le interpretazioni del fascismo

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le interpretazioni del fascismo
LE INTERPRETAZIONI DEL FASCISMO
Prima di addentrarci nella questione delle interpretazioni del fascismo, occorre chiarire quali sono i significati del
termine che si incontrano nella letteratura storico-politica.
Se ne possono distinguere fondamentalmente tre:
 Il primo significato fa riferimento al nucleo storico originario costituito dal fascismo italiano;
 Il secondo ingloba, oltre al caso italiano, anche il nazionalsocialismo tedesco;
 nel terzo caso il termine acquista un senso generico amplissimo, in quanto viene riferito a tutti quei movimenti a
sfondo autoritario che hanno affinità ideologiche o organizzative con il fascismo storico (p.e. la dittatura di
Francisco Franco in Spagna, le dittature militari instaurate nella seconda metà del Novecento in Grecia, Cile ecc.)
La tendenza degli storici è quella di circoscrivere il significato del termine al periodo della storia europea compresa fra
le due guerre, e più specificamente al fascismo italiano e al nazionalismo tedesco.
Nel suo noto saggio I tre volti del fascismo (1963), lo storico tedesco Ernst Nolte ha classificato le interpretazioni del
fascismo secondo due grandi categorie: le teorie singolarizzanti e quelle generalizzanti: le prime spiegano l’affermarsi
dei regimi fascisti sulla base di fattori legati alle particolari realtà nazionali; di contro, le teorie generalizzanti
ritengono che il fascismo sia un fenomeno politico sovranazionale che, al di là delle differenze specifiche, consente di
individuare analogie e caratteri permanenti tra movimenti diversi.
In Italia il problema delle interpretazioni del fascismo (italiano) è sorto insieme al fascismo stesso, infatti, fin dalla
sua comparsa, storici, commentatori e intellettuali italiani e stranieri si sono interrogati sulla natura e sulle ragioni
dell’emergere e dell’affermarsi del fenomeno fascista.
Il dibattito è continuato anche dopo la caduta del regime fascista e la fine della Seconda guerra mondiale, ed è stato
fortemente condizionato dal clima politico del dopo-guerra, durante il quale si poneva l’esigenza di ricostituire lo
Stato italiano su principi democratici e di fondare la Repubblica sui valori dell’antifascismo e della Resistenza.
Poi, negli anni Settanta, lo storico Renzo De Felice, ha impresso una svolta agli studi sul fascismo, proponendo un
nuovo approccio metodologico e nuove tesi interpretative, che hanno suscitato accesi dibattiti fra gli storici (e anche
violente contestazioni).
Presentiamo schematicamente le principali interpretazioni del fascismo:
1) Il fascismo come “malattia morale” – “parentesi storica” – “invasione degli Hyksos” : questa tesi è stata
sostenuta dal filosofo e storico liberale e neo-idealista Benedetto Croce. 1
Croce concepisce (secondo la filosofia hegeliana) la storia come storia della libertà, e considera il Risorgimento e
l’edificazione dello Stato italiano unitario e liberale come progresso verso la libertà: Il fascismo sarebbe quindi una
parentesi in questo percorso positivo della storia italiana. Il Fascismo è un fenomeno che non appartiene alla storia
passata e recente del nostro paese, alle sue tradizioni, ai suoi usi e costumi. E’ invece il frutto di una crisi profonda dei
valori morali, una “specie di bubbone non maligno”.
A causare questa crisi non erano, secondo Croce, ragioni economiche e sociali, ma “… uno smarrimento di coscienza,
una depressione civile e una ubriacatura, prodotta dalla guerra” : la guerra avrebbe provocato la “malattia morale”,
la dissoluzione dei valori e degli ideali. Il fascismo “non fu escogitato né voluto da alcuna singola classe sociale, né
da una singola di queste sostenuto”.
La “malattia morale” provocata dalla guerra non ha colpito solo l’Italia, è comune a molte nazioni europee, e infatti la
tesi di Croce è stata ripresa anche da storici tedeschi come Ritter e Meinecke per spiegare il nazionalsocialismo.
De Felice riconosce che questa tesi coglie alcuni aspetti reali del fascismo, ma è insufficiente perché generalizza,
accomuna tutti i fascismi, non coglie la specificità del caso italiano.
2) Il fascismo come “autobiografia della nazione”, come “rivelazione” dell’arretratezza italiana: questa tesi è
stata sostenuta dall’intellettuale liberal-democratico Piero Gobetti 2, dalle pagine della rivista La Rivoluzione
liberale (1922-25). Questa tesi si contrappone a quella di Croce: infatti se Croce affermava lo iato tra l’Italia liberale e
quella fascista, Gobetti invece sosteneva che nel fascismo si manifestavano “vizi” già presenti nella prima fase della
1
Benedetto Croce (1866-1952), filosofo neo-idealista, storico, critico letterario, scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti
nel 1925, dopo l’assassinio Matteotti; grazie alla sua fama internazionale potè vivere in Italia durante il ventennio fascista senza
subire violenze e ritorsioni, anche se fu piuttosto isolato. Non attuò un’opposizione diretta al regime, ma mantenne vivi gli ideali
liberali attraverso i suoi scritti.
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Piero Gobetti (1901-1926), giovane intellettuale liberal – radicale , morì a 24 anni, esule in Francia, per le conseguenze di
un’aggressione squadrista.
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storia del nostro paese: l’autoritarismo, il conformismo, il demagogismo, il trasformismo. Questi “vizi” derivavano
secondo Gobetti dall’arretratezza della nazione italiana (che non aveva avuto una riforma religiosa e una vera
rivoluzione borghese) e dalla mancanza di una ampia partecipazione popolare al processo della nascita dello Stato
nazionale.
Renzo De Felice respinge questa tesi perché non coglie il carattere “rivoluzionario” del fascismo italiano.
3) Il fascismo come Reazione estrema e armata del Capitalismo all’ascesa del proletariato: questa tesi è stata
sostenuta da Antonio Gramsci 3, è stata accolta come tesi ufficiale della Terza Internazionale (Comintern) negli
anni Trenta ed è la tesi di fondo della storiografia marxista (anche se molti storici marxisti hanno preso in
considerazione anche altri fattori).
Per Gramsci il fascismo non è un fenomeno occasionale (tesi di Croce) e non è legato alle particolari condizioni
storiche nazionali (Gobetti), è invece il risultato della reazione da parte della borghesia agraria e industriale italiana
alla lotta delle classi subalterne. E’ la risposta borghese al tentativo rivoluzionario delle classi popolari, una forma di
dittatura preventiva da contrapporre alla temuta dittatura del proletariato. Nelle “Tesi di Lione” da lui scritte e
presentate al Congresso del Partito del 1926, si legge: “il fascismo, come movimento di reazione armata che si
propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della
politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e della lotta del capitalismo contro la classe operaia”.
In generale secondo l’interpretazione marxista il fascismo europeo (includente quindi anche il nazismo, il franchismo
ecc.) è il mezzo estremo con cui il capitalismo si oppone all’avanzare della classe operaia: non riuscendo ad affermare
la propria egemonia con i sistemi democratici, la borghesia è costretta, per mantenere il potere, a ricorrere alla
violenza in modo da reprimere ogni conflitto sociale.
Nell’ambito del marxismo italiano Angelo Tasca (Nascita e avvento del fascismo, 1938), ha evidenziato il ruolo delle
classi medie come base sociale del fascismo, e Palmiro Togliatti (Lezioni sul fascismo, 1936) lo ha definito “regime
reazionario di massa”; in ogni caso anche per loro il fascismo è reazionario e funzionale al capitalismo.
Anche Luigi Salvatorelli in Nazionlfascismo (1923) ha messo in luce il ruolo determinante della piccola borghesia,
esasperata e impoverita dalla crisi economica e spaventata dai tentativi rivoluzionari della classe operaia. Il fascismo
viene considerato “una rivoluzione reazionaria” dei ceti medi sotto la bandiera del mito della Nazione (le tesi di
Salvatorelli vengono riprese da De Felice che però capovolge il giudizio sui ceti medi, considerati non in crisi, ma
emergenti).
4) In ambito europeo un approccio generalizzante, che ricerca gli elementi comuni che possono spiegare l’affermarsi
dei regimi fascisti in contesti diversi, è stato proposta dalla teoria del totalitarismo
Teoria del Totalitarismo (Hanna Arendt, Friedrich e Brzezinski): il fascismo sarebbe una manifestazione del
totalitarismo, inteso come dittatura nella moderna società di massa: il Totalitarismo, a differenza delle dittature
tradizionali, non cerca l’obbedienza passiva, ma vuole mobilitare le masse e renderle partecipi al suo progetto, cerca
l’adesione delle masse all’ideologia e al programma politico del partito al potere. Elementi caratteristici del
Totalitarismo sono: il Partito Unico, il Capo carismatico, l’Ideologia, la Propaganda e il Terrore, il controllo statale
delle Forze armate e dell’economia. Regimi totalitari sarebbero il Nazionalsocialismo tedesco, il Comunismo
dell’URSS, e, in forma imperfetta e attenuata, il fascismo italiano. Questa tesi, proposta per la prima volta da Hanna
Arendt in Le origini del totalitarismo (1951) suscitò molto scalpore perché assimilava il nazismo e lo stalinismo,
evidenziando le forti analogie tra i due sistemi “nemici”.4
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Antonio Gramsci (1891-1937), fu tra i fondatori del Partito Comunista Italiano: arrestato nel 1926, venne condannato a 20 anni
di carcere dal Tribunale speciale.
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La tesi della somiglianza, della “specularità” tra nazismo e comunismo, è stata proposta in tempi più recenti anche dallo storico
tedesco Ernst Nolte, nell’opera (anch’essa molto discussa e contestata) “La Guerra civile europea, 1917-1945.
Nazionalsocialismo e Bolscevismo” (1987).
Secondo Nolte il fascismo può essere compreso solo se lo si colloca nel clima della “guerra civile europea” inaugurata dalla
vittoria del bolscevismo-comunismo in Russia. Fascismo italiano e nazismo tedesco sono, secondo questa visione, “movimenti di
resistenza” contro il comunismo, inspiegabili senza la presa del potere da parte di quest’ultimo e senza la minaccia
dell’espansione della rivoluzione bolscevica nei territori tedeschi . Il carattere di reazione difensiva al comunismo sovietico
spiega anche l’innegabile somiglianza (specularità) tra i due regimi; infine secondo Nolte l’antisemitismo nazista sarebbe
motivato dal fatto che gli ebrei venivano identificati con i fondatori del comunismo.
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5) LE TESI DI RENZO DE FELICE (1929-1997)
Gli studi di Renzo De Felice rappresentano, come abbiamo detto, un punto di svolta nella storiografia del fascismo:
egli ha voluto affrontare l’oggetto delle sue ricerche “da storico”, esplorando un vasto apparato di documenti e
testimonianze, e rifiutando ogni approccio pregiudiziale, moralistico e ideologico.
De Felice ha scritto una monumentale biografia di Benito Mussolini (in 7 volumi), ma ha anche sintetizzato i risultati
delle sue ricerche nella Intervista sul fascismo (1975) , un’opera che ha avuto grande diffusione ed ha suscitato aspre
polemiche.
I punti caratterizzanti della ricostruzione del fascismo di De Felice sono:
a) la specificità del fascismo italiano (non assimilabile ad altri regimi autoritari e neppure al nazionalsocialismo)
b) il carattere rivoluzionario del fascismo
c) la distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime
d) il ruolo dei ceti medi
e) il ruolo determinante di Benito Mussolini
f) il consenso
g) le differenze tra fascismo e nazismo
h) la critica alla tesi marxista
a) La maggior parte delle interpretazioni del fascismo individuano elementi reali, ma sono inadeguate perché non
colgono la specificità del fascismo italiano, ciò che lo distingue dal nazionalsocialismo e da altri regimi dittatoriali. I
punti successivi mettono in luce le peculiarità del fascismo italiano.
b) Il movimento fascista è rivoluzionario perché tende a costruire qualcosa di nuovo, è rivolto al futuro, tende alla
creazione di un nuovo tipo di uomo e di Stato, e lo fa mobilitando le masse, chiedendo il loro coinvolgimento e la loro
partecipazione (gli altri “fascismi” del Novecento tendono invece alla demobilitazione delle masse, vogliono
l’obbedienza passiva). La biografia di Mussolini (socialista massimalista, poi interventista, poi leader dei fasci di
combattimento) conferma questa tesi.
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c) Bisogna tuttavia distinguere il “fascismo movimento” e il “fascismo regime”: il fascismo movimento fu il fascismo
rivoluzionario delle origini, degli squadristi, il fascismo ribellistico e anti-istituzionale, espressione dei ceti medi
emergenti, che volevano conquistare un ruolo politico adeguato al peso sociale acquistato durante la guerra. Il
fascismo regime fu invece il fascismo che conquistò il potere e divenne Stato grazie al compromesso con le forze
sociali conservatrici; le due anime del fascismo sono compresenti durante tutto il ventennio e sono in attrito fra di loro.
d) I ceti medi sono la base sociale del fascismo: tuttavia essi non costituiscono una classe sociale impoverita e in
declino, al contrario sono in ascesa, e vogliono trasformare e modernizzare il Paese (per cui va attribuita al
fascismo una prospettiva di progresso, collocandolo nella tradizione dell’Illuminismo, della Rivoluzione
francese e del Giacobinismo.) 5.
e) Senza Mussolini non esisterebbe il fascismo: Mussolini è il rivoluzionario (c’è continuità tra Mussolini
socialista e Mussolini fascista), ma è anche l’uomo di potere; è il fattore unificante tra le due anime del fascismo: il
culto del Duce è ciò che tiene insieme i fascisti intransigenti e i fiancheggiatori fautori dell’ordine. Il consenso degli
Italiani al fascismo è indirizzato principalmente al Duce.
f) Il fascismo, grazie alla sua capacità di mobilitare le masse, ebbe un vasto consenso popolare, soprattutto negli anni
dal 1929 al 1936, ed ebbe sempre meno bisogno della repressione; questo consenso era però rivolto alla persona di
Mussolini e al “fascismo regime”, più che al “fascismo movimento”.
g) Il fascismo si differenzia dal nazionalsocialismo hitleriano perché questo tende alla restaurazione, vuole ripristinare
la purezza della razza, invece il fascismo, come abbiam detto, tende alla creazione di un cittadino e di uno Stato
nuovo. Inoltre nel fascismo il razzismo antisemita è una componente marginale e tardiva (mentre è fondamentale nel
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Mussolini sperava nella formazione di un nuovo tipo di cittadino e di un nuovo Stato attraverso l’educazione e la propaganda:
questa è un’idea che deriva da Rousseau e che colloca il fascismo nella tradizione della sinistra rivoluzionaria. E’ importante
anche l’influenza di Sorel nella formazione giovanile di Mussolini: è da Sorel che deriva l’idea della mobilitazione delle masse per
mezzo della retorica e della propaganda. Con questi rilievi De Felice si colloca nel solco tracciato da Jacob Talmon in “Le origini
della democrazia totalitaria” (1952)
nazismo). L’alleanza tra l’Italia e la Germania nazista non era ideologicamente necessaria, ma fu la conseguenza
dell’isolamento internazionale dell’Italia dopo la conquista dell’Etiopia.
h) Riguardo alla tesi marxista del fascismo come reazione capitalista, De Felice obietta che i grandi industriali e
proprietari non sostennero sistematicamente il movimento fascista prima della presa del potere; essi erano ancora
legati ai liberali e volevano pace e relazioni internazionali; inoltre alla fine del 1920 (con la conclusione
dell’occupazione delle fabbriche) il biennio rosso si stava esaurendo, il pericolo di una rivoluzione bolscevica era
superato, il sistema economico e quello politico parlamentare si stavano riprendendo, il socialismo italiano era
indebolito dalle scissioni interne, quindi il capitalismo non aveva nessun bisogno di instaurare una dittatura per
fermare l’ascesa del proletariato, che ormai era cessata.
Il fascismo riuscì a conquistare il potere, secondo De Felice, non per l’appoggio dei capitalisti, ma per gli errori della
vecchia classe politica liberale, che si illuse di poter utilizzare e “riformistizzare” i fascisti. 6
6) Emilio Gentile: il fascismo è la via italiana al totalitarismo.
Infine accenniamo brevemente alle tesi di Emilio Gentile, storico vivente, autore di molti studi e pubblicazioni sul
fascismo. Gentile è stato discepolo di Renzo De Felice e ne condivide le tesi sulla specificità, sulla modernità e sul
carattere rivoluzionario del fascismo. Tuttavia egli respinge la tendenza (presente in molti storici, p.e. nella Arendt),
ad attenuare e limitare il carattere totalitario del fascismo: al contrario il fascismo fu, secondo Gentile, il primo
esperimento totalitario della storia perché diede vita ad una nuova forma di dominio politico che interessava tutti gli
aspetti della vita di ogni cittadino italiano. Questo esperimento fu messo in atto – fin dal 1922 - da un partito-milizia
che ebbe come obiettivo costante l'imposizione del primato della politica su ogni altro aspetto della vita individuale e
collettiva della nazione. Elementi caratterizzanti del totalitarismo fascista a cui Gentile ha dedicato studi specifici sono
la sacralizzazione della politica, la mobilitazione delle arti, l’organizzazione del consenso…
ANTOLOGIA:
RENZO DE FELICE: CETI MEDI E RIVOLUZIONE
(tratto da: Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M.A. Ledeen, Editori Laterza, Roma-Bari
1975)
D. Che cosa è stato il fascismo-movimento? R. Il fascismo-movimento è stato l'idealizzazione, la velleità di un certo
tipo di ceto medio «emergente». Qui sta, secondo me, il punto che mi differenzia da molti altri studiosi di questi
problemi: un ceto medio emergente che tende a realizzare una propria politica in prima persona. Dico emergente
perché in genere questo discorso -che è stato fatto amplissimamente - è partito da un punto fermo: un declassamento
dei ceti medi che si proletarizzano e che, per sfuggire a questo destino, si ribellano. Insomma, schematizzando, il
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Le tesi di De Felice sono state criticate, soprattutto da storici “di sinistra” (Tranfaglia, Quazza ecc. ), sia su punti specifici, (p.e.
riguardo al consenso), sia complessivamente in quanto considerate troppo “favorevoli” al fascismo, che verrebbe così
giustificato e riabilitato; De Felice però ha sempre respinto queste accuse, ribadendo la sua volontà di fare semplicemente
“storia”, scientifica, neutrale, senza intenti né apologetici né polemici; e ha inoltre preso le distanze da qualsiasi riabilitazione del
fascismo e di Mussolini.
“Per quanto De Felice sia stato osteggiato da una parte dell’establishment politico e culturale del Paese e da una larga fetta della
storiografia, il suo lavoro si inscrive, e profondamente, all’interno delle grandi tendenze della storiografia internazionale.
Grandi studiosi del nazionalismo, del nazismo e delle tendenze totalitarie della politica (p.e. Jacob Talmon e George L. Mosse) si
sono mossi in una direzione per molti versi analoga a quella di De Felice, avviando non per caso con lui un intenso dialogo:
obiettivo era infatti quello di recuperare un’immagine storiografica e non ideologica dei fascismi, al fine di inserirli all’interno di
un’evoluzione di lungo periodo della storia europea, legandoli alla società di massa e ai suoi problemi.
Dunque, il primo valore dell’opera storiografica di De Felice sta nell’essere stata capace di inserirsi nel grande dibattito
internazionale sulle trasformazioni della politica nel Novecento. Come Mosse e Talmon, De Felice ha visto il fascismo come una
delle rivoluzioni di tipo nuovo del 20° secolo. Pur dimostrandone in modo rigoroso la specificità, l’ha legata ai nuovi caratteri
della politica nell’età contemporanea in relazione alla modernizzazione, alla società di massa, al prorompente dominio delle
ideologie. Per De Felice il fascismo era un fenomeno limitato al periodo delle due guerre mondiali, e dunque finito; ma non era
finito il problema della fragilità della democrazia nella società di massa, da cui la stessa esperienza fascista aveva tratto origine.
Partendo dal problema del fascismo e arrivando al problema della democrazia e della società di massa, De Felice è stato così
senza dubbio uno dei pochissimi storici italiani capaci di darci una più profonda, più vera, più ricca, e forse più inquietante,
immagine complessiva del Novecento.” (Renato Moro, in Treccani.it)
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fascismo come fenomeno degli spostati, dei falliti. Non metto in dubbio che ci siano anche questi, ma sono le frange.
Il fascismo-movimento, invece, è stato in gran parte l'espressione di ceti medi emergenti, cioè di ceti medi che cercano
- essendo diventati un fatto sociale - di acquistare partecipazione, di acquistare potere politico. Ingrossando le fila, il
fascismo si aprì indubbiamente un po' a tutti i ceti sociali, ma il suo nerbo, sia quantitativamente sia in particolare per
quel che concerneva i quadri e gli elementi più attivi politicamente e militarmente, si caratterizzò in senso piccoloborghese, dando a tutto il movimento [...] il carattere di un fenomeno che aveva degli aspetti di classe. Questo spiega,
a mio avviso, la sua scarsa penetrazione nelle regioni più tradizionali, dove la piccola borghesia non era di tipo
moderno, e, quindi, era più integrata. Un carattere, questo, che diede al fascismo-movimento la possibilità di costituire
il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che aspiravano a una
propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, settori che non riconoscevano più
alla classe dirigente tradizionale, e a quella politica in specie, né la capacità né la legittimità di governare, e, sia pur
confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava. Fu la Prima guerra mondiale che mobilitò
tutta una parte della società italiana, restata sino allora in disparte. E questa parte, mobilitata per la guerra, epperò
esclusa dal potere effettivo, dalla partecipazione, tende poi, attraverso il fascismo, a rivendicare, ad acquistare una sua
funzione D. È possibile riassumere brevemente che cosa volevano i ceti medi, che mondo volevano creare?
R. Per parlare nel linguaggio più accessibile alla cultura di oggi, direi che questi ceti medi si pongono come una classe
che tende ad affermarsi in quanto tale, e ad affermare la propria funzione, la propria cultura e il proprio potere politico
contro la borghesia e il proletariato. Insomma tendono a fare una rivoluzione. [...] Il fascismo fu quindi il tentativo del
ceto medio, della piccola borghesia ascendente - non in crisi - di porsi come classe, come nuova forza. In questo senso
il fascismo-movimento fu un tentativo di prospettare nuove soluzioni «moderne» e «più adeguate».
D. Secondo te è giusto parlare del fascismo come fenomeno rivoluzionario, o no?
R. Checché ne dica tanta gente, secondo me sì: si può parlare di fenomeno rivoluzionario; però nel senso etimologico
della parola, perché se si pretende di parlare di rivoluzione dando alla parola un valore morale, positivo o, ancor più,
in riferimento a una concezione come quella leninista, allora è evidente che il fascismo non fu una rivoluzione. Ma
secondo me è sbagliato applicare tale criterio a tutti i fenomeni. In questa prospettiva io dico che il fascismo è un
fenomeno rivoluzionario, se non altro perché è un regime, e ancor di più un movimento - e qui c'è da tener presente la
differenza di grado tra quello che fu il regime e quello che avrebbe voluto essere il movimento - che tende alla
mobilitazione, non alla demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo. Quando si dice che il
regime fascista è conservatore, autoritario, reazionario, si può avere ragione. Però esso non ha nulla in comune con i
regimi conservatori che erano esistiti prima del fascismo e con i regimi reazionari che si sono avuti dopo. [...] Il
regime fascista ha come elemento che lo distingue dai regimi reazionari e conservatori, la mobilitazione e la
partecipazione delle masse. Che poi ciò sia realizzato in forme demagogiche è un’altra questione: il principio è quello
della partecipazione attiva, non dell’esclusione. Questo è un punto che va tenuto presente, è uno degli elementi,
diciamo così, rivoluzionari. Un altro elemento rivoluzionario è che il fascismo italiano si pone un compito, quello di
trasformare la società e l’individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata. I regimi
conservatori hanno un modello che appartiene al passato, e che va recuperato, un modello che essi ritengono valido e
che solo un evento rivoluzionario ha interrotto: bisogna tornare alla situazione prerivoluzionaria. I regimi di tipo fascista, invece, vogliono creare qualcosa che costituisca una nuova fase della civiltà.
ALBERTO AQUARONE : I LIMITI DEL CONSENSO
(tratto da: A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi Editore, Torino 1978)
Non solo il fascismo non riuscì mai a risolvere interamente a suo favore il problema cruciale dei rapporti con la
monarchia e con la Chiesa cattolica e ad assicurarsi così un controllo totalitario sulle grandi masse di cittadini, ma fallì
pure, per lo più, nell’intento di creare una propria classe dirigente compatta ed omogenea, competente sul piano
tecnico-amministrativo, convintamente decisa sul piano politico, elevata su quello morale. A poco più di un lustro
dalla marcia su Roma, una osservatrice straniera di notevole acume aveva osservato che la maggior parte dei fascisti
erano sostanzialmente rimasti socialisti, se avevano avuto un passato socialista; cattolici, se avevano appartenuto al
partito popolare; liberali, se tale era la loro provenienza originaria. E sebbene l’etichetta fascista coprisse naturalmente
ogni cosa, tutte queste varie tendenze contraddittorie operavano al di sotto della superficie e ciascun gruppo politico
criticava il regime, nei limiti in cui questo non seguiva una politica conforme al suo programma originario. Ciò era
senza dubbio vero principalmente per tutti coloro che, dopo il 1922, si erano accostati con riluttanza o avevano
comunque aderito con diversa misura di convinzione e di entusiasmo al fascismo, una volta che questo aveva
conquistato il potere ed aveva dimostrato di essere in grado di conservarlo. Ma un’analoga deficienza di omogeneità
ideologica, analoghi contrasti sulle finalità concrete del fascismo caratterizzavano pure, come sempre avevano
caratterizzato, il nucleo dirigente dei fascisti antemarcia, che controllava i posti chiave del regime, e ciò non poteva
che aggravare, ovviamente, la confusione esistente al suo interno. In questa situazione, non c’è da meravigliarsi se uno
dei maggiori elementi di debolezza del fascismo fu la mancanza di una sua classe politica bene integrata che gli
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servisse da solido perno e fosse in grado di mediare, in una chiara e consapevole visione dei propri fini e dei propri
mezzi, le istanze contrastanti dei vari gruppi economici e sociali e riplasmarle in maniera univoca secondo appunto
quella visione. Tale classe politica il fascismo non ebbe mai, perché tra l’altro gli mancò sempre una base sociologicamente coerente, una classe, un ceto, un gruppo che s’identificasse con esso totalmente. Come ha osservato
Stefano Jacini: «Il regime non disponeva di alcun gruppo compatto, i cui interessi materiali e morali coincidessero in
pieno coi propri o comunque fossero tali da legarlo indissolubilmente al suo carro; dominava sì, in teoria, la nazione
intera, e in realtà disponeva qua e là di gruppetti devoti, e più spesso di persone influenti; gli uni e le altre però non
rappresentavano d’ordinario il meglio, anzi talvolta rappresentavano il peggio dei rispettivi gruppi di provenienza».
Il grande capitale, industriale, finanziario o agrario che fosse, aveva sempre avuto una concezione essenzialmente
strumentale del fascismo, una concezione quindi che già di per sé escludeva che i suoi rappresentanti, nel loro
complesso, si identificassero pienamente con il regime e fossero disposti a dargli il loro appoggio in ogni circostanza,
indiscriminatamente. Una tale identificazione c’era stata, in misura senza dubbio maggiore, da parte di larghi settori
della piccola e media borghesia, più sensibili alle suggestioni violentemente nazionalistiche del fascismo, e che in
quest’ultimo avevano inoltre potuto vedere una forza politica e un’ideologia che avevano rintuzzato le velleità di ascesa dei ceti proletari ed avevano pure saputo imbrigliare - che poi questa convinzione fosse assai poco aderente alla
realtà poco conta a questo proposito - le smodate ambizioni e le egoistiche brame dei grandi detentori di capitale.
Tuttavia, alla lunga non poteva non far sentire il suo peso il fatto che, a conti fatti, i vantaggi materiali che il regime
assicurava alla maggioranza degli appartenenti alla piccola e media borghesia restavano poca cosa, mentre le tendenze
marziali della politica fascista non erano fatte per piacere molto a questi ultimi quando, da semplice esercizio oratorio,
tendessero a concretarsi in richiesta di autentici sacrifici. A un certo punto, in molti l’adesione convinta al fascismo si
trasformò così in accettazione atona, dovuta principalmente a semplice forza d’inerzia, un’accettazione che non
resistette alle prove imposte dalla prima grave crisi. Quanto alla politica sociale con cui il regime tentò di conquistarsi
le masse popolari, già se ne sono notati i limiti sia d’impostazione programmatica, che di concreta attuazione.
Certamente, essa riuscì pure, non di rado, a far breccia, sia grazie alla suggestione psicologica che la propaganda
fascista riusciva ad esercitare in vari campi - il nazionalismo esasperato, per esempio, non mancava di trovare spesso
sensibili anche operai e contadini- sia perché il bilancio non era sempre necessariamente negativo sul piano dei
benefici materiali ed il regime non si presentava al proletariato esclusivamente con le decurtazioni di salario, del resto
in parte almeno dovute alla crisi economica mondiale. [...]
Potrebbe essere tentante, a questo punto, indulgere alla suggestione di chiedersi se anche senza la guerra, con il suo
esito disastroso, le numerose contraddizioni interne e deficienze ideologiche e strutturali del fascismo non sarebbero
state di per sé sufficienti, a più o meno breve scadenza, a provocarne comunque la caduta. Se, insomma, il crollo del
regime non sarebbe stato ad ogni modo inevitabile, perché riconducibile a cause intrinseche ben più profonde e
corrodenti della sconfitta militare.
Ora, a parte il fatto che è il concetto stesso di inevitabilità che è da respingersi in sede storiografica, sembra difficile
ammettere che le deficienze e le contraddizioni interne che il regime indubbiamente presentava all’inizio della
seconda guerra mondiale fossero di tali dimensioni, da far pensare che con molte probabilità sarebbero state sufficienti
di per se stesse a causarne in un futuro abbastanza vicino la dissoluzione. Se numerosi erano i sintomi di malcontento
che si potevano scorgere in seno a vari settori dell’opinione pubblica italiana, è anche vero che la grande massa della
popolazione, pur quando non aderiva entusiasticamente al fascismo, non si manifestava certo disposta a considerare il
regime come un nemico mortale da abbattere ad ogni costo, e tanto meno a correre dei rischi seri pur di raggiungere
quest’ultimo obiettivo. Anche molti di coloro che, in seno alle varie classi sociali, erano recisamente ostili a singoli
aspetti della politica fascista, non per questo erano necessariamente altrettanto avversi alla dittatura mussoliniana,
come soluzione del problema del governo e del potere in Italia. Vi era dell’esagerazione, ma anche un fondo di verità
forse maggiore di quanto oggi potrebbe far piacere di pensare, nelle parole che Mussolini, giunto quasi al termine
della sua carriera e della sua vita stessa, rivolse in una notte di marzo del 1945 al giornalista Ivanoe
Fossani: «A rigore di termini non sono stato neppure un dittatore, perché il mio potere di comando coincideva
perfettamente con la volontà di ubbidienza del popolo italiano». In un certo senso, il fatto stesso che il regime non
fosse mai riuscito ad assumere un carattere rigorosamente totalitario, e che perciò agli individui continuasse ad essere
consentito un certo margine di autonomia nella sfera privata, agì come valvola di sicurezza a favore del fascismo, in
quanto impedì che si formassero punti di tensione troppo acuta e forse irresistibile. D’altra parte, l’apparato poliziesco
della dittatura era abbastanza efficiente e duro per aver ragion degli sforzi di liberazione, pagati spesso a caro prezzo,
dell’antifascismo militante, fin tanto che questo non potesse contare su un’effettiva, profonda frattura tra il regime
fascista e la maggioranza del popolo italiano. Una tale frattura, in grado di agire come positiva forza storica, a
direzione unica e irreversibile, si ebbe solo con la guerra ed il suo tragico fallimento. Al di là di questa constatazione,
si entra nel campo delle supposizioni arbitrarie, rischiando di confondere forme anche vivaci di malcontento generico
o specifico, con una ben precisa e vigorosa volontà di lotta e di ribellione, e le indubbie deficienze interne del regime
totalitario fascista, con le cagioni profonde di un processo di disgregazione di non dimostrabile inevitabilità.
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