Mussolini e il fascismo

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Mussolini e il fascismo
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IL GIORNALE • BIBLIOTECA STORICA
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A cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto
DIZIONARIO DEL FASCISMO
Volume primo, A-K
© 2003 e 2005 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino
© 2015, edizione speciale per Il Giornale
Pubblicato su licenza di Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino
Supplemento al numero odierno de Il Giornale
Direttore Responsabile: Alessandro Sallusti
Reg. Trib. Milano n.215 del 29.05.1982
Tutti i diritti riservati.
Nessuna parte di questo volume potrà essere pubblicata, riprodotta,
archiviata su supporto elettronico, né trasmessa con alcuna forma
o alcun mezzo meccanico o elettronico, né fotocopiata o registrata,
o in altro modo divulgata, senza il permesso scritto della casa editrice.
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Dizionario del fascismo
A cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto
Volume
Volumesecondo
primo
A-K
L-Z
G
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Indice
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Premessa di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto
Guida alla consultazione
Lemmario
Elenco dei collaboratori
Elenco delle abbreviazioni
Alberi
Dizionario del fascismo
Volume primo
A-K
Saggi iconografici
tra le pp. 262 e 263
Il regime illustrato e il popolo bambino di Antonio Gibelli
tra le pp. 454 e 455
I volti della repressione di Gianfranco Porta
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Premessa
Non c’è quasi lettore che non sappia cos’è un dizionario: un elenco di voci in ordine alfabetico. E non c’è quasi dizionario (o enciclopedia) che non
si iscriva entro il retaggio illuministico, che non tragga dall’enciclopedismo
del Settecento due postulati tuttora vitali nell’approccio al sapere. Il primo
presuppone che la conoscenza di un argomento può essere immaginata come totale, e che va dunque perseguita con tutta la passione e la cura possibili, così da diventare risorsa per la fantasia, strumento di edificazione personale, elemento di critica sociale. L’altro postulato consiste nell’ammettere che le tensioni inevitabilmente accumulate dall’incremento di conoscenza – fra inclusione e selezione, vocazione eclettica e vocazione sintetica –
possono essere tenute sotto controllo da un marchingegno semplice come
l’abbiccì.
Il presente dizionario fa sue queste venerabili convinzioni nel momento in cui investe un ambito particolarmente complesso e problematico della storia contemporanea: il fascismo. Per riprendere da un altro dizionario
– lo Zingarelli – la più semplice delle definizioni, «fascismo» deriva «dal fascio littorio», simbolo del Partito nazionale fascista. Ma comunque si voglia
definire il fascismo, non si può che riconoscergli una portata più larga dei
ristretti confini della penisola italiana e un impatto più duraturo del Ventennio. Capire il fascismo è indispensabile per rendere conto sia del drammatico declino dell’Europa nella prima metà del xx secolo, sia dell’inesausto sforzo compiuto dagli europei dopo il 1945 per costruire un continente
diverso: un’Europa fondata sui diritti dell’uomo, unita eppure elastica, coesa eppure aperta abbastanza da scongiurare il ritorno di camicie nere, camicie brune, movimenti nazionalisti più o meno violenti. Capire il fascismo
vale inoltre a spiegare il carattere indelebile del marchio lasciato dal regime sul corpo della società italiana: la dittatura di Mussolini è durata appena vent’anni, ma sessant’anni dopo la sua fine la vita politica e la memoria
collettiva sembrano ancora risentirne gli effetti, non foss’altro sotto forma
di esorcismo.
Questo Dizionario del fascismo fa suo un ulteriore postulato dell’enciclopedismo settecentesco – un’idea quasi inattuale in tempi come i nostri,
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tanto meno eruditi e tanto più evasivi di quelli: si presume che illustrando
le numerose, inaspettate, addirittura casuali connessioni fra singoli temi
elencati in ordine alfabetico si possano ridefinire le coordinate di un problema complessivo, fino a suggerire per esso nuove soluzioni interpretative. Si consideri il caso di due voci come «Regime» e «Stato totalitario».
A un primo sguardo, sono argomenti così spesso trattati da riuscire ovvi. A
guardar meglio, sono nozioni così dense di significati che un dizionario del
fascismo non può accontentarsi di comprenderle all’interno del proprio lemmario. Oltreché attraverso la strada maestra della voce che vi è espressamente dedicata, territori storici tanto vasti e accidentati vanno esplorati attraverso una molteplicità di strade secondarie, stanando il fatto recondito
e insieme riconoscendo il fatto generale, rincorrendo il fascismo nei più minuti recessi della società italiana e insieme cogliendone la natura centrifuga, esorbitante, globale.
Nel caso del fascismo, la forma-dizionario tanto più si raccomanda perché le conoscenze storiche sull’argomento – per quanto estese – tuttora si
sottraggono alla sfida di una sintesi. Oggi come oggi, la discussione su cosa il fascismo sia stato e su cosa sia, sul ruolo che ha giocato nell’Italia del
Ventennio, sui metodi d’approccio più indicati per studiarlo è tornata a impegnare la comunità degli storici e perfino l’opinione pubblica. Ma per un
paio di decenni prima del passaggio di secolo, lo studio del fascismo aveva
conosciuto una sorta di eclissi. Durante gli anni ottanta e novanta, gli storici dell’Italia contemporanea si erano dedicati piuttosto alla ricostruzione
delle vicende di guerra, della Resistenza e delle origini della Repubblica. E
quand’anche si erano rivolti al Ventennio, avevano abbandonato il terreno
del biografico e del politico – direttamente afferente a Mussolini e alla dittatura – per privilegiare percorsi più indiretti, esplorando questioni di storia della società, della cultura, delle mentalità che poco avevano a che fare
con i cliché interpretativi sul duce e sul regime veicolati dalla tradizione resistenziale e rilanciati dalla storiografia antifascista.
L’eclissi del fascismo dal firmamento degli studi negli ultimi decenni del
Novecento va spiegata con la crisi dei due modelli interpretativi che più
avevano orientato la discussione e animato la ricerca nei decenni precedenti:
il modello marxista e quello derivato dalle scienze sociali americane. Ma nel
rendere ragione di questa eclissi, si sbaglierebbe ad affidarsi al solo criterio
dell’euristica senza tenere in conto dinamiche generazionali. Per le leve intellettuali degli anni sessanta (come già per quelle che le avevano precedute) il fascismo era il nemico da conoscere al fine di meglio combatterlo, o al
fine di prevenirne la rinascita. Per le leve intellettuali degli anni ottanta, la
relazione fra soggetti e oggetti di ricerca non si configurava più in termini
tanto meccanici. Comunque, erano altri i cantieri storici che richiedevano
di essere aperti, altre le questioni che si imponevano all’attenzione di chi
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per professione o per vocazione era curioso del passato: interessavano microstorie di borghi e di villaggi, vite di donne piccole o grandi, avventure
e disavventure comunitarie che rimandassero a una dialettica generale fra
istituzioni e culture e a foucaultiane microfisiche del potere, indipendentemente dall’epoca in cui avevano avuto luogo e dal regime sotto cui si erano svolte.
Per giunta, gli anni ottanta e novanta hanno assistito al grande ritorno,
nell’agenda degli storici, del tema della violenza: il xx secolo è parso allora
ruotare intorno al bolscevismo e al nazismo, intorno all’Unione Sovietica e
alla Germania strette nella morsa dei loro contrapposti totalitarismi. Da un
simile punto di vista, il fascismo e l’Italia non potevano che risultare fuori
cornice, un fenomeno e un contesto marginali nella battaglia dei titani. La
preminenza stessa riconosciuta all’Olocausto nella storia del Novecento europeo ha avuto effetti contrastanti sull’interpretazione storica del Ventennio. Da un lato, ha spinto gli studiosi a prendere sul serio l’antisemitismo
fascista e la politica razziale nell’Italia degli anni trenta. Dall’altro lato, ha
contribuito a fare della distruzione degli ebrei d’Europa una responsabilità
tutta tedesca, o addirittura un evento troppo straordinario e orribile per essere piegato a una qualche forma di razionalità storica; con il risultato di
scoraggiare paragoni sistematici fra la Germania di Hitler, l’Italia di Mussolini e gli altri regimi fascisti di quegli anni. In generale, la contrapposizione fra bolscevismo e nazismo come chiave di volta del xx secolo ha oscurato l’importanza della crisi degli stati liberali in Europa e del declino geopolitico del Vecchio Continente. Nel contesto di un secolo di violenza totale,
la dittatura di Mussolini è sembrata niente più che un elemento di contorno: un semplice governo illiberale che cercò di barcamenarsi in circostanze
sfavorevoli.
Diversi i presupposti da cui muove questo dizionario, e diversamente ambiziosi i suoi obiettivi. Anzitutto, si tratta di determinare la funzione del fascismo nella storia d’Italia. Per riuscirvi, bisogna collocare il Ventennio nella «lunga durata» del Novecento e nel contesto allargato di un faticoso state
building, di un conflitto politico tra forze rivoluzionarie e controrivoluzionarie risalente al xix secolo, di un’intera gamma di possibili risposte nazionali
allo sviluppo internazionale del sistema capitalistico. Inoltre, si tratta di riconoscere – sotto il giogo della dittatura – il lavorio di un’intera società. Bisogna rappresentare fin nei dettagli l’ampio quadro delle trame istituzionali, degli accomodamenti economici e sociali, delle strategie culturali attraverso le quali il regime è stato vissuto da milioni di persone: dagli italiani in
primo luogo, ma anche da stranieri le cui esistenze hanno finito per essere
toccate dal fascismo, fossero gli abitanti di paesi attratti dalla prospettiva di
una «terza via» tra capitalismo e socialismo, gli abitanti di territori colonizzati dall’imperialismo fascista, o gli abitanti di stati invasi dall’Italia duran-
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te la seconda guerra mondiale. Infine, si tratta di studiare il fascismo in una
dimensione di storia comparata. Bisogna confrontare l’esperienza italiana
del Ventennio con quella di altre nazioni europee ed extraeuropee nel periodo fra le due guerre, ricercando le somiglianze non meno che le differenze, le costanti non meno che le varianti: solo così si può sperare di intendere – al tempo stesso – l’assoluta specificità del fascismo italiano e la sua singolare capacità d’attrattiva su certe “periferie” dell’Occidente.
Obiettivi tanto ambiziosi giustificano sia le dimensioni di questo Dizionario del fascismo, sia il numero dei suoi collaboratori. Moltiplicare le voci
(fino a un totale di oltre seicentosessanta) è stata scelta necessaria per coprire in maniera adeguata un’enorme varietà di temi: non soltanto eventi,
personaggi e istituzioni, ma anche concetti, slogan, simboli legati alla vicenda
italiana e internazionale del fascismo. Quanto alla massa di collaboratori
(centottanta circa), va ricondotta a una logica più articolata del banale criterio per cui molti lemmi richiederebbero molti autori. In effetti, agli albori del xxi secolo come già al tempo dell’Encyclopédie, la repubblica delle lettere si fonda su rapporti personali e istituzionali, ma non esisterebbe senza
contatti meravigliosamente occasionali e gratuiti. Nel caso del presente dizionario, la logica delle collaborazioni è stata ulteriormente complicata – e
auspicabilmente arricchita – dal fatto che i due curatori fossero di sesso diverso, appartenessero a diverse generazioni, avessero differente nazionalità,
lavorassero su opposte sponde dell’Atlantico, si fossero intellettualmente
formati in ambienti e momenti distinti: l’una negli Stati Uniti e nell’Italia
dei tardi anni sessanta, l’altro nell’Italia e nella Francia dei primi anni ottanta. Da qui, anche, la deliberata ampiezza dello spettro di studiosi invitati alla redazione delle voci, ben al di là di frontiere nazionali, discipline accademiche, leve generazionali, scuole storiografiche: con una naturale maggioranza di italiani, ma con una generosa minoranza di stranieri; con l’ovvio
primato degli storici, ma con una larga rappresentanza di critici letterari e
artistici, sociologi, antropologi, giuristi; con un buon numero di decani negli studi, ma con un’abbondanza anche maggiore di ricercatori giovani.
Questo dizionario non intende rappresentare una singola scuola storiografica, tanto meno un cartello di scuole: il fascismo è materia troppo importante per essere fatta oggetto di lottizzazione politica o culturale. A suo
tempo, il modello d’interpretazione marxista ha avuto il merito di promuovere importanti ricerche sul mondo del lavoro, su quello del capitale,
sulle classi dirigenti, sulle organizzazioni di massa nell’Italia del Ventennio,
consentendo di guardare al regime fascista come a una realtà storica unitaria e coerente. Ma la natura ibrida, camaleontica, mutante dell’esperienza
fascista – come di qualsiasi altra esperienza rivoluzionaria – poco si addice
a un approccio riduzionista; perciò, la storiografia più o meno ispirata dal
marxismo molto ha guadagnato da una contaminazione con altri metodi di
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lavoro e con altre discipline. Per parte sua, la storiografia cosiddetta «revisionistica» ha enormemente contribuito a rinnovare il paesaggio degli studi, aggiornando il questionario delle domande se non persuadendo con
l’elenco delle risposte: oggi, una storia del Ventennio fascista che non facesse tesoro della lezione di Renzo De Felice sarebbe altrettanto impensabile di una storia della Rivoluzione francese che non facesse tesoro della lezione di François Furet.
Il lettore del dizionario troverà più di una voce in sintonia con gli argomenti del revisionismo storiografico, altre voci in dialogo con essi, altre
ancora in pieno disaccordo; i curatori hanno inteso sollecitare sui singoli temi gli specialisti più accreditati, senza riconoscersi né il diritto né il dovere di chiedere loro – preventivamente o a posteriori – l’esibizione di un documento di identità culturale o di un certificato di appartenenza ideologica.
Tuttavia, questo dizionario si presenta come intrinsecamente anti-revisionistico per almeno una buona ragione: perché si propone di restituire il fascismo all’evidenza storica del suo contesto, ponendolo in relazione con i
regimi italiani che l’hanno preceduto e seguito (mentre troppo spesso la storiografia revisionistica ha provveduto a isolare l’Italia fascista da quella liberale e da quella repubblicana) e confrontandolo con i regimi stranieri che
gli sono stati coevi (mentre gran parte della storiografia revisionistica neppure si è interrogata sul Portogallo di Salazar, sull’Ungheria di Horthy o
sull’Argentina di Perón). In fondo, ai revisionisti – italiani o stranieri – non
interessa tanto il fascismo nella concreta sua storia, quanto la «vulgata» antifascista del post-fascismo: una vulgata da demolire suggerendo che l’antifascismo del Ventennio fu un movimento striminzito o addirittura inventato, che l’opinione pubblica prestò al regime un consenso incondizionato,
che durante la guerra civile del 1943-45 gli italiani si ritrovarono troppo disorientati politicamente e moralmente per dare solide fondamenta alla Repubblica nata dalla Resistenza. Dalle voci del nostro dizionario emerge un
quadro storiografico irriducibile a qualsiasi «vulgata», ma non per questo
intonato ai colori di un «anti-antifascismo» oggi di moda.
L’esperienza fascista viene qui collocata entro la cornice storica della
crisi di legittimità che investì i maggiori stati d’Europa nella prima metà
del Novecento, in una fase nuova e dirompente dell’«economia-mondo».
A proposito del periodo 1914-45, c’è chi ha parlato di una «nuova guerra dei
Trent’anni», o di una prolungata «guerra civile europea» che vide la sinistra
comunista muovere all’attacco della Russia nel 1917, la destra fascista passare al contrattacco nell’Italia del 1922, gli antifascisti riprendere il sopravvento nella Francia e nella Spagna del 1936, i nazifascisti dominare il
campo fra tardi anni trenta e 1943, infine la coalizione antifascista trionfare nel 1945. Visioni storiche di altrettanta ampiezza e suggestione inevitabilmente si scontrano con il fastidioso demone del dettaglio. Ma quand’an-
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che si rinunci a sottoscrivere la tesi della guerra civile europea, riconoscere il fascismo al centro di una «crisi generale del xx secolo» è il modo migliore per affrontare alcune questioni cruciali di storia del Novecento: l’impatto geopolitico dell’assenza di un sistema di sicurezza internazionale, i
nessi tra la crisi del liberalismo classico e la nascita di autocrazie plebiscitarie, il significato relativo delle performances economiche e sociali di sistemi totalitari, la qualità e i limiti del consenso in situazioni di persecuzione
del dissenso, la forza effettiva e quella immaginaria della sfida comunista
all’Occidente.
La natura globale di molti problemi relativi alla storia del fascismo non
esclude, evidentemente, l’opportunità di restituire il Ventennio al suo contesto specifico di origine e di sviluppo. In questo senso, il dizionario si rivela uno strumento particolarmente adatto per individuare – se non suona presuntuosa l’allusione a Marc Bloch – i caratteri originali dell’Italia fascista. Dall’«andare al popolo» alla «battaglia del grano», dal «libro e moschetto» alla «quota novanta», quello di Mussolini fu anzitutto un regno
della parola; il talento giornalistico del duce si sommò alla sua spregiudicatezza ideologica per produrre una politica fatta di slogan, strategia comunicativa tanto più efficace quanto più consapevolmente manipolatoria e affabulatoria. E dietro l’esempio di Mussolini i discorsi scorsero a fiumi, alimentati dalla vena di giornalisti e passacarte, romanzieri e libellisti. La vita
stessa del Pnf finì col dipendere a dismisura dall’uso strategico delle parole; lo scontro infinito fra le due anime del movimento fascista, la radicale e
la moderata, si consumò a colpi di informative poliziesche, dossier riservati, accuse infamanti.
Ma se vi è un rischio al quale occorre sottrarsi è proprio di annegare la
ricostruzione storica in un eccesso di decostruzione retorica, in un mare magnum discorsivo. Quello fascista non fu soltanto un ventennio di parole. Lo
dimostra, fra l’altro, la trama straordinariamente fitta di associazioni e di
istituzioni attraverso cui il regime volle connettere il tessuto politico, economico, morale della società italiana: l’Opera nazionale per la maternità e
l’infanzia, l’Opera nazionale balilla, l’Opera nazionale dopolavoro furono
soltanto le più capillarmente diffuse fra innumerevoli strutture organizzative destinate ad accompagnare gli italiani «dalla culla alla bara». Il che non
significa che l’assistenzialismo fascista contribuì a migliorare le condizioni
di esistenza della popolazione nel corso del Ventennio. Al contrario, una
molteplicità di indici – dalle cifre relative alla disoccupazione a quelle inerenti al potere d’acquisto dei salari, dalle curve dell’emigrazione all’estero a
quelle delle migrazioni interne – attestano al di là di ogni dubbio il progressivo deterioramento della qualità media della vita nell’Italia fascista, prima
ancora che Mussolini trascinasse il paese all’avventura della guerra e alla rovina. Né alcun dubbio può sussistere intorno al carattere classista della po-
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litica economica perseguita dal regime. La propaganda aveva un bel parlare
di «ruralismo» o di «terza via»: alla prova dei fatti, così nel settore dell’industria come in quello dell’agricoltura i dirigenti fascisti finirono sempre con
l’optare per la causa del padronato, contro gli interessi delle classi popolari.
Chi voglia convincersi dell’irriducibilità del regime alla sola dimensione parolaia non ha poi che da guardare alla sistematicità dei suoi crimini.
Da «Campi di concentramento» a «Delitto Matteotti», da «Leggi razziali»
a «Stragi nazifasciste», un Dizionario del fascismo è chiamato a documentare, con l’asciutta eloquenza dell’ordine alfabetico, la catastrofe di una dinamica storica inauguratasi come «Rivoluzione» e ridottasi a «Soluzione
finale». D’altra parte, proprio l’analisi del razzismo fascista consente di evocare – all’inevitabile confronto con il razzismo nazista – la realtà di una cultura politica volgare più che sterminatrice e patriarcale più che rapinatrice.
Non a caso, prima ancora di riguardare gli ebrei, le leggi razziali del regime
riguardarono gli indigeni dell’Africa orientale: la lotta contro i matrimoni
misti fra uomini italiani e donne somale o etiopi corrispose sia all’ossessione italiota di una perdita della virilità, sia all’imbarazzo di fronte allo spettacolo dell’«uomo nuovo» fascista costretto dalla miseria strutturale della
società italiana a rifarsi una vita sotto il tetto di paglia dei tucul abissini.
Quanto al governo delle donne in Italia, fu improntato alle leggi (scritte e
non scritte) del più vieto passatismo, per cui un popolo fatto al maschile di
eroi, di santi e di navigatori doveva restare, al femminile, un popolo di casalinghe e di «massaie rurali».
Nell’evoluzione storica del fascismo non vi fu nulla di accidentale o di
casuale. Ancor meno la catastrofe derivò dal penoso degrado fisico e psichico di Mussolini, o dagli effetti della tragica decisione di entrare in una
tragica guerra. La forza ermeneutica del nostro dizionario consiste nel ridare a Cesare quel che è di Cesare: nel collocare il fascismo italiano entro
il quadro dei movimenti di reazione al declino dell’Europa nel primo Novecento; nell’indicare analogie e differenze tra la vicenda storica del regime e quella di numerosi altri governi democratici o autoritari, dal Giappone
all’America latina, dagli Stati Uniti all’Europa orientale. Ebbene, secondo i
più vari parametri qualitativi e quantitativi, dopo vent’anni di fascismo
l’Italia si ritrovò a occupare – nonostante il chiacchiericcio della propaganda sul recuperato suo rango di grande potenza – una posizione di assoluta
modestia nello scacchiere geopolitico internazionale: e tanto più durante la
seconda guerra mondiale, quando il «nuovo ordine europeo» architettato
da Hitler sulla base di criteri razziali la penalizzò ulteriormente, relegandola verso il fondo della graduatoria continentale.
Nella discesa agli inferi dell’Italia di Mussolini, la prova più terribile
coincise con i venti mesi d’occupazione tedesca. Centinaia di migliaia di
prigionieri di guerra e di renitenti alla leva militare di Salò furono allora reclusi nei lager del Terzo Reich, schiavizzati se non torturati e uccisi, men-
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Premessa
tre un numero imprecisato di civili inermi vennero massacrati. Ma diversamente da milioni di altri uomini e donne d’Europa, questi italiani non
caddero vittime soltanto del sistema hitleriano di conquista e annientamento. Furono vittime della totale incapacità del duce – quel duce a cui
molti fra loro avevano inneggiato – sia di valutare correttamente le risorse
del paese, sia di immaginare per esso, in una drammatica congiuntura internazionale, una collocazione diversa da quella di alleato del Reich. E furono vittime della sovrana indifferenza di Mussolini per la sorte ultima degli italiani.
victoria de grazia e sergio luzzatto
Victoria de Grazia insegna Storia dell’Europa alla Columbia University di New
York. Tra i suoi studi sul Ventennio, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del Dopolavoro (Laterza 1981) e Le donne nel regime fascista (Marsilio 1993).
Sergio Luzzatto insegna Storia moderna all’Università di Torino. Ha scritto fra l’altro Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria (Einaudi 1998) e
L’immagine del duce. Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce (Editori Riuniti 2001).
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Guida alla consultazione
Come tutte le opere del genere, questo dizionario aspira a essere immediato nell’accesso e istruttivo nell’uso. Si è dunque avuto cura di fornire al lettore una serie
di strumenti intesi a facilitare la consultazione, a disegnare griglie concettuali di riferimento, a evidenziare i nessi tra le voci, a illustrare iconograficamente oggetti
privilegiati di indagine.
• All’inizio dell’opera, il Lemmario elenca tutte le voci del dizionario e i rispettivi autori, sia per il primo volume (A-K) sia per il secondo (L-Z).
• Il lettore trova poi un Elenco dei collaboratori, che censisce gli autori dei lemmi e ne indica l’affiliazione (accademica, istituzionale, ecc.), e un Elenco delle abbreviazioni più frequentemente impiegate nel dizionario.
• Segue una sezione intitolata Alberi, che illustra al lettore quanto rischierebbe di non distinguere nella foresta di voci dell’ordine alfabetico: le intricate, ma riconoscibili ramificazioni – logiche, ideologiche, cronologiche – che si dipartono
dal tronco dei temi portanti dell’opera sino a raggiungere le fronde più esterne.
• Oltre gli apparati paratestuali, il lettore ha modo di addentrarsi nel dizionario vero e proprio, dove un ulteriore strumento di servizio è rappresentato dalle
«frecce» (➤): poste in calce a ciascun lemma, queste rimandano ad altri lemmi più
o meno direttamente correlati ad esso.
• Fra il testo di ogni voce e la lista dei relativi rimandi, una bibliografia selettiva propone al lettore un percorso di approfondimento; i titoli risultano disposti
in ordine cronologico di pubblicazione (dal più antico al più recente), così da suggerire l’evoluzione degli studi sull’argomento.
• Ciascun volume del dizionario è inoltre corredato da due Saggi iconografici,
che accompagnano il lettore alla scoperta di altrettante piste figurative: quattro visite guidate nel gigantesco museo di immagini – attraenti o inquietanti – prodotte
dal Ventennio.
• Alla fine del secondo volume, chiude l’opera un Indice dei nomi.
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Accademia d’Italia
Fu istituita a Roma con regio decreto nel
gennaio 1926, allo scopo «di promuovere e
coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e
delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato». Il significato politico dell’Accademia fu reso esplicito da Mussolini, che intervenendo al Senato affermò che essa doveva dare «saggio ed
utile ausilio al Governo nello studio e nella
risoluzione dei più gravi problemi relativi alla cultura nazionale»; mentre, in occasione
della conversione in legge del decreto, nel
marzo successivo, Giovanni Gentile – pur
assicurando che essa avrebbe rispettato il «valore delle tradizioni» e non avrebbe esercitato «nessuna dittatura» – dichiarò che sarebbe stata «l’organo di un nuovo movimento spirituale», un’«Accademia della Nazione, che ha nello Stato la sua forma praticamente più alta e la sua forza più potente».
In effetti, la legge del 9 dicembre 1928 sul
Gran Consiglio del fascismo prevedeva che
ne facesse parte anche il presidente dell’Accademia d’Italia, e la legge del 19 gennaio
1939 che istituì la Camera dei fasci e delle
corporazioni, stipulando che «nessuno può
essere contemporaneamente Consigliere nazionale e Senatore o Accademico d’Italia»,
equiparò indirettamente gli accademici ai senatori. E figure politiche – o fortemente legate al regime – furono i presidenti dell’Accademia d’Italia: Tommaso Tittoni (19291930), già presidente del Senato, Guglielmo
Marconi (1930-37), Gabriele D’Annunzio
(1937-38), Luigi Federzoni (1938-43), ministro di Mussolini e presidente del Senato nel
1929-39, Giovanni Gentile quando con la
Rsi la sede fu spostata a Firenze (1943-44),
per finire con il geografo Giotto Dainelli
(1944-45). Primo segretario generale (19291934) fu lo storico Gioacchino Volpe, deputato del Pnf nel 1924-29. Cancelliere fino al 1938 fu Arturo Marpicati, vicesegretario del Pnf dal 1931 al 1934 e direttore
dell’Istituto nazionale fascista di cultura sotto la presidenza di Gentile.
Inaugurata tre anni dopo la sua istituzione,
il 28 ottobre 1929, l’Accademia fu l’espressione della polemica del fascismo nei confronti dell’intellettuale “puro”, che avrebbe
dovuto mettersi al servizio dello stato: in
questo senso essa delegittimò la principale
istituzione accademica italiana, quella dei
Lincei, già dal 1926 oggetto di forti pressioni politiche per piegarla ai voleri del regime (fu significativa nel 1927 la scelta del
palazzo della Farnesina, di fronte al palazzo
Corsini che ospitò i Lincei, come sede della
nuova Accademia). Nel giugno 1939, al termine di un progressivo processo di fascistizzazione di tutte le accademie – che ebbe
il suo momento di svolta nel 1933, quando
ai loro soci venne imposto il giuramento di
fedeltà al fascismo –, i Lincei furono sciolti
e assorbiti dall’Accademia d’Italia, che si autodefinì «la massima istituzione culturale del
Regime».
L’Accademia prevedeva un numero ristretto di soci, sessanta, divisi in quattro classi: di
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accademia di orvieto
scienze fisiche, matematiche e naturali;
di lettere; di arti; di scienze morali e storiche. Si caratterizzò per l’esclusione degli
stranieri e assicurò ai membri, nominati a vita, un buon emolumento mensile. Annoverò
tra le sue file nomi prestigiosi: Luigi Pirandello, Pietro Mascagni, Filippo Tommaso
Marinetti, Enrico Fermi. Rappresentando
diverse correnti culturali presenti all’interno del regime, e utilizzando i finanziamenti concessi dal governo, gli accademici ebbero una notevole capacità di influenza sugli intellettuali, fascisti e non. Con la politica dei premi, i concorsi, i progetti di ricerca
e i convegni annuali della Fondazione Alessandro Volta – istituita nel 1930 con il sostegno della Società Edison –, l’Accademia
promosse alcune iniziative di indubbio rilievo scientifico. Fra queste, la collana «Studi e documenti», dove apparvero le Fonti per
la storia d’Italia dal 1789 al 1815 nell’Archivio Nazionale di Parigi, a cura di Baldo Peroni (1936), e Per la storia degli eretici italiani del secolo xvi in Europa, a cura di Delio
Cantimori ed Elisabeth Feist (1937). Più
spesso, tuttavia, l’Accademia incoraggiò una
cultura improntata al nazionalismo, come dimostra la sua collaborazione con il ministero della Cultura popolare per la cosiddetta
«bonifica libraria».
Funzionali alla politica imperialistica del regime furono alcune istituzioni promosse dall’Accademia e particolarmente attive nel
corso della seconda guerra mondiale: il Centro studi sull’Africa orientale italiana, fondato nel 1935 in occasione della guerra d’Etiopia, dal 1941 pubblicò la «Rassegna di
studi etiopici»; il Centro studi per l’Albania, istituito nel giugno 1939, promosse la
«Rivista d’Albania»; il Centro studi per
la Svizzera italiana, nel 1941 rilevò l’«Archivio storico della Svizzera italiana»; il
Centro studi sul Vicino Oriente, presieduto da Federzoni.
L’Accademia d’Italia venne soppressa dal governo Bonomi il 28 settembre 1944, lo stesso
giorno in cui fu ricostituita l’Accademia dei
Lincei: una soluzione suggerita fin dall’anno
precedente anche da Croce, che aveva con-
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dannato l’«ufficio corruttore» svolto dall’Accademia d’Italia.
gabriele turi
M. Ferrarotto, L’Accademia d’Italia. Intellettuali e potere durante il fascismo, Liguori, Napoli 1977; M.
Ostenc, Cosa fu l’Accademia d’Italia, in «Nuova Antologia», n. 2191 (1994); G. Turi, Le Accademie nell’Italia fascista, in «Belfagor», n. 4 (1999).
➤ Istituto nazionale fascista di cultura; Gentile, Giovanni; Ministero della Cultura popolare (Minculpop).
Accademia di Orvieto
L’Accademia fascista di educazione fisica
femminile di Orvieto, istituita dal fascismo
allo scopo di formare sia insegnanti di educazione fisica femminile sia responsabili di
organizzazioni come l’Opera nazionale balilla, venne inaugurata l’8 febbraio 1932; la
sua attività terminò, con il crollo del regime
fascista, nel luglio 1943.
Per ovviare alla mancanza di personale educativo adeguato, fu istituita nel 1928, a Roma, l’Accademia nazionale di educazione fisica della Farnesina. L’Accademia di Orvieto nacque dall’esigenza di un’analoga istituzione che si occupasse della formazione delle insegnanti di educazione fisica femminile
e delle educatrici delle bambine e delle Giovani italiane. I programmi delle due Accademie erano simili. La differenza più consistente riguardava la sostituzione dei lavori
femminili e dei corsi di economia domestica agli esercizi militari previsti per gli allievi della Farnesina. Parzialmente diverse erano anche le attività sportive praticate: per le
donne venivano indicati come particolarmente adatti il nuoto, il pattinaggio, il tennis, lo sci, la ginnastica ritmica, mentre moderazione veniva raccomandata per la corsa, il salto in alto, la ginnastica agli attrezzi.
L’istituto, cui si accedeva con il diploma magistrale, era considerato di livello universitario e dall’università provenivano prevalentemente i suoi docenti. La selezione, molto severa, avveniva mediante concorso; ogni
anno le ammesse erano poco più di cinquanta, e circa ottocento furono in totale le diplomate dall’Accademia in stragrande maggioranza di provenienza borghese.