il liberismo e il marxismo

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il liberismo e il marxismo
DUE CULTURE ECONOMICHE CONTRAPPOSTE : IL
LIBERISMO E IL MARXISMO.
I PADRI DEL LIBERISMO
Quali sono le radici culturali comuni dell’Europa ? Di sicuro il “liberalismo” e la “democrazia”
che sono alla base di tutti gli Stati europei. E... sotto il profilo “economico” ? La cultura del
liberismo che ha origine soprattutto con Adam Smith. Si tratta di un tipo di cultura economica
che dall’Ottocento è oggetto di contestazione da parte del marxismo. In questo breve percorso
ti presento i padri del pensiero economico che hanno teorizzato il liberismo e la cultura
economica alternativa rappresentata dal marxismo che tanto influenza ha avuto nella
formazione dei partiti operai di tutti i Paesi europei.
SENTI: QUAL E' LA FONTE DELLA RICCHEZZA DI UN
PAESE? PRIVATO E'... BELLO? E' UN BENE LA LIBERA
CONCORRENZA?
ADAM SMITH
L’economia: una “scienza”?
Adam Smith (1723-1790) è considerato il fondatore dell’“economia politica”. La riflessione
sull'economia diventa matura con lui ed è con lui che l'economia diventa... scienza, cioè...
un sapere che scopre delle leggi immutabili che regolano i fenomeni economici.
Ma come è possibile trasferire il concetto di leggi immutabili - che ha a che fare con la fisica al mondo economico, un mondo ricco di imprevisti, di colpi di scena (si vedano ad esempio le
brusche oscillazioni della Borsa)?
Non vedo altra definizione.
E’ proprio questa l'ambizione di Smith (come pure della fisiocrazia e di Petty, un altro
pensatore inglese): scoprire, cioè, un "ordine" che c'è nel mondo economico, delle costanti.
L'economia non e' di sicuro una scienza come la fisica galileiana, ma di sicuro si tratta di un
sapere - nella concezione del "fondatore" e nella concezione delle scienze economiche di oggi che tende a scoprire un ordine, delle costanti. Procediamo. Smith non è un "economista", ma
un... filosofo (docente di logica prima e poi di morale presso l'università di Glasgow).
Siamo di fronte ad un filosofo (va chiarito che la filosofia morale abbracciava la stessa scienza
politica, la filosofia politica e la giurisprudenza : vedi la "Storia del pensiero economico" di E.
Roll, Ed. Boringhieri) che diventa economista. Il suo capolavoro: LA RICCHEZZA DELLE
NAZIONI (il titolo completo: RICERCA SULLE NATURA E CAUSE DELLA RICCHEZZA DELLE
NAZIONI) del 1776. Si tratta di un'opera che ti consiglio di leggere: oggi vi è, pure, un'edizione
economicissima.
Quale la fonte della “ricchezza”?
Entriamo nell'opera... immortale di Smith. Così inizia (riportiamo la traduzione di Franco
Bartoli, Cristiano Camporesi e Sergio Caruso - Ed. Oscar Mondadori): IL LAVORO SVOLTO IN
UN ANNO E' IL FONDO DA CUI OGNI NAZIONE TRAE IN ULTIMA ANALISI TUTTE LE COSE
NECESSARIE E COMODE DELLA VITA CHE IN UN ANNO CONSUMA.." Cosa ne dici?
Mi pare una tesi convincente: non vi è ricchezza che non sia prodotta dal lavoro.
E' il discorso che fa Smith in polemica con la fisiocrazia. Non un tipo di lavoro (quello agricolo)
è causa di ricchezza, ma... il lavoro, ogni lavoro: l'errore della fisiocrazia, secondo Smith, è
quello di non aver confrontato "valori" - il valore dei mezzi di produzione e il valore del
prodotto finale, ma... cose.
Tu, a questo punto, potrai chiedere che cos'è che fa si' che il lavoro (ogni lavoro) sia
produttivo. Cosa risponderesti?
Immagino che sia la divisione del lavoro: più le operazioni di un singolo lavoratore sono
semplici e poche, più il lavoratore accresce la sua abilità e più, quindi, aumenta la sua
produttività.
Ma più le operazioni sono semplici non è più facile inventare macchine che sostituiscono il
lavoro? Altro che crescita delle abilità del lavoratore!
Di sicuro più le operazioni sono semplici, più è possibile inventare macchine che sostituiscono il
lavoro. E’ anche vero, però, che più le operazioni sono semplici, più cresce l’abilità del
lavoratore.
Infatti: Smith evidenzia ambedue i fattori e - aggiunge - meno tempo si perde nel passaggio
da un'operazione all'altra. Cosa dici?
Mi pare un'analisi azzeccata: se dovessi da solo produrre un paio di scarpe e dovessi, appunto,
fare tutto - dalla ricerca delle materie prime al trasporto alle fasi produttive alla
commercializzazione - io impiegherei forse degli anni, mentre con la divisione del lavoro,
un'azienda può produrre migliaia di paia di scarpe in un giorno!
Smith fa l'esempio della "fabbrica di spilli": solo la suddivisione del lavoro in tante operazioni
fatte da diverse persone è in grado di consentire ad una fabbrica di produrre un numero
enorme di spilli al giorno. Ma non ti sembra un'analisi che ha fatto il suo tempo? La
parcellizzazione del lavoro che ha avuto la sua massima realizzazione nella catena di
montaggio non ha provocato solo nevrosi, ma anche un assenteismo massiccio e quindi è
risultata alla lunga - controproducente?
Ricordo dei film che hanno messo in evidenza con immagini efficacissime l'alienazione prodotta
dalla catena di montaggio.
Anche in seguito a questi effetti negli ultimi decenni si assiste ad un processo di composizioni
di mansioni, sempre però nell'ambito della divisione del lavoro di cui ha parlato Smith (non è
che l'operaio va a scavare nelle miniere per trovare le materie prime e poi le trasporti in
fabbrica...).
Ti sembra questa la tendenza di oggi?
Mi pare di no: col processo in corso di automazione delle grosse aziende, ho l'impressione che
l'operaio perda sempre di più la sua funzione. Altro che lavoro più ricco!
Di sicuro l'operaio "classico" è destinato a sparire (anche se qualche figura, probabilmente,
rimarrà: non sarà facile o conveniente automatizzare ogni lavoro!). Vi è, però, l'altra faccia
della medaglia: l'operaio può trasformarsi in "tecnico", in controllore della produzione fatta
dalle linee acquisendo delle competenze nuove e più ricche. Non credi?
Da che cosa ha origine la “divisione del lavoro”?
Procediamo. Da che cosa ha origine la divisione del lavoro? Smith esclude che abbia origine da
una diversità di talenti naturali per cui c'è chi fa il minatore, chi l'ingegnere, chi il ciabattino,
chi il medico... Così scrive: "LA DIFFERENZA TRA DUE PERSONAGGI TANTO DIVERSI COME UN
FILOSOFO E UN VOLGARE FCCHINO DI STRADA, PER ESEMPIO, SEMBRA DERIVI NON TANTO
DALLA NATURA QUANTO DALL'ABITUDINE, DAL COSTUME E DALL'ISTRUZIONE.
QUANDO VENNERO AL MONDO, E FINO A SEI O OTTO ANNI, POTEVANO ANCHE SOMIGLIARSI
MOLTO E MAGARI I GENITORI E I COMPAGNI DI GIOCO NON SAREBBERO STATI CAPACI DI
NOTARE NESSUNA DIFFERENZA SIGNIFICATIVA". Cosa dici?
Mi pare un'analisi un po' troppo idealistica. Non è vero che gli uomini nascono tutti uguali e
non è vero che tutti possono diventare ingegneri, medici... : abbiamo tutti attitudini specifiche
- senza scomodare la Vocazione di cui parla Lutero -.
Ma non è grazie all'istruzione che uno fa emergere le proprie attitudini? Uno può essere magari
un genio - dal punto di vista genetico - ma se crescesse in una giungla, non potrebbe mai
esprimere la sua genialità! Non è vero?
Da che cosa ha origine, allora, la divisione del lavoro? Per Smith dalla tendenza - tipicamente
umana - allo scambio ("Nessuno ha mai visto un cane con un suo simile fare lo scambio
deliberato e leale di un osso contro un altro osso"). Cosa ne dici?
Mi pare una risposta saggia: è proprio perché l'uomo dipende dagli altri uomini che è portato
naturalmente a scambiare i propri prodotti con prodotti di altri di cui ha bisogno.
Ma ti sembra necessario tra la divisione del lavoro e lo scambio? Non ci sono state tribù
primitive in cui era presente la divisione del lavoro, ma non lo scambio dei prodotti? E’ questa
una classica obiezione fatta da Marx a Smith.
La divisione del lavoro - secondo Smith - è legata all'ampiezza o meno del mercato: se il
mercato è ristretto, "non esistono incentivi a dedicarsi esclusivamente a una sola occupazione"
("Un falegname di paese si occupa di tutti i tipi di lavoro che hanno a che fare col legno").
Non ti chiedo il tuo commento perché pare ovvio il discorso.
Da che cosa ha origine la “moneta”?
Smith (stiamo sempre seguendo la "Ricchezza delle Nazioni") affronta il problema dell'origine
della moneta. Tu cosa dici? Perché è nata la moneta?
Mi pare un discorso semplice. Si è sentita l'esigenza di ricorrere alla moneta - in oro, argento...
- perché il baratto tra merci comportava una serie di problemi: se io ho un bue, come faccio a
comprare il Kg di pane che mi serve oggi?
Ma la moneta in oro o argento non crea altri problemi? Non è necessario pesarla con bilance
precisissime e controllare la finezza o meno del metallo prezioso usato?
Si tratta di problemi che si sono risolti col "conio", un marchio dello Stato che attestava sia il
peso che la finezza.
Infatti: è quanto lo stesso Smith afferma. Di truffe perpetrate dai principi, comunque, ce ne
sono state.
Quale il “valore d’uso” di un prodotto e quale il suo “valore di scambio”?
Veniamo ora alla classica distinzione tra VALORE D'USO e VALORE DI SCAMBIO: il primo
riguarda l’"utilità" di una merce, il secondo il suo potere di essere scambiato con altre merci. Si
tratta di due facce della stessa medaglia?
Per nulla: l'aria, infatti, ha un enorme valore d'uso, ma non ha alcun valore di scambio.
Ma l'aria (o l'ossigeno) - se dovessimo essere sulla luna o anche sulla Terra ma in un'ampia
zona inquinata - non avrebbe un enorme valore di scambio?
E’ vero: l'aria non ha alcun valore di scambio laddove è abbondantissima, ma acquista tale
valore laddove non ci fosse.
Da cosa dipende il valore di scambio di una merce, la sua capacità cioè di essere scambiata
con altre merci?
Da quanto abbiamo detto all'inizio credo che sia il lavoro: se per produrre un paio di scarpe io
ci metto un'ora di lavoro, con tale paio di scarpe io posso comprare (scambiare) un prodotto
per fare il quale ci vuole la stessa quantità di lavoro.
Ti sembra sensata la tua risposta? Se fosse così, il valore di scambio di un paio di scarpe
prodotte da un ciabattino particolarmente veloce non sarebbe inferiore rispetto al paio di
scarpe prodotte da un ciabattino lento? E questo non ti pare quanto meno paradossale?
E allora?
Smith sostiene la teoria del valore-lavoro: il valore di scambio di una merce equivale al lavoro
necessario per produrre tale merce. L’obiezione? La riprenderemo con Marx.
Il "valore di scambio" e' chiamato anche da Smith "prezzo reale": non si tratta, cioè, del prezzo
"nominale" in denaro, ma del prezzo "reale" di un prodotto, cioè la quantità di lavoro che è
immagazzinata nel prodotto stesso. E' il LAVORO, quindi, la fonte della ricchezza. E', appunto,
la TEORIA del "VALORE-LAVORO". E' quindi il lavoro che è la fonte di ogni reddito.
Su questo punto, tuttavia, Smith non manca di ambiguità: da una parte afferma che il lavoro è
la fonte e del "salario" del lavoratore e del "profitto" dell'imprenditore e della "rendita" del
proprietario, ma dall'altra si contraddice affermando che salario, profitto e rendita sono la fonte
del valore. Da una parte, cioè, afferma che è unica la fonte del valore: il lavoro. Dall'altra
sostiene una molteplicità di fonti del valore: appunto il salario, il profitto e la rendita.
Ambiguità dovute al fatto che Smith si riferisce a due fasi diverse dell'economia: nella fase
primitiva non vi sono altri fattori produttivi di valore fuorché il LAVORO (pensiamo alla caccia,
alla pesca), mentre in un'economia evoluta non vi è solo il lavoro, ma vi sono pure le
macchine, cioè investimenti dell'imprenditore. Cosa ne dici?
La distinzione di Smith non mi convince affatto: le macchine sono a loro volta, in ultima analisi,
"lavoro" per cui non si capisce una distinzione così netta. E poi anche in una società primitiva si
usavano attrezzi anche se rudimentali, per cui neanche allora dietro il produrre c'era solo il
lavoro vivo dell'uomo!
E' questa la critica - diventata classica - di David Ricardo, l'altro grande teorico dell'economia
politica inglese.
Il valore di scambio coincide col “valore di mercato”?
Il valore di scambio non è il "valore di mercato": un prodotto che ha un tot di valore di scambio
può avere un valore di mercato maggiore o minore. A seconda di che cosa?
Semplice. A seconda della domanda e dell'offerta: se è più elevata la domanda dell'offerta di
un prodotto, è chiaro che il valore di mercato di tale prodotto può superare di gran lunga il
valore di scambio.
Infatti: se la domanda supera l'offerta, è chiaro che il prodotto richiesto può avere un prezzo
superiore al suo effettivo, oggettivo valore di scambio. L’aumento potrebbe essere passeggero
- sostiene Smith - in quanto altri imprenditori sarebbero interessati a produrre la stessa merce
ed in questo modo vi sarebbe una crescita dell’”offerta” che farebbe diminuire i prezzi. Si tratta
- dice Smith - della tendenza del mercato a far coincidere il valore di mercato col valore di
scambio.
Smith: teorico delle leggi capitalistiche?
Proseguiamo. Smith - nonostante Marx lo dipingerà come il teorico delle leggi capitalistiche dimostra una sensibilità nei confronti degli operai nati con la Rivoluzione industriale. Dice ad
esempio che sono gli operai i più deboli nelle contese con i padroni. Questi ultimi - afferma sono di fatto coalizzati nell'abbassare il prezzo del lavoro: non esistono leggi che lo
impediscono, mentre esistono contro le coalizioni degli operai!
Aggiunge che vi è un certo livello al di sotto del quale è impossibile ridurre i salari: nella
maggior parte dei casi il salario deve essere qualcosa di più dell'equivalente necessario al
sostentamento del lavoratore, perché deve servire anche ad allevare una famiglia, cioè ad
alimentare la "razza" degli operai.
Smith va oltre ed afferma che NESSUNA SOCIETA' PUO' ESSERE FLORIDA E FELICE SE LA
GRANDE MAGGIORANZA DEI SUOI MEMBRI E' POVERA E MISERABILE. OLTRETUTTO, E'
SEMPLICE QUESTIONE DI EQUITA' IL FATTO CHE COLORO CHE NUTRONO, VESTONO E
ALLOGGIANO LA GRAN MASSA DEL POPOLO DEBBANO AVERE UNA QUOTA DEL PRODOTTO
DEL LORO STESSO LAVORO TALE DA ESSERE LORO STESSI PASSABILMENTE BEN NUTRITI,
VESTITI ED ALLOGGIATI.
Cosa ne dici?
Altro che filo-capitalista! A me pare un socialista ante litteram!
Ma la sensibilità nei confronti dei ceti più deboli non è funzionale solo all'accrescimento del
profitto dei capitalisti? Meglio sono trattati gli operai, meglio lavoreranno e produrranno per il
padrone!
Dalla lunga citazione di prima non appare proprio questo sottofondo ideologico.
Ti consiglio di leggere integralmente le pagine 67, 68, 78 e 81.
Smith arriva a dire che UNA SUSSISTENZA ABBONDANTE AUMENTA LA FORZA FISICA DEL
LAVORATORE, E LA CONFORTANTE SPERANZA DI MIGLIORARE LA PROPRIA CONDIZIONE E DI
FINIRE FORSE I PROPRI GIORNI NELL'AGIO E NELL'ABBONDANZA, LO INCITA A ESERCITARE
AL MASSIMO QUESTA FORZA. SE I SALARI SONO ALTI, TROVEREMO CHE GLI OPERAI SONO
PIU' ATTIVI, DILIGENTI E SVELTI DI QUANDO I SALARI SONO BASSI: Cosa ne dici?
Mi pare un po' esagerato se leggiamo questo passo con l'ottica di oggi: più alti sono i salari diremmo - più si abbassa la competitività dell'azienda col rischio di uscire di mercato.
Allora, però, l'Inghilterra non aveva concorrenti. La classe operaia, poi, era sfruttata in modo
disumano.
Perché i redditi dei lavoratori sono diversificati?
Vediamo più in dettaglio il discorso sui salari. Essi variano a seconda del tipo di lavoro. Più il
lavoro è pesante o sporco o disonorevole - secondo Smith -, più il salario è elevato. Cosa ne
dici?
Mi pare una considerazione corretta: lo sanno tutti ad esempio che i mungitori - che lavorano
in un ambiente non pulito e in più di notte - prendono dei salari alti.
Ma i mungitori prendono di più perché il lavoro è non pulito o perché l'offerta di manodopera
di questo tipo sul mercato è scarsa per cui i mungitori vengono spesso "rubati" ad altre
aziende?
Si tratta dell'altra faccia della medaglia: più il lavoro non è pulito, meno vi è gente disponibile
per quel tipo di lavoro.
Sembra proprio così.
In secondo luogo, per Smith, i salari "variano con la facilità o difficoltà di apprendere un
mestiere e con il costo, alto e basso, dell'apprendimento". Cosa ne dici?
Non mi convince molto: non vedo perché un medico della "mutua" che apre l'ambulatorio per
pochissime ore al giorno prenda non so quante volte di più di mio padre che lavora in fabbrica,
come operaio - per otto ore al giorno!
Non ti sembra ingiusto nei confronti del medico? Questi non ha alle spalle un lungo iter di
studi, iter durante il quale è stato mantenuto dalla famiglia, mentre l'operaio può aver iniziato
a lavorare a 15 anni essendo il suo un lavoro più facile da apprendere?
In terzo luogo, secondo Smith, "i salari del lavoro nelle diverse occupazioni variano secondo la
stabilità e la precarietà dell'occupazione". In quarto luogo "i salari del lavoro variano a seconda
della misura in cui si deve riporre fiducia nell'operaio" (vedi gli orefici, gioiellieri, medici,
avvocati...). In quinto luogo "i salari del lavoro nei diversi impieghi variano secondo la
probabilità o l'improbabilità di riuscita". Cosa ne dici?
Quest'ultima circostanza mi pare un criterio accettabile: lo sanno tutti, ad esempio, che la
facoltà di ingegneria è altamente selettiva e, cioè, la probabilità di riuscita è molto bassa e
questa improbabilità non può che giustificare - per chi ce la fa - una retribuzione più
consistente di quella dei... comuni mortali.
Non occorre, secondo te, guardare ai "bisogni" del lavoratore (e della sua famiglia), più che
alle sue competenze maturate con gli studi?
Macché! Chi glielo farebbe fare allo studente di ingegneria di faticare così tanto per superare
gli esami? Chi - col criterio dei bisogni - si avventurerebbe in percorsi di studi particolarmente
impegnativi?
Ma non sarebbe giusto finirla di dare troppi soldi a chi non ne ha bisogno e troppo pochi a chi
ne ha effettivamente bisogno?
Tu sei un lavoratore “produttivo” o “improduttivo”?
Veniamo alla classica distinzione smithiana tra lavoratori "produttivi" e lavoratori
"improduttivi". Lavoro produttivo è quello che aggiunge "valore" alla materia a cui viene
applicato (vedi il lavoro di un operaio che opera in una fabbrica). Il domestico, invece, non
produce alcun valore. Smith dice che un uomo "diventa ricco se impiega una moltitudine di
manifatturieri, ma va in miseria se mantiene una moltitudine di domestici". Cosa ne dici?
Mi pare una distinzione inaccettabile: a questa stregua anche il capo del governo, il Papa, i
cantanti, gli attori... sono lavoratori improduttivi, il che mi pare esagerato!
Ma fino a prova contraria il capo del governo, i cantanti... non sono mantenuti esclusivamente
dai lavoratori produttivi? Se non ci fosse l'operaio a produrre reddito, come farebbe il
capitalista - facciamo un esempio semplice - a mantenere i domestici? Non si tratta dei soldi
prodotti dall'operaio? Questo è il punto di vista di Smith. I ceti improduttivi non aggiungono
alcun valore a dei materiali e quindi non producono alcuna ricchezza: il loro reddito, quindi, è il
prodotto dei ceti produttivi.
Lo Stato: un ente che dissipa ricchezza?
Ti presento un altro stimolo di riflessione, tra i tantissimi di cui è piena la "Ricchezza delle
nazioni". Così Scrive Smith: "LE GRANDI NAZIONI NON SONO MAI IMPOVERITE DALLA
PRODIGALITA' E DALLA CATTIVA GESTIONE DEI PRIVATI, MENTRE LO SONO TALVOLTA DA
QUELLE DELLO STATO". Cosa ne dici?
Mi pare un discorso scritto oggi, tanto è attuale. Lo spreco di denaro pubblico - o comunque
l'allegra finanza dello Stato italiano - è sotto gli occhi di tutti.
Ma la tesi di Smith non è preconcetta nei confronti dello Stato? Lo Stato non svolge un ruolo
fondamentale per proteggere i ceti più deboli dagli effetti nefasti del liberismo sfacciato?
Quali i vantaggi del “liberismo”?
Smith è il teorico del "liberismo". Per lui la libertà del privato dalle catene dello Stato è un
valore supremo. Sono i privati che devono decidere cosa produrre, come produrre, dove
commercializzare i propri prodotti, senza alcun intralcio da parte dello Stato.
Per lui privato vuol dire efficienza, economicità, scelte razionali: solo il privato che rischia in
proprio, che opera per la "sua" azienda può, fare le scelte più convenienti, più oculate, più
razionali dal punto di vista economico. Smith inneggia alla proprietà privata, alla iniziativa
privata, alla concorrenza, al libero scambio. Cosa ne dici?
Mi pare un discorso intelligente: in un mercato libero i prezzi sono destinati a scendere e la
qualità a migliorare.
Non ti sembra un po’ idealistica la tua affermazione? La libera concorrenza - tanto più oggi in
cui la "piazza" è di fatto mondiale - non mette in crisi un valore primario qual è il diritto al
lavoro? Non siamo di fronte ad un’economia che, invece di essere usata per l'uomo, è utilizzata
contro l'uomo?
La libera concorrenza, indubbiamente, porta - come linea di tendenza - all'abbattimento dei
costi (e per abbattere i costi incentiva il continuo sviluppo tecnologico) e al miglioramento dei
costi, ma anche - almeno per molti - la messa in crisi del posto di lavoro. Smith - che assiste
agli albori dello sviluppo industriale - enfatizza gli effetti positivi.
Smith arriva a parlare di una MANO INVISIBILE, una sorta di provvidenza che da una somma
di utili perseguiti dai singoli privati (ogni operatore, ovviamente, pensa al suo tornaconto) trae
un bene collettivo. Così scrive: "... EGLI MIRA SOLO AL SUO PROPRIO GUADAGNO ED E'
CONDOTTO DA UNA MANO INVISIBILE...A PERSEGUIRE UN FINE CHE NON RIENTRA NELLE
SUE INTENZIONI.
NE' IL FATTO CHE TALE FINE NON RIENTRI SEMPRE NELLE SUE INTENZIONI E' SEMPRE UN
DANNO PER LA SOCIETA'. PERSEGUENDO IL SUO INTERESSE, EGLI SPESSO PERSEGUE
L'INTERESSE DELLA SOCIETA' IN MODO MOLTO PIU' EFFICACE DI QUANDO INTENDE
EFFETTIVAMENTE PERSEGUIRLO. IO NON HO MAI SAPUTO CHE SIA STATO FATTO MOLTO
BENE DA COLORO CHE AFFETTANO DI COMMERCIARE PER IL BENE PUBBLICO".
Lo Stato: un ente nato per la difesa dei ricchi contro i poveri?
Ti propongo un altro stimolo. Così scrive Smith: "IL GOVERNO CIVILE, IN QUANTO VIENE
INSTAURATO PER LA SICUREZZA DELLA PROPRIETA', VIENE IN REALTA' INSTAURATO PER LA
DIFESA DEI RICCHI CONTRO I POVERI, CIOE' DI COLORO CHE HANNO QUALCHE PROPRIETA'
CONTRO COLORO CHE NON NE HANNO NESSUNA". Cosa ne dici?
Mi sembra di leggere un autore comunista: come si fa a dire che lo Stato nasce a difesa dei
ricchi, quando sappiamo che è nella definizione stessa di Stato che è al di sopra delle parti ed
opera per tutti i cittadini? Il parlamento - che è l'organo centrale di uno Stato - non è
espressione di tutti i ceti sociali?
Non sono i ceti possidenti che storicamente hanno teorizzato, con parlamenti che erano loro
diretta espressione, il sacro diritto della proprietà ed hanno definito "reato" qualsiasi violazione
dei poveri contro la proprietà dei ricchi? Una buona fetta, poi, del lavoro dei magistrati oggi
non ha a che fare con reati contro il patrimonio, cioè contro la proprietà dei ricchi?
Contro la proprietà di tutti, non solo quella dei ricchi.
Le imposte: quali caratteristiche dovrebbero avere?
Un ultimo stimolo. Riguarda le imposte (un tasto... delicato). Per Smith l'imposta deve essere
certa e non arbitraria (chiari i tempi di pagamento, il modo di pagare, la somma dovuta), va
riscossa nel tempo e nel modo in cui è più probabile che sia comodo pagarla per il
contribuente".
Per Smith, inoltre, è irrazionale che vi sia un numero troppo grande di funzionari addetti
all'accertamento dell'imposta (il loro stipendio di fatto verrebbe a sottrarre un buona parte del
gettito fiscale). L'imposta, poi, non deve "ostacolare l'industriosità del popolo e scoraggiarlo dal
dedicarsi a certi rami di affari che potrebbero offrire mantenimento e occupazione a un gran
numero di persone". Cosa ne dici?
Ho l'impressione che i nostri governanti non abbiano mai letto Smith: sappiamo tutti che in
Italia vi è una selva di leggi tributarie, spesso tra loro in contrasto e di difficile interpretazione;
è noto, poi, che le aliquote fiscali in Italia sono troppo elevate rispetto ad altri Paesi nostri
concorrenti e questo non fa che disincentivare i nostri imprenditori. Perché mai gli imprenditori
dovrebbero guadagnare tanto se poi una parte ingente del loro guadagno devono versarla allo
Stato?
Ma se si diminuissero le imposte agli imprenditori, non si dovrebbero alzare quelle sulla povera
gente, sui lavoratori, cioè, che oggi sono di fatto la bestia da soma dello Stato?
Si chiude qui il viaggio sulla "Ricchezza delle Nazioni" di Smith. Se non l'hai ancora letta, te la
consiglio caldamente, non solo perché rappresenta una pietra miliare del pensiero economico,
ma anche per i suoi possibili riflessi in chiave attuale.
A
COSA DEVONO CORRISPONDERE I SALARI?
DA DOVE DERIVA LA "RENDITA"?
DAVID RICARDO
L'opera "classica" di Ricardo (pubblicata nel 1817): SUI PRINCIPI DELL'ECONOMIA POLITICA E
DELLA TASSAZIONE. Si tratta di un'opera che per ora non ti consiglio perché non ha la
limpidezza della "Ricchezza delle Nazioni": La leggerai - chissà! - all'università se dovessi
affrontare una facoltà economica.
Ricardo (1772-1823) proviene da famiglia ebrea olandese. Intraprende la professione di suo
padre, cioè, l'agente di cambio e, grazie a questa professione, accumula una grossa fortuna e
diventa poi membro del parlamento. Scrivendo una cinquantina di anni dopo Smith,
indubbiamente, Ricardo dimostra una maggiore conoscenza dei processi economici del sistema
industriale che, intanto, si era sviluppato.
Abbiamo già anticipato - durante il percorso su Smith - la presa di distanza di Ricardo dalla tesi
smithiana secondo cui nell'economia evoluta non vi è solo il lavoro come fonte di valore, ma
anche la tecnologia. Secondo Ricardo anche le stesse macchine (dalle più sofisticate a quelle
più semplici) sono "lavoro passato", lavoro, cioè, immagazzinato.
Ci sono prodotti il cui “valore di scambio” non dipende dal “lavoro”?
Per Ricardo, quindi, la TEORIA DEL VALORE-LAVORO vale in qualsiasi tipo di economia: anche
nelle fasi più avanzate dello sviluppo industriale la fonte del valore è sempre il LAVORO (inteso
sia come LAVORO PRESENTE che come LAVORO PASSATO). Veniamo ad un'altra
puntualizzazione di Ricardo. Per lui una merce - che sia naturalmente "utile" - deriva il suo
valore di scambio "da due fonti: dalla loro scarsità e dalla quantità di lavoro necessaria per
ottenerle". Cosa ne dici?
Mi pare una tesi corretta. Vedi ad esempio dei vini pregiati che si possono ottenere da viti
coltivate in terreni particolari: non vi è alcun lavoro capace di far crescere la quantità di tale
merce!
Ma non è questa una tesi in netto contrasto con la teoria del VALORE-LAVORO?
Pare di sì.
Per Ricardo esistono delle merci speciali (appunto vini pregiati, opere d'arte, libri e monete
scarse) il cui valore di scambio dipende dalla "scarsità" e non dal lavoro: non è possibile
accrescere la loro quantità col lavoro, per cui il loro valore "non può diminuire per un aumento
dell'offerta".
La stragrande maggioranza delle merci, però, per Ricardo, deriva il loro valore di scambio dal
lavoro e, quindi, può essere moltiplicata illimitatamente.
Occorre distinguere il valore “nominale” dal valore “reale” del salario.
Una nuova puntualizzazione: un conto è, per lui, il salario "nominale" ed un conto il salario
"reale" (cioè il suo potere di acquisto). Cosa ne dici?
Mi pare una distinzione corretta: non ha importanza prendere 100.000 lire al mese o un
miliardo, perché ciò che conta è il potere di acquisto del salario.
Infatti. Pensa, ad esempio, a cosa valeva un miliardo di marchi dopo il crollo del marco nel
1923!
Da cosa dipende il “valore di scambio” del lavoratore?
Ricardo, inoltre, applica la teoria del VALORE-LAVORO allo stesso salario. Saresti in grado tu di
applicarla?
Certo: come una merce ha un valore di scambio che è pari al lavoro necessario per produrre
tale merce, così il valore di scambio del lavoro è equivalente al lavoro necessario per produrre
il lavoro stesso (cioè, il lavoratore).
Ma... come si fa a "produrre" un lavoratore? Un conto è una merce qualsiasi ed un conto quella
merce - se si vuole chiamare così- del tutto speciale che è l'uomo, cioè il lavoratore!
Penso che il termine "produrre" possa essere meglio tradotto - trattandosi di una merce
specialissima - “alimentare”.
Ma quale sarebbe, mai, il lavoro necessario ad alimentare il lavoratore? Non ti pare un nonsenso?
No: il lavoro necessario ad alimentare il lavoratore non è altro che il lavoro immagazzinato nei
mezzi di sussistenza.
E’ questa la tesi di Ricardo. L'applicazione di Ricardo è in questi termini: il valore di scambio di
quella merce speciale che è il lavoro equivale al lavoro (immagazzinato nei mezzi di
sussistenza) necessario a mantenere in vita il lavoratore, ad esempio per una giornata. Cosa
ne dici?
Mi pare una tesi inaccettabile: non solo perché concepisce il lavoratore alla stregua di una
"merce", ma anche perché fissa il salario (reale) una volta per tutte identificandolo con
semplici mezzi di sussistenza!
La critica alla concezione secondo cui il lavoratore è una merce sarà fatta da Marx e dalla
stessa Chiesa. Sul tuo secondo rilievo ti consiglio di consultare la Costituzione italiana per
verificare se per noi la retribuzione debba corrispondere ai mezzi di sussistenza o no (vedi l'art.
36).
Il valore di scambio del lavoro non è tout court, per Ricardo, il suo valore di mercato: sul
mercato, infatti, i salari possono subire fluttuazioni a secondo della legge della domanda e
dell'offerta. Per lui, tuttavia, il valore di mercato tende a coincidere col valore di scambio. Lo
sai perché?
Mi pare ovvio. Se i salari crescono - per effetto di una domanda superiore all'offerta -,
aumenta il benessere dei lavoratori e di conseguenza aumenta la popolazione (cresce la
natalità e diminuisce la mortalità), accrescendo cioè l'offerta di lavoro sul mercato.
Ma la merce-lavoro non è una merce specialissima che si produceva allora in non meno di 8-9
anni?
Certo: si tratta di un processo in tempi lunghi.
E' questa la tesi di Ricardo. Una crescita dei salari - oltre a diminuire il profitto
dell'imprenditore - produce un miglioramento delle condizioni di vita e di conseguenza un
incremento della popolazione e dunque dell'offerta di lavoro sul mercato: più aumenta tale
offerta, più i salari diminuiscono.
Da cosa dipende la “rendita”?
Veniamo alla celebre dottrina di Ricardo sulla "rendita". Si tratta, come sai, di un reddito che si
distingue dal profitto: il profitto va all'imprenditore che investe capitali, ad esempio, in
un'azienda agricola, la rendita è il reddito che va al proprietario per la terra che concede in
affitto all'imprenditore. Che succede in una situazione - come al tempo della colonizzazione
inglese in America - in cui la terra è abbondante?
Non vi sarebbe alcuna rendita: quale imprenditore pagherebbe la rendita ad un proprietario in
presenza una quantità enorme di terreni vergini?
Ma non si deve tener conto della qualità del terreno e della sua stessa ubicazione? Un terreno
vicino ad una città o a vie di comunicazioni non vale oggettivamente di più di un altro lontano
dal mercato?
Certo deve trattarsi di terreni che hanno le stesse proprietà.
E’ questa la tesi di Ricardo: egli precisa che deve trattarsi di terreni che hanno le stesse
proprietà, la stessa qualità e, ovviamente, devono essere in quantità illimitata.
Per Ricardo la rendita non è assoluta, ma DIFFERENZIALE. Vediamone l'impostazione. Se ad
un certo momento si ha una crescita di popolazione, si ha un incremento di domanda che
costringe a coltivare terreni meno fertili, terreni, cioè, che richiedono più lavoro e che quindi
provocano l'aumento del prezzo del grano. In questo caso si ha la rendita da parte dei
proprietari dei terreni più fertili. Cosa ne dici?
Non mi convince affatto: come fanno i proprietari dei terreni più fertili a pretendere una
rendita quando la crescita del prezzo del grano riguarda solo i terreni meno fertili?
La tua osservazione è intelligente. Tu affermi - ricardianamente - che è solo il prezzo del grano
dei terreni meno fertili che cresce in quanto il valore di scambio è equivalente al lavoro
necessario. Hai, quindi, colto nel segno. E' un fatto, però, che sulla base della crescita della
domanda si ha un incremento del valore di mercato, e questo vale anche per il grano dei
terreni più fertili.
Per Ricardo si ha quindi una rendita DIFFERENZIALE che è costituita dall'eccedenza che c'è tra
il valore di scambio del prodotto dei terreni di prima qualità e il suo valore di mercato. Nel
momento in cui, in seguito ad una ulteriore crescita della popolazione, si coltivano terreni
ancora meno fertili, anche sui terreni di seconda qualità si forma la rendita e così via.
La “rendita” degli imprenditori agricoli
conflitto?
e il “profitto” degli industriali
sono in
Ricardo precisa che il "prezzo del grano non è alto perché si paga una rendita, ma si paga una
rendita perché il prezzo del grano è alto": quand'anche i proprietari dovessero rinunciare alla
rendita, "nel prezzo del grano non vi sarebbe alcuna riduzione". Veniamo al rapporto tra
rendita fondiaria e profitto degli industriali. Lo puoi intuire?
Certo: più è elevata la rendita, più crescono i salari, più diminuiscono i profitti.
E' questo il discorso di Ricardo. O meglio Ricardo dice che la crescita del prezzo del grano - che
ha come ricaduta la rendita differenziale - provoca un incremento dei salari (lo sai bene a cosa
corrisponde il valore di scambio del lavoro), e questo, ovviamente, non può che ridurre i
profitti degli industriali i cui prodotti non registrano un incremento di prezzo per via di una
crescita di lavoro.
L’introduzione delle macchine nelle fabbriche produce disoccupazione o no?
Ti sottopongo un ultimo problema: che rapporto c'è tra l'introduzione della macchine nelle
fabbriche ed occupazione?
Mi pare ovvio: più si introducono macchine, più si produce disoccupazione.
Ma con che cosa si fanno le macchine se non con lavoro?
La disoccupazione prodotta, però, è maggiore della nuova occupazione!
Ricardo in un primo momento vede i danni - in termini di disoccupazione - dovuti
all'introduzione delle macchine come passeggeri, poi si ricrede ed afferma che tale introduzione
"è spesso molto nociva alla classe lavoratrice".
LA MISERIA: FRUTTO DI UNA SCELTA POLITICA O
SEMPLICEMENTE IL PRODOTTO DI UNA LEGGE
NATURALE?
ROBERT MALTHUS
Malthus è notissimo per la sua opera "SAGGIO SUL PRINCIPIO DI POPOLAZIONE" (1798).
Forse lo conosci già. O, come minimo, avrai sentito parlare di "neo-malthusianesimo", una
dottrina secondo la quale è necessario arrestare l'esplosione demografica del Terzo e Quarto
Mondo con tutti i mezzi preventivi (compreso l'aborto). Cosa ne dici?
Mi pare realistica: lo sviluppo demografico è una vera e propria bomba che potrebbe
minacciare il futuro stesso dell'umanità.
Non ti pare egoistica? Il vero problema oggi è quello di contenere la crescita demografica o
quello di distribuire equamente le risorse? Non ti sembra che le risorse ci siano e siano mal
distribuite?
Questo mi pare sia il punto di vista della Chiesa e del marxismo. E’ un fatto, però, che quelli
che hanno questa opinione non negano la necessità di percorrere anche la carta del
contenimento della popolazione.
E’ vero.
Malthus, nella sua celebre opera, ha messo in luce il problema demografico. Per lui - in
condizioni ottimali (vedi colonie americane) in cui vi è un'abbondanza di terre e non si
ostacolano le nascite in modo innaturale - la popolazione raddoppia ogni 25 anni.
Se si applicasse tale tasso all'Inghilterra si avrebbe che i 7 milioni di abitanti (de tempo) in 25
anni diventano 14.000.000, arrivando a 28 dopo 50 anni, a 56 dopo 75 anni e a 112 dopo 100
anni. Contemporaneamente si avrebbero mezzi di sussistenza sufficienti dopo 50 anni per
21.000.000, dopo 75 anni per 28.000.000, dopo 100 anni per 35 milioni (contro 112 milioni di
abitanti).
Si avrebbe, cioè, una popolazione che cresce in modo geometrico (1, 2, 4, 8, 16...), mentre le
risorse alimentari crescerebbero in modo aritmetico (1, 2, 3, 4, 5...). Uno squilibrio, quindi,
destinato ad aumentare sempre di più. Cosa ne dici?
Mi pare una tesi cervellotica o, quanto meno, non realistica. Non tiene presente, infatti, che la
produttività della terra non è qualcosa di immutabile: la tecnologia ha accresciuto e sta
accrescendo sempre di più le risorse alimentari con potenzialità praticamente infinite.
Non ti sembra di essere troppo ottimista? Non è un fatto che l'esplosione demografica la si ha
proprio laddove non vi sono le tecnologie necessarie? Come si spiegherebbe, altrimenti,
l'ingresso massiccio in Italia ed in genere nei Paesi industrializzati di extracomunitari?
Questo è un fatto.
La tecnologia oggi ha una potenzialità enorme, una potenzialità che può esprimersi al
massimo, però, solo se vi è la convenienza economica e si vi è la volontà politica.
Secondo Malthus la miseria non è dovuta a scelte politiche, ma ad una legge "naturale".
Quand'anche, infatti, vi fosse un fase di benessere (dovuta ad una crescita di ricchezza, di
reddito), questa sarebbe destinata a provocare miseria: crescerebbe di conseguenza la
popolazione, ci sarebbero più bocche da sfamare, le risorse diventerebbero insufficienti e
questo porterebbe alla miseria. Cosa ne dici?
Mi pare un discorso che di sicuro oggi non ha più alcun valore: oggi la crescita demografica nei
Paesi ricchi è prossima allo zero, mentre al contrario dove vi è miseria, la popolazione cresce in
modo impetuoso.
Non ti sembra che si debba prendere in considerazione non tanto il Paese ricco o povero, ma
l’individuo ricco o povero? Non è un dato di fatto che le famiglie povere sono tradizionalmente
più numerose (si veda il Sud), mentre le famiglie che godono di un reddito più elevato sono
meno numerose.
E’ vero, ma è anche vero che l’esplosione demografica è di gran lunga più accentuata nei Paesi
poveri.
Le coppie “povere”? Devono imitare quelle “ricche”!
Malthus non arriva ad un pessimismo totale. Per lui i coniugi poveri non possono essere tanto
irresponsabili da procreare figli che poi non sono in grado di mantenere. Devono imparare dalle
coppie borghesi: cioè programmare il numero dei figli sulla base dell'esigenza di mantenere un
determinato tenore di vita.
Come, in concreto? Attraverso contraccettivi, l'aborto, "vizi" (come li chiama lui)? No.
L'ecclesiastico Malthus è contrario a qualsiasi "vizio": per lui le coppie povere devono ritardare
il più possibile il matrimonio per contenere il più possibile il periodo di fecondità della donna.
Cosa ne dici?
Mi sembra una tesi inaccettabile: perché mai i poveri dovrebbero astenersi dai rapporti sessuali
per lunghi anni, gli anni - tra l'altro - in cui lo stimolo sessuale è più avvertito?
Non credi che siano irresponsabili i giovani che, pur non avendo mezzi finanziari, mettono al
mondo dei figli?
L’assistenza da parte dello Stato o aiuti da parte di privati? Sono controproducenti!
Malthus è noto anche per aver combattuto le leggi sui poveri: per lui l'assistenza pubblica ai
poveri è controproducente non solo perché porta all'incremento della popolazione (e quindi
crea i poveri che deve mantenere), ma anche perché incentiva altri a non lavorare per farsi
assistere.
Per Malthus l'aiuto ai poveri spegne lo spirito di indipendenza dei poveri stessi, il loro desiderio
di aiutarsi da sé. Per lui occorre ammonire i poveri che il loro destino è nelle loro mani. Cosa
ne dici?
E' una tesi che mi trova consenziente: basta guardare in casa nostra - in Italia - per vedere
che un eccesso di assistenza dello Stato (vedi cassa integrazione, pensioni anticipate..) non
può che disincentivare lo spirito di intraprendenza dei cittadini e provoca poi un vero e proprio
contagio arrivando anche all'illecito delle invalidità fasulle!
Una convinzione del genere si è trasformata negli anni di Reagan in America in atti legislativi
tesi a mettere in crisi quello che in gergo si chiama lo "Stato sociale".
Malthus non solo tuona contro le leggi sui poveri, ma anche contro qualsiasi ipotesi di aiuto ai
poveri da parte dei privati. Una sottoscrizione di ricchi, ad esempio, non farebbe altro che
portare ad un aumento della domanda di carne, aumento che si porta dietro l'aumento del
prezzo della carne (di conseguenza non si acquista più carne di prima).
Secondo Malthus se l'incremento di domanda di carne fosse duratura, questo porterebbe ad
incentivare la produzione di bestiame a scapito, però, del grano: ci sarà, dunque, meno grano
per la popolazione.
Se grazie all'incremento di domanda si dovesse avere poi un incremento complessivo della
produzione, si avrebbero come conseguenza maggiore ricchezza, più popolazione e miseria.
Cosa ne dici?
Mi pare un ragionamento che non fa una grinza: non immaginavo fosse così rigoroso!
Ma se così fosse, l'umanità non sarebbe già estinta? Di sicuro lo stato di benessere non
produce - almeno oggi - un incremento di popolazione: anzi da noi la crescita è prossima allo
zero.
LA CULTURA ECONOMICA MARXISTA“
Marx - come sai - considera Smith e Ricardo non come i teorici dell'economia, ma come i
teorici di un tipo di economia, quella capitalistica: le loro presunte "leggi", quindi, non sono le
leggi dell'economia, ma le leggi del capitalismo. Si tratta di un giudizio che si inquadra nel suo
"materialismo storico", nella sua concezione della "ideologia". Il capolavoro di Marx in materia
economia é IL CAPITALE (sottotitolo: "Critica dell'economia politica"). Altri scritti essenziali:
"Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica" e "Critica dell'economia politica"
((1859).
Tuffiamoci nel suo pensiero. Partiamo dalla "merce". In sintonia con Smith e Ricardo, Marx
attribuisce alla merce un "valore d'uso", un "valore di scambio" ed un "valore di mercato". Hai
presente il concetto di "valore di scambio"?
Certo: il valore di scambio è determinato dal lavoro necessario per produrre una merce. Più
lavoro, quindi, c'è in una merce, più tale merce ha la capacità di essere scambiata con altra
merce.
E' questo il significato che ne danno i "classici" e lo stesso Marx. Marx, però, apporta una
variante: parla di quantità di lavoro "socialmente necessaria" intendendo con questa
espressione la produttività media, date determinate attrezzature e determinate abilità
lavorative di una certa epoca. Una variante che ha una grande importanza: altrimenti si
potrebbe avere il paradosso che il prodotto di un lavoratore più pigro sia maggiore del prodotto
del lavoratore più agile perché quest'ultimo impiega meno tempo.
Il valore d'uso, come sai, è l'utilità di una merce. Il valore di mercato, poi, dipende dalla
domanda e dall'offerta, per cui può scostarsi dal valore di scambio: se una merce è molto
richiesta ed è scarsa, è naturale che il suo valore di mercato cresca oltre il suo valore di
scambio. E cosa si intende per "merce"? Per Marx si tratta di tutto ciò che viene prodotto al
fine di essere scambiato e non per l'uso del produttore. La produzione di "merci", quindi, non è
un fattore universale, un fattore che caratterizza la vita economica.
Addentriamoci nelle formule di base
Dopo questa premessa, comincio a proporti qualche formula. Non preoccuparti: si tratta di una
introduzione molto soft. Marx presenta la forma del baratto con la formula: M-M (si scambia
cioè merce contro merce). E la formula di un tipo di società in cui vi sono tanti piccoli
produttori ognuno dei quali produce un determinato prodotto che vende sul mercato per poter
comprarsi a sua volta i prodotti di cui necessita? Questa: M-D-M (il fornaio, ad esempio,
produce il pane, lo vende sul mercato in cambio di D - denaro - e, con questo D si compra
prodotti di cui ha bisogno. E la formula del capitalismo? Puoi intuirla?
Ci provo: qui si ha di fronte il capitalista che non ha come obiettivo quello di soddisfare i suoi
bisogni col denaro guadagnato, ma di produrre un incremento del capitale che ha investito.
Non riesco, però, a tradurre questo discorso in una formula.
E' proprio questa l'analisi che fa Marx: mentre per l'artigiano pre-capitalista l'obiettivo è la
soddisfazione dei suoi bisogni, per il capitalista l'obiettivo è l'incremento del capitale che ha
investito. La formula? Il capitalista parte con del capitale che investe (col quale compra
materie prime, macchinari, lavoro...). La formula, dunque, inizia con D e finisce con D. Il
secondo D, ovviamente, deve essere maggiore del primo: scriviamo allora D'. La formula,
dunque, e' D-M-D' (dove M= le merci - materie prime, forza - lavoro... - che il capitalista
compra col D iniziale).
Una puntualizzazione di Marx. Il capitalista non compra il "lavoro", ma la "forza - lavoro": la
forza - lavoro è la capacità di lavoro, il lavoro è l'uso di tale capacità. In altre parole la forza lavoro di una giornata è la capacità di lavoro di una giornata di un lavoratore, capacità che poi
viene tradotta in attività muscolare... cioè in lavoro. Proseguiamo. Abbiamo visto la formula
che indica il tipo di scambio del sistema capitalistico. Ti sembra ancora attuale?
Che il capitalista si proponga di aumentare il capitale che ha investito mi pare ovvio: se non si
proponesse questo, perché mai dovrebbe intraprendere una iniziativa imprenditoriale con tutti i
rischi che questa comporta? Si tratta, quindi, di un obiettivo primario di ogni imprenditore
anche oggi.
La tua osservazione è sensatissima. Ti invito, comunque, a tenere presente la seguente
ipotesi : non potrebbero esserci pure altri obiettivi se è vero che talvolta la rendita da
investimento finanziario è superiore al profitto dell'imprenditore? Forse potrebbe esserci, tra i
moventi, anche lo status - symbol. Forse - una volta iniziata un'attività - la missione (!) di
salvare l'occupazione.
Continuiamo. Marx si propone di scoprire qual è la fonte dell'incremento del capitale investito.
Secondo te quale potrebbe essere?
E' il livello di automazione di un'azienda: più è alto questo livello, più l'azienda è competitiva
sui mercati e più vende e, quindi, più guadagna.
La tua osservazione è sensata. Non puoi negare, tuttavia, che vi sono aziende che guadagnano
pur non avendo un alto livello tecnologico (pensa, ad esempio, all'alta moda).
Il plusvalore
Vediamo l'approccio di Marx. Questi esclude che a determinare l'incremento del capitale
investito siano le materie prime: non vi è alcuna ragione - secondo lui - per cui le materie
prime accrescano il loro valore nel processo produttivo. Così esclude i capannoni e i macchinari
stessi: non c'è ragione per cui le stesse macchine trasferiscano nel prodotto più valore di
quanto fisicamente contengono. Conclusione? Rimane la forza - lavoro. Per Marx è la forza lavoro che produce l'incremento ricercato, proprio perché - supponiamo in una giornata di 12
ore - il lavoratore non solo produce l'equivalente del suo salario (ipotizziamo 6 ore), ma
produce (nelle restanti 6 ore) un valore in più che Marx chiama PLUSVALORE. Cosa ne dici?
Dico che Marx ha preso un abbaglio: oggi, infatti, si potrebbe immaginare un'azienda
totalmente automatizzata (senza alcun lavoratore) e che produce plusvalore.
Se alludi ad un'azienda senza operai, mi pare un'ipotesi tutt'altro che utopica. Non ti sembra,
però, utopico pensare ad un'azienda senza lavoratori? E' possibile che non vi sia nessuno che
controlli, che diriga i pochi controllori, che acquisti materie prime... ? Comunque la tua ipotesi
è intelligente: se fosse verificabile, smentirebbe la teoria di Marx.
Il capitalista ruba al lavoratore ?
Un po' di terminologia marxiana prima di continuare la nostra ricerca. Marx chiama "lavoro
necessario" il lavoro necessario a produrre l'equivalente del salario e "plus - lavoro" il lavoro
necessario per produrre il plus - valore. Ti pongo a questo punto un quesito: si può chiamare il
plusvalore un furto perpetrato dal capitalista ai danni del lavoratore?
Certo: il capitalista si trattiene una quota di valore prodotta dal lavoratore (non è questo un
furto?).
Un punto di vista legittimo. Ti si potrebbe, però, obiettare che il capitalista paga il lavoratore
(non gli dà il salario?). Marx ritiene che nella logica capitalistica non vi è alcun furto in quanto il
capitalista compra il lavoratore per una giornata, la fa lavorare per una giornata e la paga per
una giornata.
Dicevamo che il capitalista paga il lavoratore per una giornata. In che senso? Nel senso che il
salario - vedi la logica di Ricardo - corrisponde ai mezzi di sussistenza (il valore di scambio
della forza - lavoro è equivalente al lavoro necessario - contenuto nei mezzi di sussistenza - a
produrre - mantenere il lavoratore per una giornata). Il capitalista, in altre parole, dà al
lavoratore l'equivalente dei mezzi di sussistenza e, naturalmente, chiede a lui di lavorare per
l'intera giornata. Cosa ne dici?
Mi pare che il discorso parta da un presupposto: che il lavoratore sia considerato una "merce"
e, quindi, che il suo valore di scambio (quello che gli spetta in termini di salario) sia
equivalente ai mezzi di sussistenza.
E' questo il punto di vista marxiano: secondo Marx il peccato del capitalismo è quello di
considerare il lavoratore come una "merce" (un peccato che Ricardo ha teorizzato come fosse
una legge dell'economia stessa!).
Procediamo. Per Marx il valore totale di una merce è dato da c+v+pv, vale a dire dal capitale
che rimane "costante" nel processo produttivo (c), dal "capitale variabile" (v), cioè dalla forzalavoro che è
in grado non solo di riprodurre il suo valore (salario), ma di produrre
un'eccedenza (il plusvalore) e, appunto il "plus - valore" (pv). Ti sembra attuale questa
formula?
Mi pare di sì. Se ci riferissimo al valore totale annuo di un'azienda, si potrebbe dire che il
valore totale è l'equivalente delle entrate (mi pare che il termine tecnico sia "fatturato"), il
capitale costante è l'insieme dei costi per le materie prime e per i macchinari, il capitale
variabile il monte - salari e il plusvalore l'utile.
Forse non hai torto. Non puoi negare, tuttavia, che si tratta di una formula semplificata. E poi
sarebbe difficile oggi trovare l'imprenditore che attribuisse solo alla forza - lavoro il ruolo di
"capitale variabile".
Scaviamo. Il plusvalore, per Marx, non è - per essere precisi - il profitto. Anzi egli non parla
neanche di profitto, ma di "saggio del profitto". Il profitto, cioè, per lui non è una valore in sé,
ma è un rapporto. Un rapporto tra che cosa? Tra il plusvalore e l'intero capitale investito (la
formula: pv/c+v). Marx indaga altri rapporti: parla di "saggio del plusvalore" intendendo il
rapporto tra plusvalore e il capitale variabile (pv/v). Si tratta del saggio (tasso) di sfruttamento
ossia il rapporto tra "pluslavoro" e "lavoro necessario". Nell'ipotesi di prima (12 h di lavoro di
cui 6 di lavoro necessario e 6 di pluslavoro) il saggio di sfruttamento è del 100% (6 h/6 h=
100%) che tradotto in valore (supponiamo 6 scellini e 6 scellini), è il "saggio del plusvalore".
Un'altra classica formula? Si tratta della "composizione organica del capitale", vale a dire del
rapporto tra il capitale costante e il capitale totale (c/c+v). Hai ora in mano le formule
necessarie per comprendere una classica legge di Marx: la legge della "caduta tendenziale del
saggio del profitto". Ti chiedo di concentrarti. Supponiamo che gli imprenditori abbiano una
forte esigenza di assumere forza - lavoro. In questa ipotesi che conseguenza si avrebbe?
Aumenterebbero i salari. Crescerebbe, in altre parole, il valore del mercato della forza - lavoro
oltre il suo valore di scambio.
E' vero. Tieni, comunque, presente, che questo succede se la domanda di forza lavoro (da
parte degli imprenditori) è superiore all'offerta e se, naturalmente, si è in un regime di libero
mercato (oggi - come sai - le retribuzioni ufficiali sono regolate dai contratti di categoria firmati
da sindacati dei lavoratori e da sindacati degli imprenditori).
La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto
Prendiamo ora in considerazione proprio l'ipotesi di una crescita dei salari (il cui valore viene
ad essere superiore ai mezzi di sussistenza). In questo caso, naturalmente, si contrarrebbe il
plusvalore. O no?
Non necessariamente: basterebbe far lavorare i lavoratori per più ore che il plusvalore
precedente verrebbe salvaguardato.
E' questa un'ipotesi che ha avanzato Marx parlando di plusvalore "assoluto" (il plusvalore che
si può ottenere dilatando l'orario di lavoro). Lo stesso Marx, tuttavia, sottolinea l'impraticabilità
- in determinate condizioni (pensa ad un orario di lavoro già pesante) - di tale strada.
Supponiamo, allora, che sia impraticabile l'ipotesi di dilatare l'orario di lavoro per dilatare il
plusvalore. Che possibilità alternative ci sono?
Basterebbe investire in macchinari in modo che il lavoratore riduce il "lavoro necessario"
(necessario per produrre l'equivalente del salario) e dilati il "pluslavoro" che è la fonte del
plusvalore.
E' questa un'ipotesi che prende in considerazione lo stesso Marx. Ma... la crescita del capitale
totale investito (se aumentano i macchinari, cresce c) non comporta la diminuzione del saggio
del profitto?
Prendiamo ancora in considerazione l'ipotesi di investimenti nei macchinari. Che succederebbe
a livello di forza - lavoro?
Verrebbe licenziato del personale oppure - ciò che è la stessa cosa - verrebbero assunte meno
persone rispetto allo scenario precedente: in questo caso - con un numero rilevante di
disoccupati sul mercato del lavoro - i salari diminuirebbero.
E' questa - secondo Marx - la scelta dei capitalisti per frenare la crescita dei salari. I capitalisti,
cioè, avrebbero interesse a creare quello che Marx chiama "l'esercito di riserva", l'esercito, in
altre parole di disoccupati: più disoccupati ci sono, più i salari diminuiscono in un regime di
mercato.
La crescita dei salari - nell'ipotesi che abbiamo preso in considerazione (con la creazione
dell’"esercito di riserva") - verrebbe frenata. Ma... contemporaneamente si avrebbe, grazie agli
investimenti in macchinari, un aumento del capitale totale. Siamo, quindi, al passaggio delicato
di prima: con un incremento di c, si ha una contrazione di pv, si ha cioè una diminuzione del
saggio del profitto (il saggio del profitto = pv/c+v). Siamo, quindi, alla cosiddetta "legge della
caduta tendenziale del saggio del profitto".
Vediamola questa legge. Marx ipotizza, nel suo scenario, un capitale variabile (v) di 100, un
saggio di sfruttamento (saggio del plusvalore) uguale al 100% ed usa la lettera p' per indicare
il saggio del profitto. Cosi' scrive: "Se il saggio del plusvalore è del 100%, si avrà:
se c=50, v=100, quindi p'=100/150=66 2/3 %; se c=100, v=100, quindi p'=100/200=50%;
se c=200, v=100, quindi p'=100/300=33 1/3 %; se c=300, v=100, quindi p'=100/400=25%;
se c=400, v=100, quindi p'=100/500=20% (da Il Capitale, Ed Riuniti, libro terzo, pag. 259).
Più, dunque, crescono i macchinari (cresce la cosiddetta "composizione organica del capitale",
più diminuisce il saggio del profitto. Cosa ne dici?
Non solo mi sembra una legge poco azzeccata se è vero che non si è ancora verificata, ma mi
sembra anche poco seria: com'è pensabile che i capitalisti siano così scemi da operare per la
loro rovina?
Non ritieni seria tale legge. Ti sembra non credibile che i capitalisti facciano delle scelte che li
mandano in rovina. Non dimenticare, tuttavia, la situazione presa in considerazione da Marx: i
capitalisti, con l'introduzione dei macchinari, intendono costruire un esercito di disoccupati teso
ad abbassare i salari e a ristabilire il plusvalore perso con la crescita dei salari.
Riprendiamo la "legge" in questione. Ti sembrano fondate le premesse?
Mi pare che Marx parta da una serie di ipotesi: l'ipotesi che ci sia una domanda di forza lavoro superiore all'offerta, l'ipotesi che i salari aumentino, l'ipotesi che si investa in
macchinari... Come si fa a costruire una legge (o anche una "tendenza") sulla base di "se"?
Tieni presente che il mondo economico è complesso e che niente è automatico: tutto dipende
dalle condizioni esistenti. P. M. Seezy in "La teoria dello sviluppo capitalistico" (Ed. Boringhieri)
scrive che le leggi di cui parla Marx ne "Il Capitale" hanno una validità che "è in relazione al
grado di astrazione al quale sono state elaborate, nonché all'ampiezza delle modificazioni cui si
debbono sottoporre quando l'analisi sia portata a un livello più concreto. Se si fosse tenuto
presente questo fatto, ci si sarebbe risparmiata una quantità di sterili controversie" (pag. 22).
Ti invito ad entrare, ora, all'interno della "coerenza" della legge. Marx parte dal presupposto
che il saggio del plusvalore rimanga costante. Cosa ne dici?
Si tratta di un presupposto falso: più aumentano i macchinari, più aumenta la produttività della
forza - lavoro, più si contrae il "lavoro necessario" (per produrre il salario), più cresce il saggio
del plusvalore (o saggio di sfruttamento).
E' una critica che sembra corretta: tieni presente che con l'esercito di riserva dei disoccupati i
salari sul mercato diminuiscono.
Se ti interessa approfondire dal punto di vista critico la discussa legge di Marx, ti consiglio il
saggio "La caduta tendenziale del saggio del profitto” contenuto in ""La teoria dello sviluppo
capitalistico” di AAVV (Ed. Boringhieri).