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Abolizione delle imposte sulla prima casa e
giustizia fiscale
La scelta di eliminare dall’ordinamento giuridico le imposte sulla
prima casa dovrebbe rispondere, semplicemente, all’idea di
trasmettere nuovi impulsi al sistema economico. Si tratta di una scelta
politica: le scelte politiche in materia fiscale, anche quando
riguardano opzioni a prima vista vantaggiose per il contribuente, non
possono ignorare il basilare principio della giustizia tributaria. Quali le
direttrici per un corretto intervento perequativo?
La decisione di eliminare dall’ordinamento giuridico le imposte sulla prima
casa corrisponde a una scelta politica. E come tutte le scelte politiche può
essere dettata, di volta in volta, da molteplici esigenze o aspirazioni, quali,
per esempio, il rafforzamento del consenso popolare, la visibilità del
promotore dell’iniziativa, il desiderio di incentivare determinati settori della
società e così via. Stando agli organi di stampa, l’intervento sulla prima
casa dovrebbe rispondere, semplicemente, all’idea di trasmettere nuovi
impulsi al sistema economico.
Sono possibili, al riguardo, alcune rapide considerazioni.
Primo. I tributi sulla casa di abitazionegravano sul patrimonio
immobiliare, ma sono normalmente corrisposti all’Ente impositore
utilizzando il reddito del contribuente. Sono da considerarsi marginali le
situazioni nelle quali il contribuente paga le imposte utilizzando disponibilità
monetarie prive di natura reddituale, perché derivanti, ad esempio, da lasciti
oppure da indebitamento (nel senso che per pagare l’imposta si chiede un
prestito agli amici, ai conoscenti, ai parenti o alle banche). Talvolta le
disponibilità monetarie del contribuente (per intenderci, il conto in banca)
rappresentano redditi prodotti in passato, rimasti inutilizzati e trasformatisi,
pertanto, in ulteriore patrimonio.
Secondo. Gli immobili adibiti ad abitazione esprimono, di regola, una
ricchezza statica che è, per l’appunto, incapace di garantire canoni di
locazione e di incrementare, per tale via, le disponibilità monetarie del
proprietario o dei suoi familiari. La ricchezza del proprietario di immobili in
concreto destinati a prima casa è ben diversa dalla ricchezza dei redditieri.
Chi dispone di un reddito monetario può consumare e investire. Chi dispone
della propria abitazione, invece, può forse vantarsi di non pagare il canone
di locazione. Ma esiste una differenza abissale tra un risparmio di spesa
(canone non versato) e il possesso di denaro.
Terzo. Eliminare le imposte sulla “prima casa” significa sgravare da tributi
il patrimonio immobiliare, qui inteso come puro oggetto di tassazione. Ma
a tale sgravio corrisponde la liberazione, a valle, di redditi che altrimenti si
sarebbero dovuti destinare al pagamento di quei tributi. Detassare la prima
casa non significa, pertanto, ridurre le imposte sul reddito. Significa, invece,
lasciare nelle mani del contribuente una liquidità che altrimenti il medesimo
contribuente avrebbe dovuto spendere per la copertura degli oneri fiscali
gravanti sul bene immobile. Tale reddito potrebbe in un secondo momento
essere utilizzato per consumi, per risparmi oppure, a distanza di tempo, per
ulteriori investimenti.
Quarto. La liberazione di quote di reddito originariamente destinate al
pagamento dei tributi immobiliari è tanto più consistente quanto maggiore è
il valore del patrimonio detassato. La determinazione delle imposte (IMU
e TASI) dipende dalla consistenza economica dell’immobile.
È vero che la determinazione della ricchezza immobiliare sconta il secolare
problema del mancato aggiornamento del catasto. È anche vero, però, che
al maggior valore dell’immobile, per quanto posticciamente intercettato,
corrisponde pur sempre una maggiore imposta e che, venendo a mancare
quest’ultima, i benefici più elevati sarebbero garantiti ai soggetti dotati di
più elevate consistenze immobiliari. Se così è, si può dire che per i soggetti
relativamente più ricchi si producono le più consistenti liberazioni di quote di
reddito. Abbiamo impiegato l’espressione “relativamente più ricchi” perché
ci stiamo riferendo soltanto alla ricchezza immobiliare rappresentata dalla
prima casa.
Quinto. Dal punto di vista degli effetti dell’abolizione delle imposte sulla
prima casa, non è detto che la liberazione di reddito riguardante le fasce di
contribuenti maggiormente dotate dal punto di vista patrimoniale si traduca
in maniera automatica in una spinta al mercato sotto forma di incremento
dei consumi o degli investimenti.
Ciò per una ragione molto semplice: lo shock al sistema economico
auspicato dal nostro Governo dipende pur sempre dalla propensione al
consumo e all’investimento delle citate fasce di contribuenti. Un maggiore
reddito disponibile pari a 100 euro riferito a un contribuente che sia titolare
di un reddito annuo pari ad 10.000 euro (un reddito, dunque, di livello
medio-basso) ha una elevata probabilità di tramutarsi in ulteriori, piccoli
consumi. Per contro, un maggiore reddito disponibile di 2.000 euro riferito a
un contribuente che dispone di un reddito annuo pari a 100.000 euro non
necessariamente si trasforma in nuovi acquisti. Ciò per la legge dell’utilità
marginale decrescente, stando alla quale - in termini assai piani - chi è
sazio non necessariamente cerca altro cibo. Dunque la pura e semplice
eliminazione delle imposte sulla prima casa avvantaggia, anche sotto
questo profilo, i proprietari degli immobili di maggior valore rispetto ai
proprietari di abitazioni più modeste.
Sesto. I governi, quale che sia il loro colore, dovrebbero sempre ispirarsi a
criteri di giustizia sia nella fase dell’introduzione di nuove imposte, sia in
quella dell’espunzione dall’ordinamento di imposte già esistenti.
In questa prospettiva, è stato in effetti annunciato, forse allo scopo di
tranquillizzare i Comuni a fronte di una potenziale perdita di gettito, un
incremento delle imposte sulla seconda casa.
Senza troppo soffermarsi sul fatto che la proprietà di una prima casa non
rappresenta garanzia di esistenza di un “secondo” immobile e senza dire
che la seconda, terza e finanche la quarta casa potrebbe essere intestata a
società di comodo, trust e prestanome di vario ordine e grado, v’è qui da
rilevare come un corretto intervento perequativo dovrebbe piuttosto
svolgersi sul fronte della abolizione differenziata delle imposte sulla prima
casa.
“Abolizione differenziata” significa che il carico fiscale sull’abitazione
dovrebbe essere ridotto in considerazione non soltanto del valore del bene,
ma soprattutto in ragione del reddito disponibile. Infatti possono darsi i casi
di contribuenti molto ricchi dal punto di vista reddituale i quali vivono in
immobili di poco pregio e di contribuenti scarsamente dotati di reddito che
occupano immobili di valore più consistente.
Per evitare strumentalizzazioni della disciplina, dovrebbe essere altresì
avviata una seria operazione di monitoraggio riferita a tutti i redditi, anche
se non risultanti dalla dichiarazione tributaria (per esempio, perché già
tassati con ritenute alla fonte o con imposte sostitutive). E si dovrebbero
altresì considerare le situazioni nelle quali, per ragioni che si possono
facilmente intuire, il contribuente sostenga le spese della “prima casa”
mediante l’impiego di redditi altrui (coniugi, amanti, semplici conviventi).
Non si tratta di un’operazione semplice. Tuttavia, tutte le riforme hanno un
costo e la conclusione ci pare agevole.
Le scelte politiche in materia fiscale, anche quando si tratti di opzioni a
prima vista vantaggiose per il contribuente, non possono ignorare il basilare
principio della giustizia tributaria. Trascurare questo principio equivale a
fabbricarsi una bomba a orologeria, dal cui scoppio potrebbero sprigionarsi
indesiderati effetti sotto forma di discredito della classe politica, di fastidio
verso le istituzioni e, finanche, in casi tutt’altro che rari, di disaffezione al
voto. La storia insegna che, in qualche occasione, l’ingiustizia fiscale è
stata la fonte di sanguinose rivolte.
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