
all’evoluzione del comune sentire.
B.2
Applicazioni concrete (e problematiche)
Il principio di pubblicità delle udienze.
(a) Il progetto dell’assemblea costituente del 31.1.1947 prevedeva l’inserimento, all’art. 101 Cost., di
questo 2 co. “le udienze sono pubbliche, salvo che la legge, per ragioni di ordine pubblico o di moralità,
disponga altrimenti”. Comma poi non introdotto perché ritenuto rappresentativo di un principio già
desumibile dal co. 1 (la giustizia si esercita in nome del popolo).
(b) L’applicazione di questo principio ad opera della Corte cost. risulta invero coerente con l’idea
del Costituente. In più occasioni la Corte cost. ha rigettato per infondatezza/inammissibilità la q.l.c. di
disposizioni (per lo più relative a riti camerali) che escludevano la pubblicità delle udienze, in ragione di
ciò, che “quello della pubblicità è un principio che non può considerarsi assoluto, ma può subire
eccezioni”. V. sent. 543/1989: infondata la q.l.c. per violazione degli artt. 3 e 101 Cost., del procedimento
camerale di appello delle sentenze che pronunciano la separazione personale o lo scioglimento del
matrimonio; sent. n. 235/1993, inammissibile la q.l.c. in relazione al giudizio di impugnazione delle
sanzioni disciplinari a carico dei giornalisti, perché “in questo particolare procedimento possono venire in
discussione la stessa dignità umana e alcuni aspetti della vita di relazione del giornalista, per cui
l’applicazione del principio di pubblicità non può essere assoluta ed incondizionata ma può essere
necessario il bilanciamento dei vari interessi in gioco; in particolare, di quelli che fanno capo allo stesso
giornalista e di quelli relativi alla garanzia del controllo della pubblica opinione sullo svolgimento del
procedimento”.
Utilizzo diretto della formula del “giusto processo” ad opera del legislatore: il nuovo art. 360-bis,
co. 2: “il ricorso è inammissibile … quando è manifestamente infondata la censura relativa alla
violazione dei principi regolatori del giusto processo”. Problema interpretativo, possibili soluzioni:
a) Si riferisce solo alle censure che in concreto deducano una violazione (manifestamente insussistente)
dei principi regolatori del giusto processo (in concreto poco “filtrante”);
b) ogni motivo ex n. 4, 360 dovrà dedurre violazioni dei principi regolatori del giusto processo, pena
l’inammissibilità (interpretazione a rischio di incostituzionalità ex art. 111, co. 7);
c) interpretazione maggiormente convincente: si riferisce agli error in iudicando de iure procedendo
commessi dal giudice d’appello su un error in procedendo commesso dal giudice di I grado, nel
qual caso si potrebbe ritenere che l’errore potrà assumere rilevanza ai fini della decisione della lite, solo se
davvero lesivo di una delle garanzie costituzionali (positivizzate o veicolate attraverso la formula generale)
del “giusto processo”.
C.
Le garanzie o principi regolatori del giusto processo del co. 2 dell’art. 111 Cost.
C.1
Il principio del contraddittorio e della parità delle armi
assicurato non solo al convenuto, ma anche all’attore nei confronti delle difese del convenuto, e ad
entrambe le parti nei confronti di possibili iniziative officiose del giudice.
diritto di ciascuna parte di poter (ove lo voglia) concorrere alla formazione della
decisione, che risulterà così mediamente più giusta (perché frutto dell’apporto delle parti e del dialogo
trilaterale attore-convenuto-giudice) e pure mediamente più socialmente accettabile.
L’effettività del contraddittorio, aspetti più rilevanti:
(a)
in relazione alla prova, quale diritto delle parti di concorrere alla formazione del convincimento
del giudice introducendo prove nel processo a fondamento delle loro ragioni; ma pure quale diritto alla
controprova, sia rispetto alle prove proposte dalla controparte, sia rispetto ad eventuali iniziative istruttorie
ufficiose (costituzionalmente accettabili solo se sulle stesse viene dato spazio difensivo alle parti). Più in
generale, diritto delle parti di poter conoscere ed argomentare sull’impianto probatorio che verrà posto a
base della decisione.
(b)
In relazione alle questioni rilevabili d’ufficio, quale diritto delle parti di conoscere tutti gli
elementi sui quali la decisione si formerà (o potrebbe formarsi), e di poter contraddire sugli stessi (sia
deducendo, che provando). Il diritto al contraddittorio investe sia (e soprattutto) la valorizzazione degli
elementi fattuali, sia la loro qualificazione giuridica (quantomeno ove la stessa risulti davvero
“nuova”). Nuovo art. 101, co. 2 c.p.c.: strumento residuale di recupero del contraddittorio non
2
tempestivamente instaurato (ex art. 183 c.p.c.). Merito principale: espressa previsione del vizio (nullità, pur
se peculiare perché sanabile per emersione di mancanza di scopo dell’atto omesso, similmente all’art.
156, co. 3) della sentenza c.d. “della terza via”; questione in passato assai dibattuta e variamente risolta.
(c)
In relazione ai procedimenti che prevedono un contraddittorio differito (provvedimento
monitorio e cautelari inaudita altera parte), i quali risulteranno rispettosi della garanzia costituzionale del
contraddittorio solo se la possibilità, per la parte inizialmente privata di tale diritto, di esercitare il
contraddittorio venga ugualmente riconosciuta (pur solo se in via eventuale, come nel caso del
procedimento monitorio, ove comunque la mancata concreta attivazione del contraddittorio,
derivando da una scelta della parte stessa, risulta ugualmente socialmente accettabile).
C.2
Il giudice terzo ed imparziale
dell’esatta decisione, ma – come il (ed ancor più del) principio del contraddittorio – è elemento fondante
la stessa accettabilità dell’esperienza processuale.
l’equidistanza dai soggetti della lite; la sentenza suggerisce di guardare anche agli interessi sottesi la lite
ed alle posizioni assunte – in diritto ed in fatto – dalle parti). Tuttavia nel contesto dell’art. 111 Cost. (e
pure 6 CEDU) le due espressioni sono impiegate in modo rafforzativo l’una dell’altra, e sono tese
ad introdurre un certo rilievo non solo all’effettiva non equidistanza del giudice, ma anche
all’apparenza di non equidistanza (purché scorgibile da un osservatore di buonafede). V. sent.
Corte Europea dei Diritti dell’uomo, 26.10.1984, Cubber, che sottolinea come il concetto di
“imparzialità” vada inteso sia in senso soggettivo (e rileverà allora l’effettiva parzialità del giudice, che va
dimostrata), ma pure in senso oggettivo (sicché assumono rilevanza anche quelle condizioni esteriori, e
dunque, le apparenze, che possano pregiudicare l’amministrazione della giustizia).
La garanzia dell’art. 111, co. 2 Cost., si intreccia con quelle della “precostituzione” e del “giudice
naturale” di cui all’art. 25 Cost., le quali pure sono tese, seppur sotto altri profili, a tutelare l’equidistanza
del giudice dalle parti e dalla lite. In particolare la precostituzione assicura al cittadino che l’organo
giudicante cui è devoluta la cognizione della lite sia individuato in base a criteri generali fissati in anticipo;
più pregnante – per quel che qui rileva – è la garanzia del giudice naturale, che assicura al cittadino che
anche il singolo giudice-persona fisica cui sarà devoluta la lite sia individuato in base a criteri prefissati
dalla legge, generali ed astratti rispetto al caso di specie.
La ricaduta principale della garanzia di cui all’art. 111, co. 2 Cost., sia ha, per il processo
civile, in relazione alla disciplina codicistica della astensione e ricusazione del giudice.
L’esplicitazione, all’art. 111 co. 2 Cost., della imprescindibile imparzialità e terzietà del giudice ha voluto
significare la doverosità di una maggiore attenzione al trattamento positivo (non solo statico, ma pure nella
dinamica del processo) dei rimedi da apprestare a tutela di questo valore dell’equidistanza del giudicante,
riconosciutamente essenziale in astratto, ma tante volte rivelatosi un poco compresso se calato ed
osservato nell’esperienza giuridica concreta.
Ne è dimostrazione il modo in cui viene guardata la disciplina dell’astensione e ricusazione del giudice
(artt. 51 e ss. c.p.c.), con mentalità un poco refrattaria all’esigenza di una applicazione elastica dei motivi
ivi elencati, in chiave di non scolastica effettività della tutela. Elencazione che risulta ad oggi certo
insoddisfacente (già prima, ma ancor più dopo la modifica dell’art. 111 Cost.), e che impone quindi uno
sforzo ricostruttivo che consenta talvolta una applicazione estensiva o ristrutturatrice di arcaiche figure,
talaltra un’applicazione sensatamente restrittiva. Con particolare attenzione alle situazione che in concreto
possono (oggi più di ieri) affacciarsi (ad es. la precostituzione del giudice potrebbe derivare dall’aver già
preso espressa posizione – in veste di interprete – sulla questione a lui sottoposta).
Altro profilo che viene in rilievo in relazione alla garanzia dell’equidistanza, è quello della
compatibilità con essa delle previsioni delle previsioni di tutela ufficiosa di diritti soggettivi (art.
2907 c.c.). La risposta fornita dalla giurisprudenza costituzionale è nel senso della compatibilità, sia nei
casi-limite che derogano al principio di alterità dell’azione, sia in quelli nei quali la deroga riguarda
il principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (ossia in quei casi nei quali vengono adottati
provvedimenti, nel corso di un processo pur instaurato dalla parte, ma volti al conseguimento di un diverso
provvedimento: es. art. 155 e 268 c.c., provvedimenti sui figli contestuali alla pronuncia di separazione, e
provvedimenti nell’interesse del figlio pendente il giudizio di impugnazione del riconoscimento). Nella
prima categoria l’ipotesi più eclatante era quella della dichiarazione d’ufficio del fallimento ex art. 6 l. fall.
(venuta meno con la riforma del 2005). Secondo la Corte cost. (sent. n. 240/2003) tale previsione non
ledeva il principio di imparzialità-terzietà del giudice di cui all’art. 111, co. 2, Cost., perché anche qui il
3
giudice conservata la sua veste super partes ed equidistante, posto che la notizia della decozione non
veniva direttamente acquisita dal giudice fallimentare, ma emergeva nel corso di un processo civile, ed a
quello veniva riferita.
C.3
La ragionevole durata del processo.
è proprio la sua incapacità di garantire la ragionevole durata.
non solo all’art. 6 CEDU, ma pure da parte della giurisprudenza costituzionale, che lo ricavava già dall’art.
24 Cost. (v. sent. 388/1999: “il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi, garantito
dall’art. 24 Cost., implica una ragionevole durata del processo, perché la decisione giurisdizionale alla
quale è preordinata l’azione, promossa a tutela del diritto, assicuri l’efficace protezione di questo e, in
definitiva, la realizzazione della giustizia”. E sent. n. 345/1987: “quelle finalità complementari,
rappresentate dall’interesse ad un’ordinata amministrazione della giustizia, e al compimento dei processi
entro un termine ragionevole, sono sempre, in definitiva, in funzione del principio della realizzazione della
giustizia. Una giustizia disordinatamente o tardivamente amministrata può non essere meno
pregiudizievole dell’ingiustizia”).
moltissimi ricorsi dei cittadini italiani), ossia la Legge Pinto, – attraverso una dinamica di “risarcimenti a
pioggia” – ha aggravato la situazione. Con il meccanismo previsto si sono infatti sottratte risorse umane
(magistrati) ed economiche (il “tesoretto” della Pinto) che avrebbero potuto e dovuto essere impiegate per
risolvere il problema (e non “rattoppare” il sistema).
Questione comunque centrale è quella di come va valutata la (ir)ragionevole durata del
processo. Si dovrebbe guardare, e così risarcire, solo quei casi che rappresentano una effettiva
sproporzione rispetto non ad utopiche tempistiche decise sulla carta, ma alla situazione mediamente
“sopportata” dai consociati; perché non vi è irragionevolezza (o almeno irragionevolezza tale da
giustificare il “risarcimento”), se non vi è sproporzione e così disparità tra cittadini.
D.
Le altre garanzie del giusto processo sancite dall’art. 111 Cost.
D.1
La garanzia del ricorso straordinario per Cassazione: art. 111, co. 7
La copertura costituzionale attiene non al doppio grado di giudizio di merito, ma al controllo di
legittimità di tutte le sentenze (in senso sostanziale, quale provvedimento che decide su diritti) emesse in
unico grado, per i cinque motivi di legittimità, appunto, di cui all’art. 360. Questa conclusione ora
confermata dall’art. 360, co. 4 (inserito dalla riforma del 2005), reazione all’orientamento della Corte cost.,
che, a partire dal ’92, interpretava restrittivamente il riferimento alla “violazione di legge” escludendo dal
novero dei vizi denunciabili ex art. 111, co. 7, ad es., quelli previsti dall’art. 360, n. 5 (salvo l’ipotesi di
motivazione omessa o palesemente illogica).
La circostanza che non sia invece costituzionalmente sancito il diritto al doppio grado di
merito non esclude in assoluto che in un futuro una tale esigenza sia sentita come coessenziale al
“giusto processo”, e così eletta a rango di principio, grazie alla clausola di apertura di cui all’art.
111, co. 1 Cost. Tuttavia ad oggi si conferma la valutazione di compatibilità costituzionale
dell’esclusione del secondo grado di giudizio (come dimostra la delega per la semplificazione e
riduzione dei riti, che imponeva al delegato di mantenere ferme le peculiarità dei procedimenti da
ricondurre ad uno dei tri riti, tra le quali peculiarità spicca anche la inappellabilità del provvedimento reso
all’esito del giudizio).
D.2
La garanzia della motivazione
provvedimenti giurisdizionali, ossia idonei ad incidere su diritti (indipendentemente dalla forma in concreto
assunta: ad es., il provvedimento conclusivo del rito sommario di cognizione è un’ordinanza, ma non si
può dubitare che il grado di analiticità della motivazione sia quello che dovrebbe avere una sentenza,
stante l’idoneità dell’ordinanza al giudicato ex art. 2909 c.c.: art. 702-ter c.p.c.).
La motivazione del provvedimento ha anzitutto rilevanza interna al processo nel corso del
quale viene pronunciato, sia ai fini della valutazione di correttezza della decisione resa (nell’ottica di una
sua impugnazione), sia in vista del controllo del rispetto delle altre garanzie fondamentali del giusto
processo (diritto al contraddittorio, ma pure imparzialità e terzietà del giudice).
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La motivazione ha però altresì rilevanza “esterna” al processo nel quale il provvedimento
viene reso, ad esempio per valutare l’applicabilità al caso di specie di un principio di diritto enunciato dalla
S.C., anche nell’ottica di valutare la ammissibilità (recte: non manifesta infondatezza) del ricorso ex art.
360-bis, n. 1. Viene così in evidenza la necessità di porre in luce, nella motivazione, non solo le ragioni
giuridiche sulle quali si fonda, ma anche i fatti di causa. L’esposizione delle ragioni di fatto (al pari di
quelle di diritto), per quanto “coincisa” (come consente l’art. 132, n. 4, riformato dalla novella del 2009
alla luce della prassi giudiziaria, peraltro), non potrà mai essere eccessivamente sintetica e così tale
da non consentire di operare il raffronto necessario raffronto tra situazioni fattuali.
PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO E PROCESSO TRIBUTARIO
A.
Principi del giusto processo e processo tributario nella Costituzione e nella CEDU
L’art. 111 Cost., come novellato, si riferisce ad “ogni processo”, sicché non vi è dubbio che le
garanzie ivi previste debbano trovare (ma v. oltre per alcuni profili problematici) applicazione anche al
processo tributario (tutta la dottrina è concorde).
Più problematico il rapporto tra processo tributario e CEDU. In un primo momento la Corte
Europea dei diritti dell’uomo mostra di non ritenere applicabili i principi di cui all’art. 6 della CEDU al
processo tributario (sent. 12.7.2001, Ferrazzini c. Italia: “la Corte ritiene che la materia fiscale fa ancora
parte del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura pubblica del rapporto tra il
contribuente e la collettività resta predominante”); qualche maggior apertura (seppur in relazione solo al
contenzioso che verta sull’irrogazione di sanzioni che rivestano carattere “penale” ai sensi della CEDU), si
è avuta con la sent. 23.11.2006, Jussilia c. Francia, ove – proprio in relazione all’esclusione della prova
testimoniale nel processo tributario (v. oltre) – la Corte ha statuito che “l’assenza di pubblica udienza o il
divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo
solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul
piano probatorio, non altrimenti rimediabile”.
Nel nostro ordinamento, ove l’obbligazione tributaria non viene ricostruita in termini di soggezione
dell’individuo ma di solidarietà sociale, e così alla luce del principio di capacità contributiva, il merito
dell’art. 111 Cost. (pur se reiterativo di principi già desumibili dall’ordinamento costituzionale) è di
aver ribadito che il processo è giusto quando, nel contraddittorio delle parti, in posizione di parità,
viene accertato il tributo giusto, ossia quello conforme al principio di capacità contributiva.
B.
I principi del giusto processo positivizzati dall’art. 111 Cost., in rapporto al processo
tributario
B.1
Il principio del contraddittorio e della parità delle armi
Già prima della modifica dell’art. 111 Cost., era riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale
che la garanzia generale del contraddittorio e della parità delle armi operasse anche nel processo
tributario.
Tuttavia, assai problematico risulta tutt’ora l’articolarsi del principio del contraddittorio e della parità
delle armi in relazione alla prova; essenzialmente sotto due distinti profili.
(a)
Anzitutto viene in rilievo l’ammissibilità dell’acquisizione e dell’utilizzazione, nel processo
tributario, di materiali probatori formatisi aliunde. Problema particolarmente sentito perché assai
spesso il processo tributario origina da altri procedimenti. Per risolverlo si deve partire dalla constatazione
che il rispetto del contraddittorio nella formazione della prova è sancito, dall’art. 111 Cost., solo con
riguardo al processo penale. Ne discende, in linea di principio, l’ammissibilità dell’utilizzazione di
materiale probatorio proveniente da altro processo (ad es., le dichiarazione di terzi rese alla P.G.). Il
rispetto del principio del contraddittorio impone, in questi casi, che al contribuente sia
riconosciuta la possibilità di controbattere su tali materiali probatori (così Corte cost., n. 18/2000,
che esclude la violazione del diritto al contraddittorio, in ragione non solo della possibilità per il
contribuente di contestare le risultanze di tali materiali, ma altresì in ragione del fatto che il loro valore
probatorio è indiziario, sicché non potranno valere quale unica fonte del convincimento del giudice). Ad
equilibrare ulteriormente la posizione delle parti (nell’ottica, dunque, della rispetto della garanzia della
parità delle armi) è intervenuta poi la S.C. (Cass. n. 2942/2006) che ha precisato che “nel processo
tributario, com’è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese dai terzi agli organi dell’Amministrazione
finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente – e fermo il divieto di ammissione della prova
testimoniale – con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, va del pari necessariamente
riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede
5
extraprocessuale (dichiarazioni sostitutive di atto notorio) dando così concreta attuazione ai principi del
giusto processo riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, per garantire il principio della
parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa”.
(b)
Profilo assai più cruciale (che si ricollega più in generale alla tematica del giusto processo, ma che
attiene anche al particolare diritto al contraddittorio, inteso quale diritto di concorrere alla formazione della
decisione giudiziale) è quello della costituzionalità del divieto di prova testimoniale sancito dall’art. 7,
co. 4 D.lgs. 546/1992.
#
La incostituzionalità di tale divieto, in relazione sia al principio della parità delle armi, sia al diritto di
difesa, è da sempre esclusa dalla Corte cost., che ha più volte ribadito che va escluso che il
divieto di prova testimoniale possa collidere con il principio di parità delle armi, che
rappresenta l’espressione in campo processuale del principio di uguaglianza. E ciò perché
tale divieto trova una “non irragionevole giustificazione” nella spiccata specificità del processo
tributario rispetto a quello civile e amministrativo, e perché il processo tributario è ancora, specie
sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale (v. Corte cost., sent. 141/1998; sent.
18/2000). Quanto al diritto di difesa, è costante l’affermazione per cui “l’esclusione della prova
testimoniale nel processo tributario non costituisce di per sé violazione del diritto di difesa, potendo
quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento da parte del giudice, essere diversamente
regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei
singoli procedimenti” (Corte cost., sentt. n. 128/1972; 6/1991; 76/1989; 18/2000).
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Sulla scia della giurisprudenza costituzionale si pone anche quella di legittimità; deve però
segnalarsi una possibile, marginale, apertura, segnata da Cass. 21233/2006, che ha statuito
che se il contribuente dimostri di essere nell’impossibilità di acquisire i documenti contabili la cui
tenuta è obbligatoria, non per questo è esonerato dall’onere della prova, sicché in questo caso –
pena il mancato assolvimento degli oneri probatori – dovrà formulare istanza di testimonianza
ex art. 2724, n. 3) c.c.
#
Altra apertura potrebbe essere veicolata, nel nostro sistema, dalla già citata sentenza della
Corte Europea dei Diritti dell’uomo 23.11.2006 Jussilia c. Finlandia, la quale – pur
riconoscendo in via generale la compatibilità dell’esclusione della prova testimoniale nel processo
tributario con le garanzie dell’art. 6 CEDU – l’ha subordinata alla circostanza che “da siffatti
divieti non derivi un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano
probatorio, non altrimenti rimediabile”. A fronte di tale statuizione l’incostituzionalità dell’art.
7, co. 4, potrebbe tra l’altro essere ventilata non solo in relazione all’art. 111 Cost. (e 24 Cost.), ma
anche in relazione all’art. 117, co. 1 (paramentro di riferimento alla luce del quale valutare la
conformità alla CEDU della legislazione nazionale), posto che la previsione non consente alcuna
valutazione in ordine alla concreta necessità di assunzione della prova testimoniale (come invece
indicato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo).
B.2
Il giudice terzo e imparziale
La peculiare composizione delle commissioni tributarie, ed in particolare il fatto che il loro
componenti siano (a) retribuiti dal Ministero delle finanze ed assistiti da personale amministrativo
inquadrato in tale ministero, e, soprattutto, (b) non siano giudici professionali, rappresentano profili di
criticità alla luce dei principi costituzionali dell’imparzialità e terzietà del giudice. La tematica è assai
complessa, e difficilmente riassumibile, ma certamente avvertita. Lo dimostra anche la recente
(problematica) modificazione dell’art. 8 D.lgs. 545/1992 (“Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione
tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione”) dedicato alle incompatibilità con la funzione di
componente di CT.
Riassumiamo brevemente le innovazioni susseguitesi: art. 39 D.L. n.98/2011, prevedeva da un
irrigidimento delle incompatibilità (derivanti, ad esempio, dalla sola iscrizione ad albi professionali, pur se
la relativa professione non venisse esercitata), ma dall’altro apriva la possibilità di partecipazione alle CT
ad avvocati dello Stato (ancora in servizio) e per ispettori tributari. Con la legge di conversione n. 111/2011
(nonché i successivi interventi ad opera del d.l. n. 138/2011 e della leggi di conversione n. 148/2011) vi è
stato peraltro un parziale dietro-front, prevedendo che l’incompatibilità per il professionista non scatti per la
sola iscrizione ad albi professionali, ma dall’esercizio di attività in materia tributaria, bilancistica o
contabile.
C.
Giusto processo e tutela cautelare
Questione problematica, rispetto alla quale è stata più volte sollevata questione di legittimità
6
costituzionale (sempre rigettata dalla Consulta) è relativa all’interpretazione prevalente (pur se non
manca qualche voce contraria di alcune CT, che fa leva essenzialmente sugli artt. 24 e 3 Cost.) dell’art.
49 d.lgs. 546/1992, che, escludendo l’applicazione dell’art. 337 c.p.c. al procedimento di appello nel
contenzioso tributario, pare negare l’operatività delle disposizioni del c.p.c. relative alla
sospensione della provvisoria esecutività della sentenza (in appello e cassazione).
Nella vigenza del DPR 602/1973, unica possibilità per il contribuente era quella di richiedere la
sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato in via amministrativa (sicché la sospensione
era una mera facoltà dell’Amministrazione Finanziaria a fronte dell’istanza del contribuente: art. 39). L’art.
47 d.lgs. 546/1992 prevede invece la possibilità di chiedere alla CT la sospensione dell’esecuzione del
provvedimento impugnato, secondo i requisiti tipici della tutela cautelare: fumus boni iuris e periculum in
mora. La misura eventualmente concessa perde efficacia con la pronuncia della sentenza.
La illegittimità costituzionale della mancata previsione (secondo l’interpretazione prevalente
dell’art. 49) della possibilità di concedere la misura cautelare della sospensione nel corso del giudizio di
appello, è stata sempre esclusa dalla Corte cost. in ragione di ciò, che “la garanzia costituzionale della
tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una
pronuncia di merito che accolga - con efficacia esecutiva - la domanda, rendendo superflua l'adozione di
ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo con cognizione piena la sussistenza del
diritto e dunque il presupposto stesso della invocata tutela. Con la conseguenza che la previsione di mezzi
di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive a siffatta pronuncia, in favore della parte soccombente
nel merito, deve ritenersi rimessa alla discrezionalità del legislatore” (sent. n. 165/2000; ordd. N. 217/2000
e 325/2001).
Una possibile apertura verso il riconoscimento della tutela cautelare anche nel corso delle fasi di
impugnazione, può però forse riscontrarsi in Corte cost., ord. n. 119/2007, che dichiara la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 49 “anche perché oggetto del
provvedimento di sospensione non potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l'impugnazione,
bensì semmai il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata in primo grado”. Tale
pronuncia, che pur ribadisce l’impostazione per cui la sentenza di primo grado [recte: l’eventuale
sua efficacia], stante il tenore letterale dell’art. 49 D.lgs. n. 546/1992, non può essere sospesa dal
giudice di appello, nel sottolineare che oggetto del provvedimento di sospensione potrebbe
semmai essere il provvedimento impositivo, potrebbe consentire di sostenere l’operatività diretta
dell’art. 47 D.lgs. 546/1992 (sulla sospensione dell’esecuzione del provvedimento impositivo), in ragione
del rinvio alle norme del I grado (in quanto applicabili) operato dall’art. 61 D.lgs. 546/1992.
D.
Il nuovo reclamo-mediazione e i principi costituzionali
Nuovo art. 17-bis d.lgs. 546/1992 (introdotto dal d.l. n. 98/2011, convertito con legge n. 111/2011,
ed applicabile agli atti impositivi notificati a partire dal 1.4.2012) introduce un nuovo strumento deflattivo (in
uso con successo in Spagna, Francia e Germania), che consiste in un procedimento amministrativo
paraprocessuale. Si tratta dell’obbligo per il contribuente (a pena di inammissibilità del ricorso alla CT) che
intenda impugnare uno degli atti previsti dall’art. 19 d.lgs. 546/1992 (e così solo dell’AF) di valore inferiore
ai 20.000 euro (si tratta del 70% delle cause) di svolgere preliminarmente reclamo all’AF.
e automaticamente in ricorso (ed
inizieranno così a decorrere i termine per la costituzione in giudizio); il contenuto del reclamo non sarà
modificabile, sicché esso dovrà sin da subito contenere tutti i motivi-vizi dell’atto (pena la preclusione della
successiva loro proposizione). Corrispondentemente l’AF non potrà, una volta ricevuta la notifica del
reclamo, più modificare la motivazione dell’atto impositivo (ad es. annullandolo in via di autotutela, per poi
emetterne uno nuovo in base alle doglianze del contribuente), salvo che non si addivenga ad una
mediazione concordata.
non si svolge davanti ad un soggetto terzo, ma ad un Ufficio dell’AF stessa (ufficio che sarà
comunque dotato di autonomia, e diverso rispetto a quello cui è affidata l’istruttoria dell’atto).
Questo ufficio potrà fare ricorso all’autotutela, determinando – d’accordo con il contribuente – la pretesa
tributaria nel suo ammontare (secondo i criteri del grado di sostenibilità della pretesa; dell’incertezza della
questione e del principio di economicità dell’azione amministrativa). Si pone quindi una prima questione
di compatibilità costituzionale della disciplina, in relazione al principio di indisponibilità della
pretesa tributaria (art. 53 Cost.), principio che comunque si ritiene ammissibilmente derogabile se
la discrezionalità nella determinazione del quantum è finalizzata ad una maggiore economicità
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dell’azione amministrativa.
Altri profili di criticità della disciplina alla luce dei principi costituzionali:
(a)
il reclamo non sospende l’esecutività dell’atto, sicché – nel lasso di tempo previsto per la
procedura – l’AF potrebbe portare l’atto ad esecuzione senza che al contribuente sia data la possibilità
di ricorrere alla tutela cautelare sospensiva (l’art. 47 d.lgs. n. 546/1992, infatti, richiede
necessariamente l’intervento del Giudice, che qui ancora non è avvenuto);
(b)
soprattutto la previsione dell’inammissibilità del ricorso (rilevabile anche d’ufficio in ogni
stato e grado) per mancata proposizione del reclamo, induce a ventilare dubbi di incostituzionalità
in relazione all’art. 24 Cost. Ed infatti la Corte cost. ha più volte ribadito la legittimità di quelli strumenti
deflattivi obbligatori che prevedono una temporanea improcedibilità dell’azione (ad es. in materia
previdenziale, oggi peraltro venuta meno), posto che l’improcedibilità non è assoluta e non comporta
decadenza dal diritto di azione, ma limitata temporalmente. In questo caso, invece, la mancata
proposizione del reclamo determina l’inammissibilità del ricorso, e quindi – di fatto – la decadenza
del contribuente dal diritto a ricorrere al giudice tributario (e quindi la definitività della pretesa
tributaria).
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