Capitolo 2 L`Opera di Dio: le origini religiose della scienza Anche i

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Capitolo 2 L`Opera di Dio: le origini religiose della scienza Anche i
Capitolo 2
L’Opera di Dio: le origini religiose della scienza
I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera
delle sue mani annuncia il firmamento.
Salmo 19
Anche i bambini sanno che nel 1492 Colombo dimostrò che il
mondo era tondo. E sanno anche che egli cercò qualcuno che sostenesse i suoi viaggi con ostinazione, nonostante anni di opposizione della Chiesa cattolica romana, la quale ridicolizzava ogni
opinione che fosse diversa dall’insegnamento biblico per cui la
terra era piatta. Andrew Dickson White (1832-1918), fondatore e
primo presidente della Cornell University, e autore della più importante opera mai scritta sul conflitto fra teologia e scienza, ci
offre questa sintesi:
La battaglia di Colombo [con la religione] è ben nota al mondo:
sappiamo come il vescovo di Ceuta avesse avuto la meglio su di lui
in Portogallo; come numerosissimi saggi di Spagna l’avessero messo dinnanzi alle solite citazioni dai Salmi, da san Paolo, e da
sant’Agostino; come, anche dopo il suo trionfo e il suo viaggio che
rafforzò la teoria della sfericità della terra […] la Chiesa, tramite la
sua più alta autorità, continuasse a inciampare e persistere solennemente nell’errore [… e sappiamo come] le barriere teologiche
davanti questa verità geografica abbiano poi cedetu, ma con lentezza. Benché fosse ormai chiaro per loro, gli scienziati esitarono a
dichiararlo al mondo in generale […]. Ma nel 1519, la scienza ot-
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tenne la sua schiacciante vittoria. Magellano fece il suo famoso
viaggio, e dimostrò che la terra è rotonda, dal momento che la sua
spedizione la circumnavigava. […] Eppure, nemmeno questo pose
fine alla guerra. Molti uomini [religiosi] coscienziosi si opposero a
questa teoria per altri due secoli. (White 1896, vol. 2, pp. 108-109)
Come chiunque altro, anche io sono cresciuto con queste cose. Venivano dette e ridette in ogni racconto del viaggio di Colombo nei libri di scuola, in molti film, e a ogni Columbus Day (e
le troviamo anche all’inizio di They All Laughed, di George e Ira
Gershwin,1936: «They all laughed at Cristopher Columbus,
when he said the world was round», tutti risero di Cristoforo Colombo quando disse che il mondo era rotondo). E per quanto riguarda l’immenso studio di White di cui sopra, A History of the
Warfare of Science with Theology in Christendom (ed. it. Storia della
lotta della scienza con la teologia nella cristianità), in due volumi,
quand’ero giovane era una lettura obbligatoria per tutti gli intellettuali in erba, e io stesso l’ho citato nel mio secondo saggio
pubblicato.
Il problema è che quasi ogni parola del racconto di White
sulla vicenda di Colombo è falsa. Ogni persona istruita dell’epoca, compresi i prelati cattolici romani, sapeva che la terra era
rotonda (Grant 1983 e 1994; Hamilton 1996; Russell 1991). Beda
il Venerabile (673-735 ca.) insegnava che il mondo era rotondo,
così come il vescovo Virgilio di Salisburgo (720-784 ca.), Ildegarda di Bingen (1098-1179), e san Tommaso d’Aquino (12241274 ca.), e tutti e quattro alla fine sono stati proclamati santi.
Sfera era il titolo del più polare libro di astronomia del Medioevo. Scritto dallo studioso della Scolastica inglese Giovanni di
Sacrobosco (1200-1256 ca.), promuoveva la visione comune per
cui tutti i corpi celesti, Terra compresa, erano sferici. Nello stesso secolo del viaggio di Colombo, il cardinale Pierre d’Ailly
(1350-1420), rettore dell’Università di Parigi, osservava che
«benché vi siano montagne e valli sulla terra, per le quali non è
perfettamente rotonda, essa si avvicina di molto alla rotondità»
(in Grant 1994, p. 619).
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E per quanto riguarda i «numerosissimi saggi di Spagna» che
avevano affrontato Colombo e che sconsigliavano di finanziare il
suo viaggio, non solo sapevano che la Terra era rotonda, ma anche che era molto più grande di quanto pensasse lo stesso Colombo. Erano contrari al suo progetto, solamente perché egli aveva seriamente sottostimato la circonferenza della Terra e contava
su un viaggio troppo corto. Espresso in unità di misura moderne, Colombo sosteneva che dalle Canarie al Giappone vi fossero
4500 chilometri, mentre in realtà i chilometri sono 22.500 circa
(Russell 1991, p. 10). Se l’emisfero occidentale non fosse esistito,
e Colombo non sapeva esistesse, lui e il suo equipaggio sarebbero morti in mare. A ogni modo, Jeffrey Burton Russell riscontrò
che non era vero che gli studiosi cristiani erano dei fanatici dalla
mente ottenebrata che si aggrappavano alle affermazioni delle
Scritture per stabilire che la terra era piatta; piuttosto, durante i
primi quindici secoli dell’era cristiana «l’opinione quasi unanime degli studiosi era che la terra fosse sferica, e giunti al XV secolo tutti i dubbi erano svaniti» (Russell 1991, p. 10). Edward
Grant, nel suo monumentale studio sulla cosmologia medievale,
osservò che in nessuno degli scritti della Scolastica si parla di
una Terra piatta, tranne che in alcune digressioni volte a confutare le percezioni di piattezza (Grant 1994). Nessun documento riguardante Colombo a lui contemporaneo, compreso il suo stesso
Diario di bordo e Vita dell’ammiraglio di suo figlio, e nessun racconto di viaggi precedenti, inclusi quelli di Magellano, parla mai
della forma della Terra. E questo perché tutti sapevano.
Allora, perché noi non sappiamo che loro sapevano? Perché
lo sanno solo gli specialisti, oggi? Per la stessa ragione per cui il
libro di White resta influente nonostante il fatto che gli storici
della scienza di oggi lo ritengano polemico – e lo stesso White
ammise di aver scritto il libro per prendersi una rivincita nei confronti delle critiche cristiane ai suoi progetti per la Cornell
(Brooke, Cantor 1998, p. 18; si veda anche Lindberg, Numbers
1986; Russell 1991). Come vedremo, molti altri racconti di White
sono falsi quanto quello sulla Terra piatta e Colombo. La ragione
per cui non sappiamo la verità in merito a tali questioni è che la
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tesi di una guerra inevitabile e aspra fra religione e scienza è stata, per più di tre secoli, lo strumento principale di polemica utilizzato nell’attacco ateo alla fede. Da Thomas Hobbes a Carl Sagan e Richard Dawkins, queste false affermazioni su scienza e religione sono state usate come armi nella battaglia per «liberare»
la mente umana dalle «catene delle fede».
In questo capitolo, io sosterrò non solo che non esiste nessun
conflitto intrinseco fra religione e scienza, ma anzi, che la teologia
cristiana fu essenziale per la nascita della scienza. In dimostrazione di
questa tesi, per prima cosa farò una sintesi del lavoro storico più
recente, che mostra come la religione non generò nessuna «epoca
buia», e come non l’abbia fatto nient’altro – l’idea che, dopo la
«caduta» di Roma, sull’Europa sia scesa una lunga e oscura notte
d’ignoranza e superstizione è falsa tanto quanto la storia di Colombo. In realtà, quella fu un’era di profondo e rapido progresso
tecnologico, alla fine della quale l’Europa si ritrovò più progredita del resto del mondo. Inoltre, la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVI secolo fu la normale conseguenza del lavoro iniziato
dagli studiosi della Scolastica nell’XI secolo. Dunque, la mia attenzione si sposterà sul motivo per cui la Scolastica si interessò di
scienza. Perché la vera scienza si sviluppò in Europa e in quest’epoca? Perché non si sviluppò altrove? Troverò le risposte a questi
interrogativi nelle caratteristiche uniche della teologia cristiana.
Ciò ci conduce a un’analisi della diffusione delle scoperte
scientifiche avvenuta tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII,
e qui esplorerò le sue connessioni con il protestantesimo, per concludere che fu il cristianesimo, e non il protestantesimo, a favorire e sostenere la nascita della scienza. Come parte di questa discussione, dimostrerò come le principali figure scientifiche del
XVI e XVII secolo fossero in grande maggioranza dei devoti cristiani che credevano nel dovere di comprendere l’opera di Dio.
Rivolgendomi poi a una valutazione dell’«Illuminismo», dimostrerò come inizialmente fosse stato concepito come forma di propaganda di atei militanti e umanisti, che cercavano di prendersi il
merito della nascita della scienza. La falsità per cui la scienza richiederebbe la sconfitta della religione fu proclamata da questa
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specie di cheerleader, fra i quali annoveriamo Voltaire, Diderot e
Gibbon, che di per sé non ebbero parte alcuna nell’impresa scientifica – un modello comunicativo, questo, che persevera tutt’oggi.
Successivamente, dimostrerò come la stretta collaborazione
fra religione e scienza che caratterizzò la gran parte del XIX secolo non fu uno «strano interludio». Questa specifica designazione rimanda alla crociata darwiniana che dominò le più popolari discussioni del XX secolo su religione e scienza. Io sostengo
che non solo non c’è stata nessuna battaglia fra scienza e religione, ma anche che tutta la discussione sull’evoluzione fu, e rimane, soprattutto un conflitto fra veri credenti di tipo opposto, dal
momento che i ferrei evoluzionisti sono ascientifici tanto quanto
qualsiasi altro fondamentalista.
E concluderò dimostrando che in tutto ciò gli scienziati professionisti sono rimasti religiosi tanto quanto chiunque altro,
molto più religiosi dei loro colleghi che si occupano di arti o
scienze sociali.
A questo punto, è appropriato che confessi una cosa. Dopo
aver iniziato il capitolo, mi sono immerso negli studi storici più
recenti per scoprire solamente che alcuni dei miei argomenti principali erano già di dominio pubblico fra gli storici della scienza
(benché persista una piccola minoranza, molto rumorosa, di provocatori antireligiosi). Così, dalla mia parte ho trovato il conforto
di un’opinione colta, ma al contempo non posso rivendicare di
essere stato il primo a discuterne. Avrei potuto eliminare l’intero
capitolo, ma sono dolosamente consapevole del fatto che la gran
parte dei suoi contenuti è sconosciuta al di fuori dei ristretti circoli colti. Anzi, qualora le interrogassi su tali questioni, molte persone ben informate esprimerebbero in maggioranza l’assoluta
certezza che le cose che dirò non possono di sicuro essere vere – anch’io
all’inizio della mia carriera sono stato di quest’opinione. Il che,
dunque, mi è sembrato un motivo sufficiente per continuare a
scrivere. Tuttavia la motivazione ultima di questo capitolo è il fatto che, a quanto mi risulta, nessuno ha riunito tutti questi temi e
scoperte essenziali a formulare un quadro generale coerente della storia del rapporto creativo fra teologia e scienza.
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Cos’è la scienza?
Scienza non significa semplicemente tecnologia. Una società
non è scientifica solamente perché è in grado di costruire velieri,
fondere il ferro e mangiare in piatti di porcellana. La scienza è un
metodo che viene utilizzato in tentativi organizzati di formulare
spiegazioni della natura, sempre soggette a modifiche e correzioni
attraverso osservazioni sistematiche. In altre parole, la scienza è
composta da due elementi: la teoria e la ricerca. La parte esplicativa della scienza è costituita dalla formulazione di teorie. Le teorie scientifiche sono enunciati astratti che riguardano il perché e il
come una parte della natura (compresa la vita sociale umana) si
formi e funzioni. Ovviamente, non tutti gli enunciati astratti,
neanche tutti quelli che offrono spiegazioni, possono essere definiti teorie scientifiche, altrimenti la teologia sarebbe una scienza.
Piuttosto, si può affermare che gli enunciati astratti sono scientifici solamente se da essi è possibile dedurre precise previsioni e
veti a proposito di quanto verrà osservato. Ed è qui che interviene la ricerca, che consiste nel compiere quelle osservazioni che
sono rilevanti per le previsioni e i veti empirici. Quindi, risulta
chiaro che la scienza è limitata agli enunciati riguardanti la realtà
naturale e materiale – ossia tutte quelle cose che, almeno in linea
di principio, sono osservabili. Ne consegue che esistono interi
domini del discorso a cui la scienza non può rivolgersi, comprese questioni quali l’esistenza di Dio.
Con il termine «organizzati» voglio sottolineare il fatto che la
scienza non è fatta di scoperte casuali e non si può ottenere in solitudine. È vero che alcuni scienziati hanno lavorato da soli, ma
mai isolati; sin dagli inizi, infatti, gli scienziati hanno costituito
reti di contatti e sono sempre stati molto comunicativi.
In accordo con l’opinione della maggior parte degli storici
contemporanei e dei filosofi della scienza, questa definizione
esclude tutti gli sforzi che l’uomo ha compiuto nel corso della
storia per spiegare e controllare il mondo materiale, persino
quelli che non coinvolgono mezzi soprannaturali. La maggior
parte di questi sforzi può essere esclusa dalla categoria della
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scienza perché, fino a tempi recenti «la tecnica, pur nei suoi progressi, talvolta considerevoli, non era che empirismo», come ha
osservato Marc Bloch (1999, p. 102). Ciò significa che il progresso fu il prodotto dell’osservazione, dell’esperimento e dell’errore, a cui mancavano però le spiegazioni, la teorizzazione. Questa
puntualizzazione si applica persino a Niccolò Copernico (14731543), dal momento che la sua concezione eliocentrica del sistema solare era semplicemente una tesi descrittiva (e quasi del tutto sbagliata). Copernico non aveva nulla di utile da dire sul perché i pianeti mantenevano le loro orbite intorno al sole, o le lune
intorno ai rispettivi pianeti. Fino all’arrivo di Newton non vi fu
nessuna teoria scientifica sul sistema solare. Annovero Copernico
fra i fondatori della scienza moderna solamente in virtù della sua
influenza e partecipazione a una rete di astronomi il cui lavoro
presto si sarebbe caratterizzato come vera scienza. Quindi, nemmeno le prime innovazioni tecniche avvenute in epoca greco-romana, nel mondo islamico e in Cina, per non parlare di quelle ottenute nelle ere preistoriche, costituiscono una scienza, ma possono essere meglio descritte come sapere, saggezza, arti, mestieri, tecniche, tecnologie, ingegneria, apprendimento o semplice
conoscenza. Così, per esempio, gli antichi eccellevano nelle osservazioni astronomiche anche senza l’utilizzo di telescopi, ma
queste osservazioni rimasero dei semplici «fatti» fino a quando
non furono collegate a teorie verificabili. Charles Darwin espresse in maniera brillante questo punto:
Circa trent’anni fa molti dicevano che i geologi dovessero osservare e non formulare teorie; e ricordo bene che qualcuno disse che
in tal modo un uomo poteva anche recarsi in una cava di ghiaia,
contare i sassi e descriverne i colori. Che strano che non si capisca
che tutte le osservazioni devono essere a favore o contrarie ad alcuni punti di vista se si vuole che siano utili! (Darwin, Seward
1903, vol. 1, p. 195)
Per quanto concerne le conquiste intellettuali dei greci o dei
filosofi orientali, il loro empirismo era piuttosto a-teorico e le lo-
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ro teorizzazioni erano non empiriche. Si pensi ad Aristotele (384322 BCE). Sebbene elogiato per il suo empirismo, non permise
che questo aspetto interferisse con il suo teorizzare. Insegnava,
ad esempio, che la velocità alla quale un oggetto cade a terra è
proporzionale al suo peso, e quindi che una pietra che pesa il
doppio di un’altra cadrà due volte più velocemente (ne Il cielo).
Se si fosse recato presso una delle vicine scogliere avrebbe constatato la falsità della sua affermazione. Nella sua Fisica spiega
anche che il moto di un proiettile è dovuto alla spinta datagli dall’aria che si chiude alle sue spalle, ma non presta alcuna attenzione alla necessità dell’aria di aprirsi davanti a esso. L’eccellente, e tristemente dimenticato, teologo e scienziato della Scolastica, Giovanni Buridano (1300-1358) diede il colpo di grazia a questa ipotesi aristotelica osservando che, fra le altre cose, quando
corre, un uomo «non sente l’aria che lo spinge, quanto piuttosto
l’aria davanti a sé che gli si oppone con forte resistenza» (in Clagett 1961, p. 536).
Del resto, degli altri greci illustri si può dire lo stesso: la loro
opera o è interamente empirica o non può essere definita scienza
per mancanza di empirismo, essendo costituita da una serie di asserzioni astratte che ignorano o non implicano conseguenze osservabili. Perciò, quando Democrito (460 ca. - 370 ca. BCE) propose la
tesi secondo la quale tutta la materia sarebbe composta da atomi,
non anticipò la teoria atomica della scienza. La sua «teoria» era
semplicemente una speculazione, non avendo alcuna base nell’osservazione o alcuna implicazione empirica. Il fatto che sia risultata «corretta» è solamente una coincidenza linguistica, e l’ipotesi di
Democrito non è più rilevante di quella del suo contemporaneo
Empedocle (ca. 490 BCE - ca. 430 BCE) che affermava che tutta la
materia era composta da fuoco, aria, acqua e terra, o della successiva versione di Aristotele, il quale, un secolo dopo, affermò che la
materia era costituita da caldo, freddo, aridità, umidità e quintessenza. In effetti, nonostante tutta la sua ingegnosità e potenza analitica, nemmeno Euclide era uno scienziato, perché la geometria di
per sé manca di sostanza, in quanto è in grado di descrivere solo
alcuni aspetti della realtà, non di spiegarne una parte.
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Ovviamente, questi millenni di progresso tecnologico e intellettuale furono cruciali per lo sviluppo della scienza, ma ormai è
opinione comune fra gli storici, i filosofi e i sociologi della scienza contemporanei, che la vera scienza sia nata una volta sola: in
Europa. A questo proposito, è significativo il fatto che in Cina,
nel mondo islamico, in India e nelle antiche Grecia e Roma l’alchimia fosse molto sviluppata. Eppure, solo in Europa l’alchimia
divenne chimica. Allo stesso modo, furono molte le società che
svilupparono sistemi astrologici elaborati, ma solo in Europa l’astrologia portò all’astronomia.
Nei paragrafi successivi esaminerò le connessioni fra la religione e la nascita della scienza in Europa, dagli inizi medievali
alla sua fioritura, nel XVI secolo. Prima di fare questo, comunque, devo chiarire un aspetto molto importante: io discuto di religione e scienza, non di chiese e scienza.
Istituzioni e libertà intellettuale
Affermare che esiste un legame positivo fra religione e scienza nella storia dell’Occidente non significa certo negare che a
volte le chiese abbiano fatto ricorso alla forza per obbligare all’osservanza delle loro dottrine. Di solito, comunque, e quasi in
ogni caso in cui è stato versato del sangue, si trattava di dispute
di teologia, e non fra teologia e scienza.
Si consideri l’esecuzione di Giordano Bruno (1548-1600),
spesso citata come uno degli esempi più vergognosi di repressione della scienza da parte della religione. Andrew Dickson
White sostenne che Bruno «dovrebbe essere citato con riverenza,
come colui che riprese a sviluppare nuovamente quella corrente
di pensiero greco [… che] i dottori della Chiesa avevano bloccato per più di un migliaio di anni» (White 1896, vol. 1, p. 57). In
realtà, Bruno non fu un vero scienziato, benché si sia dedicato all’astronomia speculativa. Piuttosto, si trattò di un monaco rinnegato, uno stregone ermetico, e una sorta di filosofo (Yates 1981 e
2002). Tutti i suoi problemi furono solamente dovuti a una teolo-
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gia eretica che prevedeva l’esistenza di una serie infinita di mondi e che era basata interamente sull’immaginazione e la speculazione. Lo stesso vale anche per un caso altrettanto notorio, quello di Michele Serveto (1511-1553), condannato a morte a Ginevra
con il benestare di Giovanni Calvino. Benché si fosse inizialmente interessato di fisiologia, Serveto si specializzò in teologia, e fu
condannato precisamente per i suoi scritti teologici 1. Non solo
egli fu così poco saggio da inviare una copia delle sue idee unitariane su Dio a Calvino, ma quando queste stesse idee lo costrinsero a lasciare l’Italia, scappò scioccamente a Ginevra.
Le teologie eretiche minacciano in maniera diretta l’autorità
di coloro i quali detengono il controllo delle organizzazioni e
delle istituzioni religiose, cosa che raramente la scienza fa.
Quindi, anche mentre perseguivano le eresie, gli inquisitori
spagnoli non prestavano quasi nessuna attenzione alla scienza
di per sé. Nel suo importante e recente studio, Henry Kamen
afferma:
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Ovviamente, le organizzazioni religiose hanno spesso dato
prova di questo principio di autorità. Tuttavia, per quanto riguarda la repressione della scienza, i casi più sanguinari sono
tutti recenti, e non hanno nulla a che vedere con la religione. Fu
il Partito nazista, e non la Chiesa evangelica tedesca, a cercare di
estirpare la fisica «ebrea», e fu il Partito comunista, e non la Chiesa ortodossa russa, a distruggere la genetica «borghese» e a lasciare allo sbando molti altri settori della scienza sovietica. Eppure, nessuno è stato spinto da questi avvenimenti a proporre
l’esistenza di un’intrinseca incompatibilità fra politica e scienza.
Allo stesso modo, il fatto che vi siano stati dei conflitti fra chiese
e scienza non giustifica il credere in un’incompatibilità fra religione e scienza. Piuttosto, la verità è che gli autocrati spesso non
tollerano il disaccordo. Tenendo a mente queste osservazioni,
partiamo adesso per un viaggio nell’antica Roma.
I mitici «Secoli Bui»
I libri scientifici scritti da cattolici circolavano liberamente. L’indice Quiroga del 1583 ebbe un impatto trascurabile sull’accessibilità
delle opere scientifiche, e Galileo non venne mai inserito nell’elenco delle letture proibite. Gli attacchi più diretti dell’Inquisizione
erano contro specifiche opere nell’area dell’astrologia e dell’alchimia, scienze che si riteneva portassero con sé delle connotazioni di
superstizione. (Kamen 1997, p. 134)
In Spagna si poteva incorrere in seri problemi per la lettura di
libri di autori protestanti, scientifici o meno, ma la gran parte dei
testi che portavano le persone davanti agli inquisitori non aveva
a che fare con religione, scienza e superstizione; si trattava di
pornografia (Monter, Tedeschi 1986). L’aver menzionato Galileo
annuncia la discussione del suo caso, tanto celebrato quanto
frainteso, tuttavia, per ora, mi si consenta di limitarmi a dire che
senza il controllo da parte di altre forze, le istituzioni e le organizzazioni potenti tendono a sopprimere il dissenso e a imporre le loro idee e i
loro interessi su chiunque possano.
Nel suo best seller The Discoverers (1983; ed. it. L’avventura della ricerca, 1985), Daniel Boorstin, professore illustre dell’University of Chicago, vincitore del premio Pulitzer, responsabile della
Library of Congress, inserì un capitolo dal titolo «La prigione del
dogma cristiano», nel quale condannava il cristianesimo per aver
imposto all’Europa un’era di generale ignoranza e fanatismo:
I leader della cristianità ortodossa costruirono una grande barriera
contro il progresso della conoscenza […]. Dopo che […] il cristianesimo conquistò l’Impero romano e gran parte dell’Europa […]
notiamo un fenomeno di dimensioni europee di amnesia d’erudizione, che afflisse il continente dal 300 a.C. ad almeno il 1300.
(Boorstin 1983, p. 100)
Come il racconto su Colombo, anche questa è una storia con
la quale molti di noi sono cresciuti: Roma cadde, e con quel cataclisma iniziarono i «Secoli Bui». Infatti, la seconda edizione del
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Webster’s Unabridged Dictionary (1934) definiva i «Secoli Bui» come «la prima parte [del Medioevo] a causa della sua stagnazione intellettuale» e l’edizione universitaria del Webster’s New
World Dictionary del 1958 li definiva come «1. il periodo dalla caduta dell’Impero romano d’occidente (476 a.C.) all’inizio dell’era moderna (1450 ca.); 2. la prima parte del Medioevo, fino alla
fine del X secolo circa […]. In Europa, il periodo medievale, soprattutto nella sua prima parte, fu caratterizzato da una diffusa
ignoranza».
Per quanto riguarda le cause della decadenza culturale dei
«Secoli Bui», fin dall’inizio del XVIII secolo gli storici hanno sostenuto che stessero nel cristianesimo, il quale aveva diffuso
barbarie, superstizione e ignoranza in tutta Europa. Questa interpretazione ebbe il suo culmine nell’enorme atto d’accusa contro la religione di Edward Gibbon (1737-1794) e del suo The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (ed. it. Declino e
caduta dell’impero romano, 1986). Oltre ad attrarre l’attenzione di
philosophes francesi e di altri intellettuali antireligiosi dell’epoca,
il libro di Gibbon fu immensamente popolare anche fra gli intellettuali protestanti, che lo interpretarono in maniera più ristretta, come un’accusa al cattolicesimo romano. Ciò nonostante, l’espressione «Secoli Bui» è di recente creazione, probabilmente usata per la prima volta dallo storico inglese Henry Thomas Buckle (1821-1862) nel suo History of Civilization in England
(1859). Giunti al XX secolo l’espressione era così comune che pochi sapevano che la sua origine non era antica, ma relativamente recente. Anzi, alcuni autori sembrano quasi suggerire che le
stesse persone vissute, per dire, nel IX secolo, descrivessero la
propria epoca come dei Secoli Bui.
Gli storici e gli archeologi moderni hanno completamente
smontato questo punto di vista 2, e quindi Boorstin non ha scusanti per averlo ripetuto. All’epoca in cui il suo libro fu pubblicato, ormai anche le enciclopedie più popolari riportavano una
versione differente. Così, la New Columbia Encyclopaedia (1975)
diceva che l’espressione «Secoli Bui» non era più in uso fra gli
storici poiché «non si ritiene più [che l’era in questione] sia stata
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così oscura». Nella sua definizione di «Secoli Bui», la quindicesima edizione della Britannica (1981) riportava che l’espressione
«oggi viene usata raramente dagli storici a causa dell’inaccettabile giudizio di valore da essa implicato», essendo un «peggiorativo» che denota in modo scorretto «un periodo di oscurità intellettuale e barbarie».
Stimolati dall’opera pionieristica di Henri Pirenne (18621935) e Marc Bloch (1886-1944) gli studiosi ormai hanno capito
che il cristianesimo non ebbe nessun ruolo nella sconfitta di Roma, e che i «Secoli Bui» non furono affatto tali (Bloch 1999; Pirenne 1939 e 1956). La caduta di Roma ebbe molte cause, ma il
fatto di per sé non fu altro che il culmine di diversi secoli in cui
vi era stato uno spostamento dell’abilità militare dai romani ai
vari gruppi germanici, quali i goti, gli unni, i vandali, i burgundi e i franchi (Ferrill 1986; Grant 1978; Luttwak 1986; Wolfram
1997). Inoltre, all’epoca dell’ultima battaglia, erano i germanici a
costituire la maggioranza dei soldati romani, poiché avevano già
soppiantato i romani autoctoni (Ferrill 1986; Wolfram 1997).
Dunque, come conseguenza della sconfitta militare di Roma, il
centro politico e culturale d’Europa si spostò a nord. Fu questo
spostamento a essere interpretato come declino culturale e intellettuale da coloro i quali, molti secoli dopo, equipararono il concetto di civiltà con gli scritti di uno sparuto gruppo di intellettuali greco-romani. In una popolazione in cui manca la familiarità con i filosofi e i poeti classici, argomentavano, cosa ci può
mai essere se non oscurità? A ciò si aggiunge il fatto che, per queste persone, l’illuminismo si poteva ritrovare solamente in libri e
idee astratte, e sicuramente non nelle macchine o nelle pratiche
agricole. Anzi, «il disprezzo degli uomini di lettere per gli ingegneri in tutto il corso della storia li ha resi, troppo spesso, ignari
della tecnologia creata da quegli ingegneri» (Gimpel 1976, p. x).
Dunque, solo di recente gli storici hanno capito che anche se
gli studiosi più importanti d’Europa dell’XVIII secolo, per esempio, scrivevano in un latino «minore» e non erano molto versati
in Platone e Aristotele, non erano «barbari». Di certo non erano
«barbari» dal punto di vista morale: sia Platone che Aristotele
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possedevano degli schiavi, mentre durante i «Secoli Bui» gli europei rifiutarono la schiavitù (capitolo 4). E non erano barbari
nemmeno in senso tecnologico: a partire dai primi «Secoli Bui» si
ebbe «una delle grandi epoche d’invenzioni dell’umanità», poiché furono inventate e impiegate delle macchine «su scala tale
che nessun’altra civiltà aveva conosciuto in precedenza» (Gimpel 1976, p. viii). Oppure, come scrisse Lynn White, «nella tecnologia, almeno, i “Secoli Bui“ segnarono un progresso continuo e
ininterrotto rispetto all’Impero romano» (White 1940, p. 151). I
testi di storia dei progressi tecnologici dell’epoca medievale sono una lettura davvero affascinante (soprattutto Gies, Gies 1994;
Gimpel 1994; White 1970). A scopo illustrativo, qui ne menzionerò solamente alcuni esempi.
Nel 732, nella profondità dei «Secoli Bui», Carlo Martello
(nonno di Carlo Magno) guidò un esercito franco nella Battaglia
di Tours (o Poitiers), dove furono scacciati i saraceni – invasori
musulmani giunti al Nord dalla Spagna. Come nel caso di tutti
gli eserciti europei vincitori negli ultimi venticinque secoli, la
forza principale di Carlo Martello erano delle formazioni di fanteria ben addestrate che avevano armi e armature migliori di
qualsiasi altra forza messa in campo da romani o greci (Hanson
2002). Contro di loro, i saraceni impiegarono un nugolo di cavalieri, che indossavano armature scarne, se le indossavano, ma
che erano superbamente armati con archi compositi e con le migliori spade del mondo. I cavalieri saraceni caricavano, si giravano e accerchiavano, ma non riuscivano a intaccare i solidi ranghi della fanteria, che infliggeva loro danni gravi grazie alle lunghe picche. Verso la fine del giorno, i saraceni iniziarono a ritirarsi, e fu in quel momento che vennero massacrati. Non dalla
fanteria franca – degli uomini ricoperti di armature di cotta di
maglia non sono adatti a inseguire nessuno, figurarsi dei nemici
a cavallo. No, a quel punto fecero la loro prima apparizione su
un campo di battaglia importante dei soldati a cavallo con armatura completa, che caricarono a galoppo, mettendo tutto il peso di cavallo e cavaliere a spingere una lunga lancia (Montgomery 1970; White 1970). Quando con tutta la loro potenza entra-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
177
rono in collisione con la cavalleria saracena, quest’ultima si disperse – le frecce non potevano penetrare l’armatura franca, e i
futili tentativi di ricorrere alle spade venivano anticipati dalle
lance dei cavalieri franchi e dal peso irresistibile dei cavalli che
caricavano al galoppo. La differenza la fecero le staffe e la sella
normanna. Senza delle staffe sulle quali puntarsi, un cavaliere
che avesse cercato di conficcare una lancia sarebbe stato sbalzato da cavallo. E la capacità di un cavaliere di resistere a colpi improvvisi venne enormemente aumentata da una sella con pomolo e arcione posteriore molto alti – con quest’ultimo incurvato a
racchiudere parzialmente i fianchi del cavaliere (Hyland 1994). I
romani non avevano staffe, e nemmeno i saraceni; entrambe le
loro cavallerie, poi, usavano delle selle imbottite leggere, quasi
piatte, oppure cavalcavano senza. Quindi, non avevano una cavalleria pesante.
Romani e saraceni non sapevano nemmeno come imbrigliare
i cavalli in maniera efficiente. Prima che gli europei migliorassero quest’aspetto nei «Secoli Bui», i cavalli venivano imbrigliati
allo stesso modo dei buoi. Per non soffocare in simili briglie, un
cavallo doveva tenere la testa all’indietro e poteva trainare solamente dei carichi leggeri. Pienamente consapevoli del problema,
i romani cercarono di risolverlo con leggi apposite! Il Codice teodosiano decretava pene severe per chiunque «fosse colto a imbrigliare dei cavalli a carichi di peso superiore ai 500 chilogrammi [in termini moderni]» (Gimpel 1976, p. 32). Diversamente,
durante i «Secoli Bui», fu progettato un collare rigido ben imbottito, il quale poneva correttamente il peso sulle spalle del cavallo e non sul collo, permettendo all’animale di trainare tanto
quanto il bue, e di farlo molto più velocemente. A seguito dell’invenzione del collare, i contadini europei lasciarono i buoi per
i cavalli, con guadagni immensi in termini di produttività – un
cavallo poteva arare al giorno più del doppio di un bue (Smil
2000; White 1970).
A questo va aggiunto che solamente ben dopo la caduta di
Roma, gli europei crearono i ferri di cavallo da inchiodare agli
zoccoli per proteggerli dall’usura che spesso fa sì che gli anima-
178
A GLORIA DI DIO
li non ferrati diventino zoppi. I romani avevano sperimentato diversi tipi di sandali da cavallo (Nerone ne aveva alcuni in argento), ma si slacciavano anche solamente al trotto. Con delle protezioni in ferro saldamente fissate, i cavalli possono muoversi anche su superfici dure senza danno alcuno.
Purtroppo, benché gli storici abbiano rilevato la trasformazione dell’agricoltura implicata dal nuovo uso del cavallo, per
generazioni non ebbero alcuna idea del perché questo fosse accaduto, né del motivo per cui i romani non avevano sviluppato
una cavalleria pesante. E questo in gran parte è dovuto al fatto
che gli storici molto raramente cavalcano, o imbrigliano cavalli,
o conoscono qualcuno che lo faccia. Così, fu solamente nel 1931
che queste innovazioni tecnologiche rivoluzionarie concernenti
staffe, selle, briglie e ferri di cavallo vennero portate all’attenzione degli studiosi grazie all’opera di un outsider assoluto, una
persona che sapeva relativamente poco di storia, ma moltissimo
di cavalli – Lefebvre des Noëttes, un ufficiale della cavalleria
francese in pensione (Gimpel 1976, p. 32).
Da quel momento in poi ci sono stati moltissimi libri che hanno stabilito che molto prima della fine del Medioevo, prima di
qualsiasi «Rinascimento», «Illuminismo», o «Rivoluzione scientifica», la tecnologia europea era progredita ben oltre le conoscenze degli antichi: ruote idrauliche efficienti, mulini, alberi a
camme, orologi meccanici, bussole, e così via (Gies, Gies 1994;
Gimpel 1976; White 1940 e 1970). Molte di queste invenzioni erano originali, mentre altre provenivano dall’Asia. Tuttavia, l’elemento più rilevante per quanto riguarda i «Secoli Bui» fu il modo in cui la piena capacità delle nuove tecnologie veniva rapidamente riconosciuta e adottata su larga scala. Prendiamo in considerazione la polvere da sparo. I cinesi furono i primi a usare la
polvere esplosiva, ma non furono loro a inventare la polvere da
sparo, dal momento che non inventarono le pistole e si limitarono a usarla nei fuochi d’artificio. Quando però la conoscenza di
questo esplosivo cinese giunse in Europa, probabilmente durante il primo decennio del XIV secolo, la sua applicazione all’artiglieria fu immediata – è probabile che i cannoni siano stati usati
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
179
per la prima volta in battaglia durante l’assedio di Metz del 1324
(Hime 1915; Manucy 1949; Partington [1960] 1999). Quello che è
certo è che nel 1325 «esistevano cannoni in tutta l’Europa occidentale» (Barclay, Schofield 1981, p. 488).
La rapida adozione della bussola rappresenta un’altra prova
schiacciante. L’affermazione per cui la bussola magnetica giunse
in Europa dalla Cina attraverso il mondo islamico è falsa. Pare
che lo strumento sia stato inventato in modo indipendente sia in
Cina sia in Europa, probabilmente intorno all’XI secolo. I cinesi
si accontentarono di una bussola molto rozza, un ago magnetizzato che galleggiava in un liquido e che consentiva loro di determinare l’asse nord-sud a scopi principalmente magici – i cinesi
non usarono questo strumento a bordo di navi se non molto tempo dopo gli europei. Gli europei del medioevo, invece, poco dopo aver scoperto la bussola con ago galleggiante, aggiunsero la
mappa dei punti cardinali e un mirino. Questo permise ai marinai di sapere non solo da che parte stesse il nord, ma anche dove si stavano dirigendo con esattezza, il che a sua volta consentì
loro di stabilire delle rotte precise in qualsiasi direzione. Il temporaneo affollarsi di riferimenti scritti a questa nuova invenzione dimostra che si diffuse fra i marinai dall’Italia alla Norvegia
in soli pochi anni (Hitchins, May 1951; May, Howard 1981;
Needham 1981).
Ecco, dunque, che cade il primo puntello all’argomentazione
concernente l’incompatibilità di religione e scienza. Il cristianesimo non fece precipitare l’Europa in un’era d’ignoranza e arretratezza. Piuttosto, vi fu un così grande progresso tecnico che non
più tardi del XIII secolo la tecnologia europea superava quella di
qualsiasi altra parte del mondo (White 1967). E questo non accadde grazie alla riscoperta del sapere classico. Non esiste versione più sbagliata della storia occidentale di quella che inizia
con la cultura classica e procede direttamente al «Rinascimento»,
sminuendo e tralasciando il millennio intermedio come si trattasse di uno sfortunato e irrilevante interludio. La civiltà occidentale non è diretta discendente della cultura greco-romana.
Anzi, è il prodotto di secoli di interazione fra culture «barbare»
180
A GLORIA DI DIO
(i cosiddetti «barbari», come ormai abbiamo iniziato a capire,
avevano delle culture molto più sofisticate di quanto finora riconosciuto) 3 e cristianesimo. Infatti, non fu tanto il cristianesimo a
«romanizzare» i popoli germanici, ma questi ultimi a «germanizzare» il cristianesimo. La successiva aggiunta di conoscenza
greco-romana fu più decorativa che essenziale (Dawson 1959).
Infatti, il punto fondamentale è che il progresso raggiunto durante i «Secoli Bui» non si limitò alla tecnologia. L’Europa medievale eccelse anche in filosofia e scienza. Come ha scritto Lynn
White, «alla fine del XIII secolo l’Europa si era impadronita della leadership scientifica mondiale» (White 1967, p. 1203).
La Scolastica e la nascita della scienza
Per molti aspetti l’espressione «Rivoluzione scientifica» è
fuorviante tanto quanto «Secoli Bui». Entrambe furono coniate
per screditare la Chiesa medievale. Il concetto di «Rivoluzione
scientifica» è stato usato per dire che la scienza emerse improvvisamente e si diffuse quando un cristianesimo ormai debole
non poté più impedirlo, e quando il recupero del sapere classico
lo rese possibile. Entrambe queste affermazioni, però, sono false,
esattamente come quelle su Colombo e la Terra piatta. Prima di
tutto, il sapere classico non fornisce affatto un modello di scienza appropriato. In secondo luogo, la nascita della scienza risale a
molto prima del XVI secolo, essendo stata attentamente alimentata da filosofi scolastici in quella cristianissima invenzione che
era l’università. Come ha sottolineato Alfred W. Crosby, «nel nostro tempo la parola medievale è spesso usata come sinonimo di
“confusione”, ma, al contrario, potrebbe essere impiegata più
propriamente per indicare una definizione precisa e un ragionamento meticoloso, cioè chiarezza» (corsivo suo. Crosby 1998, p.
76). Certo, le numerose scoperte scientifiche fecero del XVI e del
XVII secolo un’era davvero straordinaria, l’equivalente culturale
di una rosa che sboccia. Tuttavia, proprio come le rose non spuntano all’improvviso ma devono passare un lungo periodo di nor-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
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male crescita prima di aver anche solo un bocciolo, così, anche la
fioritura della scienza fu il risultato di secoli di normale progresso intellettuale, ed è questo il motivo per cui non voglio parlare
di «Rivoluzione scientifica» senza mettere fra virgolette l’espressione. Copernico ci offre un insuperabile esempio di questo punto di vista (Armitage 1951; Brooke 1991; Clagett 1961; Cohen
1985a; Crosby 1998; Gingerich 1975; Grant 1994 e 1996; Jaki 1986;
Mason 1971; Neugebauer 1975; Rosen 1971).
La «rivoluzione» copernicana come scienza normale
Tutte gli studi sulla «Rivoluzione scientifica» prendono avvio da Copernico, come se l’uso che fa della parola Rivoluzione
nel titolo della sua famosa opera fosse riferito a dei cambiamenti sociali drastici e non alle orbite celesti. Secondo la versione
più nota, Niccolò Copernico (1473-1543) fu un oscuro canonico
cattolico della lontana Polonia, un genio isolato che in qualche
modo «scoprì» che, contrariamente a quanto tutti credevano e
avevano sempre creduto, la Terra girava intorno al Sole. Con le
parole di White:
Alla fine apparve, lontano dai centri del pensiero, ai confini della
Polonia, uno studioso semplice e ingenuo, il quale per primo e con
franchezza disse la verità al mondo moderno – verità oggi così banale, ma allora così stupefacente – che il Sole e i pianeti non ruotano intorno alla Terra, ma la Terra e i pianeti intorno al Sole (White
1896, p. 121)
Quindi, continua il racconto popolare, la Chiesa cercò di reprimere senza sosta le sue idee, e fu solamente grazie agli auspici più illuminati del protestantesimo che la «verità» sopravvisse.
Ma in questa versione c’è più invenzione che fatti. Per prima
cosa, Copernico ebbe modo di acquisire una vasta cultura. Prese
il primo diploma a Cracovia, in una delle più grandi università
dell’epoca, e poi passò altri tre anni e mezzo all’Università di Bologna, forse la migliore d’Europa. Successivamente, rimase quattro anni all’Università di Padova, interrompendo la permanenza
182
A GLORIA DI DIO
per una breve visita all’Università di Ferrara, dove prese il diploma di dottore in diritto canonico. In secondo luogo, l’idea che
la Terra girasse intorno al Sole non gli venne così dal nulla; anzi,
i concetti essenziali che poi portarono al modello eliocentrico gli
vennero insegnati dai suoi professori. In altre parole, il modello
eliocentrico fu sviluppato gradualmente nell’arco di due secoli
da una successione di scienziati scolastici allora famosi (ma oggi
tristemente dimenticati), e le loro conclusioni in merito alla meccanica erano così ben formulate che «Copernico non poté apportare nessun miglioramento» (Grant 1996, p. 169). Malgrado la
profondità del suo contributo, Copernico aggiunse solamente
l’implicito passo successivo.
I greci credevano che il vuoto non esistesse, e che l’universo
fosse una sfera piena di materia trasparente. Di conseguenza, a
causa della frizione, il moto continuo dei corpi celesti richiedeva
l’applicazione continua di una forza. Ciò fu riaffermato dallo
studioso cristiano (creatore del primo calendario cristiano) Dionigi il Piccolo (500-560 ca.), il quale suggerì anche che la forza
continua veniva impressa dagli esseri angelici che spingevano
ciascuna sfera. San Tommaso d’Aquino (1225-1274) identificò
Dio come il Primo Motore, ma mantenne l’idea degli angeli che
spingevano i corpi celesti. Guglielmo di Ockham (1295-1349 ca.)
contestò questa prospettiva, sostenendo che un corpo in movimento poteva non aver bisogno di una spinta continua, e questo
perché egli credeva che lo spazio fosse un vuoto: una volta messo in movimento (dalla volontà di Dio), un corpo celeste, non incontrando nessuna frizione, nessun attrito, probabilmente avrebbe continuato a muoversi. Le tesi di Ockham furono discusse e
ampliate dai suoi colleghi di Oxford, in modo particolare da Walter Burley (1275-1357) e Walter Heytesbury (1330-1371), ma fu all’Università di Parigi che le sue idee ebbero l’impatto maggiore.
Giovanni Buridano era il rettore dell’Università di Parigi e
una figura molto importante nella scienza scolastica. Si ripensi
alla sua confutazione della tesi di Aristotele secondo la quale i
proiettili verrebbero spinti dall’aria che si chiude dietro di loro;
si trattava solamente di un frammento della sua opera, davvero
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
183
impressionante, sulla meccanica, in particolare sul moto e sull’impeto. Il seguente passaggio mostra la sua abilità nel disarmare le critiche teologiche e la sua comprensione dell’inerzia,
che anticipa così la Prima legge del moto di Newton.
Inoltre, dal momento che la Bibbia non afferma che delle intelligenze appropriate muovano i corpi celesti, si potrebbe dire che non
appare necessario presupporre intelligenze di questo tipo, perché
si potrebbe rispondere che Dio, quando creò il mondo, mosse
ognuna di queste sfere celesti a Suo piacimento, e nel muoverle impresse su di loro degli impeti, che le muovono senza che Egli debba farlo nuovamente. […] E questi impeti che Egli impresse nei
corpi celesti non furono diminuiti né corrotti in seguito, perché non
c’è nessuna inclinazione dei corpi celesti per altri movimenti. Né
esiste una resistenza che possa essere corruttiva o repressiva di
quell’impeto. (In Clagett 1961, p. 536)
Buridano scrisse anche una lunga trattazione sull’ipotesi che
la Terra ruotasse intorno a un suo asse, creando così la percezione che fossero gli altri corpi celesti, quali Sole e Luna, a sorgere e
tramontare. In particolare, sottolineò come fosse più parsimonioso presumere che fosse la Terra a ruotare, poiché ciò avrebbe
richiesto molta meno velocità di quanta sarebbe servita affinché
corpi distanti potessero ruotare intorno a essa. Comunque, Buridano presentò le sue teorie sulle rivoluzioni terrestri come mere
ipotesi.
Il suo successore riprese le teorie sull’impeto e le sviluppò,
estendendo anche la discussione sulla rotazione terrestre, affermando che «mi sembra sia possibile accogliere l’argomentazione
[…] secondo la quale ruoti la Terra e non i cieli» (in Grant 1994,
p. 642). Nicola d’Oresme (1325-1382) fu forse il più brillante
scienziato della Scolastica, e dopo essere stato rettore all’Università di Parigi, completò la propria carriera come vescovo di Lisieux. Il suo fu un contributo eminentemente matematico e fornì
un elevato modello per i successivi studi sulla meccanica e l’astronomia (Oresme [1350-1360 ca.] 1968 e 1971). Nel corso dei se-
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A GLORIA DI DIO
coli, a molte persone era ovviamente venuto il dubbio che fosse
la Terra a girare intorno al Sole, ma venivano sempre avanzate
due obiezioni che rendevano improbabile un movimento terrestre. Perché non c’era un vento forte e costante proveniente da
est causato dalla rotazione della Terra in quella direzione? E perché una freccia scoccata diritta verso il cielo non cadeva molto
dietro (o davanti) a colui che la scoccava? Dal momento che questo non si verificava e le frecce ricadevano diritte, era chiaro che
la Terra non poteva ruotare. Oresme superò entrambe le obiezioni. Non soffia vento da est perché il movimento della Terra è impartito a tutti gli oggetti sulla Terra o prossimi a essa, inclusa l’atmosfera. Ciò offre una risposta anche alla seconda obiezione:
frecce scoccate in aria non possiedono solamente una spinta verticale imposta loro dall’arco; hanno anche un moto orizzontale
conferito loro dalla Terra che gira.
Come rettore dell’Università di Parigi gli successe Alberto di
Sassonia (1316-1390 ca.). Anche questi lavorò sulla teoria dell’impeto e insegnò quella che era un’approssimazione della Prima legge del moto di Newton, sottolineando come questa teoria
eliminasse la necessità di creature angeliche impegnate a spingere le sfere celesti. «Dunque si potrebbe dire che la prima Causa
creò i corpi celesti e impresse su ognuno di loro tale qualità motoria, la quale muove ogni sfera». Questa iniziale impressione di
forza è sufficiente perché nello spazio non c’è resistenza, né nessun’altra forza «diretta verso un qualche moto opposto» (in
Grant 1994, p. 550).
Quando i professori universitari iniziarono a insegnare che
alba e tramonto potevano essere causati dalla rotazione quotidiana della Terra, non fu più necessario presumere che il Sole girasse intorno alla Terra – e la concezione di un sistema solare
eliocentrico divenne sempre più plausibile e invitante. Poi fu la
volta del vescovo Nicola Cusano (1401-1464), il quale insegnava
come gli altri che la Terra girava grazie a un «impeto conferito su
di essa all’inizio del tempo». Avendo osservato che, «come si vede dalla sua ombra nelle eclissi, […] la Terra è più piccola del Sole» ma più grande della Luna o di Mercurio, Nicola Cusano so-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
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stenne (come avevano fatto Buridano e Nicola d’Oresme) «che
un uomo che si trovi sulla Terra, o sul Sole, o su qualche altra
stella, crederà sempre che la posizione che occupa è il centro immoto, e che tutte le altre cose sono in movimento» (Danielson
2000, p. 98; Mason 1971). Ne conseguiva che gli uomini non dovevano fidarsi del fatto che percepivano la Terra come ferma;
forse non lo era affatto.
Tutte queste teorie a lui precedenti erano ben note a Copernico. La trattazione di fisica di Alberto di Sassonia era stato uno fra
i primi testi a stampa, e la prima edizione era stata pubblicata a
Padova nel 1493, poco tempo prima che Copernico divenisse
uno studente dell’università della città.
Quale fu allora il contributo di Copernico? Egli propose un
modello di sistema solare con il Sole al centro, circondato da pianeti. Tutto il resto del De revolutionibus orbium coelestium era sbagliato! Quello che rese il libro qualcosa di più di una semplice
nuova formulazione di precedenti teorie fu il fatto che Copernico «si espresse principalmente in termini matematici, la lingua
madre della scienza» (Crosby 1998). Quindi, egli elaborò tutta la
geometria del suo sistema, fornendo in tal modo un metodo per
il calcolo delle posizioni planetarie future – essenziale per stabilire la data della Pasqua, i solstizi, e simili. Eppure, questo suo sistema non dava risultati più accurati di quelli del sistema geocentrico creato da Tolomeo nel II secolo e che aveva guidato i calcoli celesti d’Europa fino a quel momento. Il sistema copernicano non rappresentava un progresso sotto questo aspetto, perché
non riconosceva il fatto che le orbite planetarie fossero delle ellissi, e non delle circonferenze. Qui, forse, Copernico potrebbe
essere stato traviato dal troppo rispetto per la filosofia greca, la
quale sosteneva che il moto dei corpi celesti doveva essere circolare, dal momento che il cerchio era la forma perfetta e ideale. Di
conseguenza, come Tolomeo, Copernico dovette ricorrere a degli
epicicli (cerchi) nelle orbite per ottenere dei calcoli ragionevolmente accurati – e finì con l’avere nel suo modello ancora più
cerchi di Tolomeo stesso (Cohen 1985a; Gingerich 1975; Neugebauer 1975). Anzi, Copernico non riuscì a segnare un progresso
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A GLORIA DI DIO
su Tolomeo e gli antichi greci anche perché postulò, come loro,
che i pianeti non si muovessero attraverso lo spazio in quanto tale, ma fossero racchiusi in «enormi sfere roteanti», o gusci, che li
tenevano insieme (Cohen 1985a, p. 107). In realtà, secondo Copernico, erano queste sfere a ruotare intorno al Sole – le «sfere celesti» del titolo del suo libro non sono pianeti, e i cerchi nei suoi
disegni non designano orbite planetarie, ma rappresentano le
sfere solide all’interno delle quali egli riteneva fossero racchiusi
i corpi celesti (Cohen 1985a; Gingerich 1975; Rosen 1971).
Quindi, la «Rivoluzione scientifica» non iniziò con lui. Come
scrisse l’illustre I. Bernard Cohen, «in breve, l’idea che ci sia stata una rivoluzione copernicana nella scienza va contro ogni evidenza […] ed è un’invenzione degli storici successivi» (Cohen
1985a, p. 106). Molti storici della scienza contemporanei sono
d’accordo (Gingerich 1975; Jaki 2000; Rosen 1971), ma qualora
non si voglia ammettere che la nascita dell’astronomia scientifica si deve alla Scolastica, allora bisogna per lo meno spostarla in
avanti nel tempo, all’opera di Giovanni Keplero (1571-1630), il
cui raffinato modello non presentava gli errori fatti da Copernico. E pur tuttavia, Keplero rientra meglio in un modello storico
di normale progresso scientifico, nel quale Copernico svolse un
ruolo certamente significativo, piuttosto che rivoluzionario.
Una delle ragioni per cui la storia ha prestato così poca attenzione a tutto il lavoro che preparò la strada a Copernico è il fatto
che egli non riconobbe questi debiti nel suo famoso libro (mentre
il libro di Keplero tesse le lodi di Copernico). Questa omissione
non era affatto una cosa insolita; semplicemente, nella sua epoca
non era comune rendere onore ai predecessori. Così, per esempio, Galileo presentò falsamente il telescopio come una sua invenzione, e Newton cancellò ogni traccia del suo debito nei confronti di Cartesio (Jaki 2000). Ma il motivo più importante per cui
Copernico è stato presentato come un genio isolato che ha rivoluzionato la scienza è che questa immagine era adatta all’ideologia di chi era determinato (e lo è ancora) a imporre sulla storia
occidentale l’idea di un «Illuminismo» e di un «Rinascimento».
Ma di questo parleremo più avanti.
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
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Infine, dobbiamo ribadire che i protestanti non salvarono il
concetto di un sistema solare eliocentrico dai cattolici decisi a
condannarlo come eresia. Lutero era sgomento all’idea che la
Terra non fosse il centro dell’universo tanto quanto il Papa. Il
modello eliocentrico fu salvato da determinati e devotissimi studiosi, sia protestanti che cattolici.
Le università della Scolastica
Da Ockham a Copernico, lo sviluppo del modello eliocentrico del sistema solare fu il prodotto delle università, le quali, come abbiamo visto nel capitolo 1, furono un’invenzione cristiana.
Fin dall’inizio, l’università medievale fu un luogo creato e gestito da studiosi e dedicato esclusivamente alla conoscenza. Non
posso dire nulla di meglio di quanto detto da Marcia L. Colish,
nella sua descrizione degli studiosi scolastici che fondarono le
università:
Studiavano le autorità del passato e le opinioni a loro contemporanee, facendone un’analisi e spiegando i motivi per cui alcune venivano rifiutate e altre accettate. Nel complesso, la metodologia già
istituita all’inizio del XII secolo mostra la disponibilità e la prontezza degli scolastici a criticare i documenti fondativi dei rispettivi
settori. Non limitandosi a ricevere e ampliare le tradizioni classiche
e cristiane, selezionavano da queste tradizioni delle idee che sarebbero sopravvissute a loro vantaggio. Inoltre, riposizionavano
quelle autorità che ritenevano difendessero posizioni che queste
stesse autorità avrebbero trovato strane e originali. [I commentari]
raramente erano delle semplici sintesi o spiegazioni delle opinioni
dei loro autori. I commentatori della Scolastica, molto più comunemente, mettevano in discussione l’autore scelto, oppure facevano pesare sulla sua opera idee provenienti da scuole di pensiero
emergenti, o le loro stesse opinioni. (Colish 1997, p. 266)
Questo stile intellettuale era incoraggiato dalla gestione delle
università. Come per le gilde commerciali o artigianali, le facoltà
delle università medievali controllavano gli ingressi nelle loro fi-
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A GLORIA DI DIO
la e stabilivano degli standard di competenza e di obiettivi. Spesso, l’autonomia delle università doveva essere difesa, ma il lettore moderno resta colpito da quanto incredibilmente indipendenti, e privilegiate, riuscivano a essere queste istituzioni medievali.
Con le parole di Nathan Schachner:
L’università era l’amata, viziata, figlia del papato e dell’Impero, dei
re come delle municipalità. Veniva ricoperta di privilegi, un fiume
continuo e dorato; privilegi senza pari prima di allora, e da allora
in poi. Nemmeno le sacre gerarchie della Chiesa avevano le stesse
dispense dei poveri studiosi mendicanti che chiedevano la protezione di un’università. Le municipalità rivaleggiavano violentemente per avere l’onore di ospitarne una fra le mura cittadine; i re
scrivevano lettere ammalianti per adescare gruppi di studiosi
scontenti e allontanarli dal dominio dei rivali; i Papi intervenivano
con linguaggio minaccioso per obbligare i reali a rispettare l’inviolabilità di questa istituzione privilegiata. (Schachner 1938, p. 3)
Fra questi privilegi c’era lo stato clericale. Benché non vi fosse il bisogno di essere ordinati sacerdoti o di entrare negli ordini
sacri (e la maggioranza non lo faceva), gli studenti e gli insegnanti delle università medievali godevano dei diritti del clero,
compreso quello di essere processati solamente da un tribunale
ecclesiastico (dove le condanne erano solitamente molto più miti di quelle delle corti civili), e gli attacchi fisici contro di loro erano puniti con le stesse severe condanne riservate a chi attaccava
dei religiosi. Le università avevano anche il diritto riconosciuto
di spostarsi ovunque i professori ritenessero giusto, il che implicava un notevole potere nella contrattazione per privilegi e vantaggi economici e politici (erano le città spesso a pagare tutti i salari degli insegnanti).
L’autonomia dei singoli membri del corpo insegnante consentiva anche gli spostamenti da una università all’altra, incredibilmente frequenti nonostante i mezzi di trasporto e comunicazione piuttosto primitivi. Dal momento che l’istruzione era in latino, gli studiosi erano in grado di spostarsi senza preoccuparsi
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
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dei confini linguistici. E visto che i diplomi universitari erano reciprocamente riconosciuti, gli studiosi potevano entrare in qualsiasi corpo insegnanti. In effetti, si trattava di un’epoca in cui tutti i più importanti pensatori si conoscevano – molti addirittura si
erano incontrati, e comunque tutti avevano delle conoscenze in
comune. E la fama e gli inviti a unirsi alle varie facoltà d’Europa
si acquisivano grazie all’innovazione. Nel capitolo 1 ho esaminato il profondo impatto che il perseguimento dell’innovazione ebbe fra i teologi universitari, fra i quali Wyclif, Hus, Erasmo, Lutero e Calvino. In modo simile, fu nelle università che la Scolastica diede vita alla scienza. E per quanto riguarda la conoscenza di Aristotele, Platone, Euclide e di tutti gli altri esponenti del
sapere classico, fu nelle università scolastiche, e non nei successivi salotti dei philosophes, o durante il «Rinascimento» italiano,
che venne riconosciuta l’importanza intellettuale dei classici. In
parte, ciò dipese dalla rottura della «barriera del greco».
Era il greco, e non il latino, la lingua intellettuale dell’epoca
classica. Gli intellettuali romani parlavano greco più spesso che
latino, e dunque le eredità intellettuali del sapere greco restavano in questa lingua. Platone, Aristotele e gli altri non andarono
mai davvero perduti dopo il declino di Roma, ma erano illeggibili in un’Europa nella quale solamente pochi studiosi conoscevano il greco. Questo impedimento venne superato quando, «fra
il 1125 e il 1200, una vera marea di traduzioni in latino rese il greco [… accademicamente] disponibile, e molte di più sarebbero
giunte nel XIII secolo» (Grant 1996, p. 23). Si noti che quest’opera di traduzione delle opere del sapere classico non fu dovuta a
una ribellione umanista contro la «lunga notte» dell’ignoranza
cristiana. La «riscoperta» fu opera di studiosi cristiani estremamente devoti nelle loro università di nuova creazione.
Alcuni storici hanno attribuito la ripresa del sapere classico
alla caduta di Costantinopoli, che, nel 1453, fece sì che molti studiosi bizantini fuggissero in Italia, portando con sé gli autori antichi. Questa ipotesi aiuta certamente a convalidare l’idea di un
«Rinascimento» italiano, ma non è veritiera. Gli studiosi occidentali della Scolastica leggevano, traducevano, citavano e di-
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A GLORIA DI DIO
scutevano tutti gli autori importanti della classicità secoli prima
che qualsiasi bizantino giungesse in Occidente. In effetti, sono
sopravvissuti molti cataloghi di biblioteche appartenenti all’epoca dal XII al XIV secolo, che mostrano una rilevante presenza dei
classici. «Per fare un esempio, la biblioteca di Mont Saint-Michel,
nel XII secolo conteneva testi di Catone, il Timeo di Platone (in
una traduzione latina), diverse opere di Aristotele e Cicerone,
estratti di Virgilio e Orazio» (Pernoud 2000, p. 24). E per quanto
concerne il «Rinascimento» italiano, non si trattò di una «riscoperta» del sapere classico. Piuttosto, fu un periodo di emulazione culturale durante il quale persone alla moda copiarono lo stile classico negli usi e costumi, nell’arte, in letteratura e filosofia –
a Firenze, ogni anno Lorenzo de’ Medici (1449-1492) dava un
banchetto per celebrare il compleanno di Platone. Per questa
passione verso gli antichi giorni di gloria, gli italiani iniziarono a
sostenere che la storia occidentale consistesse in «due periodi di
luce: l’antichità e il Rinascimento […] e fra i due […] secoli rudi
e oscuri» (Pernoud 2000, p. 21). Dunque, dall’entusiasmo per lo
stile e dall’orgoglio etnico nacque il concetto dei «Secoli Bui», seguiti dall’alba di un nuovo illuminismo. Ma non fu così. La Scolastica conosceva e capiva l’opera di Platone, Aristotele e gli altri
classici.
Empirismo scolastico
Questi studiosi devoti non erano affatto intimiditi dal sapere
classico. Abbiamo già visto come scolastici quali Giovanni Buridano e Nicola d’Oresme confutarono le importanti tesi di autori
classici. Il caso di Alberto Magno (1205-1280) è esemplare. Probabilmente nessun altro fece tanto quanto lui per «mettere in
contatto la cristianità occidentale con la tradizione aristotelica»
(Lindberg 1992, p. 230). Ma Alberto non si accontentò di interpretare Aristotele. Piuttosto, lo integrò e lo corresse al meglio
delle sue capacità. Di conseguenza, tentò, quando possibile, di
sottoporre le teorie empiriche di Aristotele (ma anche di altri) alla verifica dell’osservazione, riscontrando che spesso erano errate. Nel frattempo, divenne «forse il miglior botanico di tutto il
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
191
Medioevo» (Lindberg 1992, p. 230), istituendo una tradizione di
ricerca che portò direttamente alle svolte della biologia e della fisiologia avvenute nel XVI e nel XVII secolo.
Alberto non era isolato nella sua dedizione a un preciso empirismo, e per accorgersene basta esaminare gli sviluppi nello
studio della fisiologia umana. Furono gli studiosi della Scolastica, e non i greci, i romani, i musulmani, o i cinesi, a basare i propri studi sulla dissezione umana (Grant 1996; Porter 1998). Proprio
come a tutti noi sono state insegnate delle falsità su Colombo, così quasi nessuno conosce la verità sulla dissezione e sulla Chiesa
medievale, e per gli stessi motivi.
La dissezione umana non era permessa nel mondo classico, e
questo è il motivo per cui le opere greco-romane sull’anatomia
sono così sbagliate. Gli studi di Aristotele si limitarono alla dissezione animale, così come quelli di Celso e Galeno. Celso sostenne che tre secoli prima della sua epoca, molti medici greci di
Alessandria avevano sezionato alcuni schiavi e criminali. Altrimenti, «nell’epoca classica, la dignità del corpo umano proibiva
la dissezione» (Porter 1998, p. 56). La dissezione umana era proibita anche nel mondo islamico. Poi, vi furono le università cristiane e con loro una nuova prospettiva su questa pratica. Il presupposto iniziale era che a essere unica, nell’uomo, è l’anima,
non la fisiologia. Dunque, la dissezione del corpo umano non era
dissimile dallo studio dei corpi animali e non aveva alcuna implicazione teologica. Da questo presupposto vennero avanzate
due giustificazioni aggiuntive. La prima era di natura forense.
Troppi omicidi sfuggivano alla cattura poiché i corpi delle vittime non erano soggetti a un’attenta indagine post mortem. La seconda aveva a che vedere con il benessere generale: non si poteva acquisire nessuna conoscenza medica adeguata senza un’osservazione diretta dell’anatomia umana.
Quindi, nel XIII secolo, funzionari locali (soprattutto nelle
città universitarie italiane) iniziarono ad autorizzare autopsie nei
casi in cui la causa di morte fosse incerta. Poi, più avanti nel corso del secolo, Mondino de’ Luzzi (1270-1326 ca.) scrisse un manuale sulla dissezione, basato sul suo studio di due cadaveri
192
A GLORIA DI DIO
femminili (Mason 1971). Successivamente, intorno al 1315, svolse un’autopsia davanti a un pubblico di studenti e insegnanti
dell’Università di Bologna. Da questo momento in poi, la pratica
della dissezione umana si diffuse abbastanza rapidamente in tutte le università italiane. In Spagna, le dissezioni pubbliche iniziarono nel 1391, e la prima autopsia a Vienna fu condotta nel
1404 (Porter 1998). Non si trattava di episodi rari, comunque, e
l’autopsia divenne prassi normale nelle lezioni di anatomia. Intorno al 1504, Copernico prese parte a una dissezione umana durante la sua breve iscrizione ai corsi di medicina dell’Università
di Padova (Armitage 1951). «L’introduzione [della dissezione
umana] nell’Occidente latino, fatta senza forti obiezioni da parte
della Chiesa, fu un evento memorabile» (Grant 1996, p. 205).
Ciò nonostante, White descrisse indignato il modo in cui il
grande fisiologo Andrea Vesalio (1514-1564) «rischiò i più terribili pericoli, e soprattutto l’accusa di sacrilegio, basata sugli insegnamenti della Chiesa», per aver condotto delle dissezioni
umane. E continuava sostenendo che chiunque sezionasse un
corpo umano a quell’epoca rischiava la «scomunica», ma che l’eroico Vesalio «ruppe senza paura» con «questo sacro convenzionalismo» e procedette «nonostante la censura ecclesiastica […].
Nessun pericolo poté intimidirlo» (White 1896, vol. 2, p. 50). Tutto questo si diceva fosse accaduto due secoli dopo che la pratica
della dissezione umana si era diffusa nelle università dove Vesalio l’aveva imparata e poi praticata! Non si tratta nemmeno di un
fatto emerso di recente. Già nei primi anni ’20, Charles Singer,
uno dei primi storici della medicina, riteneva fosse cosa talmente nota da non aver bisogno di documentazione: «Benché Vesalio avesse alterato profondamente l’attitudine verso i fenomeni
biologici, ciò nonostante proseguì le sue ricerche, indisturbato
dalle autorità ecclesiastiche» (Singer [1925] 1970, p. 129).
White non racconta neanche l’immensa fama e il riconoscimento ricevuti dall’opera di Vesalio immediatamente dopo la
pubblicazione, né si degna di riportare che Carlo V, Sacro Romano Imperatore, rispose al suo «sacrilegio» conferendogli il titolo
di conte e premiandolo con un vitalizio. A quel punto, il giovane
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
193
anatomista aveva preso residenza presso la corte di Filippo II di
Spagna, e questo proprio durante l’epoca di più accesa persecuzione delle eresie da parte degli inquisitori locali! In quanto alle
visioni religiose di Vesalio, basti dire che morì ritornando da un
pellegrinaggio in Terra Santa (O’Malley 1964; Porter 1998). Ecco,
quindi, che ci troviamo davanti a un altro racconto falso di White in merito a una presunta incessante opposizione religiosa alla
scienza. E, come nel caso del racconto su Colombo, ha avuto anche questo un profondo e contorto effetto sulla nostra cultura intellettuale 4.
La dedizione all’empirismo fu cruciale per la nascita della
scienza occidentale. Quindi, continuando questa tradizione, Giovanni Keplero produsse il primo modello accurato di sistema solare. Lunghe e rigorose osservazioni lo spinsero a concepire le orbite planetarie come delle ellissi, e non delle circonferenze, il che
permise poi di svolgere calcoli orbitali accurati in maniera piuttosto semplice, grazie al fatto che non era più necessario presupporre degli epicicli. La svolta di Keplero rese possibile anche
spiegare con accuratezza, e per la prima volta, l’alternarsi delle
stagioni, visto che l’orbita ellittica della Terra la faceva posizionare a distanze diverse dal Sole durante il corso dell’anno. Si era
ormai giunti al pieno compimento dell’astronomia scientifica.
Tuttavia, l’esserci focalizzati sulle università, sull’innovazione e sull’empirismo ci ha fatto finora trascurare un interrogativo
veramente importante, vale a dire: perché gli studiosi della Scolastica e gli studiosi europei dei secoli successivi erano così interessati alla scienza?
A prima vista, sembrerebbe una domanda sciocca. Forse che
la nascita della scienza non è un aspetto normale del progresso
culturale, o del progresso delle civiltà? No. Molte società piuttosto sofisticate non hanno generato comunità di scienziati, né prodotto un corpus di teorie sistematiche e osservazioni scientifiche
che possa essere definito scienza. Benché la Cina fosse abbastanza civilizzata nei molti secoli in cui gli europei erano ancora dei
rozzi selvaggi, i cinesi non svilupparono la scienza (Dorn 1991;
Huff 1993; Lang 1997; Needham 1954-1984). Allo stesso modo,
194
A GLORIA DI DIO
benché fossero in pieno possesso dell’intero corpus di erudizione greco-romana, e avendo fatto impressionanti passi avanti in
matematica, gli studiosi islamici non divennero degli scienziati.
Una volta approfonditi i testi classici, gli studiosi musulmani si
accontentavano del ruolo di esegeti e non aggiungevano molto
di proprio. E la scienza non emerse nemmeno in India, o in Egitto. Nemmeno la Grecia classica, pur dando prova di notevole sapere ed erudizione, aveva la scienza.
Come abbiamo osservato, la scienza consiste in uno sforzo organizzato (vale a dire, continuo e sistematico) empiricamente
orientato alla spiegazione dei fenomeni naturali – un processo
cumulativo di costruzione teorica e verifica. Questa attività nacque una volta sola. Come ha spiegato lo storico Edward Grant,
«è indiscutibile che la scienza moderna sia nata nel XVII secolo
nell’Europa occidentale e non altrove» (Grant 1996, p. 168). Altri
importanti storici della scienza e sociologi potrebbero assegnare
la nascita della scienza a un periodo leggermente antecedente,
ma tutti concordano sul fatto che fu uno sviluppo unico, ed europeo (Ben-David 1990; Cohen 1985a; Collins 1998; Dorn 1991;
Grant 1996; Huff 1993; Jaki 2000; Kuhn 1978).
La domanda cruciale è: perché?
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
195
fedeltà di generazione in generazione; hai fondato la terra ed essa è salda». Fra i passaggi scritturali più frequentemente citati
dagli studiosi medievali c’è il versetto tratto Libro della Sapienza (11,20): «Tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso».
In contrasto con le dottrine religiose e filosofiche dominanti
nel mondo non cristiano, i cristiani diedero vita alla scienza perché credevano che potesse e che dovesse essere fatto. Come disse Alfred North Whitehead (1861-1947) durante una delle sue Lowell
Lectures a Harvard nel 1925, la scienza nacque in Europa a causa della diffusa «fede nelle possibilità della scienza […] derivate
della teologia medievale» (Whitehead [1925] 2001, p. 31). La dichiarazione di Whitehead scandalizzò non solo la sua distinta
platea, ma in generale gli intellettuali occidentali, quando le sue
Lectures vennero pubblicate. Come poteva un filosofo e matematico del suo calibro, co-autore insieme a Bertrand Russell della
pietra miliare Principia Mathematica (1910-1913), affermare una
simile assurdità? Non sapeva che la religione è il nemico mortale dell’indagine scientifica?
Whitehead sapeva bene quel che diceva. Aveva capito che la
teologia cristiana era stata un elemento di fondamentale importanza per lo sviluppo della scienza in Occidente e di certo nel resto del mondo le teologie non cristiane avevano soffocato la ricerca scientifica. Come spiegò:
La differenza cristiana
La mia risposta a questo interrogativo è tanto breve quanto
poco originale: la cristianità rappresentò Dio come un essere razionale, interessato, affidabile e onnipotente, e l’universo come
la sua creazione personale, con una struttura razionale, regolata
da leggi e stabile, che attendeva di essere compresa dagli esseri
umani.
Come disse Nicola d’Oresme, la creazione di Dio «è più simile a quella di un uomo che costruisca un orologio e gli permetta
di funzionare e continuare il suo movimento autonomamente»
(in Crosby 1998, p. 96). Oppure, con le parole del Salmo 119,8990: «Per sempre, o Signore, la tua parola è stabile nei cieli. La tua
Non credo però di aver ancora messo in evidenza il grande contributo dato dal Medioevo alla formazione del movimento scientifico. Intendo parlare della fede inespugnabile che ogni evento particolare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai suoi
antecedenti e fungere da esempio di principi generali. Senza questa fede l’enorme lavoro degli scienziati sarebbe disperato. È questa fede istintiva, vivamente sostenuta dall’immaginazione, che costituisce il principio motore della ricerca: v’è un segreto, e questo
segreto può essere svelato. Come si è insediata così saldamente
nello spirito europeo questa convinzione?
Se paragoniamo il tono del pensiero europeo con l’atteggiamento
di altre civiltà abbiamo la sicura impressione che il primo sia ori-
196
A GLORIA DI DIO
ginato da una sola fonte. Non può infatti provenire che dalla concezione medievale, che insisteva sulla razionalità di Dio, al quale
veniva attribuita l’energia personale di Yahweh e la razionalità di
un filosofo greco. Ogni particolare era controllato e ordinato: le ricerche sulla natura non potevano sfociare che nella giustificazione
della fede nella razionalità. Non parlo, si badi, delle convinzioni
dichiarate di pochi individui. Ciò che ho in mente è l’impronta lasciata nello spirito europeo da una fede secolare e incontestata. È
questo che intendo con tono istintivo del pensiero e non un mero
credo espresso con parole. (Whitehead [1925] 2001, pp. 30-31)
Whitehead terminava osservando che le immagini di divinità
rintracciabili nelle altre religioni, in particolar modo in Asia, sono troppo impersonali o irrazionali per poter incoraggiare la
scienza. Qualsiasi particolare «evento determinato poteva essere
attribuito al fiat di un […] irrazionale» e dispotico Dio, oppure
scaturire da «qualche “origine delle cose” impersonale e imperscrutabile. Manca quella fiducia che proviene dall’idea della razionalità intelligibile di un essere personale» (Whitehead [1925]
2001, p. 31).
In effetti, la maggior parte delle religioni non cristiane non
presuppone affatto una creazione: nella loro prospettiva, l’universo è eterno e, per quanto possa seguire dei cicli, ciò avviene
senza principio o senza scopo; inoltre, cosa più importante, non
essendo mai stato creato non ha un Creatore. Di conseguenza,
l’universo viene ritenuto un mistero supremo, incoerente, imprevedibile e arbitrario. Coloro che partono da questi presupposti religiosi, raggiungono la saggezza attraverso un percorso di
meditazione e intuizioni mistiche, senza alcuna occasione d’esercitare l’uso della ragione.
Diversamente, molti aspetti centrali della teologia cristiana
sono frutto del ragionamento. Così affermò Quinto Tertulliano
(160-225 ca.), uno dei primi teologi cristiani: «La ragione è cosa
di Dio, poiché non c’è nulla che Dio, creatore di tutte le cose, non
abbia previsto, disposto, ordinato secondo ragione, nulla che
non voglia doversi trattare e capire secondo ragione» (De Paeni-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
197
tentia 1). Molti secoli dopo, sant’Agostino (354-430) sostenne che
la ragione fosse indispensabile alla fede: «Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della
quale ci ha creati superiori agli altri esseri animati. Lontano da
noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non potremmo neppure credere, se non avessimo un’anima razionale».
Ovviamente, i teologi cristiani accettavano l’idea che si dovesse
credere alla parola di Dio anche se le ragioni non erano manifeste. Di nuovo sant’Agostino: «Quando perciò si tratta di verità
concernenti la dottrina della salvezza, che non possiamo ancora
comprendere con la ragione (ma lo potremo un giorno), alla ragione deve precedere la fede; essa purifica la mente e la rende capace di percepire e sostenere la luce della suprema ragione divina». E poi aggiungeva che è necessario «che, quando si tratta di
supreme verità, le quali non possono conoscersi, la fede preceda
la ragione, qualunque sia il ragionamento che ci convince di ciò,
anch’esso deve senza dubbio condurre alla fede» (Lindberg e
Numbers 1986, pp. 27-28).
Forse, l’aspetto più rilevante di questi estratti da sant’Agostino è l’ottimismo che lo porta a pensare che un giorno la ragione
trionferà. Oltre a ritenere che fosse un dovere dei teologi cercare
di capire la volontà di Dio, per la Chiesa delle origini e medievale esisteva il dovere di capire l’opera di Dio, o almeno meravigliarsene. Come spiegò san Bonaventura (1221-1274), lo scopo
della scienza è «rendere onore a Dio» (De reductione artium ad
theologiam).
San Tommaso d’Aquino (1225-1274 ca.) tentò di dar forma all’ottimismo di sant’Agostino in merito al fatto che le «supreme
verità» potessero essere colte dalla ragione, nella sua monumentale Somma teologica, la quale resta la spiegazione definitiva di
molti punti della dottrina cattolica. San Tommaso sostenne che,
dal momento che gli esseri umani mancano di intelletto sufficiente per capire direttamente l’essenza delle cose, è necessario
che ragionino fino al raggiungimento della conoscenza, passo
dopo passo. Così, benché san Tommaso considerasse la teologia
198
A GLORIA DI DIO
come la più elevata delle scienze, essendo rivolta direttamente
alle rivelazioni divine, auspicava l’uso degli strumenti della filosofia, soprattutto dei principi della logica, nello sforzo di costruire la teologia (Grant 1996; Meyer 1944).
Il punto cruciale è dunque l’aspetto metodologico. Secoli di
meditazione non produrranno nessuna conoscenza empirica, figurarsi la conoscenza scientifica. Ma nella misura in cui la religione ispira dei tentativi di comprensione dell’opera di Dio, la
conoscenza arriverà, e sorgerà la scienza in quanto «serva» della
teologia. E è proprio questo ciò che si consideravano non solamente gli appartenenti alla Scolastica, ma anche coloro che presero parte ai grandi progressi del XVI e XVII secolo – studiosi alla ricerca dei segreti della Creazione. Charles Webster ha sintetizzato l’opinione comune che si ritrova fra gli storici della scienza contemporanei:
Qualsiasi resoconto che voglia essere storico […] deve prestare dovuta attenzione alla profonda compenetrazione di idee scientifiche
e religiose. Sembrerebbe irragionevole negare la motivazione religiosa nei numerosi casi nei quali essa venne esplicitata dagli scienziati stessi, spesso con dolorosa enfasi. Mai fu spesa energia nella
scienza senza la rassicurazione della coscienza cristiana. (Webster
1986, p. 213)
I casi negativi
Prima di concludere questa discussione, devo dar prova dei
casi negativi, quelli dove la scienza non si è sviluppata perché, in
società che altrimenti parevano avere tutte le potenzialità necessarie, mancavano alcune idee religiose fondamentali. Si tenga
presente che io sostengo solo che per la nascita della scienza fu
necessaria una particolare concezione di Creatore, ma che questa
concezione non fu una causa sufficiente. Qualora una cultura
dell’Età della Pietra si convertisse pienamente al cristianesimo,
non si potrebbe comunque prevedere un’emergere della scienza
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
199
al suo interno. Sono necessari molti altri progressi culturali e sociali affinché ciò possa avvenire. Dunque, i casi negativi sono
quelli in cui, tralasciando la religione, ci potremmo aspettare una
cultura scientifica. Secondo me, i casi di questo tipo sono tre: Cina, Grecia e mondo islamico.
Cina
Solamente tre anni prima dell’affermazione del suo co-autore
Alfred North Whitehead, secondo cui il cristianesimo aveva costituito la base per lo sviluppo della scienza, Betrand Russell trovava piuttosto sconcertante la mancanza di scienza in Cina. Dal
suo punto di vista di ateo militante, la Cina avrebbe dovuto sviluppare un discorso scientifico molto prima dell’Europa. Egli afferma: «Nonostante, sino a oggi, la civiltà cinese sia stata manchevole nella scienza, essa non ha mai nutrito sentimenti di ostilità verso di essa, quindi il diffondersi del sapere scientifico non
dovrebbe incontrare ostacoli pari a quelli posti dalla Chiesa in
Europa» (Russell 1922, p. 193).
Tuttavia, nonostante fosse certo del fatto che, non essendo afflitta dalla Chiesa, la Cina avrebbe presto superato la scienza occidentale 5, non riuscì a capire che erano proprio impedimenti di
tipo religioso ad aver ostacolato l’ascesa della scienza in questo
paese. Benché da secoli la gente comune veneri una ricca schiera
di Dei, ciascuno con un limitato raggio d’azione e spesso privi di
caratteristiche definite, gli intellettuali cinesi si sono sempre vantati di seguire credi «senza Dei», nei quali il soprannaturale è
concepito come un’essenza o un principio che governa la vita,
impersonale, distante e certamente non un essere vivente. Il Tao
è un esempio di essenza; ying e yang rappresentano un principio. Proprio come le divinità di poca importanza non creano un
universo, non lo fanno neanche essenze o principi indistinti; anzi, sembra che non siano in grado di fare nulla.
Così come viene concepito dai filosofi cinesi, l’universo semplicemente è, ed è sempre stato. Non vi sono motivi per supporre che funzioni secondo leggi razionali o che potrebbe essere
compreso in termini fisici piuttosto che mistici. Di conseguenza,
200
A GLORIA DI DIO
nel corso dei millenni gli intellettuali cinesi sono andati in cerca
di «illuminazioni» e non di spiegazioni. E questa è proprio la
conclusione alla quale giunse lo storico marxista Joseph
Needham, il quale dedicò la maggior parte della sua carriera e
diverse opere alla storia della tecnologia cinese. Non essendo
riuscito, dopo moltissimi tentativi, a trovare una spiegazione
materialistica, Needham concluse che i cinesi non erano riusciti
a sviluppare la scienza a causa della loro religione e per l’incapacità degli intellettuali cinesi di credere all’esistenza di leggi
della natura, dal momento che «non si era mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana». Needham continuava:
Non è che per i cinesi non vi fosse in Natura ordine alcuno, ma
piuttosto era loro opinione che non si trattasse di un ordine stabilito da un essere individuale razionale; pertanto mancava totalmente la convinzione che esseri individuali razionali sarebbero
stati in grado di compitare nelle loro lingue terrestri inferiori il codice divino delle leggi da lui precedentemente decretate. I taoisti,
certo, avrebbero disprezzato tale idea perché troppo ingenua rispetto alla sottigliezza e alla complessità dell’universo così com’essi l’intuivano. (Needham 1981, p. 704)
Proprio così.
Diversi anni fa, il mio amico Graeme Lang scartò l’idea che
la scienza non fosse riuscita a svilupparsi in Cina a causa dell’influenza del confucianesimo e del taoismo sugli intellettuali
cinesi, sostenendo che tutta la cultura è flessibile e che «se in Cina gli studiosi avessero voluto sviluppare la scienza, la filosofia
da sola non sarebbe stata un serio impedimento» (Lang 1997, p.
18). Forse. Ma Lang non pose la domanda più importante: perché gli studiosi cinesi non volevano occuparsi di scienza? Perché,
e sono d’accordo con Whitehead, Needham (e molti altri), per i
cinesi la scienza non era possibile. Sono dei fondamentali presupposti teologici e filosofici a stabilire se qualcuno tenterà di
fare della scienza.
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
201
Grecia
Per secoli gli antichi greci sembrarono sul punto di raggiungere una conoscenza scientifica dell’universo. Erano interessati a
spiegare il mondo naturale attraverso principi generali astratti.
Alcuni osservavano la natura in modo attento e sistematico –
benché Socrate considerasse l’empirismo, come le osservazioni
astronomiche, una «perdita di tempo» e Platone fosse d’accordo
con lui e consigliasse ai suoi studenti di «lasciar stare i cieli stellati» (Mason 1971, p. 104). Come gli studiosi della Scolastica, i
greci crearono reti accademiche coordinate, le famose «scuole».
Ma, alla fine, produssero solamente filosofie non empiriche, anzi antiempiriche e speculative, raccolte di fatti ateoretici, mestieri e tecnologie isolati, che non sfociarono mai nella vera scienza.
Furono tre i fattori che fecero sì che i greci non acquisissero
una conoscenza scientifica del mondo. Innanzitutto, non concepivano le divinità come Creatori coscienti. In secondo luogo, per
i greci l’universo non era solo eterno e increato, ma racchiuso in
infiniti cicli di progresso e decadenza. Infine, spinti dalle proprie concezioni religiose, trasformarono oggetti inanimati in
creature viventi capaci di propositi, emozioni e desideri, mandando così in cortocircuito la ricerca di teorie fisiche (Grant 1994
e 1996; Jaki 1986; Lindberg 1992; Mason 1971, oltre che le fonti
originali menzionate).
Per cominciare dalle concezioni religiose – nessuna delle numerose divinità del pantheon greco, neanche Zeus, poteva essere il plausibile creatore di un universo razionale. Infatti, anche gli
Dei, come gli umani, erano soggetti agli inesorabili meccanismi
dei cicli naturali di ogni cosa. Alcuni studiosi greci, compreso
Aristotele (384-322 BCE), presupponevano un «Dio» a guardia
dell’universo, ma questo Dio era concepito fondamentalmente
come un’essenza molto simile al Tao. Una tale divinità conferiva
una certa aura spirituale a un universo ciclico e alle sue proprietà
ideali e astratte ma, in quanto essenza, «Dio» non faceva né mai
aveva fatto nulla. Platone (427-347 BCE ca.) presupponeva una
sorta di essere divino chiamato Demiurgo, il quale era la personificazione della ragione. Il Demiurgo aveva tentato di costruire
202
A GLORIA DI DIO
un cosmo che rispondesse pienamente agli ideali di bene, vero e
bello, ma dal momento che questo «essere» aveva dovuto lavorare con materiali già esistenti, i quali avevano delle proprietà
(soprattutto difetti) sui quali non aveva controllo, il risultato era
stato di molto inferiore all’ideale.
Molti studiosi dubitano che Platone volesse davvero che l’esistenza del Demiurgo fosse intesa in senso letterale (Lindberg
1992). Comunque, creatore effettivo o metafora, il Demiurgo di
Platone impallidisce di fronte a un Dio che non solo è il signore
ma anche il Creatore di tutti gli elementi, avendo creato l’universo dal nulla. Per di più, per Platone l’universo non era stato
creato in base a solidi principi operativi, ma secondo degli ideali. E tali ideali consistevano principalmente in forme perfette. Per
questo motivo, l’universo deve essere una sfera, forma compiuta e simmetrica, e i corpi celesti devono ruotare seguendo una
traiettoria circolare, che è il perfetto tipo di moto (Mason 1971).
L’idealismo platonico, fondato su ipotesi a priori, fu a lungo di
notevole intralcio alla scoperta scientifica. Per esempio, la fede
incrollabile in queste forme ideali, molti secoli dopo, impedì a
Copernico anche solo di essere sfiorato dall’idea che le orbite
planetarie potessero essere ellittiche e non circolari.
Sotto molti aspetti appare strano che i greci, avendo rifiutato
l’idea di progresso per quella di un infinito ripetersi di un ciclo,
abbiano poi ricercato la conoscenza e la tecnologia. Platone, per
lo meno, proponeva un universo creato, ma la maggior parte degli studiosi greci riteneva che esso fosse increato ed eterno. Aristotele condannò «come impensabile» l’idea «che l’universo abbia avuto origine in un dato punto del tempo» (Lindberg 1992, p.
54). Nonostante considerassero l’universo eterno e immutabile, i
greci riconoscevano come evidente il fatto che storia e cultura
mutavano sempre, ma ciò avveniva solo all’interno dei rigidi
confini della ripetizione infinita. In Il cielo, Aristotele osservò che
«[si ripetono] non una volta sola, né due, bensì un numero infinito di volte le stesse opinioni» e, nella Politica, che tutto è «stato
inventato diverse volte nel corso dei secoli, o piuttosto un numero di volte imprecisato»; dal momento che egli viveva in
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
203
un’età dell’oro, il livello tecnologico della sua epoca aveva raggiunto il massimo che si potesse ottenere. Gli individui «funzionavano» allo stesso modo delle invenzioni: le stesse persone nascevano continuamente, nel cieco scorrere dei cicli dell’universo.
Secondo Crisippo (280-207 BCE), gli stoici insegnavano che «le
precedenti esistenze delle persone sono diverse dalle attuali solo
estrinsecamente e accidentalmente; tali differenze non producono un uomo diverso rispetto al suo equivalente di un’altra epoca» (Jaki 1986, p. 114). Per quanto riguarda poi l’universo in sé,
secondo Parmenide (nato nel 515 BCE) tutte le percezioni di
cambiamento sono illusione, perché l’universo è in un equilibrio
statico di perfezione, «increato e indistruttibile; perché è completo, immobile e infinito» (testo completo in Danielson 2000, pp.
14-15). Altri filosofi greci di rilievo, come gli appartenenti alla
scuola ionica, insegnavano che, nonostante l’universo fosse infinito ed eterno, esso era anche soggetto a cicli di successione senza fine. Platone vedeva le cose un po’ diversamente, ma anch’egli credeva nella ciclicità e nelle leggi eterne secondo le quali ciascuna età dell’oro era seguita da caos e tracollo.
Infine, i greci insistevano nel trasformare il cosmo, e più in generale gli oggetti inanimati, in esseri viventi. In piena conformità
con l’animismo che gli antropologi della religione associano alle
culture «primitive», Platone sosteneva che il Demiurgo avesse
creato il cosmo come un qualcosa di vivo – e nel Timeo scrive che
il mondo è «una sola visibile creatura vivente». Quindi, il mondo ha un’anima e, per quanto «solitario», è «per virtù sua capace di stare con se stesso, ed esso stesso conoscitore e amatore di
se medesimo in modo adeguato». Come ha rilevato David C.
Lindberg, «Platone conferì la divinità all’anima del mondo e considerò i pianeti e le stelle fisse una schiera di divinità celesti»
(Lindberg 1992, p. 42).
Allora, se gli oggetti minerali sono animati, si sbaglia a tentare di spiegare i fenomeni naturali; le cause del moto degli oggetti, ad esempio, saranno ascrivibili a motori, non a forze naturali.
È possibile che siano stati gli stoici, in modo particolare Zenone
(490-430 BCE), a sviluppare l’idea che fosse possibile spiegare il
204
A GLORIA DI DIO
funzionamento del cosmo sulla base dei suoi scopi consci, e questo divenne presto il punto di vista generale. Perciò, secondo Aristotele, i corpi celesti si muovevano circolarmente per la loro affezione nei confronti di quell’azione. Stanley Jaki ha sottolineato
come fu solamente grazie al rifiuto della fisica greca, e soprattutto di quella aristotelica, che la scienza della Scolastica riuscì a
progredire, «raggiungendo una prospettiva depersonalizzata
sulla natura, nella quale non si diceva che le pietre cadono per un
loro innato amore per il centro della Terra» (Jaki 1986, p. 105).
È assai significativo il fatto che, alla fine, il sapere greco si sia
arenato dentro la propria logica interna. A parte alcuni ulteriori
sviluppi della geometria, accadde molto poco dopo Platone e
Aristotele. Quando Roma assorbì il mondo greco, abbracciò pienamente e celebrò anche il suo sapere – gli studiosi greci prosperarono nel periodo della repubblica e durante il regno dei Cesari. Ma l’apporto della cultura greca non fece progredire intellettualmente il mondo romano in modo significativo (Lindberg
1992; Mason 1971). Il declino di Roma non interruppe lo sviluppo della conoscenza umana, proprio come il «recupero» del sapere greco non permise che il processo ricominciasse. Al contrario, come vedremo, il sapere greco fu una barriera per l’ascesa
della scienza! Non portò alla scienza nel mondo classico grecoromano, e soffocò il progresso intellettuale nel mondo islamico.
Islām
Potrebbe sembrare che il mondo islamico abbia un concetto
di Dio adatto a favorire l’ascesa della scienza. Ma non è così (Farah 1994; Hodgson 1974; Jaki 1986; Nasr 1993; Waines 1998). Allāh non viene presentato come un creatore che osserva delle leggi, ma è concepito come un Dio estremamente attivo che si impone al mondo come ritiene opportuno. Di conseguenza, all’interno del mondo islamico si formò presto un nucleo teologico
che condannava come blasfemia ogni tentativo di formulare leggi naturali, perché esse negavano la libertà di azione di Allāh.
Per questo, il mondo islamico non accolse completamente il
concetto secondo il quale l’universo possiede principi fonda-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
205
mentali stabiliti da Dio nella Creazione, ma sostenne che il mondo fosse retto su base continua dal suo volere. Se ne trovava giustificazione nel Corano: «Dio travia chi vuole e dirige chi vuole». Benché il versetto si riferisca al modo in cui Dio determina
il destino degli individui, è stato inteso in senso più ampio e applicato a tutte le cose.
Se Dio fa ciò che vuole, e se ciò che vuole è variabile, allora
l’universo potrebbe non essere basato su leggi. Si paragoni ciò al
concetto cristiano di Dio così come espresso dal genio scientifico francese Cartesio (1596-1650), il quale giustificò la sua ricerca
di «leggi» naturali sulla base del fatto che tali leggi dovessero
esistere perché Dio è perfetto e quindi «opera in maniera costante e immutabile», tranne per i rari casi di miracoli (Ouvres
vol. 8, p. 61).
Ogni volta che si solleva la questione della scienza e del sapere islamico, la maggior parte degli storici sottolinea che per
tutti i secoli in cui l’Europa cristiana non conosceva praticamente nulla della cultura greca, questa stessa cultura era rimasta viva e molto apprezzata nel mondo islamico. Certamente è un’affermazione vera, com’è vero che alcuni manoscritti classici giunsero nell’Europa cristiana attraverso il mondo islamico, in particolare quando gli intellettuali cristiani e musulmani entrarono in
contatto in Spagna. Ma è anche vero che il possedere tutto questo «illuminismo» non generò moltissimo progresso nell’islām,
figurarsi la nascita di una scienza islamica. Anzi, come spiegò lo
storico musulmano Caesar E. Farah:
I primi pensatori musulmani ripresero la filosofia là dove i greci
l’avevano lasciata. […] Così in Aristotele i pensatori musulmani
trovarono la loro grande guida, e per loro divenne il «primo dei
maestri».
Avendolo accettato a priori, la filosofia musulmana per come si
evolse nei secoli successivi scelse meramente di continuare nello
stesso filone e di estendere Aristotele anziché introdurre forme di
pensiero innovativo. Scelse la via dell’eclettismo, cercando di assimilare piuttosto che generare, nello sforzo cosciente di adattare i ri-
206
A GLORIA DI DIO
sultati del pensiero greco alle concezioni filosofiche musulmane,
ma con una portata molto più vasta di quella raggiunta dai primi
dogmatici cristiani. (Farah 1994, p. 199. Corsivo originale.)
Il risultato fu il congelamento e il soffocamento di qualsiasi
possibilità di nascita di una scienza islamica, e per le stesse ragioni che sottostanno alla stagnazione in se stessa della cultura
greca: presupposti fondamentali antitetici alla scienza. È assai significativo che il Rasa’il, la grande enciclopedia del sapere creata
dai primi studiosi musulmani, accogliesse pienamente la concezione greca del mondo come un enorme, conscio, organismo vivente che possiede sia intelletto che anima (Nasr 1993). Infatti,
secondo Jaki, il «concetto musulmano di Creatore non era adeguatamente razionale per ispirare un’efficace avversione ai diversi tipi di rappresentazioni del mondo, panteistiche, cicliche,
animistiche e magiche, che liberamente si facevano largo nel Rasa’il» (Jaki 2000, p. 207). Né le concezioni raggiunte in seguito da
Ibn Rushd, noto all’Occidente come Averroè (1126-1198), e dai
suoi successori, furono più propizie alla nascita di una scienza, e
questo nonostante tutti i loro tentativi di escludere la dottrina
musulmana dal proprio lavoro, in diretto conflitto con coloro che
appoggiavano il Rasa’il. Al contrario, Averroè e i suoi successori
divennero degli aristotelici intransigenti e dottrinari; proclamavano, infatti, che la teoria della fisica del filosofo greco fosse
completa e infallibile, e che se un’osservazione fosse risultata incoerente con una delle visioni aristoteliche, allora era tale osservazione a essere sicuramente scorretta o illusoria.
Da tutto questo risultò che gli studiosi islamici fecero significativi progressi solamente in conoscenze specifiche, come accadde per alcuni aspetti dell’astronomia e della medicina, discipline
che non richiedevano nessuna base teoretica generale. Col passare del tempo, poi, persino questo tipo di progresso cessò.
È chiaro quindi che, nonostante il sapere ricevuto, il «recupero» della cultura greca non riportò l’Europa sulla giusta strada
dello sviluppo della scienza. Anzi, a giudicare dall’impatto che
questo tipo di conoscenza ha avuto su greci, romani e musulma-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
207
ni, sembra sia stato di capitale importanza il fatto che questo sapere non fosse fruibile prima che gli studiosi cristiani stabilissero
una propria struttura intellettuale indipendente. Di conseguenza, quando gli studiosi medievali si imbatterono per la prima
volta nelle opere di Aristotele, Platone e degli altri filosofi dell’antichità, volevano ed erano in grado di contestarli. Come ho
cercato di spiegare, fu in esplicita opposizione ad Aristotele e
agli altri autori classici che Alberto, Ockham, Buridano e Oresme
progredirono verso la scienza. Nella misura in cui rimase aggrappato alle concezioni greche, Copernico non riuscì a fondare
un’astronomia scientifica. Dal momento che gli intellettuali che
nel Medioevo non si occupavano di materie scientifiche (soprattutto coloro che svilupparono le arti e la filosofia speculativa) divennero ammiratori dei classici greco-romani, molti dei grandi
scienziati del XVI e XVII secolo spesso affermarono formalmente di essere «debitori» nei confronti di Aristotele e degli altri filosofi dell’antichità, nonostante la loro opera in realtà negasse quasi tutto quello che i greci avevano detto a proposito del funzionamento del mondo.
Con questo non voglio minimizzare l’impatto che la cultura
greca ha esercitato sulla vita intellettuale dell’Europa. Ebbe un’enorme influenza, non solo sul pensiero della Scolastica, ma anche sulle generazioni successive. Tuttavia, gli elementi più antiscientifici del pensiero greco furono rifiutati o, al peggio, racchiusi all’interno del settore degli studi classici, mentre le scienze poterono avanzare. Per esempio, il concetto greco secondo il
quale l’universo era eterno si dimostrò molto attraente per numerosi studiosi della Scolastica, ma fin dall’inizio fu calorosamente contrastato – san Bonaventura mise in ridicolo il concetto
su basi logiche, ed esso fu incluso anche nell’elenco delle affermazioni condannate dal famoso editto diramato dal vescovo di
Parigi nel 1277 (Grant 1994). Inoltre, neppure i più ardenti sostenitori dell’universo eterno all’interno della Scolastica sostennero
mai che esso fosse increato. Anzi, il dibattito coinvolgeva aspetti
teologici molto sottili intorno alla capacità di Dio di creare un
universo eterno. Nessun platonico della Scolastica propose mai
208
A GLORIA DI DIO
un Dio limitato tanto quanto il Demiurgo, né ebbe molto credito
l’idea che la Terra e i pianeti fossero degli esseri dotati di coscienza, per non parlare dell’idea che si muovessero in cerchi,
mossi dalla gioia per questa azione. Anche molto tempo prima
che venisse confinato nei dipartimenti di studi classici, il sapere
greco-romano non fu mai la filosofia degli scienziati. Ed è vero (e
viene costantemente citato dai classicisti) che, in una lettera del
1675 a Robert Hooke, Newton scrisse: «Se ho visto oltre (rispetto
a te e a Cartesio) l’ho fatto stando in piedi sulle spalle dei giganti», ma una così alta considerazione degli antichi non si esprime
né si riflette nella sua opera. Al contrario, proprio come Newton
e i suoi colleghi ottenevano le loro conquiste scientifiche in ovvia
opposizione ai «giganti» greci, così i loro contemporanei teologi
organizzavano il loro attacco alla cultura greca (Baker 1952). Per
esempio, Guillaume Budé (1467-1540), fondatore della Biblioteca
Nazionale di Parigi, condannò Platone e Aristotele per aver scritto troppo spesso di cose di cui non sapevano nulla (Kinser 1971).
Lutero aveva un punto di vista simile: «Il mio consiglio sarebbe
che la Fisica di Aristotele […] venisse abbandonata del tutto, assieme al resto dei suoi libri che si vantano di trattare le cose della natura [… Infatti] niente può essere imparato da essi […] e mi
arrischio a dire che un qualunque vasaio abbia una conoscenza
della natura migliore di quella che è scritta in questi libri» (Lutero [1520] 1915, p. 146). Altri, fra cui Pierre De La Ramée (15151572), lanciarono un’azione di rifiuto organizzato dei famosi autori greci in quanto «individui fallibili, inclini all’errore umano,
evidentemente colpevoli di plagio su molti versanti» fino a
quando «gli antichi giganti iniziarono ad assomigliare più a dei
nani moderni» (Eisenstein 1979, p. 321). Ciò che confessarono le
preminenti figure coinvolte nel fiorire della scienza nel XVI e
XVII secolo, compresi Cartesio, Galileo, Newton e Keplero, fu la
loro fede assoluta in un Dio creatore, il cui creato rispondeva a
leggi razionali che attendevano di essere scoperte.
In sintesi: la nascita della scienza non fu l’estensione del sapere classico; fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana.
La Natura esiste perché è stata creata da Dio. Per amare e onora-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
209
re Dio, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo
operato. Essendo Dio perfetto, il suo creato funziona secondo
principi immutabili, principi che dovrebbe essere possibile scoprire utilizzando appieno i poteri della ragione e dell’osservazione
che Dio ci ha donato.
Queste furono le idee fondamentali che spiegano il motivo
per cui la scienza nacque nell’Europa cristiana e non altrove.
Tuttavia, alcuni studiosi hanno sostenuto che non tutti i tipi
di teologia cristiana siano ugualmente propizi alla nascita della
scienza, e che fu il protestantesimo, soprattutto nella sua versione puritana, a guidare l’ascesa della scienza.
I puritani e la nascita della scienza
Nel 1938, sulla rivista «Osiris» fu pubblicata la tesi di dottorato in sociologia di Robert K. Merton, presentata a Harvard nel
1935. In Science, Technology and Society in Seventeenth Century England, Merton rifiutava le ortodossie marxiste e secolari dell’epoca, secondo le quali la scienza era il trionfo dell’ateismo, e sosteneva che fosse stato il puritanesimo a dar vita alla «Rivoluzione
scientifica». Secondo Merton, questo era accaduto perché i puritani ragionavano (e presumibilmente erano stati i primi cristiani
a farlo) sul fatto che il mondo fosse opera di Dio, il che implicava che fosse loro dovere studiarlo e comprenderlo, come mezzo
per glorificare Dio. Dunque, sosteneva Merton, fra gli intellettuali puritani dell’Inghilterra del XVIII secolo la scienza veniva
concepita come una vocazione religiosa. Ovviamente, la tesi di
Merton era un ampliamento delle affermazioni di Max Weber sul
ruolo dell’etica protestante nella nascita del capitalismo e, come
vedremo, era altrettanto insostenibile 6.
Per sostenere la sua tesi, Merton passò in rassegna gli scritti
dei puritani che avevano contribuito alla «Rivoluzione scientifica», scoprendo che essi ponevano grandissima enfasi sul principio che la scienza consisteva nello studio dell’opera di Dio allo
scopo di poter apprezzare appieno la sua gloria. Per esempio, nel
210
A GLORIA DI DIO
suo testamento, Robert Boyle (1627-1691) si rivolse agli altri
membri della Royal Society di Londra, augurando loro ogni successo «nei loro lodevoli sforzi di scoprire la vera Natura delle
Opere di Dio» e «pregava che loro e tutti gli altri ricercatori delle Verità fisiche» potessero, grazie a questi tentativi, accrescere
«la gloria del Grande Autore della Natura e il Conforto dell’Umanità». Infatti, dal momento che i puritani credevano che il lavoro fosse una chiamata di Dio, questi primi scienziati si davano
moltissima pena nel «giustificare le vie della scienza agli occhi di
Dio» (Merton 1938, pp. 447, 450-451).
Mettendo insieme molte altre citazioni tratte dagli scritti di
scienziati inglesi del XVII secolo, Merton rese chiaro come, lungi dall’essere un rifiuto della religione, per lo meno in Inghilterra la «Rivoluzione scientifica» si era originata da motivazioni religiose di persone profondamente devote. Anticipando le critiche di coloro che avrebbero sostenuto che queste osservazioni
su Dio da parte dei primi scienziati non erano altro che convenzioni letterarie dell’epoca o addirittura «calcolata ipocrisia»,
Merton osservò come molti di questi scienziati manifestassero la
loro religiosità in gesti non ambigui. Boyle, per esempio, spese
una parte considerevole dei suoi limitati fondi per far tradurre
la Bibbia in diverse lingue. John Ray lasciò Cambridge perché,
al momento della Restaurazione, per motivi religiosi non era disposto a prestare il giuramento di fedeltà richiesto a Carlo II.
Anzi, Merton respinse tutti i sospetti di falsa religiosità come
«un’estrapolazione ingiustificata dalla società del XVII secolo di
credenze e attitudini del XX secolo». Poi, con un insolito candore, osservò: «Benché serva sempre a gonfiare l’ego dell’iconoclasta […], lo “sfatare” può soppiantare la verità con l’errore»
(Merton 1938, p. 445).
Oltre a un’analisi della teologia puritana e delle sue implicazioni sullo studio dell’opera di Dio, Merton presentò dei dati
quantitativi sui primi appartenenti alla Royal Society di Londra,
dati che interpretò a sostegno della sua tesi per cui erano i puritani a dominare l’associazione, composta da illustri scienziati inglesi del XVII secolo.
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
211
Negli anni, lo studio di Merton ha ricevuto moltissima attenzione. Come si aspettava, diversi iconoclasti hanno davvero suggerito che, dal momento che i veri scienziati avevano conoscenze sufficienti a non far abbracciare loro la religione, tutti i segni
della loro devozione dovevano essere per forza falsi. Per fortuna,
storici e sociologi della scienza hanno in larga misura ignorato simili affermazioni, e si sono concentrati, giustamente, sui gravi
errori e sulla povertà della tesi di Merton.
Gli studiosi oggi ammettono che le affermazioni di Merton
erano fin troppo limitative 7. La nascita della scienza non fu dovuta solo agli sforzi degli inglesi, né a quelli dei protestanti, e
tanto meno dei puritani. Così Kearney descrisse il rilevante circolo intellettuale il cui principale ispiratore fu padre Marino
Mersenne (1588-1648), che, dal suo convento di Parigi, creò una
rete di corrispondenza che collegava
gli scienziati più importanti dell’epoca, indipendentemente da religione o nazionalità. […] Collegò Cartesio in Olanda, Gassendi e
Peiresc in Provenza, Shickard a Tubinga, Nortensio a Leyden, Galileo a Firenze e van Helmont a Bruxelles. […] La corrispondenza di
Marsenne in effetti simbolizza il carattere europeo della scienza. […]
L’Europa intellettuale dell’era di Galileo non teneva conto di quelli
che sarebbero stati i successivi confini nazionali. Né, ed è piuttosto
curioso, apparivano rilevanti le differenze religiose, nonostante
l’ombra della Guerra dei Trent’anni. (Kerney 1964, pp. 259-260)
Ovviamente, questo internazionalismo rifletteva la rete accademica europea che esisteva fin dalla nascita delle università.
Sugli importanti «social network» che generavano e sostenevano
le innovazioni intellettuali sono state fatte molte analisi, che sono culminate nella straordinaria opera di Randall Collins sulle
reti intellettuali (1998). Infatti, ci sono stati molti studi sulle reti
di comunicazione scientifica, un certo numero dei quali seguì
Merton nell’esame della Royal Society di Londra (Hunter 1982 e
1989). Ma, come abbiamo visto, le reti di scambio scientifico in
Europa esistevano da secoli.
212
A GLORIA DI DIO
Un altro errore gravissimo nella tesi di Merton è dato dal fatto che non vi era nulla di nuovo, o protestante, nel credere che la
scienza fosse un tipo di indagine possibile, e degna. Come abbiamo visto, la scienza era già ben avviata prima che esistessero
i protestanti, e i cattolici continuarono a svolgere un ruolo cruciale nella fioritura scientifica del XVI e XVII secolo. Infine, è stato dimostrato come l’analisi di Merton si basi su una definizione
di «puritano» piuttosto estesa, che in pratica non escludeva nessuno – forse nemmeno i cattolici (Kearney 1964; Rabb 1965). Nella concisa sintesi di Barbara J. Shapiro, «ciò che dice [Merton] è
essenzialmente che degli inglesi contribuirono alla scienza inglese» (Shapiro 1968, p. 288).
Neppure i critici più severi di Merton sostennero però l’esistenza di un’incompatibilità fra religione e scienza. Dunque, sarà
utile guardare più da vicino gli individui che hanno portato alla
nascita della scienza.
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
213
no state un po’ più difficili. Prima di tutto, mi sono limitato agli
studiosi attivi nella ricerca scientifica, escludendo quindi ben noti filosofi e sostenitori della scienza come Francis Bacon, Joseph
Scaliger e Diego de Zúñiga. In secondo luogo, ho cercato di scegliere solamente coloro che hanno dato un contributo significativo. Per selezionarli, ho esaminato libri e articoli di storia della
scienza, e ho anche consultato alcune enciclopedie specializzate
e dizionari biografici, fra i quali devo citare le diverse edizioni
della Biographical Encyclopaedia of Science and Technology di Isaac
Asimov, per la sua completezza e mancanza di pregiudizi 8. Dopo aver stilato un elenco di 52 scienziati, ho consultato diverse
fonti, fra le quali le biografie, per determinare gli elementi che
volevo codificare per ognuno. Il primo di questi è la nazionalità,
e il risultato è il seguente:
Le stelle della scienza: 1543-1680
Merton analizzò l’orientamento religioso dei membri della
Royal Society di Londra nel tentativo di sostenere la sua tesi in
merito al ruolo del puritanesimo. In seguito, questi dati sono stati rielaborati un certo numero di volte e con risultati diversi
(Feuer 1969; Hunter 1982 e 1989; Shapiro 1968). Ma, per quanto
ne so, nessuno si è dedicato a qualcosa di simile per quanto riguarda l’intero gruppo di stelle della scienza dell’epoca. Quindi,
ho creato io una raccolta dati dei singoli scienziati.
Come si può individuare la popolazione adatta a essere inserita fra le stelle della scienza? In altre parole, come si decide
quando e chi? Gli storici di solito definiscono l’era della «Rivoluzione scientifica» come l’arco di tempo che va dalla pubblicazione del De revolutionibus di Copernico, nel 1543, alla fine del XVII
secolo (Cohen 1985a). Dunque, ho scelto Copernico come primo
caso, e ho incluso tutti gli altri casi appropriati, a partire dai suoi
contemporanei e fermandomi agli scienziati nati dopo il 1680.
Questo per quanto riguarda il «quando». Per il «chi» le cose so-
* Compreso John Napier, matematico scozzese.
Com’è ovvio, gli inglesi hanno dato un apporto più elevato rispetto a quanto faccia pensare la percentuale di primi scienziati
significativi. Tuttavia, rappresentarono comunque una percentuale troppo bassa rispetto al totale per giustificare l’asserzione
di Merton, secondo il quale la scienza era nata in Inghilterra, anzi, fra i puritani inglesi.
214
A GLORIA DI DIO
Il secondo dato di cui ho tenuto conto è stata la confessione
religiosa di questi scienziati. Furono davvero, in maggioranza,
legati alla rivoluzione protestante?
Certamente no. Solo metà dei 52 scienziati era protestante.
Per di più, togliendo gli inglesi anglicani, i cattolici superavano
gli scienziati protestanti 26 a 11, il che probabilmente riflette le
differenze demografiche del totale della popolazione protestante
e cattolica dell’epoca.
Tabella 2.1 Stelle della scienza, 1543-1680
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
215
La tabella 2.1 consente di spiegare la distribuzione di altri tre
fattori da me presi in considerazione e le classificazioni trasversali che permettono un confronto fra cattolici e protestanti. I dati dimostrano che questi 52 scienziati erano uniformemente divisi su quattro settori, ma che i cattolici si dedicavano in percentuali leggermente maggiori agli studi biologici o fisiologici rispetto ai protestanti. Un po’ più di un quarto di tali scienziati
(15) aveva seguito una carriera ecclesiastica – erano sacerdoti,
ministri, monaci, canonici e simili. Per i cattolici, la percentuale è
quasi doppia.
Il compito più ostico è stato quello di stabilire la religiosità personale. Non si trattava di equiparare la religiosità alla conformità
all’ortodossia prevalente, altrimenti si sarebbe stati costretti a sostenere che Martin Lutero e Giovanni Calvino non erano religiosi.
Per classificare qualcuno come devoto, ho cercato dei segnali evidenti di un interesse religioso particolarmente profondo. La classificazione normalmente religioso è quella di coloro che biograficamente non danno prova di scetticismo, ma la cui devozione non
emerge al di sopra di una soddisfazione piena. Un esempio è Marcello Malpighi, la cui osservazione della crescita del cuore di un
pollo è ritenuta il più importante conseguimento della biologia del
XVII secolo. La biografia di Malpighi non mostra evidenti interessi o preoccupazioni nei confronti di Dio d’intensità simile a quelli
di Boyle o Newton. D’altra parte, egli si ritirò a Roma per prestare servizio come medico personale di papa Innocenzo XII, un pontefice devotissimo della Controriforma, che probabilmente si
aspettava un simile livello di religiosità anche da coloro che lo circondavano (Cheetham 1983). Quindi, al massimo posso dire di
aver sottostimato il suo livello di religiosità; simili sottovalutazioni possono essere la vera spiegazione delle modeste differenze fra
cattolici e protestanti mostrate in tabella 2.1.
Infine, ho incluso nella categoria degli scettici quegli scienziati per i quali è possibile presumere che non credessero che il
mondo fosse l’opera di un Dio consapevole e disponibile – in pratica, avrei dovuto inserirvi tutti i philosophes francesi.
216
A GLORIA DI DIO
L’aspetto più importante della tabella 2.1 è il fatto che fra coloro che fecero la «Rivoluzione scientifica» c’era un numero insolitamente elevato di devoti cristiani – più del 60% viene classificato come devoto, e solo due, Edmund Halley e Paracelso, come scettici 9. Dato il generale esibizionismo di Paracelso, è difficile sapere cosa credesse o non credesse in merito a Dio. Sappiamo che professava una fede nell’astrologia e nella forma ermetica di magia rituale (si veda il capitolo 3). Per quanto riguarda
Halley, è probabile che fosse ateo (Brooke 1991; Jaki 2000). In
ogni caso, la proporzione di devoti è impressionante se pensiamo che, contrariamente a quanto si crede, durante il Medioevo
gli europei non erano più devoti di quanto lo siano oggi (Stark
1999). Se vi fossero ancora dei dubbi a riguardo, questi dati chiariscono del tutto il fatto che la religione svolse un ruolo sostanziale nella nascita della scienza. (L’elenco completo dei casi e delle categorie di religiosità è fornito nell’Appendice 2.1.)
Galileo
E Galileo? La storia della persecuzione di Galileo Galilei
(1564-1642) è famosa tanto quanto quella di Colombo e la Terra
piatta, benché, in questo caso, la versione tradizionale dei fatti
sia in un certo senso più veritiera (Brooke, Cantor 1998; Langford
1971; Shea 1986). Egli fu una delle più grandi figure della storia
della scienza; in età avanzata entrò in conflitto con la Chiesa cattolica, fu costretto a ripudiare le proprie convinzioni sul fatto che
la Terra girasse intorno al sole, e venne condannato a vivere in
isolamento gli ultimi nove anni della sua vita. Ma c’è molto più
di questo, e i fatti, trascurati o ignorati volutamente, mettono le
cose sotto una luce in un certo senso diversa; vale a dire, i problemi di Galileo furono causati tanto dalla sua arroganza quanto
dalle sue idee scientifiche. Le cose andarono così.
Molto prima di salire al trono di Pietro, quand’era ancora il cardinale Matteo Barberini, papa Urbano VIII (1623-1644) conosceva e
apprezzava Galileo. Quando pubblicò il suo Il saggiatore, nel 1623,
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
217
Galileo lo dedicò a Barberini, e pare che questi avesse trovato molto divertenti gli sgradevoli insulti diretti ai diversi studiosi gesuiti.
Anzi, Barberini fu spinto addirittura a scrivere un poema adulatorio sulla gloria dell’astronomia. Bene. Ma allora cosa andò storto?
Si tenga presente che tutto accadde in un’epoca in cui la
Riforma rappresentava una sfida nell’Europa settentrionale, la
Guerra dei Trent’anni infuriava, e la Controriforma era ben avviata. In tali circostanze, la gerarchia cattolica divenne sempre
più sensibile agli attacchi protestanti che si basavano sull’accusa che i cattolici non fossero fedeli alla Bibbia; per molti uomini
della Chiesa, l’accettazione della concezione copernicana del sistema solare era un manifestazione di questa infedeltà alle Scritture 10. Comunque, la questione principale era quella dell’autorità della Chiesa; man mano che si procedeva con la Controriforma, venivano stabiliti in maniera sempre più rigorosa i confini della teologia ortodossa (capitolo 1). Eppure, la gran parte
dei leader della Chiesa, compreso il Papa, non era disposta a
condannare la scienza e a imporre un’ortodossia inflessibile.
Piuttosto, proponeva delle strade lungo le quali gli scienziati
potevano evitare il conflitto teologico. Per esempio, padre Marino Marsenne diceva alla sua rete di corrispondenti che Dio era
libero di collocare la Terra dove voleva, e che era dovere degli
scienziati scoprirne la collocazione (Brooke, Cantor 1998, p. 20).
Altri importanti cattolici erano più circospetti, osservando che
non esistevano obiezioni teologiche alla proposizione di conclusioni ipotetiche o matematiche.
In questo spirito, il Papa rassicurò Galileo sul fatto che non
avrebbe avuto nulla da temere fino a quando avesse esplicitato che parlava da matematico, e non da teologo. In particolare,
papa Urbano disse a Galileo di riconoscere, nelle sue pubblicazioni, che «delle conclusioni definitive non potevano raggiungersi nelle scienze fisiche. Dio nella sua onnipotenza poteva produrre un fenomeno naturale in diversi modi e dunque
era presuntuoso per qualsiasi filosofo affermare di aver stabilito l’unica soluzione» (Brooke, Cantor 1998, p. 110). Era uno
stratagemma abbastanza semplice, simile a quell’aggettivo
218
A GLORIA DI DIO
«ipotetico» che gli Scolastici allegavano spesso alle proprie
opere scientifiche. Per di più, per un uomo che spesso aveva
dichiarato, falsamente, di aver davvero svolto ricerche al meglio «ipotetiche» (come l’aver fatto cadere dei pesi dalla torre
pendente di Pisa), la cosa non avrebbe sicuramente urtato
eventuali standard etici.
Quando pubblicò il suo famoso Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel 1632, Galileo incluse la formula suggeritagli,
ma la fece pronunciare a Simplicio, lo sciocco che nel testo dava
voce a tutti gli «errori», e la cui correzione era il motore principale del libro. Inoltre, ingannò il Papa sulla data di pubblicazione del libro, così che esso uscì inaspettatamente, originando un
uragano di controversie che richiedevano risposte. Com’è comprensibile, il Papa si sentì tradito, ma pare che Galileo non lo capisse, e che fosse incline a dare tutta la colpa dei propri problemi
ai gesuiti (i quali, probabilmente, non avevano avuto nessun
ruolo significativo nella questione, nonostante i suoi insulti) e ai
seguaci di Aristotele, in particolare i professori (anch’essi vittime, in quanto gruppo, del suo umorismo acido). Nonostante tutto questo, il Papa frustrò ogni tentativo di imporre conseguenze
più serie a Galileo. Ciò nonostante, lo scandalo causato da Galileo contribuì a provocare un generale restringimento della libertà intellettuale da parte della Chiesa – anche se ormai era
troppo tardi per impedire ai cattolici di partecipare alla nascita
della scienza.
Benché venga costantemente presentato come una prova
schiacciante contro la religione, cosa rivela il caso Galilei? Sicuramente dimostra che le organizzazioni potenti spesso abusano del
loro potere. Ma evidenzia anche come Galileo non fosse proprio
una vittima innocente: non solo sfidò inutilmente il fato, ma con
noncuranza mise in pericolo l’intera impresa della scienza. E al di
là di questo, il caso non dimostra affatto quello che la maggioranza degli oppositori della religione spera continuando a ripeterlo.
Infatti, nonostante tutto, Galileo non nutriva alcun dubbio su Dio
e si considerò sempre un buon cattolico. Come ha osservato William Shea, «se Galileo fosse stato meno devoto, si sarebbe rifiuta-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
219
to di andare a Roma [convocato dal Sant’Uffizio]; Venezia gli aveva offerto asilo» (Shea 1986, p. 132). Dunque, non c’è alcun motivo per mettere in dubbio la sua sincerità quando scrive che «il libro della natura è un libro scritto dalla mano di Dio nel linguaggio della matematica» (Confessioni 12,23-24). L’insegnamento più
importante da trarre da questo caso è che, mentre le visioni religiose di papa Urbano VIII possono aver influito negativamente
sul destino di Galileo a causa delle sue visioni scientifiche, la
scienza di Galileo non risentì delle sue stesse credenze religiose.
E questo va tenuto ben presente per accettare, come faccio io,
l’idea che la scienza fu figlia legittima della teologia cristiana, il
che non significa supporre che simile dipendenza sia durata a
lungo. Una volta adeguatamente avviata, la scienza fu in grado
di procedere in modo autonomo e presto sviluppò i propri motori e i propri impeti. Significa anche, e ho intenzione di dimostrarlo, che motivazioni e slanci scientifici non sono incompatibili con la religione. Per di più, quando scienza e religione sembrano collidere, di solito sorgono dei dubbi sull’effettiva dimensione scientifica e/o religiosa delle questioni in gioco. L’«Illuminismo» ci offre un significativo esempio di ciò.
L’«Illuminismo»
L’identificazione dell’epoca iniziata intorno al 1650 come «Illuminismo» è inappropriata tanto quanto l’identificazione del
millennio precedente come «Secoli Bui». Entrambe le imputazioni, per di più, furono mosse dalle stesse persone – intellettuali
che desideravano screditare la religione, soprattutto la Chiesa
cattolica romana, e che di conseguenza associarono la fede con
l’oscurità e l’Umanesimo secolare con la luce. A tal fine, si presero i meriti della «Rivoluzione scientifica», anche se nessuno di loro aveva svolto un ruolo significativo nell’impresa della scienza.
Uno dei loro primi passi fu quello di designare la propria epoca come «Illuminismo», e sostenere che fosse una rottura improvvisa e totale con il passato. A questo scopo vennero inventa-
220
A GLORIA DI DIO
ti i «Secoli Bui». Fra i primissimi a farlo, Voltaire (1694-1778) descrisse un’Europa medievale disperatamente impantanata nel
«decadimento e nella degenerazione» (Works vol. 1, p. 183). E
questo divenne lo slogan ufficiale. Jean-Jacques Rousseau (17121778) scrisse dei secoli precedenti: «L’Europa era ricaduta nella
barbarie dei suoi primi tempi. I popoli di questa parte del mondo, oggi così illuminati, alcuni secoli fa vivevano in una condizione peggiore dell’ignoranza» (Works vol. 3, p. 183). Un secolo
dopo, quando Jacob Burckhardt (1818-1897) rese popolare l’idea
del «Rinascimento», i «Secoli Bui» erano ormai una certezza storica, che non sarebbe stata superata fino al XX secolo inoltrato 11.
Per di più, non bastava dare al cristianesimo la colpa per i
«Secoli Bui»; alla religione andava negato ogni merito per la nascita della scienza. Quindi, era necessario screditare i successi
dell’era della Scolastica. In conformità con tale scopo, John Locke
(1632-1704) accusò la Scolastica di essersi persa senza speranza
in un labirinto di preoccupazioni triviali, con «grandi coniatori»
di termini inutili da usare come «espediente per coprire la loro
ignoranza» (Saggio sull’intelletto umano 3.9). In modo simile, uno
dopo l’altro i philosophes condannarono il sapere cattolico, fino a
quando il termine «scolastico» divenne un epiteto per «pedante
e dogmatico», come mostra una qualunque versione del dizionario Webster.
Tolto di mezzo il passato, l’aspetto centrale della campagna
condotta da David Hume, Voltaire e altri, fu quello di fare propri
i successi della scienza per avvalorare la propria condanna della
religione, in generale, e del cattolicesimo, in particolare. Franklin
L. Baumer osservò che «l’Illuminismo fu una gradiosa epoca di
fede». Poi, si chiese retoricamente: «Ma di fede in cosa?». Non in
qualche religione, ma «nel potere dell’uomo» (Baumer 1960, p.
67). E la prova di questo potere era la scienza, la quale, per parafrasare Laplace, faceva di Dio un’ipotesi non necessaria. Non importava se le vere scoperte erano state fatte da «cristiani seri e
spesso devoti» (Gay 1966, p. 23). Ciò che importava era, con le
parole di Peter Gay, che «la scienza poteva dare grande conforto
a deisti e atei e fornire loro tutto ciò che volevano – la fisica di
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
221
Newton senza il Dio di Newton» (Gay 1969, p. 145). Infatti, anche se Voltaire e la sua cerchia furono attenti nell’ammettere la
devozione di Newton a un Creatore (benché descritto come un
motore primo, lontano e impersonale), le successive generazioni
di ideologi «illuministi» si diedero molta pena di minimizzare
ulteriormente la dimensione della sua fede.
Newton deificato e falsificato
Una delle prime azioni di coloro che proclamarono l’«Illuminismo« fu la «deificazione di Newton» (Gay 1969, p. 130).
Voltaire diede l’esempio, definendolo l’uomo più grande che
fosse mai vissuto (nella lettera 12 delle Lettere inglesi). Iniziò
così una produzione senza uguali di prosa eccellente e poesia
eccessiva. David Hume scrisse che Newton era «il più grande
e raro genio mai nato per l’ornamento e l’istruzione della specie» (in Storia d’Inghilterra). Come ha osservato Gay, «gli aggettivi “divino” e “immortale” divennero praticamente obbligatori» (Gay 1969, p. 131). Per esempio, nel suo Panegyrick on
the Newtonian Philosophy (1750), Benjamin Martin scrive: «Un
mistero che fu nascosto al tempo e alle generazioni; ma ora è
reso manifesto a tutte le nazioni, grazie alle divine opere dell’immortale sir Isaac Newton» (in Hindle 1956, p. 80). Nel 1802
il filosofo francese Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825)
fondò una religione atea che doveva essere guidata da sacerdoti-scienziati e che chiamò Religione di Newton; il suo allievo, Auguste Comte, la rinominò poi «sociologia» (Manuel
1974, p. 53).
Tuttavia, man mano che l’«Illuminismo» diventava sempre
più esplicitamente ateo e determinato a stabilire l’incompatibilità di scienza e religione, emergeva un urgente interrogativo: cosa fare della religione di Newton? Il problema era che le idee religiose di Newton non erano una questione di sentito dire. Egli
stesso, nel 1713, aveva aggiunto alla seconda edizione della sua
opera monumentale, Principia, una sezione conclusiva, lo Scho-
222
A GLORIA DI DIO
lium Generale, dedicata interamente alle sue concezioni di Dio.
Qui, Newton cercava di dimostrare l’esistenza di Dio, concludendo che:
Il vero Dio è un Essere vivente, intelligente, potente.
Egli governa tutte le cose, e conosce tutte le cose che sono state fatte o che possono essere fatte.
Egli dura per sempre, ed è presente ovunque.
Come un cieco non ha alcuna idea dei colori, così noi non abbiamo
idea del modo in cui il Dio onnisciente percepisce e capisce tutte le
cose. (Newton 1934, pp. 543-547)
Ancora peggio, Newton aveva scritto quattro lettere negli
anni 1692-1693, nelle quali spiegava la sua teologia a Richard
Bentley, mettendo in ridicolo l’idea che il mondo possa essere
spiegato in termini impersonali e meccanicistici. Soprattutto,
avendo scoperto le eleganti leggi dei fenomeni naturali, Newton
credeva di aver dimostrato, una volta per tutte, la certezza che
dietro a tutta l’esistenza dovesse esserci un Dio intelligente, dotato di consapevolezza e onnipotente. Qualsiasi altra assunzione sarebbe stata «incoerente con il mio sistema» (in Hurlbutt
1985, p. 7). Infine, Newton aveva lasciato dietro di sé un’enorme
raccolta di manoscritti non pubblicati, alcuni dei quali aveva riscritto diverse volte, pensando a una pubblicazione postuma 12.
Come vedremo, questi scritti si dimostrarono problematici per
coloro che desideravano affermare l’assoluta ortodossia anglicana di Newton, ma assolutamente devastanti per chi lo proclamava l’eroe della razionalità secolare. Prima di prendere in esame il contenuto di questi scritti, sarà utile capire come ognuno
di questi gruppi d’interesse abbia falsificato la figura di Newton
davanti alla storia.
I primi falsari furono cristiani devoti che cercarono di sopprimere le visioni moderatamente eretiche di Newton in merito alla Trinità. Newton, infatti, non credeva che Gesù fosse davvero il
Figlio di Dio. Piuttosto, riteneva che, al momento della Risurrezione, Gesù fosse divenuto immortale, divenendo solo in quel mo-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
223
mento il Figlio di Dio. Inoltre, come vedremo, Newton credeva
fermamente nella Seconda Venuta. Benché su basi puramente
tecniche si potrebbe sostenere che fosse un non-trinitario, non si
può neanche dire che fosse un «unitariano», né alcun tipo di deista – il suo Dio non era una «Causa prima» remota e priva di coscienza. Ciò nonostante, molti dei suoi colleghi ritennero fosse
meglio tener celate le sue idee, e negare anche il minimo allontanamento dall’ortodossia. Nel farlo, però, fornirono ad altri falsari l’opportunità di sostenere che le espressioni di fede di Newton
non fossero sincere.
Quando Newton morì, la Royal Society di Londra nominò
una commissione incaricata di esaminare le sue carte, la quale
decise «in virtù del carattere teologico della maggior parte di esse, che non dovevano essere stampate» (McLachlan 1941, p.
165). Tuttavia, la commissione le affida a uno dei suoi membri,
Thomas Pellett, affinché le valutasse con maggiore attenzione e
le selezionasse per la stampa. Questi scoprì che i manoscritti
erano costituiti da 82 opere diverse, alcune davvero molto lunghe, per un totale di più di quattro milioni di parole. Da questo
tesoro, Pellett scelse per la pubblicazione solamente due opere
molto brevi, annotando un «Non adatto alla pubblicazione» nella prima pagina della maggior parte delle opere restanti. Il controllo di queste carte, poi, passò alla nipote di Newton, Catherine Conduitt (che aveva vissuto con lui molti anni). La donna decise che si doveva pubblicare gran parte degli scritti dello zio,
ma ricevette l’ordine che «i documenti fossero attentamente custoditi» e che nulla venisse copiato o stampato senza un ulteriore esame da parte del reverendo Arthur Ashley Sykes (16841756). Quando Catherine Conduitt morì, i manoscritti vennero
ereditati da suo zio, Earl di Portsmouth, motivo per cui divennero noti come «Portsmouth Collection» (Christianson 1984;
More 1934). Quando esaminò la raccolta, negli anni ’90 del 1700,
Charles Hutton commentò la loro quantità osservando che «ci
sono più di quattromila fogli, in folio, oltre ai libri rilegati»
(McLachlan 1941, p. 167). Ma non svelò nulla in merito ai contenuti. E non lo fece neppure Samuel Horsley quando pubblicò
224
A GLORIA DI DIO
un’edizione delle opere di Newton – «essendo più ansioso di
sopprimere le eresie di Newton che non di renderle pubbliche»
(McLachlan 1941, p. 167). E fu così che la maggior parte degli
scritti di Newton rimase sotto chiave e travisata nei contenuti
dai pochi privilegiati che vi avevano avuto accesso. La prima
biografia di Newton, scritta negli anni ’20 del 1700 dall’amico
William Stukeley, lo ritraeva quasi come un santo e senza nessuna traccia di eresia. Neppure il suo grande biografo successivo, David Brewster (Brewster 1855 e 1871), fu disposto a riconoscere le escursioni teologiche di Newton, nonostante avesse
avuto accesso alla raccolta di manoscritti.
Anche dalla parte atea vennero i travisamenti, ma si riferivano solo alle opere sulla religione pubblicate. Come abbiamo già
osservato, una tattica era quella di sminuire ogni sua affermazione come insincera, come nient’altro che una sottomissione superficiale alle autorità religiose adottata per evitare i problemi e
nella speranza di una promozione. Si dichiarò, per esempio, che
Newton aggiunse lo Scholium Generale solamente «per dissipare
i sospetti di ateismo» (Hurlbutt 1985, p. 14). Per di più, lo aveva
scritto solamente nel 1713, quando Newton aveva passato i settant’anni, e non si doveva perciò giudicarlo in base alle azioni
della sua poco lucida vecchiaia. La scusante della religiosità insincera e interessata ovviamente non poteva essere utilizzata per
le dichiarazioni di fede espresse nelle lettere a Bentley, dal momento che si trattava di comunicazioni private rivolte a un devoto ammiratore. Per superare il problema, benché non vi fosse
nessuna motivazione legittima per farlo, diversi autori ridatarono le lettere a un periodo successivo al 1713 (mentre erano del
1692) e liquidarono anche queste come opera di un uomo che
aveva ormai perduto la sua lucidità intellettuale (in Brewster
1871, pp. 242-245). Anzi, Jean-Baptiste Biot (1774-1862) liquidò
tutto ciò che Newton scrisse dopo i quarantacinque anni come la
fantasia di un uomo anziano che aveva perso le sue facoltà mentali, e sostenne che tutti gli scritti e gli interessi religiosi di Newton fossero conseguenti al declino mentale (in Brewster 1871, p.
206; Manuel 1968 e 1974). Oppure, come affermò il philosophe ba-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
225
rone d’Holbach (1723-1789), «il sublime Newton è poco più di un
bambino, quando abbandona la fisica e l’evidenza per perdersi
nelle regioni immaginarie della teologia» (in Buckley 1987, p.
310).
Così, nonostante i fatti dimostrino il contrario, nei «circoli illuminati» l’opinione prevalente era che durante i suoi fulgidi
giorni da scienziato, Newton era stato tutt’al più un deista alla
maniera di Hume, Voltaire e dei philosophes. Friedrich Engels
(1820-1895) sostenne che benché Newton concedesse «a Dio il
“primo impulso”, gli negò qualsiasi ulteriore interferenza nel
suo sistema solare» (Marx, Engels 1964, p. 192). Eric Temple Bell
scrisse nel suo famoso Men of Mathematics [ed. it. I grandi matematici, 1950], che «Newton tuttavia permise alla sua scienza razionale di influenzare le sue credenze al punto di fare di lui ciò
che oggi chiameremo un unitariano» (Bell 1937, p. 96). Oppure,
come spiegò Gerald R. Cragg, Newton era «un deista» perché
«ignorò le asserzioni della rivelazione» (Cragg 1964, p. 13).
Nel frattempo, le opere di Newton requisite venivano controllate. Nel 1872 Portsmouth chiese a degli archivisti dell’università
di Cambridge di catalogare la raccolta e di conservare qualsiasi
documento avesse un valore scientifico. Dopo aver diviso in categorie i manoscritti, gli archivisti ritennero che non vi fosse praticamente nulla di «scientifico»; dunque, quasi tutta la raccolta fu
riconsegnata a Portsmouth secondo i termini degli accordi iniziali. Sei decenni dopo, un biografo americano di Newton consultò
il breve inventario stilato dagli esperti di Cambridge e trovò le
prove dell’enorme produzione teologica di Newton, ma il contenuto degli scritti rimase sconosciuto (More 1934). Infine, nel 1936,
a causa delle imposte britanniche sui lasciti, il conte di Portsmouth dell’epoca consegnò la raccolta a Sotheby and Company,
la famosa casa d’aste di Londra. I manoscritti e i documenti di
Newton furono messi all’asta in 329 lotti, rendendo così molto
probabile una loro disseminazione fra acquirenti internazionali.
All’epoca, alcuni studiosi di Newton davano per scontato che sarebbe accaduto proprio questo (McLachlan 1941, p. 172). Ma non
fu così, grazie a un economista di Cambridge, il quale ricorse a
226
A GLORIA DI DIO
tutti i propri fondi e studiò il catalogo d’asta con attenzione, in
modo da tenere insieme i manoscritti più importanti (Hall 1992;
Munby 1952).
John Maynard Keynes (1883-1946) fu probabilmente l’economista più famoso e influente del XX secolo, oltre che il più devoto collezionista di documenti newtoniani. Secondo Munby, bibliotecario di Cambridge e biografo di Keynes, il grande economista iniziò la sua collezione nel 1905, quando comprò da un librario di Cambridge una rara prima edizione dei Principia per
«quattro scellini, un affare incredibile persino per quell’epoca»
(Munby 1952, p. 48). Quando venne a sapere che la Portsmouth
Collection sarebbe stata messa all’asta, Keynes «con la sua energia caratteristica e il suo senso civico si accollò l’onere di raccogliere nella sua biblioteca tutto il materiale che poteva» (Munby
1952, p. 41). Dal momento che Newton aveva ricopiato con cura
i manoscritti più importanti, ce n’erano due o tre copie di ognuno. Così, Keynes poté selezionare i propri obiettivi, stando attento a non «perdere la benevolenza dei librai» che costituivano
il grosso degli altri partecipanti all’asta, in modo da poter comprare da loro molti manoscritti in un momento successivo. Durante la vendita, che incassò un totale di poco meno di 10.000
sterline, Keynes comprò 38 dei 329 lotti offerti. Nel giro dei due
mesi successivi, ne comprò altri 92. Secondo Munby, in totale
Keynes spese 3000 sterline, circa 15.000 dollari – una somma notevole per un professore di quell’epoca, ma una miseria in termini di valore assoluto. Mentre lavorava per poter acquistare i
più importanti scritti di Newton non pubblicati, Keynes teneva
una corrispondenza con A. S. Yahuda, un professore di Yale che
stava acquistando i manoscritti teologici di Newton dai rivenditori americani – principalmente dei duplicati di quelli raccolti da
Keynes. Nel suo testamento, Keynes lasciò l’intera collezione al
suo college di Cambridge (il King’s College). La collezione di
Yahuda oggi è custodita alla Hebrew National and University Library di Gerusalemme 13.
Grazie al fatto che il catalogo di Sotheby era «un modello di
colta […] presentazione […] e deve sempre rimanere il testo di ri-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
227
ferimento per gli studiosi che si occupano di Newton» (Munby
1952, p. 41), Keynes sapeva molte cose su ciò che comprava. Ciò
nonostante, fu stupito dal contenuto dei manoscritti. Essi rivelavano che anche nei primi anni di successi scientifici, Newton si
interessava di teologia e delle profezie bibliche tanto quanto di
fisica – il suo lascito in merito a tali argomenti è infatti di più di
un milione di parole. Per esempio, in un’opera sulle profezie bibliche, iniziata negli anni ’70 del 1600 e continuata con aggiunte
e revisioni fino al mese in cui morì, nel 1727, Newton calcolò, fra
le altre cose, che la Seconda Venuta sarebbe stata nel 1948, quattro anni dopo la «fine della grande tribolazione degli ebrei»
(White 1997, pp. 158-162). I documenti rivelavano anche che
Newton era profondamente dedito all’astrologia e che aveva dedicato molti anni a un’intensa attività alchemica, lasciando un altro milione di parole su questo argomento (Dobbs 1975 e 1991).
Keynes capì subito l’importanza storica di queste carte, e progettò di scriverne in maniera estesa. Il primo lavoro a questo proposito fu un saggio, Newton, the Man, scritto per la Royal Society
di Londra in occasione della celebrazione del terzo centenario
della nascita di Newton, nel 1946 (rimandato di quattro anni a
causa della seconda guerra mondiale). Purtroppo, Keynes morì
in modo improvviso molti mesi prima dell’evento, e così il suo
saggio fu letto dal fratello Geoffrey. È uno dei migliori esempi
dell’eloquenza di Keynes:
A partire dal XVIII secolo Newton fu considerato il primo e maggiore scienziato dell’età moderna, un razionalista, un uomo che ci
insegnò a pensare lungo le direttrici di una ragione fredda e pura.
Non lo vedo in questa luce. Non credo che chiunque abbia esaminato i contenuti [di questi manoscritti] possa vederlo così. Newton
[…] guardava all’intero universo e ciò che è in esso come a un enigma, un segreto che poteva essere dischiuso applicando il puro pensiero all’evidenza certa, a indizi mistici che Dio aveva sparso nel
mondo per consentire una sorta di caccia al tesoro per filosofi […].
Egli credeva che tali indizi si potessero trovare in parte nell’evidenza dei cieli e nella costituzione degli elementi […] ma in parte
228
A GLORIA DI DIO
anche in alcuni documenti e tradizioni trasmessi […] in una catena
ininterrotta, iniziata fin dall’originaria rivelazione criptica a Babilonia. Egli considerava l’universo come un crittogramma dell’Onnipotente.
Dunque ora sappiamo tutto. Il vero Isaac Newton era lo studioso dell’opera di Dio per eccellenza, e credeva non solamente
nell’esistenza di leggi fisiche ma anche di leggi divine simili che
governavano la storia 14. I due secoli di tentativi di dipingere
Isaac Newton come un uomo troppo sofisticato per credere in
Dio erano motivati esattamente dalle stesse ragioni che sottostavano ai falsi racconti su Colombo, Vesalio, i «Secoli Bui»,
l’«Illuminismo» e la «Scolastica». Cioè: la scienza è contraria alla religione. Non si può giungere a nessun successo scientifico
importante e non si può nemmeno comprenderlo pienamente se
la nostra mente è dominata dalla «superstizione». La «Rivoluzione scientifica» fu fatta da «uomini illuminati», che quindi ci
hanno illuminato, facendo sì che risultasse impossibile per una
persona intelligente essere anche religiosa. Questi sono gli slogan delle campagne polemiche più lunghe ed efficaci della storia dell’Occidente. Tuttavia, benché questa campagna abbia
avuto un impatto molto significativo sul mondo intellettuale in
generale, com’è evidente anche dai dizionari, stranamente non
ha avuto quasi nessun effetto fra gli scienziati. Coloro che fecero davvero la «Rivoluzione scientifica» erano molto devoti, dunque, e la tradizione è continuata. Per esempio, per quasi tutto il
XIX secolo, la scienza rimase una vocazione religiosa tanto
quanto secolare, e i tentativi di districare l’enigma dell’opera di
Dio continuarono.
L’«Opera» di Dio e la scienza del XIX secolo
Forse solamente durante l’epoca della Scolastica vi fu un rapporto così stretto e creativo fra teologia e scienza quale quello
avuto nel XIX secolo. In realtà, mentre la prima scienza fu stimo-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
229
lata dalla teologia, nel XIX secolo fu la teologia a essere stimolata dalle ultime scoperte scientifiche, ritrovando in queste la prova schiacciante di dogmi religiosi fondamentali – un approccio
noto con l’espressione «teologia naturale». I suoi sostenitori rifiutavano la mera speculazione a favore di un’osservazione attenta della natura. Anzi, «il teologo naturale doveva essere uno
scienziato [che praticava] una disciplina in cui la filosofia cristiana e la scienza empirica si fondevano» (Hovenkamp 1978, p. ix).
Quindi, mentre un tempo la religione aveva incoraggiato la supposizione che esistessero delle leggi naturali immutabili, ora utilizzava la precisione di tali leggi per dimostrare l’esistenza di
Dio. Ciò divenne noto come l’Argomento del Disegno divino:
scoprire nella complessità del mondo la necessità di un Creatore.
Nessuno più del religioso inglese William Paley (1743-1805)
rese popolare il concetto di un Disegno divino dietro alla creazione. Nella sua importantissima Natural Theology [ed. it. Teologia
naturale, 1808] Paley prese in considerazione le implicazioni insite nel ritrovamento di una roccia in un terreno. Se ci si chiede come abbia fatto ad arrivare lì, la risposta giusta sarebbe che forse
«è lì da sempre». Diversamente, supponiamo «che si trovi un
orologio per terra». Non diremmo che è lì da sempre, poiché,
esaminando un orologio, è assurdo ritenere che sia giunto a esistere per caso – qualsiasi orologio rivela di per se stesso di essere una creazione. Al confronto anche del miglior orologio esistente, l’organismo biologico meno complesso è chiaramente un
«meccanismo» molto più sofisticato, e ci spinge a presupporre
l’esistenza di un Creatore (Paley [1803] 1809, p. 5). Nel resto del
libro, Paley esplora le complessità di una varietà di diversi meccanismi biologici. Infatti, benché ciò possa sorprendere la maggior parte dei lettori, l’evidenza dimostrata dai reperti fossili di
uno sviluppo progressivo da forme più semplici a organismi più
complessi, di animali esistenti molto prima della comparsa dell’uomo, o il fatto altrettanto evidente che le stelle siano molto più
antiche della Terra, non turbarono la maggioranza dei teologi cristiani! Anzi, esisteva una letteratura immensa, oggi non considerata, sulla teologia naturale, che evidenziava il rapporto molto
230
A GLORIA DI DIO
stretto fra le ultime scoperte scientifiche – soprattutto in biologia,
geologia e astronomia – e la teologia cristiana. Non si trattava di
una letteratura di difesa, e potremmo definirla meglio come una
celebrazione entusiasta dell’opera di Dio: l’immagine di Dio di
Paley come un Divino orologiaio esprime pienamente lo spirito
dell’epoca. Ci imbatteremo ancora in Paley nel capitolo 4, poiché,
molto prima di scrivere sulla teologia naturale, fu un forte oppositore della schiavitù, pratica del tutto incompatibile con il vero
cristianesimo.
Durante il XIX secolo, furono costruiti osservatori astronomici in molte città degli Stati Uniti tramite campagne pubbliche di
raccolta fondi. In quasi tutti i casi le campagne erano organizzate e avevano come target principale cristiani devoti, i quali volevano dare alle persone la possibilità di osservare le meraviglie
dell’opera di Dio. I più importanti astronomi erano popolari
ospiti dei circoli religiosi e scientifici – sempre che sia possibile,
in effetti, distinguere le due cose in quell’epoca. Il sistema di
istruzione superiore in rapida crescita negli Stati Uniti, dove si
trovava la maggior parte degli scienziati, era di per sé una creazione religiosa, ispirata dalla concorrenza fra confessioni. Per di
più, non erano solamente i teologi a voler unire scienza e religione; sforzi simili erano tipici anche degli scienziati dell’epoca.
Per esempio, Louis Agassiz (1807-1862), fra i più importanti geologi del XIX secolo e il primo a detenere una cattedra a Harvard,
combinò i risultati del suo brillante lavoro (compresa la ricerca
pionieristica sull’Era Glaciale) con eleganti espressioni dell’Argomento del Disegno divino. Anzi, nella sua monumentale opera Contributions to the Natural History of the United States (18571862), Agassiz sostenne che i tentativi di costruire dei sistemi di
classificazione biologica non rappresentavano il tentativo di imporre la comprensione umana sul mondo naturale, ma di scoprire la classificazione esistente «nella mente del Creatore». Nel suo
commento al primo volume di quest’opera, James Dwight Dana
scrisse nell’«American Journal of Science» che esso portava «la
scienza a un livello più elevato di quello che era stato ottenuto in
precedenza» (Dana 1858, p. 341). La descrizione dello stesso Da-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
231
na dell’«armonia» fra teologia e scienza, in un saggio intitolato
Thoughts on Species, fu considerata talmente rilevante da essere
pubblicata contemporaneamente sia nella più importante rivista
di teologia sia in quella scientifica.
Nonostante il fatto che la teologia naturale venga associata al
XIX secolo, essa si fonda su un’antichissima tradizione d’interpretazione scritturale. Già nel I secolo, Clemente I (che si ritiene
sia stato il terzo Papa) insegnava che la Bibbia non si doveva solamente intendere letteralmente, o per lo meno non sempre;
piuttosto, alcuni passaggi erano delle allegorie. Sant’Agostino lo
considerava l’unico approccio possibile alle Scritture, «potendosi dare di queste parole certamente vere interpretazioni diverse».
Infatti, sant’Agostino ammetteva con franchezza che sarebbe stato possibile, per un lettore di epoche successive, con l’aiuto di
Dio, cogliere un significato scritturale anche laddove la prima
persona che aveva trascritto le Scritture «non capiva». Dunque,
continuava, è necessario «indagare […] ciò che Mosè, egregio famiglio della tua fede, volle far intendere in questo racconto al lettore o ascoltatore. […] Accostiamoci insieme alle parole del tuo
libro e cerchiamo in esse la tua volontà attraverso la volontà del
tuo servitore, per la cui penna le hai elargite». Inoltre, dal momento che Dio è incapace di errore o falsità, se la Bibbia sembra
contraddire la nostra conoscenza è a causa di una mancanza di
comprensione da parte del «servitore» che ha trasposto le parole
di Dio (Le confessioni 12).
La Chiesa cattolica ha sempre insegnato che il significato delle Scritture non è invariabilmente letterale, e dunque è soggetto
all’interpretazione da parte della Chiesa. In effetti, fu proprio
proclamando il diritto esclusivo di interpretare la Scrittura che la
Chiesa si pose in contrapposizione non solo a coloro che sostenevano un’interpretazione letterale, ma anche nei confronti dei
propri teologi e, in alcune epoche, della scienza. Per di più, asserendo la propria infallibilità interpretativa, la Chiesa rese inevitabili le riforme.
Il bisogno di interpretare la Bibbia fu centrale per tutta la teologia protestante, portando alcuni a proclamare addirittura che
232
A GLORIA DI DIO
le singole persone dovevano essere i teologi di se stessi. Tuttavia,
anche i protestanti che sostenevano una chiesa più autorevole rifiutavano l’interpretazione scritturale letterale. Per esempio,
Giovanni Calvino diede delle fondamenta legittime alla teologia
naturale insegnando che Dio adattava la sua rivelazione ai limiti della comprensione umana – che «la rivelazione è un atto di divina condiscendenza» (McGrath 1999, p. 11). Per esempio, Calvino spiegò che all’autore del Libro della Genesi «fu ordinato di essere l’insegnante degli ignoranti e dei primitivi oltre che degli
istruiti: quindi non poteva raggiungere il suo scopo senza scendere a tali rudimentali strumenti d’istruzione». Così, Calvino rifiuta concetti quali i sei giorni della Creazione come non indicativi dell’effettivo tempo impiegato (McGrath 1999, p. 11). Nei
suoi sermoni sui Dieci Comandamenti, spiegò:
Poiché non partecipiamo ancora della gloria di Dio, non possiamo
avvicinarlo; piuttosto, è necessario che Egli si riveli a noi secondo
la nostra barbarie e debolezza. Resta il fatto che fin dall’inizio del
mondo, quando Dio apparve agli uomini mortali, non fu per rivelare se stesso così come Egli è, ma secondo le capacità dell’uomo
di capirlo. Dobbiamo sempre tenerlo a mente: Dio non era conosciuto dai padri della Chiesa. E nemmeno oggi ci appare nella sua
essenza. Piuttosto, egli si adatta a noi. Essendo così le cose, è necessario che Egli si abbassi secondo la nostra capacità affinché
possiamo percepire la sua presenza con noi. (Calvino [1555 ca.]
1982, pp. 52-53)
Dalla parte cattolica, questo punto di vista venne ratificato
dal frate carmelitano Paolo Antonio Foscarini nella sua opera del
1615 su Copernico: «La Scrittura parla a seconda della nostra
modalità di comprensione» (in McGrath 1999, p. 12).
Dunque, la nascita della scienza non prese alla sprovvista i
teologi cristiani. L’unica cosa nuova della teologia naturale era il
nome – anzi, lo stesso Calvino aveva già scritto in maniera estesa sull’Argomento del Disegno divino. La disponibilità degli
scienziati di riconoscere un creatore e la pari disponibilità dei
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
233
teologi ad adattare le proprie dottrine alle ultime scoperte scientifiche fecero quasi impazzire gli eredi militanti dell’«Illuminismo». Nonostante le conquiste del «divino» Newton, non solo le
forze della «superstizione» persistevano, ma non erano nemmeno state cacciate definitivamente dalle università. Bisognava fare
qualcosa. E fu fatto.
Evoluzione e religione
Charles Darwin (1809-1882) sarebbe fra i più importanti biologi della storia anche se non avesse pubblicato il suo L’origine
della specie (1859). Ma non sarebbe stato deificato, né avrebbe sostituito Newton nella campagna volta a «illuminare» l’umanità.
Come vedremo, la battaglia sull’evoluzione non è un esempio
dell’«eroismo» con il quale gli scienziati hanno resistito alle continue persecuzioni dei «fanatici» religiosi. Piuttosto, fin dall’inizio si è trattato principalmente di un attacco alla religione da
parte di militanti atei, avvoltisi nel mantello della scienza, nello
sforzo di confutare tutte le proclamazioni religiose in merito a un
Creatore – un tentativo che spesso si è trasformato nella soppressione di tutte le critiche scientifiche all’opera di Darwin.
Benché di recente sia divenuto molto vivace, preferisco non
prendere parte al dibattito sullo status logico ed empirico della
teoria dell’evoluzione. Purtroppo, per capire in maniera adeguata
le basi reali dell’antico conflitto sull’evoluzione, dobbiamo capire
che l’aggressiva sicurezza esibita dai darwiniani è direttamente
proporzionale ai difetti della teoria. Problemi ovvi persino a
Darwin non sono stati superati se non dopo oltre 150 anni di sforzi. La mia riluttanza a seguire tali questioni è basata sull’esperienza: niente genera più panico fra i miei colleghi di una critica all’evoluzione 15. Sembrano aver paura che qualcuno li possa scambiare per creazionisti anche solo restando nella stessa stanza con chi
dice queste cose. Come vedremo, è esattamente così che il «bulldog di Darwin», Thomas Henry Huxley (1825-1895), sperava si sarebbero comportati gli intellettuali quando per primo sostenne che
234
A GLORIA DI DIO
l’unica scelta possibile fosse quella fra darwinismo e interpretazione letterale della Bibbia. Anzi, Richard Dawkins che, titolare di
una cattedra a Oxford, si dedica alla divulgazione della scienza, ha
onestamente dichiarato che «anche se non vi fosse nessuna evidenza reale a favore della teoria darwiniana […] saremmo comunque giustificati nel preferirla a teorie rivali», limitando attentamente queste ultime a un grossolano creazionismo e all’antica
genetica lamarckiana (Dawkins 1986, p. 287).
Tuttavia, proprio come si può dubitare della tesi dell’etica
protestante di Max Weber senza per questo essere un marxista,
così si possono notare degli errori anche nella teoria darwiniana
o neo-darwiniana senza per questo credere in una Creazione
durata sei giorni, o in una qualsiasi delle teorie rivali – la fisica
moderna offre un esempio di come la scienza possa trarre benefici dalla disponibilità a lasciare aperte le questioni senza abbracciare teorie evidentemente erronee. Di certo non voglio dire
che in una teoria delle origini biologiche appropriata si debba
lasciar spazio a un Creatore – e forse un domani ci sarà una teoria assolutamente materialistica migliore. Ciò che voglio dire è
che la teoria di Darwin, anche con tutte le successive revisioni,
non riesce a spiegare l’origine della specie. E nonostante questo,
sto sollevando la questione solamente perché mi serve a dimostrare le basi esclusivamente ideologiche della crociata darwiniana, e quindi a provare che essa non indica un’incompatibilità
di base fra religione e scienza. Ovviamente, esiste un conflitto
intrinseco fra «ateismo scientifico» e religione, ed è questo ciò
che voglio dimostrare.
Quando un fervente darwinista come Richard Dawkins sostiene che «la teoria è in dubbio tanto quanto il fatto che la Terra
ruoti intorno al Sole» (Dawkins 1976, p. 1), non proclama un fatto, ma vuole solamente screditare a priori chiunque osi esprimere delle riserve in merito all’evoluzione. Anzi, Dawkins ha addirittura scritto: «È cosa assolutamente certa il fatto che, se incontrate qualcuno che sostiene di non credere nell’evoluzione, si tratta di una persona ignorante, stupida o pazza» (Dawkins 1989, p.
34). Eric Hoffer avrebbe fatto tesoro di queste affermazioni se fos-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
235
sero state disponibili all’epoca della stesura di The True Believer
(1951). Cosa ancora peggiore, Dawkins conosce i diversi e seri
problemi implicati in una teoria dell’evoluzione puramente materialistica, ma asserisce che nessuno tranne dei veri credenti nell’evoluzione possa partecipare alla discussione, che va tenuta segreta. Così, rimprovera duramente Niles Eldredge e Stephen Jay
Gould, due illustri darwinisti, per aver dato «illegittimo aiuto e
sostegno ai creazionisti moderni» (Dawkins 1986, pp. 241, 251).
Dawkins crede che, indipendentemente dalle buone intenzioni,
«se uno studioso rispettabile mormora anche solo un accenno di
critica su qualche dettaglio della teoria darwiniana, la cosa viene
colta al volo e ingigantita a dismisura». Il fatto è, però, che le opinioni di Dawkins sono ampiamente condivise. Quindi, pur riconoscendo che «l’estrema rarità delle forme di transizione nelle testimonianze fossili» sia un punto di grande imbarazzo per il
darwinismo, Gould confidò che si trattava di una sorta di «segreto commerciale della paleontologia», e ammise che i diagrammi
evoluzionisti «che adornano i nostri manuali» sono basati su «inferenze, […] non sulle evidenze fossili» (Gould 1980, p. 181). Anzi, secondo Steven Stanley, altro illustre evoluzionista, i dubbi sollevati da questo problema con i fossili furono «rimossi» per anni
(Stanley 1981, p. 104). E sempre Stanley osserva che questa fu una
strategia iniziata da Huxley, attento a non rivelare i suoi stessi timori in pubblico. Come ha sintetizzato Eldredge, «noi paleontologi abbiamo detto che la storia della vita supporta [il principio
della trasformazione graduale delle specie], ma abbiamo sempre
saputo che in realtà non è così» (Eldredge 1986, p. 145). Non è così che si fa scienza; in questo modo si fanno solamente le crociate.
La teoria di Darwin
Per offrire ai miei lettori la migliore rassicurazione possibile,
sono stato molto attento a trarre le mie dichiarazioni in merito ai
difetti della teoria dell’evoluzione solamente da darwinisti ben
noti ed entusiasti.
All’epoca di Darwin era già noto da molto che l’evidenza fossile dimostrava che, in un arco di tempo immenso, c’era stata
236
A GLORIA DI DIO
una progressione nella complessità biologica degli organismi.
Negli strati geologici più antichi, si osservano solamente organismi semplici; negli strati più recenti, appaiono invece organismi più complessi. Inoltre, proseguendo il lavoro di Carolus
Linneo (1707-1778), il mondo biologico è stato classificato in un
insieme di categorie inserite le une nelle altre. Così, all’interno
di ogni genere (mammiferi, rettili ecc.) troviamo le specie (cani,
cavalli, elefanti ecc.), e all’interno di ogni specie varietà specifiche, o razze (alano, barboncino, beagle ecc.). I confini fra le specie sono netti e fermi – una specie non svanisce in un’altra per
gradi. Per esempio, fra varietà all’intero della stessa specie (per
esempio, fra barboncini e beagle) l’incrocio è possibile, ma non
fra le specie (i cani non possono essere incrociati con i gatti).
Dunque, non vi sono incroci fra specie (nessun cane-gatto, né
cavallo-mucca). Questo significa che non si possono creare nuove specie tramite incrocio 16.
Questi fatti interessavano moltissimo sia i teologi naturalisti
sia i biologi, e tutti capivano che essi ponevano due questioni
fondamentali. La prima riguarda la variazione all’interno delle
specie. Perché, per esempio, ci sono così tante razze di cani? La
seconda questione riguarda la variazione fra le specie. Dal momento che nelle testimonianze fossili si ritrovano creature più
complesse, da dove sono venute? Cioè, come nascono le nuove
specie?
Si sapeva molto bene che gli incroci di razze a fini selettivi potevano dare variazioni all’interno delle specie. L’immensa gamma
di razze canine è il risultato di secoli di accoppiamento selettivo:
gli uomini hanno scelto i cani che mostravano la maggior quantità di tratti desiderati (coda corta, pelo arruffato, gambe lunghe)
e poi li hanno fatti accoppiare, fino a quando, dopo molte generazioni di accoppiamenti selettivi, si sono ottenuti alani o barboncini. Ma come avviene questo accoppiamento selettivo in natura, senza l’intervento dell’uomo? Qui, Darwin dà un contributo molto intelligente e valido con il principio della selezione naturale. Proprio come gli uomini scelgono gli incroci sulla base delle
caratteristiche desiderate, così fa la natura, anche se in maniera
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
237
non intenzionale. Gli elementi in gioco sono tre. Per prima cosa,
gli organismi di una stessa specie variano fra di loro leggermente in diversi aspetti, che sono ereditabili. In secondo luogo, gli organismi sono soggetti a una lotta per la sopravvivenza, e quelli
che hanno caratteristiche più favorevoli alla sopravvivenza hanno più probabilità di riprodursi 17. Dunque, gli organismi cambieranno per diventare più adatti (o adattati) alla sopravvivenza.
In terzo luogo, se le condizioni che governano la sopravvivenza
differiscono da un luogo all’altro (è il concetto delle nicchie ecologiche), il risultato saranno diverse razze della stessa specie. E
fin qui, è ovvio.
Sembrerebbe impossibile che una selezione naturale all’interno di specie esistenti possa creare nuove specie. Come riconobbe Darwin, gli esperimenti di incrocio di razze rivelano dei
chiari limiti alla selezione, oltre i quali non è possibile produrre
ulteriori cambiamenti. Per esempio, i cani possono raggiungere
solo certe dimensioni, non di più, figurarsi diventare gatti. Dunque, la vera sfida era capire da dove derivavano le specie, ma,
nonostante il titolo del suo famoso libro e più di un secolo di
proclami e celebrazioni, è una domanda che Darwin lasciò senza risposta.
Dopo aver passato molti anni alla ricerca di una spiegazione
adeguata dell’origine delle specie, alla fine Darwin tornò alla selezione naturale, sostenendo che in periodi di tempo lunghissimi
potesse anche generare nuove creature. In altre parole, gli organismi rispondono alle condizioni del loro ambiente cambiando
lentamente (evolvendosi verso) caratteristiche favorevoli alla sopravvivenza fino a quando, alla fine, sono mutati in maniera sufficiente a creare delle nuove specie. Dunque, le nuove specie si
originano molto lentamente, un minuscolo cambiamento dopo
l’altro, e alla fine ciò dà come risultato un’intera catena di nuove
specie, come dai lemuri agli esseri umani attraverso molte specie
intermedie.
Darwin riconobbe che una grande debolezza della sua teoria
sull’origine delle specie era quello che lui e altri chiamavano il
principio della «gradualità nella natura». Egli rifiutava in ma-
238
A GLORIA DI DIO
niera esplicita l’idea che un intero insieme di cambiamenti favorevoli potesse verificarsi simultaneamente, producendo così una
nuova specie di punto in bianco. «Ma ammettere tutto ciò, a
quanto mi sembra, significa entrare nel campo del miracolo e abbandonare quello della scienza» (Darwin 1993, p. 316). Linneo
aveva detto che la «natura non fa balzi», il che equivaleva a una
«sacra scrittura» per Darwin e i suoi colleghi. E, come spiegò
Howard Gruber, ciò «sollevava un’alternativa di rilevanza notevole: la natura non fa balzi, ma Dio sì» (Gruber 1981, pp. 125126). Per dimostrare che un qualcosa ha origine naturale, e non
divina, si deve dimostrare che segue una progressione estremamente graduale e chiara a partire da forme antecedenti. E qui stava la difficoltà. Le testimonianze fossili erano in netto contrasto
con questa gradualità. Come riconobbe lo stesso Darwin:
Primieramente, se le specie derivano da altre specie, per mezzo di
gradazioni insensibili, perché non vediamo noi dappertutto innumerevoli forme transitorie? Perché tutta la natura non è confusa,
mentre al contrario le specie sono, come noi sappiamo, ben definite? (Darwin 1993, p. 212)
In merito a ciò offriva due soluzioni. Le tipologie di transizione venivano rimpiazzate velocemente e dunque potevano
essere osservate soprattutto nei fossili. E per quanto riguardava la mancanza di tipologie di transizione fra i fossili, si trattava, come riconosceva Darwin, della «obiezione […] più ovvia e
più rilevante di quelle che possono sollevarsi contro di essa
[teoria]» (Darwin 1993, p. 406). Darwin affrontò il problema
dando la colpa all’estrema «imperfezione dei resti geologici».
«Soltanto una piccola porzione del mondo è stata geologicamente esplorata, e nessuna porzione con sufficiente cura»
(Darwin 1993, p. 414), ma bastava aspettare, prometteva, e le
transizioni mancanti sarebbero state scoperte in qualche inaspettata regione in cui sarebbe stata fatta una ricerca più approfondita. E così iniziò una ricerca intensiva di quelli che la
stampa popolare definì presto «gli anelli mancanti».
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
239
Oggi, la documentazione fossile è enorme al confronto di
quella dell’epoca di Darwin, ma i fatti restano sempre gli stessi.
Gli anelli mancano ancora; le specie appaiono improvvisamente
e poi continuano a presentarsi in forma praticamente invariata.
Come ha scritto Steven Stanley, «le evidenze fossili conosciute
[…] non forniscono alcuna prova alla validità del modello gradualistico» (Stanley 1979, p. 39). Anzi, dall’epoca di Darwin sono sempre più le prove del contrario. Come ha osservato l’ex curatore di geologia storica dell’American Museum of Natural History, «molte delle discontinuità [nelle evidenze fossili] tendono
a essere sempre più enfatizzate dall’aumento dei ritrovamenti»
(Newell 1959, p. 267). Nella sintesi di Stephen Jay Gould:
La storia della maggior parte delle specie fossili include due caratteristiche particolarmente incompatibili con il gradualismo:
1. La stasi. La gran parte delle specie non mostra alcun cambiamento direzionale durante l’esistenza sulla terra. Appaiono nelle
prove fossili con le stesse strutture di quando scompaiono; il cambiamento morfologico solitamente è limitato e non direzionale.
2. L’apparizione improvvisa. In un’area locale, una specie non nasce
gradualmente tramite la costante trasformazione dei suoi progenitori; appare all’improvviso «completamente formata». (Gould
1980, p. 182)
E queste sono esattamente le obiezioni sollevate da molti biologi e geologi all’epoca di Darwin – non si trattava solamente del
fatto che l’affermazione di Darwin per cui le specie nascono in
miliardi di anni di selezione naturale veniva presentata senza
delle prove a sostegno, ma anzi che le evidenze a disposizione
erano ampiamente contrarie a tale tesi. Purtroppo, invece che
giungere alla conclusione che non esistesse ancora una teoria
dell’evoluzione, molti scienziati sostennero che si dovevano accogliere le idee di Darwin, senza discutere del loro merito. Come
osservò un importante paleontologo europeo, François Jules Pictet, nella sua recensione del 1860 a L’origine: «Abbiamo davanti
una teoria che da una parte sembra impossibile perché non coe-
240
A GLORIA DI DIO
rente con i fatti osservati e che dall’altra parte sembra la miglior
spiegazione [a disposizione]». (In Hull 1973, p. 146)
Fin da allora, vi è stata la ricerca impellente, anche se spesso
circospetta, di un’alternativa plausibile. Ironia della sorte, mentre Thomas Henry Huxley intratteneva piacevolmente il suo
pubblico con racconti di specie che nascevano «senza nulla che
le precedesse» come prova dell’assurdità del creazionismo, nel
privato lui stesso cercava un meccanismo biologico con il quale
riuscire a spiegare questa sorta di balzi evolutivi (Desmond 1997,
p. 459). Infatti, Huxley era «convinto che le nuove forme venissero alla luce non attraverso la modificazione di dettagli della
morfologia, ma con una riorganizzazione repentina e su larga
scala di interi sistemi anatomici» (Schwartz 1999, p. 3). Ma non
riusciva a trovare una spiegazione convincente, per cui continuava le sue incrollabili condanne pubbliche di tutte le critiche
alla teoria di Darwin. Lo stesso Darwin aveva cercato un simile
meccanismo per molti anni, e secondo me è ovvio che sia tornato al gradualismo e alla selezione naturale per spiegare l’origine
delle specie solamente perché, essendo per lui necessario giungere alla pubblicazione prima che Alfred Russel Wallace si prendesse tutto il merito per la teoria dell’evoluzione, non aveva nulla di meglio da offrire.
In ogni caso, alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, un numero sempre crescente di biologi tentò di scoprire un meccanismo evolutivo capace di adattarsi all’evidenza fossile per cui l’evoluzione procede per balzi improvvisi (Ruse 1999, Schwartz
1999). Come la stessa opera di Darwin, il primo di questi tentativi era basato sulla teoria di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), secondo la quale le caratteristiche acquisite potevano essere ereditate, vale a dire che i cambiamenti causati dall’ambiente circostante agli organismi possono essere tramandati alle generazioni
successive. Infatti, Darwin non credeva solamente che fosse possibile ottenere una razza di cani con una coda corta tramite l’accoppiamento selettivo, ma anche, come Lamarck, che se si accorciava chirurgicamente la coda dei cani, con il passare del tempo
si sarebbe poi ottenuta una razza a coda corta. Tuttavia, ciò non
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
241
risolveva il problema. Anche supponendo che le caratteristiche
acquisite possano essere ereditate (cosa presto confutata dai biologi), si finisce comunque con l’avere un modello di evoluzione
graduale fatto di piccolissimi incrementi, incompatibile con i reperti fossili di nuove specie che parevano apparse dal nulla. Poi
giunse la riscoperta dei principi genetici di Gregor Mendel (18221884) e si credette di aver trovato il meccanismo dietro all’origine
delle specie.
Darwin non sapeva nulla dei geni, figurarsi delle mutazioni
genetiche. Concordava con Lamarck sul fatto che le caratteristiche di entrambi i genitori si mescolavano a formare la prole. Ma
Mendel dimostrò che i geni non si mescolano. Applicato all’evoluzione, ciò significa che dei cambiamenti graduali avvenuti per
selezione naturale non possono rispondere della nascita di nuove specie. Dunque, al cambio del secolo, i più illustri biologi, fra
i quali Hugo de Vries, William Bateson e Thomas Hunt Morgan,
rifiutarono completamente (anche se in modo cauto in pubblico)
la teoria di Darwin e cercarono una plausibile base genetica dell’evoluzione. Credettero di trovarla nel fenomeno delle mutazioni genetiche (Schwartz 1999).
Una mutazione è un cambiamento che avviene all’interno di
un gene di un determinato organismo e che può, dunque, essere
tramandato alla prole di questo specifico organismo. In altre parole, in un determinato gene avviene un vero cambiamento fisico, che altera l’organismo e il suo potenziale genetico. Nella
maggior parte delle versioni dell’evoluzione neo-darwiniste 18, si
assume che le mutazioni avvengano in maniera casuale. Molte di
queste mutazioni casuali sono irrilevanti ai fini della sopravvivenza, e dunque possono persistere come svanire. Molte altre
(forse la maggioranza) possono essere sfavorevoli e scomparire,
poiché le creature che presentano tali tratti si estinguono. Tuttavia, alcuni tratti saranno favorevoli e verranno conservati e diffusi all’interno di una specie sulla base di un superiore tasso di
sopravvivenza. Ma questi tratti possono avere come risultato
una specie nuova? Come possono delle mutazioni casuali e di
piccole dimensioni trasformare un rettile in un uccello o, anzi, un
242
A GLORIA DI DIO
piccolo lemure in un essere umano? Seguendo le idee di Darwin,
gli evoluzionisti spesso hanno spiegato le nuove specie come il
risultato dell’accumulazione di piccole mutazioni casuali in un
immenso arco di tempo. Ma questa è una risposta che rimane in
contraddizione con le evidenze fossili, nelle quali le creature appaiono «come Atena dalla testa di Zeus – in tutto il suo splendore e impaziente di andare» (Schwartz 1999, p. 3). Di conseguenza, per quasi tutto il secolo scorso, biologi e genetisti hanno cercato di scoprire come un numero enorme di mutazioni favorevoli possa avvenire nel corso del tempo in modo tale da far comparire specie nuove senza tipi intermedi.
Nel 1940, Richard Goldschmidt ipotizzò la soluzione del «mostro di belle speranze» – «Una mostruosità che appare in un singolo gradino genetico potrebbe […] produrre un nuovo tipo»
(Goldschmidt 1940, p. 390). Egli riconosceva che la maggioranza
delle mutazioni multiple aveva come risultato un «mostro senza
speranze», nel senso che i cambiamenti erano dannosi o retrogradi. Ma a volte le nuove caratteristiche potevano essere un miglioramento, e dare origine a un «mostro di belle speranze». In realtà,
quella di Goldschmidt era un’inferenza di una causa genetica per
un risultato empirico. Le nuove specie nascono. Dal momento che
ciò deve essere il risultato dell’evoluzione, possiamo supporre solamente che sia avvenuta una grande mutazione multipla. Anzi,
questa mutazione così difficile deve avvenire due volte nello stesso luogo e nello stesso spazio di tempo se vogliamo che il nostro
mostro abbia un/una compagno/a. Il mostro di belle speranze
bazzica ancora intorno al neo-darwinismo, ma la maggioranza dei
biologi lo ha rifiutato, come d’altronde avrebbe fatto Darwin. Come ha spiegato l’eminente e convinto darwinista Ernst Mayr:
Il verificarsi di mostruosità genetiche tramite mutazione […] è ben
acclarato, ma si tratta di stranezze talmente evidenti che tali mostri
possono essere definiti solamente come «senza speranza». Sono
per lo più così disequilibrati da non avere la più piccola possibilità
di sfuggire all’eliminazione della selezione. Se diamo a un tordo le
ali di un falco non ne faremo un miglior volatore. Anzi, mantenen-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
243
do tutte le altre strutture di un tordo, probabilmente non sarebbe
nemmeno in grado di volare. […] Credere che una mutazione così
drastica possa generare un nuovo tipo in grado di vivere, capace di
occupare una nuova zona adattativa, equivale al credere nei miracoli. (Mayr 1970, p. 253)
Che è quanto disse Darwin.
Un tentativo più recente di spiegare l’improvvisa apparizione
delle nuove specie nelle evidenze fossili è stato quello di Niles
Eldredge e Stephen Jay Gould (Eldredge 1971; Eldredge, Gould
1972; Gould, Eldredge 1993), noto come equilibrio punteggiato. Il
principio non è mai stato del tutto chiaro, anche perché gli autori, soprattutto Gould, hanno spesso cambiato idea su quello che
intendevano (Dennett 1995). In alcune occasioni sembra essere
una nuova versione del «mostro di belle speranze», e lo stesso
Gould ha pubblicato un saggio intitolato Return to the Hopeful
Monster [«Ritorno al mostro di belle speranze», N.d.T.]. La versione iniziale dell’«equilibrio punteggiato» asserisce solamente
che Darwin era in errore nel supporre che l’evoluzione avvenisse attraverso una lenta accumulazione di piccoli passi. Dal momento che le evidenze fossili mostravano piuttosto dei balzi improvvisi, è così che si ha evoluzione: ogni tanto l’equilibrio di una
specie immutabile viene punteggiato da un improvviso cambiamento. Dal momento che la teoria di Darwin non prevede questa ipotesi, Gould conclude che ci sia il bisogno di un nuovo
principio evoluzionistico (Gould 1980). Ma non suggerisce nessun nuovo principio. Anzi, Gould è riuscito a scrivere in maniera estesa sul modo in cui il suo «equilibrio punteggiato» possa riconciliare il darwinismo con le prove fossili, negando allo stesso
tempo che la sua teoria proponesse un qualsiasi «meccanismo
violento» tramite il quale possa avvenire l’improvvisa comparsa
di nuove specie. Mancando l’ipotesi di un meccanismo di questo
tipo, Gould ed Eldredge non apportano nessun progresso alla
soluzione del problema dell’origine delle specie. In definitiva,
ciò che sostengono è che in qualsiasi modo ciò accada, nuove
specie nascono in aree specifiche e non si diffondono fino a
244
A GLORIA DI DIO
quando non hanno attraversato degli stadi intermedi. Ciò risolve il problema degli «anelli mancanti» – gli organismi esistono
solamente in luoghi molto circoscritti e ci vorrebbe moltissima
fortuna per trovarli (presumibilmente più fortuna di quanta ne
serva per produrre la nuova specie). Eppure ancora non sappiamo come avvenga un simile balzo. Per di più, discutendo anche
dell’urgenza della necessità di una soluzione, Gould ed Eldredge hanno provocato l’antagonismo dei colleghi che comprendono come un simile meccanismo abbia la probabilità di riaprire la
porta ai miracoli, proprio ciò che Darwin temeva. In effetti, un altro importante darwiniano, Daniel C. Dennett, ha accusato
Gould di avere proprio questa intenzione – «La mia diagnosi, comunque, è che lui [Gould] sia alla ricerca di un gancio dal cielo 19
[che sollevi l’evoluzione]» (Dennett 1995, p. 298).
E infatti la parola «miracolo» salta fuori di continuo nelle valutazioni matematiche della possibilità che anche catene biochimiche molto semplici, a maggior ragione gli organismi, possano
nascere per un processo empirico casuale. Per generazioni, i
darwiniani hanno intrattenuto i loro studenti con la storia della
scimmia e della macchina per scrivere, osservando che, dato un
arco di tempo infinito, la scimmia prima o poi è destinata per
puro caso a scrivere un Macbeth (o un’altra opera di Shakespeare, o la Bibbia). E la morale è che un tempo infinito può produrre dei miracoli. Tuttavia, la «scimmia» dell’evoluzione casuale
non ha a sua disposizione un tempo infinito. Anche se qualcuno
ipotizzasse che la vita sia giunta sulla Terra da un pianeta molto più antico e lontano, la progressione da forme di vita semplici a forme complesse sulla Terra è avvenuta in un arco di tempo
limitato 20. Ancora più indicativo è il fatto che quando dei matematici considerano la questione, riescono a calcolare velocemente come, anche se il compito della scimmia fosse limitato solo alla scrittura di alcune frasi del Macbeth, e non dell’intera opera di Shakespeare, ciò sia assolutamente impossibile 21. Le probabilità di creare anche il più semplice organismo in forma casuale sono ancora più remote – Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe (1984) hanno calcolato questa probabilità come una su
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
245
10 40.000 (si consideri che tutti gli atomi nell’universo a noi noto sono stimati intorno a una cifra che non supera il 10 80). In questo
senso, dunque, la teoria darwiniana è basata su presupposti
davvero miracolosi.
Forse, l’aspetto più incredibile della situazione attuale è il
fatto che mentre Darwin viene trattato come un santo secolare
dai media popolari, e la «teoria» dell’evoluzione viene considerata come una sfida invincibile alle affermazioni religiose, fra i
più importanti studiosi di scienze biologiche ormai si dà per
scontato che l’origine delle specie debba ancora essere spiegata.
Scrivendo per «Nature» nel 1999, Eörs Szathmaŕy iniziò così la
sua recensione al tentativo di Jeffrey Schwartz di costruire una
teoria di questo tipo: «L’origine delle specie affascina da tempo
i biologi. Benché la citi nel suo titolo, l’opera principale di
Darwin non fornisce una soluzione al problema. Jeffrey
Schwartz ce ne offre una? Mi dispiace ma, nel complesso, non lo
fa». (Szathmaŕy 1999)
Quando Julian Huxley sostenne che «la teoria di Darwin è
[…] non più una teoria, ma un fatto» sicuramente sapeva ciò che
diceva (Huxley 1960, p. 1). Ma, proprio come suo nonno Thomas
Henry Huxley, sapeva che la sua bugia serviva al bene superiore dell’«illuminismo».
La crociata darwiniana
Quando venne pubblicata, L’origine della specie destò un interesse immenso, ma inizialmente non provocò un antagonismo su
base religiosa. La reputazione scientifica di Darwin gli garantì il
fatto che i commentatori prendessero seriamente il suo libro e
trattassero l’autore con rispetto. Benché molti avessero criticato
la mancanza di prove, nessuno sollevò obiezioni di natura religiosa, come ha riconosciuto persino Stephen Jay Gould (Gould
1977, p. 7). Anzi, la risposta iniziale di coloro che si interessavano di teologia naturale fu estremamente favorevole. Asa Gray
(1810-1888), l’illustre botanico di Harvard, acclamò Darwin come colui che aveva risolto il problema più difficile in merito all’Argomento del Disegno divino – le molte imperfezioni e falli-
246
A GLORIA DI DIO
menti rilevati dai reperti fossili. Riconoscendo che Darwin «rifiuta l’idea di un Disegno», Gray si congratulava comunque con
lui per aver «trovato le sue più accurate descrizioni» (in Barrow,
Tipler 1986, p. 85). Gray interpretava il lavoro di Darwin come
una dimostrazione del fatto che Dio avesse creato poche forme
originali e poi avesse lasciato che l’evoluzione procedesse all’interno di una struttura di «leggi» divine – e da qui le occasionali
svolte sbagliate e gli «errori». Darwin e i suoi più vicini sostenitori ritennero questa interpretazione religiosa intollerabile – la
teoria era stata formulata proprio in opposizione all’idea del Disegno divino.
Dunque, quando si manifestò, l’antagonismo religioso fu generato da un movimento sociale che – proclamando costantemente che Newton e Darwin insieme avevano sfrattato Dio dall’universo – costrinse i leader religiosi a rispondere. Per gli eredi
dell’«Illuminismo», l’evoluzione sembrava fornire finalmente
l’arma necessaria a distruggere la religione. Come confessò Richard Dawkins, «Darwin rese possibile l’essere degli atei intellettualmente soddisfatti» (Dawkins 1986, p. 6).
La crociata darwiniana fu lanciata da un gruppo di uomini
guidati da Thomas Henry Huxley (Desmond 1997; Eiseley 1975;
Irvine 1955). Come Huxley, alcuni di questi crociati erano scienziati, ma, sempre come Huxley, da molto prima della pubblicazione della teoria di Darwin, erano attivisti socialisti e atei (Desmond 1997).
I primi e più militanti sostenitori del darwinismo erano tutti
convinti socialisti (Desmond 1997; MacKenzie, MacKenzie 1977;
Wilson 1999). Quando non cantava inni in lode all’evoluzione con
George Bernard Shaw agli incontri della Fabian Society, Annie
Besant distribuiva il suo pamphlet Why I Am a Socialist [Perché sono socialista], nel quale si rispondeva «perché credo nell’evoluzione». Alfred Russell Wallace, al quale si attribuisce la scoperta
dell’evoluzione assieme a Darwin, era un illustre socialista la cui
interpretazione del futuro evoluzionistico dell’umanità lo portò a
essere il primo a proclamare l’avvento di quel campione di perfezione biologica altruistica che era l’«uomo socialista» (Desmond
1997, p. 245). Anzi, si può ancora trovare fra i volumi della bi-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
247
blioteca di Darwin una prima edizione di Das Kapital, dedicata
«Al Signor Charles Darwin. Da parte di un suo sincero ammiratore, Karl Marx, Londra 16 giugno 1873». Più di un decennio prima, quando lesse L’origine, Marx scrisse a Engels che Darwin aveva fornito la base biologica necessaria al socialismo. Quando
parlò al servizio funebre di Marx, Engels paragonò i due uomini:
«Proprio come Darwin scoprì la legge dello sviluppo della natura organica, così Marx scoprì la legge dello sviluppo della natura
umana» (McLellan 1987, p. 3). Ormai, la strada era libera per la rivoluzione e per l’«ateismo scientifico».
Infatti, l’ateismo era un punto centrale della missione dei
darwiniani (Wilson 1999). Lo stesso Darwin in un’occasione
scrisse di non riuscire a capire chi potesse augurarsi che il cristianesimo fosse vero, dal momento che la dottrina della dannazione era di per sé detestabile (Barlow 1962). E per quanto riguarda Huxley, egli espresse spesso e in modo chiaro la sua ostilità nei confronti della religione. Nel 1859 scriveva:
Il mio discorso era inteso come una protesta contro la Teologia e le
Parrocchie […] nella mia mente entrambe sono i nemici naturali e
inconciliabili della Scienza. Pochi lo capiscono, ma io credo che siamo alla vigilia di una nuova Riforma e se è mio desiderio vivere altri trent’anni, è per vedere il piede della Scienza schiacciare il collo
dei suoi nemici. (In Desmond 1997, p. 253)
Come ha sintetizzato lo storico di Oxford J. R. Lucas:
[Huxley] non amava gli ecclesiastici ed era certo che la scienza dovesse essere opposta alla religione. Più tardi, nel corso della sua vita, continuò a opporsi strenuamente all’idea che vi fossero dei religiosi che accettavano l’evoluzione, anche quando se li trovò davvero davanti. (Lucas 1979, p. 329)
Semplicemente, non potevano esserci compromessi con la fede. Infatti, come disse John Tyndall (1820-1893) alla British Association nel suo discorso presidenziale del 1874: «Il fondamento
della dottrina dell’evoluzione consiste […] nella sua complessi-
248
A GLORIA DI DIO
va armonia con il pensiero scientifico […]. Rivendichiamo e
strappiamo alla teologia l’intero dominio della teoria cosmologica». (Tyndall 1874, p. 44)
Quello stesso anno, un importante esponente tedesco del
darwinismo, Ernst Haeckel (1834-1919), riconosceva:
Da una parte, la libertà spirituale e la verità, la ragione e la cultura, l’evoluzione e il progresso, si ergevano sotto il luminoso vessillo della scienza; dall’altra parte, sotto la bandiera nera della gerarchia, c’erano la schiavitù spirituale e la falsità, l’irrazionalità e la
barbarie, la superstizione e la regressione. […] L’evoluzione è l’artiglieria pesante nella lotta per la verità. Intere fila di […] sofismi
cadono a terra sotto i colpi a ripetizione di questa […] artiglieria, e
l’orgogliosa e potente struttura della gerarchia romana, quella potente roccaforte di infallibile dogmatismo, cade come un castello di
carte. (In Gould 1977, p. 77)
Sorprende davvero che i credenti, scienziati o appartenenti al
clero, abbiano iniziato a rispondere a queste incessanti provocazioni, condotte contro di loro in nome dell’evoluzione? Non si
trattava affatto di chiedere loro di accettare che la vita si fosse evoluta, visto che anche i teologi naturali da molto lo davano per
scontato e continuavano a farlo 22. Ciò che i darwiniani pretendevano era, piuttosto, che i religiosi accettassero l’affermazione, non
vera e non scientifica, che Darwin avesse dimostrato che Dio non
aveva avuto alcun ruolo nel processo evolutivo. E le provocazioni
darwiniane non erano limitate ai circoli più radicali e alle loro
pubblicazioni. L’autore della lunga recensione del «Times» all’opera di Darwin non era altri che Thomas Henry Huxley, che ringraziava il cielo per il libro, pur negando l’esistenza, di quel cielo.
Come avrebbero potuto non esservi delle risposte religiose? Anzi,
Huxley programmò le sue conferenze sull’evoluzione come una
sorta di spettacolo popolare itinerante, nel quale sfidava diversi
potenziali oppositori religiosi chiamandoli in causa.
Ovviamente, le persone di fede ritennero necessario rispondere. E Huxley fu molto intelligente (e fortunato) nella scelta dei
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
249
suoi sfidanti. Il più famoso fra coloro che furono costretti a rispondergli fu William Gladstone (1809-1898), per quattro volte
primo ministro della Gran Bretagna. Gladstone era uno scrittore
dotato di talento e un cristiano sincero, ma non era uno scienziato, e quindi rappresentava per Huxley l’oppositore ideale. Ciò
nonostante, Huxley rispose a Gladstone soprattutto con insulti, e
non con argomenti di scienza – e lo ammise pure, dicendo: «Non
posso davvero utilizzare un linguaggio rispettoso davanti a questa intrusione di un perfetto ignorante in questioni scientifiche»
(in Desmond 1997, p. 544).
In una prima bozza di questo capitolo scrissi che un’altra delle «vittime» di Huxley era stata il vescovo di Oxford, Samuel
Wilberforce (1805-1873), che si dice avesse fatto la figura dello
sciocco in un dibattito con Huxley durante l’incontro del 1860
della British Association, a Oxford. Il racconto del confronto
giunto fino a noi riferisce questo:
Fui piuttosto contento di essere presente alla memorabile occasione
a Oxford, quando il signor Huxley affrontò il vescovo Wilberforce.
[…] Il vescovo si alzò e con un leggero tono beffardo, florido e
fluente, ci assicurò che non c’era nulla nell’idea dell’evoluzione
[…]. Poi, voltandosi verso il suo antagonista con una sorridente insolenza, chiese di sapere se era da parte di suo nonno o di sua nonna che sosteneva di discendere dalle scimmie. A questo il signor
Huxley […] si alzò […] e disse queste straordinarie parole […]. Non
si vergognava di avere una scimmia per antenato; ma si sarebbe
vergognato di essere imparentato con un uomo che usava le sue
grandi doti per oscurare la verità. Nessuno ebbe dubbi sul senso
delle parole e l’effetto fu enorme. (Sidgewick 1898, pp. 433-434)
L’aneddoto è apparso in tutte le più importanti biografie di
Darwin e Huxley, così come in ogni racconto popolare della teoria dell’evoluzione (Brix 1984; Dennett 1995; Desmond 1997; Desmond, Moore 1992; Irvine 1959; Richards 1987; Wilson 1999).
Nel suo famoso Apes, Angels and Victorians, William Irvine usò
questo racconto per screditare lo snobismo del vescovo (Irvine
250
A GLORIA DI DIO
1959, p. 6). H. James Brix si spinse oltre, nel suo premiato studio,
descrivendo Wilberforce come «naïf e pomposo», un uomo le cui
«errate opinioni» erano quelle di un «creazionista fondamentalista», e che fornì a Huxley l’opportunità di dare all’evoluzione «la
sua prima grande vittoria sul dogmatismo e la malafede» (Brix
1984, pp. 15, 135). Ogni autore racconta di come il pubblico presente fece un’ovazione in onore di Huxley, e quasi tutti chiamano il vescovo con l’appellativo di «mellifluo Sam».
Il problema è che tutto questo non è mai accaduto. La citazione che ho riportato è l’unico racconto di «prima mano» della storia, apparso in un articolo intitolato A Grandmother’s Tale, scritto
da una persona non appartenente al mondo accademico su una
rivista popolare («Macmillan’s Magazine», ottobre 1898)
trent’anni dopo il presunto incontro! Nessun altro racconto su
questi incontri, e ve n’erano molti all’epoca, fa menzione di qualche osservazione rivolta agli antenati di Huxley, né del fatto che
questi avesse messo in ridicolo il vescovo. Al contrario, molti all’epoca pensarono che dall’incontro fosse uscito meglio il vescovo, e diversi darwiniani convinti lo ritennero una sorta di pareggio (Brooke, Cantor 1998; Cohen 1985b, p. 597). Per di più, come
sapevano tutti gli studiosi presenti a Oxford, prima di quell’incontro il vescovo Wilberforce aveva pubblicato una recensione
de L’origine, nella quale riconosceva appieno il principio della selezione naturale come fonte della variazione all’interno delle
specie. Tuttavia, respingeva le affermazioni di Darwin in merito
all’origine delle specie, e alcune delle sue critiche erano così acute che Darwin scrisse immediatamente al suo amico botanico J.
D. Hooker (1817-1911) che la recensione «è insolitamente intelligente; evidenzia abilmente tutte le parti più congetturali, e riporta bene tutte le difficoltà. Mi esamina piuttosto brillantemente» (Darwin 1896, vol. 2, pp. 117-118). In una lettera successiva al
geologo Charles Lyell (1797-1875), Darwin si lamentò del fatto
che la recensione di Wilberforce fosse «piena di errori», ma poi
ammise anche: «Incidentalmente, il vescovo muove contro di me
una critica efficace e ben argomentata» (Darwin 1896, vol. 2, pp.
124-125). Per di più, molti dei commenti di Wilberforce spinsero
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
251
Darwin ad apportare delle modifiche in una revisione successiva del libro (Cohen 1985b). E questi erano anche i punti che Wilberforce aveva sintetizzato per la British Association e ai quali
aveva risposto Huxley.
La denuncia di J. R. Lucas (Lucas 1979), che risale ormai a
trent’anni fa, della falsità del racconto del trionfo di Huxley sul
vescovo presunto fatuo e snob, ha ricevuto così poca attenzione che io stesso stavo per ripetere quella falsità – ripresa anche
nella biografia di Huxley a opera di Desmond (Desmond
1997). Eppure, a giudicare dalle loro citazioni, tutti i biografi e
gli storici che lo hanno riportato come fatto avvenuto avevano
letto la raccolta di lettere di Darwin curata dal figlio Francis, e
quindi devono essersi interrogati sul motivo per cui proprio
Darwin trovava del merito nella stupidità del «mellifluo Sam».
Inoltre, la raffinata recensione di Wilberforce pubblicata nella
«Quarterly Review» di giugno-ottobre 1860 è sempre stata a
disposizione degli studiosi. Nonostante tutto questo, la storia
della meritata lezione subita dal vescovo continua a prosperare come la rivelazione della «verità» dell’incompatibilità di religione e scienza. È come se Samuel Wilberforce (che si distinse a Oxford nel campo della matematica) dovesse per forza essere in errore ed essere uno sciocco, perché era un vescovo. Anzi, Lucas ha ipotizzato che «la ragione più importante della
diffusione della leggenda» è che «è una questione di orgoglio
professionale» per «gli accademici […] non saper nulla al di
fuori del proprio argomento specifico». Essi credevano fermamente che una persona esterna al settore fosse necessariamente ignorante; di conseguenza, Huxley «doveva aver avuto successo in quell’occasione». Per di più, «la battaglia fra religione
e scienza non iniziò a causa di quello che disse Wilberforce, ma
perché fu Huxley a volerlo; e man mano che la teoria di
Darwin si guadagnava dei sostenitori, costoro facevano propria la sua versione dell’accaduto» (Lucas 1979, pp. 329-330).
I due episodi di Gladstone e Wilberforce svelano i diversi
metodi usati di frequente nella crociata darwiniana per sovrastare gli oppositori: quando possibile, quello di focalizzare la
252
A GLORIA DI DIO
propria attenzione sugli oppositori meno qualificati e più vulnerabili e, in mancanza di bersagli facili, quello di inventarli –
come fa il famoso biografo di Huxley, Adrien Desmond, quando dice che «rese insignificanti i “creazionisti”» (Desmond
1997, p. 256). Dunque, ancora oggi è raro trovare un manuale di
biologia generale o sull’evoluzione, per non parlare della trattazione popolare dell’argomento evoluzione-religione, che non
riduca il «Creazionismo» ai calcoli del vescovo Ussher sull’età
della Terra o alle buffonate di William Jennings Bryan durante
il cosiddetto Processo della Scimmia di Scopes.
James Ussher (1581-1656) era membro della facoltà del Trinity College di Dublino e successivamente fu vescovo di Armagh. Protestante di tendenza calvinista, calcolò che la Creazione ebbe luogo nel 4004 BCE. In realtà, non fu lui a fornire
questa data, che era solamente una delle molte che circolavano
all’epoca (Rudwick 1986, p. 302). Lo stesso Isaac Newton dedicò una considerevole attenzione a tale questione e giunse a
conclusioni abbastanza simili. All’epoca della crociata darwiniana, poi, la datazione di Ussher era stata dimenticata da molto 23 e l’idea prevalente fra i teologi così come fra i geologi era
che la Terra fosse molto antica. Furono gli evoluzionisti a sostenere che la datazione di Ussher rappresentava la visione cristiana, soprattutto per screditare i loro oppositori. Infatti, non
vi era stata una seria opposizione alla teoria dell’evoluzione,
un’opposizione di tipo davvero fondamentalista, fino a più di
sessant’anni dopo la pubblicazione de L’origine della specie
(Numbers 1986).
La sprezzante e falsa identificazione del vescovo Wilberforce
con un «creazionista fondamentalista» operata da H. James Brix
era sbagliata sia teologicamente che linguisticamente. Teologicamente, perché il vescovo non interpretava le Scritture in senso
letterale (nella sua recensione del libro di Darwin condannò
espressamente tutte le obiezioni mosse alla scienza sulla base
delle Scritture), e linguisticamente perché il termine «fondamentalista» non era ancora stato coniato. Molte persone probabilmente danno per scontato che il fondamentalismo sia la forma
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
253
più antica di cristianesimo – quella «religione dei tempi antichi»
celebrata dai promotori di un risveglio religioso. In realtà, il Movimento fondamentalista nacque intorno al 1910 negli Stati Uniti. In risposta a una «nuova prospettiva critica» negli studi biblici che dominava nei più importanti seminari (la Harvard Divinity School era apertamente unitariana da un secolo), un gruppo
di pastori cristiani conservatori abbracciò l’idea che nella Bibbia
fosse tutto vero e andasse interpretato in senso letterale – rompendo così con quasi duemila anni di tradizione interpretativa
cristiana. Essi pubblicarono le loro idee in dodici libretti chiamati I Fondamentali, da cui il nome.
Il Movimento fondamentalista ebbe una discreta popolarità
e divenne un fattore culturale e politico importante nella vita
americana (Finke, Stark 1992). Avendo deciso di opporsi all’insegnamento dell’evoluzione nelle scuole, il movimento riuscì a
ottenere delle leggi che proibissero tale insegnamento in cinque stati meridionali, fra i quali il Tennessee. Come sa chiunque abbia visto l’opera teatrale o il film E l’uomo creò Satana!, in
conseguenza di questa legge funzionari pubblici fondamentalisti perseguirono i docenti che si dedicavano all’insegnamento della vera scienza, ma in realtà nessun pubblico ministero
del Tennessee né di altri stati si prese la briga di far applicare
la legge, e sembrerebbe che nessuno abbia mai avuto intenzione di farlo (Larson 1997). Ciò che accadde, invece, fu che nel
1925 l’American Civil Liberties Union fece pubblicare degli annunci sui giornali nei quali cercava un volontario che testasse
la legge; riuscì a reclutare John Thomas Scopes, allenatore, a
volte supplente di biologia, disposto ad ammettere di aver insegnato l’evoluzione (benché fosse improbabile che l’avesse
fatto davvero) e a costringere il pubblico ministero a perseguirlo. L’ACLU fece anche in modo di farlo difendere da Clarence Darrow (1857-1938), il più importante avvocato difensore dell’epoca, autore di molti trattati ateistici. Poi vi fu un
grandissimo colpo di fortuna per gli evoluzionisti. William
Jennings Bryan (1860-1925), candidato democratico che aveva
perso alle presidenziali per tre volte, riuscì a farsi nominare a
254
A GLORIA DI DIO
capo dell’accusa. Bryan sperava di sfruttare la pubblicità nazionale derivata dal processo per una quarta campagna presidenziale. Ovviamente, egli sapeva molto poco di scienza, non
aveva particolari qualifiche teologiche, e si rese ridicolo, trascinando con sé i fondamentalisti – aiutato e favorito da una
stampa estremamente faziosa (Larson 1997).
È a causa di questo processo che ogni qual volta dei cristiani chiedono che l’evoluzione sia presentata nelle scuole pubbliche «solamente come una teoria», vengono ridicolizzati dalla stampa come fondamentalisti e creazionisti. Julian Huxley e
molti altri ideologi darwiniani sostengono che, a differenza
delle teorie della fisica, della chimica o anche della sociologia,
l’evoluzione sia un «fatto», e non un’ipotesi. Ma questa è
un’assurdità filosofica. Tutte le teorie scientifiche sono soggette alla possibilità di future confutazioni. Anzi, quando il grande filosofo della scienza Karl Popper (Popper 1972, 1975 e
1996) sostenne che la versione standard dell’evoluzione non
fosse nemmeno una teoria scientifica, quanto piuttosto una
tautologia non verificabile, fu oggetto di condanna pubblica e
offese personali.
Le tribolazioni di Popper illustrano un altro aspetto basilare
della vittoria del darwinismo: l’appello efficace a costituire un
fronte unito da parte degli scienziati per contrastare un’opposizione religiosa, ha messo a tacere il dissenso all’interno della comunità scientifica. Ho già rilevato come i problemi inerenti alla
teoria dell’evoluzione spesso siano stati «insabbiati», tuttavia vale la pena citare l’ammissione molto franca dell’eminente studioso Everett C. Olson in merito all’esistenza di «un gruppo generalmente silenzioso» di biologi «che tendono a essere in disaccordo con molte affermazioni del pensiero attuale» sull’evoluzione, ma che restano in silenzio, in molti casi perché «sono così
fortemente in disaccordo che sembra loro futile» esprimere il
proprio dissenso. Egli riconobbe che è «difficile valutare la dimensione e la composizione di questo segmento silenzioso», ma
il loro «numero non è insignificante» e la loro «esistenza è importante è non può essere ignorata» (Olson 1960, p. 523).
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
255
Di recente è divenuto noto il numero di questi dissenzienti;
le preoccupazioni di Olson erano più che giustificate. Un sondaggio condotto fra biologi talmente importanti da essere inclusi nell’American Men and Women of Science rivela che il 45%
ammette che il processo dell’evoluzione è guidato da Dio (Larson, Witham 1997; Witham 1997). Un sondaggio condotto fra
tutti i biologi mostrerebbe senz’ombra di dubbio che i «creazionisti evoluzionisti» sono la maggioranza!
La religiosità degli scienziati moderni
È probabile che il primo sondaggio fra scienziati sia stato
condotto da Francis Galton (1822-1911), il quale, nel 1872, spedì
dei questionari a circa 190 «uomini di scienza inglesi» (Galton
1875; Hilts 1975). Galton era cugino di Charles Darwin e uno dei
fondatori della psicologia quantitativa, ed era diventato famoso
per i suoi studi sull’ereditarietà. La sua inchiesta fra gli scienziati si basò su uno dei questionari più naïf e di parte mai scritti, terribile quasi quanto quello distribuito fra i lavoratori inglesi in quello stesso decennio da Karl Marx (e ripubblicato in Bottomore, Rubel 1956). In precedenza Galton aveva sostenuto che
l’interesse scientifico fosse ereditario, ma – convinto dalla corrispondenza tenuta con un biologo svizzero che vi fossero coinvolte sia la natura sia l’educazione – in questo studio voleva far
spazio anche ai fattori ambientali. Per scoprirlo, Galton sottopose domande come queste:
Quale misura di cappello portate?
Quanto vi sembrano innati i vostri gusti scientifici?
La religione che vi è stata insegnata in gioventù ha avuto qualche
effetto deterrente sulla libertà delle vostre ricerche?
Quando rispose al questionario, Charles Darwin scrisse «certamente innati» come risposta alla seconda domanda fra quelle
presentate qui sopra. Alla terza, rispose semplicemente «No».
256
A GLORIA DI DIO
Ciò sorprese molto Galton. Essendo un ateo militante, si aspettava che tutti, e non solo Darwin, rispondessero «Sì». Egli sapeva
che scienza e religione erano incompatibili. Ma non fu solo suo
cugino a non dirlo; più di 90 scienziati dei 100 che risposero al
questionario fecero altrettanto, e pare che Galton non abbia mai
ammesso l’ambiguità della domanda. Egli fu anche molto sorpreso nello scoprire che quasi tutti coloro che avevano risposto
dichiaravano un’affiliazione religiosa di qualche tipo. Indicativo
è il fatto che Galton fornì cifre esatte per gran parte dei risultati
(per esempio, scrisse che solo 13 avevano una testa di dimensione inferiore ai 55 centimetri e 8 superavano i 60), ma non fu così
sollecito in merito ai risultati sulle domande religiose, e le cifre
che ho riportato sono state in un certo senso ricostruite. Inoltre,
benché ammettesse che molti avessero espresso idee religiose
forti, sottolineò che «molti di coloro che si descrivono come religiosi tendevano […] ad apparire stranamente noncuranti del
dogma ed esenti dal misterioso terrore» (Galton 1875, p. 97). In
ogni caso, questi riscontri erano talmente sgraditi che quando il
pioniere della statistica Karl Pearson (1857-1936) scrisse la biografia di Galton in tre volumi, ebbe molta cura di spiegare le ragioni metodologiche del perché quei dati non dovevano essere
interpretati a favore della credenza ovviamente «erronea» che
scienza e religione siano compatibili (Pearson 1914-1930). Ciò
nonostante, quando furono condotti studi migliori i risultati non
cambiarono.
Nel 1914, lo psicologo americano James Leuba inviò dei questionari a un campione casuale di persone elencate nell’American
Men of Science. A ognuno venne chiesto di scegliere una delle seguenti affermazioni «riguardanti la fede in Dio» (tutti i corsivi
sono originali):
1. Credo in un Dio al quale posso rivolgermi con la preghiera nell’attesa di ricevere una risposta. Con «risposta» intendo qualcosa di
più dell’effetto soggettivo e psicologico della preghiera.
2. Non credo in un Dio definito come sopra.
3. Non ho una convinzione definita in merito alla questione.
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
257
Lo standard scelto da Leuba per la fede in Dio è talmente rigoroso da escludere una quota rilevante di clero «tradizionale» 24,
e la cosa era ovviamente intenzionale. Egli voleva dimostrare che
gli uomini di scienza non erano religiosi. Con suo sgomento,
Leuba scoprì che il 41,8% del suo campione di scienziati importanti avevano scelto la prima opzione, prendendo quindi
una posizione che molti avrebbero considerato «fondamentalista». Un altro 41,5% (molti dei quali, ammise Leuba, credevano senza dubbio in una divinità in un certo senso meno attiva)
scelse la seconda opzione, e il 16,7% rispose con l’alternativa
più indeterminata.
Evidentemente, questi risultati non erano quelli che Leuba si
aspettava e sperava. Dunque, egli diede grande enfasi al fatto
che, secondo le misurazioni, i credenti non erano la maggioranza, e continuò esprimendo la sua fede nel futuro, sostenendo che
i dati dimostravano un rifiuto dei «dogmi fondamentali – un rifiuto evidentemente destinato a espandersi parallelamente alla
diffusione della conoscenza» (Leuba [1916] 1921, p. 280). Tuttavia, quando il suo studio venne ripetuto con una metodologia
corretta, nel 1996, i risultati furono invariati (Larson, Witham
1997). Dunque, in un arco di tempo di 82 anni, nella comunità
scientifica non c’era stato nessun calo in una fede in Dio assolutamente letterale.
Nel 1969 la Carnegie Commission condusse un vasto sondaggio su più di 60.000 professori – circa un quarto di tutto il corpo
insegnanti di college americani, di gran lunga il più ampio sondaggio di questo tipo. Il sondaggio era centrato su questioni accademiche e attitudini socio-politiche, ma includeva anche alcune domande in merito alla religione: «Quanto spesso frequenta
servizi religiosi?», «Qual è la sua religione al momento?»,
«Quanto si considera religioso?», e «Si considera un conservatore dal punto di vista religioso?».
La Tabella 2.2 riassume le risposte a seconda dei diversi campi scientifici. Due riscontri piuttosto sorprendenti sfidano le pretese di incompatibilità fra religione e scienza. Per prima cosa, i livelli di religiosità sono relativamente elevati. In secondo luogo,
258
A GLORIA DI DIO
gli studiosi di scienze sociali sono notevolmente meno religiosi
di coloro che si occupano di settori che potrebbero essere considerati più avanzati dal punto di vista scientifico.
Tabella 2.2 Religiosità a seconda del settore scientifico
Fonte: Calcoli tratti dal Carnagie Commission Survey condotto su 60.028
professori universitari, 1969.
In gran parte dei campi di studio, una maggioranza si ritiene
religiosa, moderatamente o profondamente – soltanto fra gli studiosi di scienze sociali si tratta di una minoranza (45%). Inoltre,
gli scienziati non si limitano a una fede tiepida – il 40% dei professori universitari di matematica e statistica si descrive come
«conservatore» in tema di religione, così come il 34% degli studiosi di scienze fisiche e il 36% di quelli di scienze naturali. Per
di più, gli scienziati frequentano le chiese con gli stessi livelli di
regolarità della popolazione generale – il 47% dei matematici e
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
259
degli statistici dice di frequentare servizi religiosi due o tre volte
al mese, o più spesso, così come il 43% dei professori di scienze
fisiche e il 42% di quelli di scienze naturali. Il General Social Survey del 1973 (solamente di quattro anni successivo a questo), riscontrò che il 44% degli americani frequentava servizi religiosi
almeno due o tre volte al mese. Gli scienziati, tuttavia, mostrano
una percentuale leggermente superiore rispetto a quella di chi,
fra la popolazione generale, dichiara di non frequentare nessuna
chiesa – circa un terzo nella maggior parte dei settori scientifici e
quasi la metà in quelli delle scienze sociali, in confronto a un 21%
della popolazione in generale. In aggiunta, gli scienziati superano la popolazione in generale nella percentuale di chi afferma di
non aver «nessuna» preferenza religiosa. Ciò nonostante, al di
fuori del campo delle scienze sociali, solo uno su quattro ha dato questo tipo di risposta.
Eppure, la scoperta forse più straordinaria è che per ognuna
di queste misurazioni, i professori che si occupano di scienze
più «rigorose» si rivelano molto più religiosi delle loro controparti di scienze più «morbide», come le scienze sociali: frequentano la chiesa con maggiore regolarità, hanno una più elevata
probabilità di descriversi come «profondamente» o «moderatamente» religiosi e di dichiararsi «conservatori», oltre che di rivendicare un’affiliazione religiosa. Questo tipo di schema non è
evidente solamente nelle semplici misure riportate in tabella,
ma anche nelle regressioni complesse: le differenze fra le scienze sociali e le scienze naturali e fisiche sono estremamente forti
e resistono a controlli per caratteristiche individuali quali età,
sesso, razza, o educazione religiosa. Inoltre, queste differenze
fra le aree scientifiche sono state confermate anche dai sondaggi su altri campioni di professori di college (Leuba [1916] 1921 e
1934; Thalheimer 1973), e persino di gruppi di studenti universitari (Feldman, Newcomb 1970). Inoltre, Steven Bird ha scoperto che gli studenti di scuola superiore con affiliazioni «fondamentaliste» non avevano meno probabilità degli altri di dichiarare di avere fratelli maggiori impegnati in studi scientifici al
college (Bird 1993). E dati di natura longitudinale dimostrano
260
A GLORIA DI DIO
che professori e studenti non diventano meno religiosi man mano che avanzano nella loro carriera scientifica; anzi, gli iscritti a
scienze sociali sono meno religiosi della popolazione in generale ancor prima di entrare al college e alle scuole di specializzazione (Wuthnow 1985, p. 191).
Nella Tabella 2.2, poi, le scienze sociali sono suddivise in campi specifici. Qui, possiamo notare un’altra caratteristica: sono soprattutto le facoltà di psicologia e antropologia a ergersi come
vette dello scetticismo. Le altre scienze sociali sono relativamente non religiose, mentre queste due sono dei veri casi isolati. Gli
psicologi e gli antropologi, rispetto agli scienziati, hanno quasi il
doppio di probabilità di non frequentare una chiesa, di non definirsi persone religiose, e di dichiarare di non seguire nessuna religione. Tali differenze sono così grandi che difficilmente si può
ipotizzare che non abbiano nessuna influenza su linguaggio,
istruzione e ricerca nei rispettivi campi. Anzi, al contrario, i dati
gettano luce sul motivo per cui sia così diffusa la convinzione
che scienza e religione siano incompatibili: quasi tutto ciò che è
stato scritto sull’argomento nel corso del XX secolo è opera di
non-scienziati, o di studiosi di scienze sociali. Sarebbe difficile
immaginare di trovare la seguente citazione in un libro di testo
per studenti universitari di fisica o chimica: «Il futuro evoluzionistico della religione è l’estinzione. […] La fede in forze soprannaturali è destinata a svanire, in tutto il mondo, come risultato
della sempre maggiore adeguatezza e diffusione della conoscenza scientifica». (Wallace 1966, p. 265)
Eppure, non vi furono sopracciglia alzate in segno di sorpresa quando queste parole apparvero in un manuale per studenti universitari scritto dall’illustre antropologo Anthony F. C.
Wallace.
Questo contrasto fra scienze sociali e scienze fisiche è ben illustrato dal seguente aneddoto. Nel 1940, A. S. Yahuda, il professore di Yale che aveva acquistato la raccolta di manoscritti di
Newton che oggi si trova a Gerusalemme, propose a George Sarton di mostrargli le opere teologiche di Newton. L’illustre storico di Harvard declinò l’offerta in maniera piuttosto sgarbata, so-
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
261
stenendo di essere interessato solamente alla scienza 25. Ma quando Yahuda mostrò i manoscritti ad Albert Einstein, questi li trovò
affascinanti e scrisse una lettera nella quale esprimeva la sua
gioia nell’esaminare «il laboratorio spirituale» di Newton (Manuel 1974, p. 27). Einstein era piuttosto incline al «parlare di Dio»
(Regis 1987, p. 24). Nel 1911, disse al filosofo ebreo Martin Buber:
«Ciò a cui noi [fisici] aspiriamo è proprio tracciare le Sue linee
dopo di Lui». Nel 1921 disse a un giovane fisico: «Io voglio scoprire come Dio ha creato questo mondo. […] Voglio conoscere i
Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Inoltre, sono divenute famose due delle affermazioni che faceva spesso in merito a Dio:
«Dio è sottile, ma non malizioso», e «Dio non gioca a dadi con il
mondo» (Clark 1971, pp. 18-19; Regis 1987, p. 24). Benché alcuni
biografi di Einstein neghino che il suo uso della parola «Dio» abbia delle implicazioni religiose (Clark 1971; Snow 1968), non c’è
bisogno che qui si approfondisca tale questione. Quello che mi
interessa è solo sottolineare come queste espressioni non facessero sollevare nessun sopracciglio, né lo fanno ora, nel mondo
della fisica e delle scienze naturali, mentre qualsiasi studioso di
scienze sociali che parlasse in questo modo verrebbe stigmatizzato dai colleghi. E questo è il probabile motivo per cui i sociologi della scienza continuano a seguire l’esempio di Sarton. Non
solo non sono interessati alla religiosità di Newton o Einstein,
ma hanno anche mostrato poco o nessun interesse per il grande
revival di simili discorsi nei circoli scientifici.
Il 20 luglio 1998, la copertina di «Newsweek» proclamò:
«La scienza scopre Dio». Dati i presupposti che hanno governato le opinioni intellettuali su scienza e religione per la maggior parte del secolo, la scoperta che molti sofisticati scienziati credano che la figura di un Creatore offra la spiegazione più
semplice e più convincente di come è nato il mondo, è una notizia degna di una copertina. Eppure, non si può certo dire che
sia stata una scoperta improvvisa. Una pietra miliare nella ripresa di un dialogo serio fra scienza e teologia fu il libro di Ian
Barbour, Issues in Science and Religion (1966). Da quel punto in
poi, gli importanti tentativi (soprattutto da parte di scienziati)
262
A GLORIA DI DIO
di combinare religione e scienza, come God and the New Physics
(Davies 1983; ed. it. Dio e la nuova fisica, 1984), hanno attratto
un vasto pubblico di lettori. Inoltre, questi sviluppi possono
essere interpretati come un ritorno al rapporto tradizionale fra
teologia e scienza. Le nuove e brillanti opere di teologi come
John Polkinghorne (1998; ed. it Credere in Dio nell’età della scienza, 2000), unico membro ecclesiastico della Royal Society di
Londra, seguono la tradizione della teologia naturale – come
riconosce pienamente lo stesso Polkinghorne. Allo stesso modo, i tentativi di scienziati come il premio Nobel per la fisica
Charles Townes di dimostrare che Dio è un fattore necessario
in qualsiasi spiegazione esauriente dell’universo (Townes
1995), sono del tutto allineati a una lunga tradizione, quella
stessa tradizione che la crociata darwiniana ha cercato di interrompere. Potremmo persino dire che questo rinnovato rapporto sia un ritorno alla «normalità» se ammettiamo che avesse ragione Albert Einstein nell’affermare: «La scienza senza la
religione è zoppa. La religione senza la scienza è cieca» (Einstein 1954, p. 46).
Non voglio sostenere che gli scienziati debbano includere
Dio all’interno delle loro cosmologie, né che i non credenti non
siano in grado di fare buona scienza. Piuttosto, sostengo che religione e scienza siano compatibili, e che le origini della scienza risiedano nella teologia.
Conclusione
Nonostante la sua lunghezza, questo capitolo ruota intorno a
due punti essenziali. Il primo è che la scienza nacque una volta
sola nella storia – nell’Europa medievale. Il secondo è che la
scienza poteva nascere solamente in una cultura dominata dalla
fede in un Creatore dotato di consapevolezza, razionale e onnipotente. Dunque, si potrebbe dire che la nascita della scienza richiese un Undicesimo Comandamento: «Dedicatevi alla conoscenza della mia opera».
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
263
Come osservò Theodor K. Rabb (1975, p. 274), «il caso Serveto appare irrilevante nella discussione dell’opposizione protestante alla scienza, poiché di sicuro nessuno ha messo in dubbio che sia Calvino sia coloro che
guidarono la protesta […] fossero interessati solo alla punizione dell’eresia dottrinale. Ipotizzare un’altra questione significa travisare la realtà».
2
Nel numero del suo cinquantennale, pubblicato nel settembre 1998, «Archaeology» riportava un lungo articolo intitolato I secoli non proprio bui, nel
quale si sintetizzavano le scoperte basate su un numero rilevante di scavi,
che dimostravano come quest’epoca fosse molto più civilizzata di quanto
avessero ammesso le generazioni precedenti, e si confermava la rivalutazione storica che conferisce a quest’epoca il merito di aver gettato «le fondamenta della cultura europea moderna» (Hodges 1998, p. 61).
3
Mi è stato insegnato che quando Giulio Cesare conquistò la Britannia, i
nativi erano semiselvaggi che si dipingevano di blu. Eppure, gli stessi racconti di Cesare rivelano che dovette combattere e vincere una lunga e difficile battaglia navale per attraversare la Manica. Un popolo con una marina capace di sfidare i romani difficilmente poteva essere selvaggio.
4
Film e racconti sui «ladri di cadaveri» spesso suggeriscono che questa nefanda attività fosse necessaria a causa del divieto di dissezione. In realtà,
i furti di cadaveri si sono verificati in diversi tempi e luoghi, ma non perché fosse proibita la dissezione dei corpi umani, quanto per la scarsità dei
corpi. Le famiglie erano restie a concedere i loro cari a un trattamento irrispettoso, o a rinunciare al conforto delle visite a un luogo di sepoltura.
5
Il passo citato dall’opera di Russell continua così: «Senza dubbio, se i cinesi riuscissero a instaurare un governo stabile e a stanziare fondi sufficienti, nell’arco dei prossimi trent’anni comincerebbero a fare un lavoro notevole in ambito scientifico. Anzi, è molto probabile che ci supererebbero».
6
Data l’ossessione di Merton per le questioni di priorità, trovo molto bizzarro il fatto che non abbia mai riconosciuto la portata del proprio debito nei confronti di Dorothy Stimson e della sua precedente pubblicazione
sul rapporto fra puritanesimo e nascita della scienza. Potrebbe anche darsi che egli abbia scritto la sua tesi senza conoscere il precedente lavoro
della Stimson. Ma, per tutte le ragioni che avanza nei suoi scritti sulla
priorità, avrebbe dovuto parlarne con chiarezza al momento della pubblicazione del 1938, oppure nelle successive ristampe degli estratti chiave della sua tesi. Una discussione molto tardiva di tale questione da parte di Bernard Cohen, uno dei più grandi ammiratori di Merton, non si dimostra particolarmente illuminante a proposito (in Clark, Modgil, Modgil 1990). Alcuni storici oggi attribuiscono congiuntamente la tesi sia a
1
264
A GLORIA DI DIO
Merton sia alla Stimson, senza nessuna menzione di precedenza (si veda
Hunter 1982; Shapiro 1968). Tuttavia, dal momento che questi stessi storici rifiutano questa tesi, la cosa è divenuta quasi una disputa insignificante tanto quanto quella su chi sia stato a formulare per primo la teoria
del flogisto.
7
Le tesi di Merton si richiamavano con forza alle accuse anticattoliche dell’epoca. Si trattava di un’era di feroce anticattolicesimo. Anzi, è stato detto
che l’anticattolicesimo di allora fu l’antisemitismo degli intellettuali liberali. Un forte anticattolicesimo era comune anche in riviste e giornali rispettabili degli anni ’30 – e la cosa si protrasse fino agli anni ’60.
8
Diversamente, il Random House Webster’s Dictionary of Scientist, oltre a
ostentare tutti i peccati del politicamente corretto, banalizza la parola
«scienziato» includendo moltissime voci come «Fixx, James 1932-1984. Divulgatore statunitense dello jogging».
9
Alcuni storici hanno tentato di classificare Pierre Gassendi come uno
scettico, nonostante il fatto che fosse un sacerdote cattolico. Ciò sembra
del tutto infondato, come ha dimostrato in modo convincente Sylvia Murr
(1993).
10
Ironicamente, parte dei problemi di Galileo derivò dai rinnovati sforzi di
contrastare gli astrologi, le cui pretese di previsione del futuro erano state
denunciate da molto tempo come pericolose superstizioni (capitolo 3). Alcuni uomini della Chiesa erroneamente equipararono l’affermazione che
la Terra si muovesse alle dottrine secondo cui il fato era governato dal moto dei corpi celesti.
11
Burckhardt fu anche il primo a sostenere che la conversione di Costantino fosse falsa e dovuta solamente alla sua sete di potere. Per fortuna, gli
storici successivi hanno rifiutato questa tesi, ma devono ancora scoprire i
pregiudizi presenti nel suo studio sul Rinascimento.
12
Prima di morire, Newton distrusse una vasta raccolta di documenti. Copiò
poi molti dei manoscritti che aveva salvato con cura, come facevano gli autori dell’epoca quando volevano dare allo stampatore un manoscritto chiaro.
13
A esse si aggiunge l’importantissima collezione dei manoscritti scientifici di Newton custodita a Oxford e la collezione dei Babson College Archives, a Wellesley, nel Massachusetts.
14
Negli ultimi quattro decenni, i manoscritti e le annotazioni di natura teologica, alchemica, astrologica ed esoterica di Newton sono stati studiati
con grande attenzione, e numerosi sono stati pubblicati – anche se ne mancano ancora molti (cfr. Castillejo 1981; Dobbs 1975 e 1991; Hall e Hall 1962;
McLachlan 1950).
L’OPERA DI DIO: LE ORIGINI RELIGIOSE DELLA SCIENZA
265
Diversi colleghi mi hanno avvertito che criticare la teoria dell’evoluzione avrebbe potuto danneggiare la mia «carriera», il che non ha fatto altro
che rafforzare la mia determinazione a non sopportare più questo oscurantismo arrogante.
16
Alcuni potrebbero obiettare che esistono rare eccezioni, come l’incrocio
di un cavallo e di un asino, che genera un mulo. Ma, come avviene esattamente nel caso dei muli, la prole generata da questi incroci è costituita
da ibridi sterili.
17
E qui do una possibilità ai darwinisti ortodossi e neo-ortodossi, dal momento che non sono stati in grado di definire questo essere adatti se non
in termini di un tasso di riproduttività più elevato, rendendo così tautologica la teoria: quelli che si riproducono con percentuali più elevate si riprodurranno con percentuali più elevate.
18
Il termine si applica a tutti gli studi evoluzionisti basati sulla genetica
mendeliana.
19
Si tratta di una sorta di strumento magico, un gancio attaccato a un cavo
che si spinge nel cielo ed è in grado di sollevare e abbassare dei pesi senza essere collegato a una gru o ad altro mezzo meccanico. Quando ero nell’esercito, il termine era di uso comune in espressioni come: «A meno che
il cappellano non preghi fino a farci scendere un gancio dal cielo, non riusciremo mai a far alzare quel babbeo».
20
Indicativo del carattere a-scientifico della crociata darwiniana, Carl Sagan (1975, p. 82), disse che il fatto che «il tempo disponibile per l’origine
della vita sembra essere stato breve, al massimo poche centinaia di milioni di anni» era una prova a sostegno della prospettiva per cui l’evoluzione deve essere molto più veloce e statisticamente molto più probabile di
quanto avevamo pensato.
21
Dawkins (1986) «risolve» questo problema introducendo un non identificato editor che permette alla scimmia di sapere ogni volta se ha messo la
lettera corretta nel punto corretto, fornendo così un rapido completamento delle frasi. Trovo questa cosa rilevante, poiché Dawkins si guadagna da
vivere essenzialmente con il suo ateismo, mentre un qualsiasi creazionista
istruito abbraccerebbe volentieri questa sua versione di evoluzione «con
una regia».
22
Un sondaggio condotto fra gli studenti di cinque scuole di teologia americane protestanti alla fine degli anni ’20, rilevò che il 94% era d’accordo con
l’affermazione che «l’idea dell’evoluzione è coerente con la fede in Dio in
quanto Creatore», e solamente un 5% diceva «che la creazione del mondo è
avvenuta secondo i modi e i tempi documentati dalla Genesi» (Betts 1929).
15
266
A GLORIA DI DIO
Il fatto che venga ricordata è dovuto alla sua inclusione in una nota marginale di alcune edizioni della Bibbia di Re Giacomo.
24
Un campione trasversale di ministri protestanti di Chicago, alla fine degli anni ’20, rivelò che, benché tutti dichiarassero la propria convinzione
che «Dio esiste», solo il 64% diceva che «la preghiera ha il potere di cambiare le situazioni in natura». Nello stesso studio si interrogavano anche
degli studenti di cinque scuole teologiche, dei quali solo il 21% concordava con l’affermazione sulla preghiera (Betts 1929). In un sondaggio a
campione sul clero protestante nella California del 1968, solo il 45% dei
pastori della Chiesa Unita di Cristo era d’accordo con l’affermazione: «So
che Dio esiste e non ho alcun dubbio a proposito» (Stark et al 1971); del
clero metodista, era d’accordo un 52%. Si noti che questa affermazione è
molto meno rigorosa di quella proposta da Leuba, dal momento che il
clero era libero di definire Dio come preferiva. Dato che la maggioranza
di questo stesso clero dubitava della divinità di Gesù, si deve supporre
che molti di questi religiosi dichiarassero una fede in una concezione di
Dio piuttosto remota e vaga, non di certo un Dio che possa ascoltare e rispondere alla preghiera.
25
La cosa non sorprende poiché Sarton rimase un fedele sostenitore di A.
D. White e della convinzione che la religione sia la nemica naturale della
scienza (si veda Sarton 1955).
23
Appendice 2.1
Ruolino di stelle della scienza
Devozione personale
Bayer Johann (1572-1625)
Borelli Giovanni (1608-1679)
Boyle Robert (1627-1691)
Brahe Tycho (1546-1601)
Briggs Henry (1561-1630)
Cartesio René (1596-1650)
Cassini Giovanni (1625-1712)
Copernico Nicolò (1473-1543) *
Fabricius David (1564-1617) *
Falloppio Gabriele (1523-1562)
Fermat Pierre (1601-1665)
Flamsteed John (1646-1719)
Galilei Galileo (1564-1642)
Gassendi Pierre (1592-1655) *
Gellibrand Henry (1597-1663)
Gilbert William (1540-1603)
Graaf Regnier de (1641-1673)
Grew Nehemiah (1641-1712)
Grimaldi Francesco (1618-1663) *
Guericke Otto (1602-1686)
Halley Edmund (1656-1742)
Harvey William (1578-1657)
Devoto
Convenzionale
Devoto
Convenzionale
Devoto
Devoto
Convenzionale
Convenzionale
Devoto
Devoto
Convenzionale
Devoto
Convenzionale
Devoto
Devoto
Convenzionale
Convenzionale
Devoto
Devoto
Convenzionale
Scettico
Convenzionale
268
Helmont Jan Baptista van (1577-1644)
Hevelius Johannes (1611-1687)
Hooke Robert (1635-1703)
Horrocks Jeremiah (1619-1641) *
Huygens Christiaan (1629-1695)
Keplero Giovanni (1571-1630)
Kircher Athanasius (1601-1680) *
Leeuwenhoek Anton (1632-1723)
Leibniz Gottfried (1646-1716)
Malpighi Marcello (1628-1694)
Mariotte Edme (1620-1684) *
Mersenne Marin (1588-1648) *
Napier John (1550-1617)
Newton Isacco (1642-1727)
Oughtred William (1575-1660) *
Papin Denis (1647-1712)
Paracelso (1493-1541)
Pascal Blaise (1623-1662) *
Picard Jean (1620-1682) *
Ray John (1628-1705) *
Riccioli Giovanni (1598-1671)
Roemer Olaus (1644-1710)
Scheiner Christoph (1575-1650) *
Snell Willebrord (1591-1626)
Steno Nicolaus (1638-1686) *
Stevinus Simon (1548-1620)
Torricelli Evangelista (1606-1647)
Vesalius Andreas (1514-1564)
Vieta Franciscus (1540-1603)
Wallis John (1616-1703) *
A GLORIA DI DIO
Devoto
Convenzionale
Devoto
Devoto
Devoto
Devoto
Devoto
Convenzionale
Devoto
Convenzionale
Devoto
Devoto
Devoto
Devoto
Devoto
Devoto
Scettico
Devoto
Devoto
Devoto
Devoto
Convenzionale
Devoto
Convenzionale
Devoto
Convenzionale
Convenzionale
Devoto
Convenzionale
Devoto
* Ecclesiastici (sacerdoti, monaci, frati, ministri del culto, canonici ecc.).
Il corsivo indica un protestante.
Capitolo 3
I Nemici di Dio: una spiegazione della caccia
alle streghe in Europa
L’estremo razionalismo può essere definito come il
fallimento della ragione nel comprendere se stessa.
Abraham Joshua Heschel
Per secoli, quasi tutti gli europei istruiti hanno creduto che le
loro società fossero vittime di un terribile movimento clandestino di «streghe», che avevano giurato fedeltà a Satana e che gioivano nell’infliggere sofferenza, morte e distruzione al prossimo.
La reale esistenza di queste malfattrici era certa al di là di ogni
dubbio, essendo stata confessata con dettagli elaborati e coerenti da migliaia di «streghe» portate davanti alla giustizia in molti
luoghi diversi.
Questi racconti fatti sotto giuramento dipingevano un quadro terribile di un diavolo, male assoluto, alla ricerca di prede.
A tutte le «streghe» veniva chiesto di partecipare regolarmente a degli incontri in cui avvenivano i crimini più stravaganti e
immorali immaginabili. Gli incontri più frequenti erano i sabba (o sabbath), nei quali le «streghe» degli immediati dintorni
si riunivano, solitamente il venerdì notte, in luoghi come cimiteri nei pressi di chiese e nelle vicinanze di prigioni. La riunione iniziava con le partecipanti che recitavano delle preghiere al
Diavolo, il quale era presente – a volte in forma umana, a volte come orribile creatura dotata di corna. Dopo aver riaffermato la rinuncia a Cristo, ognuna delle «streghe» baciava il Diavolo, di solito nell’ano. A questa cerimonia seguiva un ban-