IL FATTORE UMANO Governance globale e migrazioni

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IL FATTORE UMANO Governance globale e migrazioni
IL FATTORE UMANO
Governance globale e migrazioni *
Ferruccio Pastore (CeSPI)
- Maggio 2001 -
1. Globalizzazione e migrazioni: cosa sta cambiando?
Il nesso comunemente percepito tra globalizzazione e migrazioni, per quanto senza dubbio
esistente, deve essere relativizzato e storicizzato. Preliminarmente, tuttavia, va ribadito che la
globalizzazione - di cui, nella maggior parte dei casi, le migrazioni sono, al contempo, sintomo e
conseguenza - non è, come vorrebbero alcuni, un evento o un fenomeno inedito, che
caratterizzerebbe la contemporaneità a partire dall’ultimo decennio del XX° secolo; si tratta, più
propriamente, di una tendenza che si esprime, con andamento altalenante, lungo gli ultimi secoli
della storia umana1 . Il sociologo statunitense Douglas Massey, per esempio, individua, nell'arco
degli ultimi due secoli, due successive "ondate" di globalizzazione (dal 1870 allo scoppio della I
Guerra Mondiale; dalla fine della Guerra Fredda ad oggi) che si manifestano anche attraverso
un'intensificazione dei movimenti internazionali di popolazione. Dal punto di vista strettamente
migratorio, la "vecchia" e la "nuova" globalizzazione hanno numerosi punti in comune:
"… i flussi internazionali di beni, capitali e informazioni sono accompagnati da movimenti migratori
crescenti e [in entrambe le fasi] l'emigrazione ha le sue radici nelle trasformazioni strutturali che
conseguono all'incorporazione del paese di origine nell'economia di mercato globale. Con il passare
del tempo, si forma un complesso sistema di reti relazionali e di istituzioni informali, che sostiene i
flussi migratori e facilita la mobilità internazionale"2 .
Ma, come sottolinea ancora Massey, tra le due macro-fasi esiste una differenza decisiva:
"La differenza principale tra la fase attuale di globalizzazione e quella precedente è che oggi gli Stati
economicamente più forti sono fortemente impegnati al fine di controllare e limitare i movimenti
internazionali di popolazione. Prima del 1914, invece, non esistevano praticamente controlli. Sebbene
gli Stati Uniti, il Canada, l'Unione europea e il Giappone si adoperino attivamente al fine di assicurare
una maggiore apertura dei mercati globali di beni, capitali, materie prime, terreni, servizi e
informazioni, sono riluttanti ad accettare un libero flusso di lavoratori attraverso i confini nazionali"3 .
Se, dunque, un legame tra processi di globalizzazione e migrazioni sembra esistere, non si tratta
però di una correlazione stabile e univoca, come troppo spesso si tende a pensare. Basti pensare alle
migrazioni abitualmente definite "forzate" (e, specialmente, a quelle provocate da conflitti o da
violazioni gravi e diffuse dei diritti umani fondamentali), le quali tendono spesso a verificarsi
proprio in fasi che potremmo definire di "de-globalizzazione", ossia di chiusura nazionalistica
Di prossima pubblicazione in: P. Annunziato-A. Calabrò-L. Caracciolo (a cura di), Governance della globalizzazione,
2001.
1
Per una definizione del concetto di “globalizzazione”, vd. … in questo volume.
2
D. S. Massey, Immigration and Globalization: Policies for a New Century, paper presentato al convegno
internazionale "Migrazioni. Scenari per il XXI secolo", Agenzia Romana per la Preparazione del Giubileo, Roma, 12-14
luglio 2000, p. 3. Il paper è disponibile sul sito www.romagiubileo.migrazioni.it. In questo caso, come nel resto del
testo, la traduzione dei testi stranieri non pubblicati in italiano è a cura dell'autore.
3
Ibidem.
*
1
(oppure operata su base etnica, religiosa, o di altra natura) e riduzione delle interazioni pacifiche tra
società ed economie nazionali.
La questione da cui è utile partire, allora, non è se esista un nesso tra globalizzazione e migrazioni,
ma piuttosto come cambino i processi migratori internazionali nella fase attuale di globalizzazione.
Da questo punto di vista, va innanzitutto rilevato che, nel corso degli ultimi decenni, gli stock di
popolazione immigrata (o emigrata, se ci poniamo nella prospettiva delle società di provenienza)
sono aumentati notevolmente in termini assoluti, ma molto poco in termini relativi (in quanto %
della popolazione mondiale):
Stock di popolazione immigrata nel mondo (1965-1990)4
Numeri assoluti (migliaia)
% popolazione totale
1965
1975
1985
1990
1965
1975
Mondo
75.214
84.494
105.194
119.7615 2,3
2,1
Paesi
30.401
38.317
47.991
54.231
3,1
3,5
industriali
zzati
PVS
44.813
46.177
57.203
65.530
1,9
1,6
1985
2,2
4,1
1990
2,3
4,5
1,6
1,6
La relativa stazionarietà della quota di immigrati sulla popolazione mondiale porta alcuni autori ad
escludere del tutto che, in termini quantitativi, si possa parlare di globalizzazione delle migrazioni:
"L'approccio descrittivo […], basato sulle statistiche disponibili, ha dimostrato che le affermazioni
sulla globalizzazione delle migrazioni internazionali sono infondate. Negli ultimi tre decenni, le
migrazioni non sono cresciute in misura paragonabile al commercio di beni e servizi, e ai flussi di
capitali"6 .
Ma da un punto di vista diverso, di tipo insieme strutturale e qualitativo, l'influenza del processo di
globalizzazione sui fenomeni migratori appare difficilmente contestabile.
Sul piano che abbiamo definito strutturale, si osserva una crescente complessità della geografia
globale delle migrazioni: secondo l'Organizzazione internazionale per il lavoro (OIL), tra il 1970 e
il 1990, gli Stati che si possono qualificare come “importanti paesi di immigrazione” (major
receivers) sono passati da 39 a 67, mentre quelli qualificabili come “importanti paesi di
emigrazione” (major senders) sono aumentati da 29 a 55; inoltre, è particolarmente interessante
sottolineare la forte crescita del peso relativo di una terza categoria di paesi, quelli che sono nel
contempo importanti paesi di emigrazione e di immigrazione, i quali nel corso dei due decenni
considerati sono aumentati da 4 a 157 .
Anche da un punto di vista sociologico qualitativo si riscontrano novità di rilievo, in parte
riconducibili all’intensificazione e alla complessiva facilitazione degli scambi di ogni natura tra
Fonte: H. Zlotnik, The Dimensions of International Migration, paper presentato al “Technical Symposium on
International Migration and Development”, United Nations ACC Task Force on Basic Social Services for All, L’Aia,
1998, cit. in P. Stalker, Workers Without Frontiers. The Impact of Globalization on International Migration,
International Labour Organization, Lynne Rienner, Boulder (Colorado) - London, 2000, p. 7.
5
Attualmente, il numero complessivo dei migranti internazionali nel mondo è stimato pari a 150 milioni. Cfr.
Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – Nazioni Unite, World Migration Report 2000, United Nations
Publication, 2000, p. 5. Si tratta però di una stima estremamente approssimativa, basata su statistiche incomplete e
spesso poco omogenee.
6
G. Tapinos – D. Delaunay, Can one really talk of the globalisation of migration flows?, in Organisation for Economic
Cooperation and Development (OECD), «Globalisation, migration and development», Parigi, 2000, p. 45. I dati su cui
si basano Tapinos e Delaunay sono in parte diversi da quelli inclusi nella tabella riportata nel testo. Simili divergenze,
che dipendono dalla estrema complessità dei problemi di rilevazione statistica dei fenomeni migratori su scala
internazionale, sono probabilmente ineliminabili. In ogni caso, in questa sede, ciò che interessa è esclusivamente fornire
alcuni ordini di grandezza e qualche spunto interpretativo per orientare la successiva riflessione incentrata sulle
politiche e sui problemi di governance internazionale in materia migratoria.
7
Ibidem, p. 7.
4
2
entità nazionali, che caratterizza le fasi di intensa globalizzazione. Salvo alcune categorie particolari
(come, generalmente, i rifugiati) la migrazione non è più un evento che si compie una volta per tutte
con l'addio al paese natìo, segnando una svolta radicale e definitiva nella biografia del migrante8 .
Sempre più spesso, la migrazione si presenta oggettivamente (ed è percepita soggettivamente dal
migrante) come un processo aperto e reversibile:
"La natura delle migrazioni internazionali è cambiata. I migranti odierni possono spostarsi avanti e
indietro molto più facilmente e rapidamente, rimanendo in contatto regolare con i luoghi e le famiglie
d'origine, anche se queste si trovano all'altro capo del mondo. Di conseguenza, i flussi sono molto più
diversificati e complessi"9 .
In questo quadro in evoluzione, la dimensione transnazionale (cioè quella relativa allo spazio
geografico, culturale, economico posto a cavallo tra il paese d'origine e quello di destinazione)
acquista una rilevanza crescente, anche ai fini dell'elaborazione delle politiche migratorie10 .
2. La lotta alle migrazioni irregolari: interesse occidentale o priorità globale?
A partire dagli anni Ottanta - in gran parte del mondo sviluppato, ma specialmente in Europa – le
migrazioni irregolari e clandestine si sono venute configurando, nella cultura politica dominante,
come una "minaccia" all'ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini11 . La lotta a tale fenomeno si è
quindi progressivamente imposta come una priorità politica centrale, dapprima a livello interno, poi
- man mano che si diffondeva la consapevolezza dell'insufficienza di un'azione di prevenzione e di
contrasto limitata all'ambito nazionale - a livello internazionale.
In Europa occidentale, l'obiettivo di combattere una sensibile crescita dell'immigrazione
clandestina12 ha avuto un ruolo trainante rispetto alla cooperazione europea sul terreno denominato
8
Quelle che esponiamo nel testo sono considerazioni di carattere generale, basate su una valutazione d'insieme. Sarebbe
sbagliato, tuttavia, enfatizzare la contrapposizione tra migrazioni “vecchie” (“lineari” e definitive) e “nuove”
(“circolari” e temporanee). Anche nel caso delle migrazioni transoceaniche dall'Europa verso il "Nuovo Mondo", a
cavallo tra il XIX° e il XX° secolo, alcuni vincoli con il paese d'origine sono sopravvissuti a lungo e si sono verificati
numerosi ritorni in patria. Sui 25,8 milioni di italiani emigrati tra il 1876 e il 1976, ne sono tornati in patria 8,5 milioni
(il dato riguarda solo i rimpatri successivi al 1905; per il periodo precedente mancano rilevazioni ufficiali). Cfr. G.
Rosoli, a cura di, Un secolo di emigrazione italiana – 1876-1976, Centro Studi Emigrazione, Roma, 1978, pp. 11-12.
9
P. Stalker, op. cit., p. 7.
10
Quando la transnazionalità come categoria del discorso politico ha cominciato a precisarsi, all’inizio degli anni
Novanta, essa era interpretata prevalentemente come una minaccia alla sovranità degli Stati nazionali:
"In un mondo in cui lo Stato ha la pretesa di essere attore esclusivo e sovrano sulla scena internazionale, il fenomeno
migratorio è fonte di disturbo e di anomia. Esso, infatti, realizzandosi a prescindere dagli Stati, o addirittura aggirandoli,
contribuisce a disgregare le appartenenze nazionali, a sfidare le politiche pubbliche, a creare degli spazi sottratti al
controllo politico e, in fin dei conti, a trasformare l'individuo, o reti di individui, in micro-attori sovrani nel gioco
internazionale" (B. Badie, Flux migratoires et relations transnationales, in B. Badie, C. Wihtol de Wenden, «Le défi
migratoire. Questions de relations internationales», Presse de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Parigi,
1994, p. 27). Oggi, la transnazionalità crescente dei processi migratori comincia ad essere interpretata dai decisori
politici, almeno a livello programmatico, come fonte di opportunità; ci riferiamo, in particolare, alla funzione
economica delle rimesse e al ruolo potenziale dei migranti nello sviluppo dei paesi d’origine.
11
Questa tendenza costituisce ormai l’oggetto di una letteratura piuttosto ampia; si veda, per esempio: O. Weaver, B.
Buzan, M. Keistrup, P. Lemaitre, Identity, Migration and the New Security Agenda in Euro pe, Pinter, Londra, 1993; J.
Huysmans, Migrants as a Security Problem: Dangers of ‘Securitizing’ Societal Issues, in R. Miles, D. Tränhardt, a cura
di, «Migration and European Integration: the Dynamics of Inclusion and Exclusion», Pinter, Londra, 1995; D. Bigo,
L’immigration à la croisée des chemins sécuritaires, in «Revue Européenne des Migrations Internationales», 1998 (14)
1, p. 25 ss.; A. Ceyhan, Migrants as a Threat: a Comparative Analysis of Securitarian Discourse: France and the
United States, in V. Gray, a cura di, «A European Dilemma. Immigration, Citizenship and Identity in Western Europe»,
Bergham Books, Oxford, 1999.
12
L’ultimo decennio del XX° secolo è stato definito, dal punto di vista della storia delle migrazioni verso l’Europa,
come “il decennio delle migrazioni irregolari” (Eurostat, Patterns and Trends in International Migration in Western
Europe, studio a cura di J. Salt, J. Clark, S. Schmidt, Office for Official Publications of the European Communities,
3
"Giustizia e affari interni" (GAI). Questo settore è stato, nel corso degli anni Novanta, uno di quelli
in cui il processo di integrazione ha compiuto i passi avanti più significativi (dapprima con la firma
degli accordi di Schengen [1985 e 1990], poi con la istituzione del "terzo pilastro" UE [1992],
infine con la "comunitarizzazione" delle politiche in materia di immigrazione e asilo, decisa ad
Amsterdam nel 1997). Oggi, grazie all’impulso politico fornito dal Consiglio europeo straordinario
di Tampere (ottobre 1999) e all’attivismo della Commissione europea in questo campo, il settore
GAI appare come “l'ambito di elaborazione politica che si sta sviluppando più rapidamente
all'interno dell'Unione europea”13 .
Questi sviluppi hanno innescato una profonda evoluzione nel settore delle politiche di controllo
migratorio, non solo in Europa, ma in tutto il mondo sviluppato. In tutti i principali bacini di
immigrazione, i sistemi di controllo migratorio hanno subito trasformazioni strutturali, che si
possono ricondurre ad alcune linee di tendenza fondamentali14 :
a) Espansione in termini di organico e crescita dei costi connessi alle politiche di controllo delle
frontiere. Nel caso europeo, è estremamente difficile fornire stime aggregate, anche approssimative,
dell'onere che questo settore produce per le finanze pubbliche. Nel caso statunitense, invece, la
tendenza alla crescita è chiaramente documentata; tra il 1993 e il 1999, il bilancio dell'Immigration
and Naturalization Service (INS) è cresciuto da 1,5 a 4 miliardi di dollari.
b) Armonizzazione, a livello tecnico, dei sistemi di controllo migratorio nazionali, con una rapida
diffusione delle best practices e delle tecnologie più avanzate utilizzate nella lotta all'immigrazione
clandestina (radar; "biosonde"; tecniche di individuazione del falso documentale; sistemi
informatici per la schedatura e il confronto delle impronte digitali; etc.).
c) Su scala regionale, l'armonizzazione delle tecniche si accompagna spesso ad una armonizzazione
degli indirizzi politici, delle norme e delle prassi amministrative. Questa tendenza alla convergenza
delle policies è particolarmente marcata in Europa (non solo all'interno della UE, ma in un'area di
influenza assai più vasta, che comprende i PECO candidati all'adesione e gli altri paesi aderenti al
Patto di stabilità per l'Europa sud-orientale).
d) Alla intensificazione e alle trasformazioni qualitative dei controlli alla frontiera, si accompagna
una tendenza universale alla "esternalizzazione" dei controlli sulle migrazioni irregolari, mediante il
coinvolgimento degli Stati di origine o di transito e di soggetti privati (in particolare attraverso
forme di responsabilità pecuniaria delle compagnie aeree e marittime per il trasporto di
undocumented migrants).
e) Nel caso europeo, l'intensificazione e l'armonizzazione dei controlli alle frontiere esterne
dell'Unione si è accompagnata alla graduale soppressione dei controlli alle frontiere interne
(dapprima all'interno dello "spazio Schengen", ora in ambito UE). Questo ha comportato una
profonda trasformazione delle tecniche di controllo all'interno dello spazio comune. Abbiamo
Lussemburgo, 2000, p. 8). Secondo stime prodotte da EUROPOL, 500.000 immigrati illegali farebbero ingresso nel
territorio della UE ogni anno (Commissione europea, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una
politica comunitaria in materia di immigrazione, COM(2000) 757 def., Bruxelles, 22 novembre 2000, p. 12). Dalla
definizione e dalle stime citate scaturisce, tuttavia, un’immagine parziale, che può generare percezioni distorte: da un
lato, bisogna tenere presente che, in un contesto in cui pattern migratori circolari sono sempre più diffusi (vd. par. 1 nel
testo), numerosi ingressi clandestini sono seguiti da “uscite” non registrate; in secondo luogo, occorre ricordare che,
anche nelle fasi di maggior chiusura, l’Europa occidentale nel suo complesso ha continuato ad essere un importante
bacino di immigrazione regolare a vario titolo (asilo e protezione temporanea; ricongiungimenti famigliari;
immigrazione stagionale; regolarizzazioni; ingressi a scopo lavorativo su chiamata nominativa; immigrazione
studentesca; canali privilegiati per discendenti di emigranti o per determinati gruppi etnici, quali Aussiedler tedeschi,
greci del Ponto, etc.; queste diverse modalità di ammissione si sono combinate diversamente in ciascuno Stato
membro).
13
J. Monar, Enlargement-Related Diversity in EU Justice and Home Affairs: Challenges, Dimensions and Management
Instruments, WRR (Scientific Council for Government Policy), Working Documents, W 112, L'Aia, Dicembre 2000, p.
7.
14
Per una ampia panoramica comparativa, G. Brochmann, T. Hammar, a cura di, Mechanisms of Immigration Control,
Berg, Oxford, 1999; per una trattazione sistematica e approfondita, che coniuga ricostruzione storica e analisi strutturale
delle politiche, vd. ora G. Sciortino, L’ambizione della frontiera. Le politiche di controllo migratorio in Europa, Franco
Angeli, Milano, 2000.
4
assistito all'abbandono progressivo di un modello di controllo incentrato prevalentemente sul
territorio (controllo localizzato e statico) - e, in particolare, su specifiche linee territoriali, quali
sono le frontiere - a favore di un modello di controllo incentrato sulle persone (controllo diffuso e
dinamico) - e, in particolare, su categorie particolari di persone (in primo luogo, gli stranieri
appartenenti a paesi extra-UE) suscettibili a priori di forme specifiche di segnalazione. In questo
quadro, le banche-dati internazionali di polizia (quali il Schengen Information System-SIS o la
banca-dati Europol) si sono moltiplicate e ampliate, ponendo problemi ancora insufficientemente
studiati sul terreno dei rapporti tra poteri pubblici e libertà individuali.
Quali sono gli effetti di questa complessa evoluzione? L'efficacia complessiva dei sistemi di
controllo migratorio, in Europa come altrove, è cresciuta sensibilmente15 . Tale efficacia, tuttavia,
non è né potrebbe essere assoluta; essa incontra infatti dei limiti strutturali, che potremmo definire
"vincoli di civiltà":
“Stati con dotazioni di personale e di tecnologie molto inferiori [rispetto all’Europa] – quali la Libia, il
Ghana, il Kuwait, la Nigeria o la Tailandia – sono riusciti in diverse occasioni ad allontanare dal
proprio paese centinaia di migliaia di stranieri nel giro di poche ore o ad interrompere radicalmente in
pochi giorni sistemi migratori consolidati da decenni. L’applicazione dei metodi utilizzati da tali stati
non è in Europa (per fortuna) né possibile né auspicata da nessuno” 16 .
I sistemi di controllo migratorio europei, insomma, “non sono né un colabrodo inefficace e
permissivo né una fortezza imprendibile e spietata: sono molto semplicemente sistemi di
regolazione complessi, che operano sotto una molteplicità di vincoli condizionali e normativi”17 .
Per ovviare ai limiti sempre più evidenti di un approccio unilaterale ed esclusivamente repressivo al
fenomeno delle migrazioni irregolari, negli ultimi anni numerosi stati di immigrazione hanno
ricercato, con crescente insistenza, la collaborazione delle autorità dei paesi di origine e di transito.
Al fine di attenuare le prevedibili resistenze di questi ultimi, gli sforzi politici e diplomatici degli
Stati di destinazione sono stati accompagnati da uno spostamento di enfasi dalle misure di contrasto
a quelle di natura preventiva. Nell'ambito dell'Unione europea, in particolare, ha incominciato a
delinearsi un modello di governo delle migrazioni diverso da quello prevalso nei due decenni
precedenti. Le linee-guida di questo modello emergente, spesso indicato con la locuzione
"approccio integrato" (comprehensive approach)18 , sono sintetizzate efficacemente nelle
Conclusioni del già citato vertice di Tampere dell'ottobre 1999:
“L’Unione europea ha bisogno di un approccio generale al fenomeno della migrazione che abbracci le
questioni connesse alla politica, ai diritti e allo sviluppo dei paesi e delle Regioni di origine e di
transito. Ciò significa che occorre combattere la povertà, migliorare le condizioni di vita e le
15
Paradossalmente, una prova di questo incremento di efficacia è fornita dallo straordinario sviluppo, su scala globale,
di un mercato criminale delle migrazioni clandestine; il ricorso ai servizi di smugglers professionali diventa infatti tanto
più utile, quanto più il potenziamento degli apparati di controllo rende “rischiosa” la migrazione clandestina
“autogestita”. Su questo tipo di escalation, vd. P. Andreas, Border Games. Policing the U.S.-Mexico Divide, Cornell
University Press, Ithaca-Londra, 2000. Per una panoramica sull’evoluzione recente del fenomeno del traffico di
migranti clandestini in Europa, vd. Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), Migrant Trafficking and
Human Smuggling in Europe. A review of the evidence tith case studies from Hungary, Poland and Ukraine, Ginevra,
2000. Sulle particolarità della situazione italiana, vd. F. Pastore, P. Romani, G. Sciortino, L'Italia nel sistema
internazionale del traffico di persone. Risultanze investigative, ipotesi interpretative, strategie di risposta, Working
paper n° 5, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Dipartimento per gli affari sociali, Roma,
2000; Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari,
Relazione sul traffico degli esseri umani (Relatore: sen. Tana De Zulueta), approvata in data 5 dicembre 2000, in
Camera dei Deputati – Senato della Repubblica, Atti Parlamentari, XIII Legislatura, Doc. XXIII N. 49.
16
G. Sciortino, op. cit., p. 9.
17
Ibidem, p. 10.
18
Su questa nozione, vd. F. Pastore, Le rivoluzioni incompiute della politica migratoria europea, in «EuropaEurope»,
6/2000, p. 123 ss..
5
opportunità di lavoro, prevenire i conflitti e stablizzare gli Stati democratici, garantendo il rispetto dei
diritti umani, in particolare quelli delle minoranze, delle donne e dei bambini. A tal fine, l’Unione e gli
Stati Membri sono invitati a contribuire, nelle rispettive sfere di competenza ai sensi dei trattati, a una
maggiore coerenza delle politiche interne ed esterne dell’Unione stessa. Un altro elemento
fondamentale per il successo di queste politiche sarà il partenariato con i paesi terzi interessati, nella
prospettiva di promuovere lo sviluppo comune”19 .
Tradurre un simile, suggestivo approccio programmatico in strategie concrete è una sfida di enorme
portata che si scontra, innanzitutto, con la reticenza di molti importanti paesi emissari, da cui le
migrazioni (anche clandestine) sono percepite come una risorsa economica irrinunciabile o come
una preziosa "valvola di sfogo" per situazioni di tensione politica e sociale. In alcuni casi estremi, si
ritiene che il mercato delle migrazioni illegali rappresenti addirittura una fonte di arrichimento
diretto o indiretto per le élites governative:
"I Balcani sono diventati, negli ultimi anni, una piattaforma di smistamento (hub) per il traffico di
clandestini. Questi trafficanti dovrebbero naturalmente essere puniti, ma in alcuni casi, come è stato
per il governo di Milosevic, gli Stati sono i veri favoreggiatori. Ci può essere interesse a promuovere
le migrazioni per incrementare il giro d'affari delle compagnie aeree nazionali o per incrementare gli
introiti delle ambasciate che rilasciano i visti. Funzionari corrotti o gli stessi governi possono essere
direttamente coinvolti nel traffico"20 .
Ma, anche al di fuori di tali degenerazioni patologiche, intorno alle migrazioni irregolari si delinea
un conflitto strutturale di interessi tra gruppi di paesi o persino tra intere aree del mondo. Tale
contrasto - emerso con particolare evidenza sia sua scala regionale 21 sia a livello globale, in ambito
ONU (per esempio, in occasione della Conferenza del Cairo sulla popolazione, nel 1994, o durante
la Conferenza di Palermo sul crimine organizzato internazionale, nel dicembre 2000) rappresenterà, con ogni probabilità, un tema-chiave delle relazioni internazionali nel XXI° secolo.
3. La mobilità necessaria: i migranti come bene scarso del futuro?
In una prospettiva di breve periodo e in sistemi sociali (e politici) iper-mediatizzati come i nostri, la
dimensione problematica delle migrazioni internazionali tende ad essere sovrastimata. In una
prospettiva più distaccata e di lungo periodo, tuttavia, la valenza positiva delle migrazioni appare
predominante, da diversi punti di vista.
Uno studio recente della Population Division delle Nazioni Unite22 e, ancor più, le reazioni che esso
ha suscitato hanno dimostrato che gli apporti migratori teoricamente necessari per rimediare agli
squilibri demografici a cui molti paesi sviluppati sembrano avviati sarebbero ingentissimi e, di
conseguenza, difficilmente sostenibili sul piano sociale e politico. Le ricette con cui gli Stati
coinvolti dovranno rispondere alla sfida demografica saranno, quindi, necessariamente diverse e
19
Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 2001), Conclusioni della Presidenza, punto 11.
Maj-Inger Klingvall, Start With a Strong Asylum System, in Internation Herald Tribune, 2 febbraio 2001, p. 7.
L’autore è il ministro svedese per l’immigrazione e l’asilo; al momento in cui è stato scritto l’articolo la Svezia
deteneva la Presidenza di turno dell’Unione europea.
21
Nei rapporti euromediterranei, per esempio, la questione ha conosciuto sviluppi di particolare interesse; vd. in
proposito, F. Pastore, Aeneas' route. Euro-Mediterranean relations and international migration, in S. Lavenex and E.
Uçarer, a cura di, «Externalities of Integration: the Wider Impact of the Developing EU Migration Regime», Lexington
Books, in corso di pubblicazione; una sintesi di questo saggio è comparsa sul n° 1/2001 della rivista EuropaEurope con
il titolo La rotta di Enea. Relazioni euromediterranee e migrazioni.
22
Population Division, Department of Economic and Social Affairs, United Nations Secretariat, Replacement
Migration: Is it A Solution to Declining and Ageing Populations? , ESA/P/WP.160, 21 marzo 2000, Nazioni Unite, New
York, disponibile anche on-line al seguente indirizzo: www.un.org/esa/population/unpop.htm.
20
6
assai più complesse23 . Il controverso studio ONU ha avuto, tuttavia, il merito di convincere diversi
governi che, all'interno di tali complesse strategie di "reazione all'invecchiamento", potrà (secondo
molti, dovrà) esserci posto anche per politiche di immigrazione regolata. E’ questa la linea seguita
dal governo italiano, in occasione dell’adozione del “Documento programmatico relativo alla
politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” per il periodo 2001-2003,
approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 marzo 2001:
“L’Italia riceve un grande contributo dalla grande maggioranza degli stranieri presenti sul suo
territorio e non sarebbe in grado di risolvere senza di essi una parte importante dei suoi problemi
attuali. Le sfide che ci attendono richiederanno sempre di più il sostegno dei lavoratori stranieri. Già
oggi la popolazione italiana si ridurrebbe senza il contributo degli immigrati […] Già oggi gli
immigrati danno un contributo significativo al mantenimento del sistema di sicurezza sociale in Italia,
versando più tasse e contributi di quanto non ricevano in termini di servizi pubblic i. Naturalmente non
tutti gli squilibri demografici possono essere scaricati sulle politiche migratorie, e tale non è l’obiettivo
del governo, che comunque deve privilegiare le politiche di sostegno alle famiglie con bambini e le
politiche tese ad incentivare una maggiore partecipazione degli italiani al mercato del lavoro” (p. 4).
Ma, prima e in maniera più pressante che sul piano demografico, la valenza positiva delle
migrazioni contemporanee appare evidente da un punto di vista economico. Le vicende degli ultimi
decenni dimostrano che il lavoro migrante, con la sua estrema flessibilità - che, nel caso dei
migranti irregolari, risulta perversamente accentuata dalla precarietà esistenziale e dalla mancanza
di diritti - può risultare una risorsa insostituibile per affrontare fasi di rapida crescita, come quelle
attraversate dagli Stati del Golfo negli anni Settanta e Ottanta, dalle "tigri" asiatiche nei primi anni
Novanta o dagli Stati Uniti nella seconda metà del decennio appena concluso. In paesi con un
mercato del lavoro più statico e regolato, come il nostro, la manodopera straniera appare come un
"complemento strutturale" di cui sembra ormai impossibile fare a meno.
Di fronte a simili evidenze, l'ortodossia liberista preme da tempo per una maggiore libertà di
circolazione del lavoro a livello globale:
"Non si possono aprire le porte all'immigrazione da un giorno all'altro. Persino i paesi più ricchi
farebbero fatica a gestire gli afflussi improvvisi e massicci che ne risulterebbero. Ma questi paesi
dovrebbero annunciare quote più generose, scaglionate su diversi anni. Ciò eviterebbe l'effetto
rincorsa, offrendo una speranza a chi vuole andarsene. Naturalmente, i governi hanno anche la
responsabilità di mettere a punto strumenti adeguati in campo educativo e altre politiche di
integrazione. Ma il punto fondamentale è questo: non solo la libera circolazione di capitali, beni e
profitti è benefica per l'economia, ma anche quella dei lavoratori. Per il loro stesso bene, i paesi ricchi
dovrebbero essere molto meno rigidi nella politica degli ingressi"24 .
Negli Stati Uniti - che peraltro non hanno mai cessato di importare forza-lavoro straniera - queste
idee stanno conquistando ulteriore terreno, in particolare nel quadro di un acceso dibattito in corso
al Congresso sull’opportunità di lanciare un nuovo programma di reclutamento in grande stile, sul
modello dei bracero programs adottati al termine della Prima Guerra Mondiale e nuovamente tra il
1942 e il 196425 . Ma anche nell'Europa di fine anni Novanta - dominata da governi di centro-sinistra
23
“Il numero di donne e uomini pensionati aumenterà rapidamente, mentre la percentuale di popolazione in età
lavorativa inizierà a diminuire entro il 2010. Questo creerà pressioni considerevoli sui sistemi previdenziali, in
particolare sulle pensioni e sui sistemi di assistenza sanitaria e assistenza agli anziani. […] Il prossimo decennio offre
l’opportunità di affrontare la sfida demografica aumentando i tassi di disoccupazione, riducendo il debito pubblico e
adeguando i sistemi di protezione sociale, inclusi i regimi pensionistici” (Consiglio europeo di Stoccolma, 23-24 marzo
2001, Conclusioni della Presidenza, punto 7).
24
The Economist, Let the huddled masses in, Editoriale, 31 marzo 2001, p. 12. See also The Economist, Go for it.
Europe needs more immigrants, Editoriale, 6 maggio 2000, p. 15.
25
Cfr. Congress: Guest Workers, in «Migration News», Maggio 2001, Vol. 8, No. 5, http://migration.ucdavis.edu. Per
una voce fortemente critica verso questa tendenza all’apertura, vd. J. Goldsborough, Out-of-Control Immigration, in
«Foreign Affairs», settembre/ottobre 2000, Vol. 79, No. 5, pp. 89 ss..
7
spesso tenuti in ostaggio da opinioni pubbliche impaurite - un atteggiamento più aperto nei
confronti dell'immigrazione economica si sta facendo faticosamente strada. Il Consiglio di Tampere
ha ufficialmente sancito l'abbandono dell'opzione "immigrazione zero", che aveva ispirato a lungo
(almeno a livello di retorica) la politica francese, quella britannica e, in forma meno netta, quella
tedesca26 . In questi stessi paesi, segnali concreti di cambiamento cominciano a intravedersi nelle
politiche attuate a livello nazionale: dal programma per 20.000 green card da rilasciare a tecnici
informatici extra-UE, lanciato dal governo Schröder nell’aprile 200027 , al dibattito avviato in Gran
Bretagna da un innovativo discorso pronunciato dal sottosegretario con delega all'immigrazione
l’11 settembre dello stesso anno 28 .
Nel revival delle politiche migratorie attive a cui stiamo assistendo su scala globale, un ruolo
cruciale è svolto dalla migrazione qualificata (skilled migration), specialmente da quella che ha
come protagonisti i professionisti delle TLC (ingegneri, programmatori, tecnici). Da anni, i grandi
paesi di immigrazione che adottano sistemi di quote "a punteggio" (USA, Canada, Australia)
competono sul mercato globale dei cervelli per attirare lavoratori qualificati e professionisti da paesi
meno sviluppati29 . Oggi, anche l'Europa - che si prefigge di "diventare l’economia basata sulla
conoscenza più competititiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica
sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale"30 , ma che prevede
di soffrire, entro il 2003, di un gap di 1,7 milioni di lavoratori specializzati nel campo delle
telecomunicazioni31 - si trova impegnata nella stessa competizione.
Finora, a giudicare dai risultati deludenti della, pur circoscritta, campagna di reclutamento selettivo
promossa dalla Germania, la competitività del Vecchio Continente su questo terreno è scarsa.
Anche per questo, la Commissione europea ha avviato, con una importante comunicazione inviata
al Consiglio e al Parlamento europeo nel novembre 200032 , una riflessione sull'armonizzazione
delle politiche nazionali di ammissione in ambito UE. E' evidente, infatti, che un'Europa che
offrisse un quadro unico di regole per l'ingresso, uno status di residente uniforme e vantaggioso
(comprensivo di una piena libertà di circolazione e di diritti politici a livello locale) e magari anche
regole certe e omogenee per l'accesso alla cittadinanza risulterebbe più appetibile per il brillante
ingegnere sudafricano o per l'informatico indiano in cerca di fortuna.
Dopo anni di frontiere quasi chiuse (all'immigrazione economica, s'intende), è comprensibile che la
prospettiva della riapertura trovi sostenitori entusiasti, sia negli ambiti economici sia in ampi settori
26
Nel caso tedesco, una importante “valvola” di apertura è rappresentata dagli ingressi per lavoro stagionale, che nel
periodo 1995-1998 sono stati in media 210.000 all’anno (SOPEMI, Trends in International Migration, Continous
Reporting System on Migration. Annual Report. 2000 Edition, OCSE, Parigi, 2001, p. 187), per la maggior parte dalla
vicina Polonia. Per una messa in discussione del tradizionale approccio europeo, e in particolare francese, in questo
campo, vd. C. Wihtol de Wenden, Faut-il ouvrir les frontières?, Presses de Sciences Po, Parigi, 1999.
27
Il programma è gestito dal Ministero federale del lavoro in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le
migrazioni (OIM); informazioni sui servizi offerti dall’OIM agli imprenditori sono contenute in:
www.iom.int/greencard/english/home.htm.
28
B. Roche, UK migration in a global economy, discorso pronunciato in occasione di un convegno organizzato
dall’Institute for Public Policy Research (IPPR), il testo è disponibile sul sito del Ministero dell’interno britannico:
www.homeoffice.gov.uk/ipprspch.htm , consultato il 13 settembre 2000. Per un commento, vd. Let in more immigrants:
we need them and they will enrich us all, editoriale non firmato, in The Indipendent, 12 settembre 2000.
29
Cfr. D. G. Papademetriou, The Battle for High-Tech Workers, in «International Herald Tribune», 22 marzo 2000.
30
Consiglio europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000, Conclusioni della Presidenza, punto 5.
31
Citato in F. Bolkestein – A. Diamantopoulou, Workers without frontiers. Governments should promote a genuinely
free market for labour across Europe, Financial Times, 29 gennaio 2001, p. 16. Gli autori sono commissari europei con
delega, rispettivamente, per il Mercato Interno e per Lavoro e Affari Sociali.
32
Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica
comunitaria in materia di immigrazione, COM(2000) 757, Bruxelles, 22 novembre 2000. In proposito, vd. C. Favilli,
La comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di
immigrazione: prime riflessioni, in «Diritto Immigrazione e Cittadinanza», anno III, N. 1/2001, Franco Angeli, Milano,
pp. 54 ss..
8
della società civile. Il ritorno massiccio a politiche di immigrazione attiva comporta, tuttavia, dei
rischi, di cui l'esperienza passata ci può aiutare ad acquisire piena consapevolezza.
In primo luogo, gli Stati di destinazione, quelli europei in particolare, si dovrebbero rendere conto
che il reclutamento di manodopera straniera su base non stagionale comporta delle responsabilità di
lunga durata. La storia migratoria europea, quella tedesca e svizzera in special modo, ha dimostrato
che il Gastarbeitermodell è illusorio e dannoso, perché induce a ritardare gli sforzi per
l'integrazione, rendendoli di conseguenza assai più ardui e incerti. E' vero che la transnazionalità
crescente delle migrazioni contemporanee (vd. par. 1) potrebbe generare nuove opportunità, almeno
per alcune fasce di migranti; ma, per la maggioranza di loro, la prospettiva di una solida
integrazione nel paese di destinazione rimane privilegiata. Per evitare ricadute di massa
nell'irregolarità, conviene dunque ai paesi di immigrazione offrire tale possibilità ai migranti
economici regolarmente ammessi, evitando di subordinarla rigidamente a requisiti di natura
strettamente economica.
Ma, una certa cautela nell'affrontare la fase di maggiore apertura alle migrazioni che sembra aprirsi
ci è imposta anche dalla considerazione del possibile impatto nei paesi d'origine. Ci riferiamo, in
particolare, ai rischi di brain drain, ossia di un grave impoverimento sotto il profilo delle risorse
umane33 , che potrebbe pregiudicare seriamente le prospettive di sviluppo di tali paesi. Voci anche
qualificate tendono a declinare qualsiasi responsabilità di ordine politico e morale dell’Occidente
per tali effetti collaterali delle politiche migratorie:
“[…] bisogna scegliere. Se si è a favore dell’immigrazione, sia pur regolata e normata, allora la si deve
accettare in tutte le sue conseguenze, non permettendo che le regole del mercato siano bloccate da veti
legali e, tantomeno, morali. Se si guarda con favore all’immigrazione, cogliendone l’aspetto
economicamente e socialmente promozionale, non la si può poi demonizzare come causa di povertà e
di ulteriore impoverimento per i Paesi da cui gli immigrati fuggono” 34 .
Simili ragionamenti appaiono eccessivamente angusti. Governare le migrazioni significa proprio
non prenderle come un dato di fatto, bensì come un fenomeno complesso, di cui è possibile
massimizzare l’impatto positivo e ridurre quello negativo, tanto nei paesi di origine, quanto in quelli
di destinazione. E’ più produttivo, allora, partire dall'affermazione secondo cui “non è […]
dimostrata l’esistenza di una correlazione assoluta quanto negativa tra immigrazione [o, più
correttamente, emigrazione, e specialmente emigrazione qualificata] e decadenza economica delle
terre di partenza”35 . Effettivamente, alcuni grandi PVS, stanno dimostrando nei fatti che
l’esportazione pianificata dei “cervelli” può essere, nel medio-lungo periodo, un ottimo affare.
L’esempio più citato viene dallo Stato indiano del Karnataka (la cui capitale è Bangalore), il cui
efficiente sistema educativo rappresenta ormai da anni un bacino di alimentazione importante per le
imprese della new economy statunitense e di altri paesi sviluppati. In questo caso, l’investimento
pubblico si è rivelato redditizio, perché gli investimenti dei tecnici emigrati, che spesso diventano
imprenditori a loro volta, hanno innescato lo sviluppo di un vitalissimo distretto informatico nella
regione di origine36 . Non è un caso se Rajiv Gandhi, alcuni anni fa, paragonò gli indiani all’estero a
una banca “da cui ogni tanto si può fare un prelievo”37 .
33
È stato calcolato che i 90.000 lavoratori immigrati ad alta qualificazione ammessi negli Stati Uniti nel 1990 abbiano
rappresentato, per i paesi d'origine, una perdita netta (in termini di costi educativi) pari a 642 milioni di dollari (K.
Griffin - T. McKinley, A New Framework for Development Cooperation, Human Development Report Office,
Occasional Papers, n° 11, UNDP, New York, 1994, p. 50, cit. in P. Stalker, op. cit., p. 78).
34
G. Bolaffi, I confini del patto. Il governo dell’immigrazione in Italia, Einaudi, Torino, 2001, pp. 92-93.
35
Ibidem, p. 93.
36
Vi è, d’altra parte, una solida tradizione di emigrazione qualificata dall’India, che va ben al di là della regione di
Bangalore e del settore della information technology, e affonda le sue radici nel periodo coloniale; vd., in proposito, V.
Robinson – M. Carey, Peopling Skilled International Migration: Indian Doctors in the UK , in «International
Migration», vol. 38( 1) 2000, pp. 89 ss..
37
Citato in M. Weiner, Nations Without Borders. The Gifts of Folk Gone Abroad, in «Foreign Affairs», vol. 75 (2),
March-April 1996, p. 133.
9
Ma non tutti i paesi poveri hanno le dimensioni e la cultura di governo che rendono possibile una
politica di brain export come quella indiana. In vaste aree del mondo, nell'Africa sub-sahariana
come nelle Repubbliche ex-sovietiche, la "fuga dei cervelli" è una realtà preoccupante, per cui
l'Occidente ha l'interesse e la responsabilità di aiutare a trovare soluzioni. Le peculiarità delle
migrazioni contemporanee generano, da questo punto di vista, nuove opportunità:
“Con gli attuali flussi migratori sempre più compositi, in cui si combinano motivi economici e di altro
tipo, e con popolazioni la cui oscillazione tra due culture è parte di strategie di sopravvivenza, è
possibile definire politiche in cui la migrazione vada a vantaggio sia del paese di origine che del paese
ospitante. In tal modo si possono minimizzare gli effetti della fuga dei cervelli e massimizzare i
benefici delle rimesse”38 .
Ma, come sottolinea ancora la Commissione europea, perché queste opportunità possano essere
colte, le politiche migratorie devono essere ripensate a fondo:
“con il metodo del partenariato si dovrebbe ottenere un quadro per trattare con flessibilità i nuovi
flussi migratori che si stanno sviluppando a livello mondiale, utilizzando un concetto di migrazione
come schema di mobilità, che incoraggia gli immigrati a mantenere e sviluppare i rapporti con i paesi
d’origine. In tale quadro occorre garantire che l’ordinamento giuridico non stacchi gli immigrati dal
loro paese d’origine; ad esempio che sia loro garantita la possibilità di rientrare per una visita senza
perdere lo status acquisito nel paese ospitante, nonché di ritornare al paese di origine o di spostarsi
altrove con il mutare della situazione”39 .
4. Migrazioni forzate e asilo: ipocrisie e innovazioni
La crescita complessiva della mobilità umana a livello mondiale riguarda anche quella particolare
forma di mobilità che sono le migrazioni forzate. La fine del bipolarismo e la dissoluzione del
blocco socialista - che era anche una formidabile struttura di contenimento delle spinte migratorie hanno dato origine a un'onda lunga di instabilità, che ha avuto enormi ripercussioni sul piano
migratorio.
La crescita della mobilità forzata si è manifestata con particolare intensità in Europa, innescando un
profonda revisione degli strumenti pensati durante la Guerra fredda per affrontare tali fenomeni. Pur
mantenendo la centralità formale della Convenzione della Convenzione di Ginevra40 , gli Stati
europei hanno innescato un'evoluzione complessa, che ha cambiato in profondità le caratteristiche
del sistema di protezione internazionale, con ripercussioni che vanno ben al di là dei confini
dell'Unione europea. I principali obiettivi perseguiti dagli Stati membri in questa fase sono stati i
seguenti:
a) Evitare abusi dei sistemi nazionali d'asilo. A questo fine, la maggior parte dei paesi europei ha
riformato le procedure di esame delle domande di asilo, introducendo filtri di varia natura e
procedure accelerate finalizzate a rigettare rapidamente le domande ritenute manifestamente
infondate o fraudolente41 . Sempre al fine di evitare abusi, in particolare sotto forma di asylum
Commissione europea, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia
di immigrazione, doc. cit., p. 4.
39
Ibidem, p. 8.
40
Non sono mancate, peraltro, le prese di posizione ufficiali di governi europei a favore di una revisione della
Convenzione del 1951, che dilati il margine di discrezionalità politica degli Stati nella gestione dei flussi di rifugiati.
Vd., in particolare, la prima versione dello “Strategy Paper on Immigration and Asylum Policy”, presentato dalla
Presidenza austriaca della UE nel luglio 1998, poi modificata nella parte relativa all’asilo in seguito alle vivaci
polemiche suscitate.
41
Questa tendenza è stata rafforzata dall'adozione, da parte dei ministri degli Stati membri responsabili in materia di
immigrazione e di asilo, di una "Risoluzione sulle domande d'asilo chiaramente infondate" (Londra, 30 novembre-1°
dicembre 1992).
38
10
shopping, ossia di ripresentazione della stessa domanda in diversi paesi dell'Unione, è stata firmata,
il 15 giugno del 1990 a Dublino, una Convenzione che definisce i criteri per attribuire a un unico
Stato membro la responsabilità dell'esame di ciascuna domanda d'asilo (in caso di ingresso
clandestino nel territorio dell'Unione, si tratta dello Stato di accesso).
b) Ridurre il novero degli aventi diritto alla protezione. Diversi Stati europei hanno introdotto nei
rispettivi ordinamenti giuridici il concetto di "paese d'origine sicuro" (safe country of origin), al fine
di permettere un esame accelerato delle domande di asilo di soggetti provenienti da tali paesi. Nei
rapporti tra Stati membri, per effetto del "Protocollo sull'asilo per i cittadini degli Stati membri
dell'Unione europea" (allegato al trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997), la nozione di
"paese d'origine sicuro” ha assunto efficacia vincolante: il riconoscimento di un cittadino europeo
come rifugiato è limitato a casi eccezionali e subordinato a procedure particolari.
Lo scopo di ridurre il novero degli aventi diritto a protezione viene perseguito, da alcuni Stati,
anche mediante l'interpretazione sistematicamente restrittiva della Convenzione di Ginevra.
Particolarmente controverso è l'orientamento di alcuni importanti paesi europei, che tende a negare
lo status di rifugiato quando "l'agente della persecuzione" non sia un organo statale ma, per
esempio, un gruppo terroristico o un movimento insurrezionale.
c) Decentrare la protezione. Nel corso degli anni Novanta, gli Stati europei hanno fatto largo uso del
concetto di "paese terzo sicuro" (safe third country), al fine di declinare le responsabilità in merito
all'esame di domande d'asilo provenienti da individui in fuga transitati attraverso paesi terzi in cui
l'asilo avrebbe potuto essere richiesto e concesso.
d) Attenuare gli obblighi derivanti dalla concessione della protezione. A fronte del moltiplicarsi dei
casi di migrazione forzata che esulano da un'interpretazione restrittiva della Convenzione di
Ginevra (in particolare, profughi di guerra e vittime di violazioni gravi e diffuse dei diritti umani),
gli Stati europei, invece di adottare un'interpretazione più ampia, hanno preferito prevedere status
differenziati. Nella maggior parte degli ordinamenti giuridici nazionali, tale forma di protezione
(generalmente denominata "protezione temporanea") è concessa su base collettiva, per un tempo
determinato, e ad essa è collegato un "paniere" di diritti meno ricco di quello spettante al rifugiato
pleno iure.
Sebbene si siano manifestate con particolare intensità e chiarezza all'interno dell'Unione europea (e,
di riflesso, nella cerchia dei paesi candidati, impegnati a conformarsi all'acquis Ue anche in questo
settore42 ), tali tendenze affiorano in tutto il mondo sviluppato, sotto forma di disordinata reazione a
una complessa evoluzione, spesso descritta facendo ricorso al paradigma della crisi globale 43 .
Ma, nel corso degli anni Novanta, l'esigenza degli Stati (occidentali, in particolare) di assumere un
controllo più stretto sulle migrazioni di natura forzata ha innescato mutamenti profondi nel campo
delle relazioni internazionali, che vanno ben al di là della "ondata" di riforma dei sistemi di
protezione internazionale di cui abbiamo appena tracciato le linee essenziali. Considerazioni di
politica migratoria (in senso lato) hanno favorito la svolta "interventista" nel campo del crisis
management, dall'operazione "Provide Comfort" nel nord dell'Iraq (1991) all'intervento statunitense
a Panama (1994), dalla creazione dei safe havens in Bosnia all'Operazione "Alba" nel 1997, fino
alla gestione dell'emergenza profughi conseguita ai bombardamenti NATO sulla Jugoslavia nel
1999. La volontà di prevenire esodi forzati e, in caso di fallimento rispetto a questo obiettivo
primario, quella di assicurare protezione a displaced persons e profughi in loco o, comunque,
all'interno della regione di origine sono ormai, incontestabilmente, tra le determinanti fondamentali
delle scelte strategiche operate dai principali attori occidentali in materia di gestione delle crisi.
In proposito, cfr. S. Lavenex, Safe Third Countries. Extending the EU Asylum and Immigration Policies to Central
and Eastern Europe, Central European University Press, Budapest, 1999.
43
M. Weiner, The Global Migration Crisis: Challenge to States and to Human Rights, Harper Collins, New York,
1995; A. Zolberg, A. Surhke, S. Aguayo, Escape from Violence. Conflict and the Refugee Crisis in the Developing
World, Oxford University Press, New York, 1989.
42
11
Il problema è che, rispetto a questo, pur legittimo, obiettivo politico e strategico, gli strumenti di
carattere istituzionale, normativo e operativo appaiono ancora insufficienti e inadeguati. Mancano
regole condivise in materia di ripartizione internazionale degli oneri derivanti dall'accoglienza di
flussi di rifugiati, specialmente se massicci e improvvisi; le organizzazioni internazionali
competenti non dispongono di mezzi e di risorse sufficienti per svolgere i compiti di prima
accoglienza, assistenza al resettlement e al rimpatrio, in maniera capillare, sistematica e su scala
globale; le opinioni pubbliche occidentali sono tuttora impreparate a sostenere, politicamente e
finanziariamente, tali costose attività. Il risultato perverso di tali carenze è che - come dimostrano
alcuni studi recenti - una quota crescente dei rifugiati nel mondo, per raggiungere un paese in grado
di assicurare una protezione effettiva, è costretta a ricorrere ai servizi di trafficanti professionisti44 .
E' importante, tuttavia, sottolineare che qualcosa si sta muovendo. La proposta della Commissione
per la creazione di una protezione temporanea europea, sebbene il meccanismo di burden sharing
che essa prevede sia blando e di portata economica modesta, è un'occasione concreta di progresso.
La capacità delle istituzioni europee di superare, nei prossimi mesi, le resistenze manifestate da
alcuni Stati membri sarà un test decisivo della praticabilità di un sistema di governance, perlomeno
regionale, in questo ambito delicatissimo e cruciale.
Altrettanto importante, sebbene ancora assai lontana da una conclusione operativa, è la riflessione
avviata dalla Commissione sulla realizzabilità, a livello europeo, di un modello di protezione in due
tempi (protezione temporanea nella regione di provenienza, seguita da resettlement), quale
strumento per rompere il circolo vizioso che troppo spesso porta le migrazioni forzate ad alimentare
il traffico di clandestini45 .
5. Mediare tra interessi, diritti e paure: quale governance globale delle migrazioni?
La politica migratoria - nell'accezione più ampia dell'espressione, che si riferisce non solo alla
gestione di movimenti migratori in atto, ma anche alla loro prevenzione, non solo alle migrazioni
esclusivamente economiche, ma anche a quelle di natura forzata - è un policy field di grande
complessità, che genera sfide estremamente ardue sia per gli Stati di destinazione sia per quelli di
origine. La posta in gioco è altissima e composita: essa comprende la sicurezza (par. 2), il benessere
(par. 3), i diritti umani fondamentali (par. 4), non solo dei migranti ma delle società coinvolte nel
loro complesso.
Le migrazioni contemporanee, che la fase attuale di intensa globalizzazione rende più rapide e
meno prevedibili di quelle del passato, creano una formidabile spinta all'internazionalizzazione
della politica. Politiche migratorie eque e sostenibili - che medino efficacemente tra gli interessi, i
diritti e le paure delle popolazioni coinvolte - sono impraticabili senza una intensa cooperazione tra
Stati di origine, di transito e di destinazione. Nei paragrafi precedenti, abbiamo cercato di mettere in
luce alcuni dei nodi politici fondamentali che ostacolano, e rendono nel contempo necessaria, tale
cooperazione. E’ opportuno che ci soffermiamo ora su alcuni problemi di natura istituzionale (la cui
J. Morrison, The Trafficking and Smuggling of Refugees. The End Game in European Asylum Policy?, rapporto per
l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), Ginevra, gennaio 2000. Vd. anche Organizzazione
internazionale per le migrazioni (OIM), Migrant Trafficking and Human Smuggling in Europe …, op. cit., in part. parte
I, cap. 12.
45
“Espletare la richiesta di protezione nei paesi d’origine e facilitare l’ingresso dei rifugiati nel territorio degli Stati
membri attraverso un programma di reinsediamento sono due modalità per offrire un accesso rapido alla protezione
evitando che i rifugiati rischino di cadere vittime delle reti d’immigrazione illegale e della tratta di esseri umani o che
debbano attendere a volte anni prima che il loro status sia riconosciuto […] Questa […] opzione, secondo il parere della
Commissione, deve avere carattere complementare e non può pregiudicare un adeguato espletamento delle domande
individuali presentate a seguito di arrivi spontanei” (Commissione delle Comunità europee, Verso una procedura
comune in materia di asilo e uno status uniforme e valido in tutta l’Unione per le persone alle quali è stato riconosciuto
il diritto d’asilo, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM(2000) 755, 22 novembre 2000, p. 10).
Nello stesso documento, che abbiamo riportato nella (pessimamente tradotta) versione ufficiale italiana, la
Commissione annuncia l’intenzione di effettuare studi di fattibilità in proposito.
44
12
politicità non è, peraltro, affatto esclusa), relativi ai contesti e alle procedure decisionali in questo
settore emergente delle relazioni internazionali.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito su scala mondiale a un notevole sviluppo di forme di
cooperazione internazionale strutturata in materia migratoria. Questi ambiti di cooperazione sono
prevalentemente riconducibili alle seguenti tipologie:
a) fori multilaterali di cooperazione tra paesi di immigrazione. E' il caso delle molteplici iniziative
in materia migratoria fiorite in Europa occidentale negli ultimi quindici-vent'anni: dagli accordi di
Schengen al terzo pilastro creato a Maastricht, fino alla politica migratoria comune attualmente in
gestazione. Nel caso europeo, il regime di cooperazione tra gli Stati membri tende ad imporsi ai
paesi circostanti con cui esistono relazioni più strette, in particolare ai candidati dell'Europa centrale
e orientale (ormai in gran parte diventati, a loro volta, paesi di immigrazione, anche se spesso solo a
fini di transito);
b) assi privilegiati di cooperazione bilaterale tra paesi di origine (ed eventualmente di transito) e
paesi di destinazione. Gli esempi sono innumerevoli: tra i più significativi su scala globale si può
citare la collaborazione tra Stati Uniti e Messico, quella tra Germania e Polonia (che riguarda sia
l'immigrazione stagionale dalla Polonia, sia il controllo delle migrazioni irregolari da paesi terzi),
nonché quella tra Italia e Albania che, sebbene i numeri coinvolti siano limitati, presenta
caratteristiche originali (tra cui spiccano le particolari modalità dei controlli marittimi e l'esistenza
di quote privilegiate di ammissione su base annuale);
c) fori multilaterali di dialogo e cooperazione tra paesi di origine, di transito e di destinazione.
Questo "gradino" ulteriore di cooperazione si è venuto imponendo negli ultimi anni, per
fronteggiare la crescente complessità e dinamicità delle migrazioni internazionali contemporanee.
In presenza di flussi sostanziosi, eterogenei e mutevoli, la collaborazione tra Stati di destinazione
(vd. sopra, punto a) è essenziale, ma non basta; d'altra parte, il dialogo con gli Stati d'origine deve
trascendere il livello bilaterale, per cogliere la dimensione reale, regionale se non globale, dei
circuiti migratori. Con iniziative come la Regional Conference on Migration (RCM), a cui
aderiscono undici Stati dell’America settentrionale e centrale46 , il "pilastro" sociale del partenariato
euromediterraneo lanciato nel 1995 e il "Budapest Process", che copre lo spazio pan-europeo
includendo la Russia47 , la dimensione regionale della governance migratoria ha assunto via via
maggiore rilevanza. I risultati di queste diverse iniziative politico-diplomatiche variano
notevolmente ed esistono certamente le premesse per un confronto più aperto tra di esse, che
favorisca la circolazione dei modelli e una maggiore diffusione delle best practices48 .
Le forme di cooperazione internazionale in materia migratoria che abbiamo appena esaminato si
collocano a livello locale o tutt'al più regionale. In questa materia, tuttavia, il livello globale non
può essere trascurato, né sul piano dell'analisi né su quello della elaborazione delle politiche. Anche
in questo caso, una discriminante fondamentale per orientarsi tra le numerose sigle esistenti è
rappresentata dalla loro "portata" in termini politici e, in particolare, dal fatto che siano circoscritte
ai paesi riceventi o che, invece, coinvolgano anche quelli di origine.
Per quanto riguarda la prima categoria, è utile distinguere tra strutture dotate di finalità
essenzialmente conoscitive (quali il Sistema d'osservazione permanente sulle migrazioni-SOPEMI,
46
Per maggior dettagli sulla RCM, nota come “Puebla Process” dal nome della città messicana dove essa venne istituita
nel 1996, si consulti il sito ufficiale http://168.243.12.3.
47
Il Budapest Process (noto fino al 1993 come “Berlin Process”) è stato creato su iniziativa tedesca nel 1991. Dal 1994
le funzioni di segretariato sono svolte dall’International Centre for Migration Policy Development (ICMPD) di Vienna
(www.icmpd.org).
48
Per un’analisi dei principali fori regionali di dialogo e cooperazione in materia migratoria, vd. A. Klekowski von
Koppenfels, The Role of Regional Consultative Processes in Managing International Migration, in «Migration
Research Series», International Organization for Migration (IOM), Ginevra, 2001, prossimamente disponibile sul sito
www.iom.int. Per alcune considerazioni comparative su Puebla Process e Partenariato euromediterraneo, F. Pastore,
Aeneas' route …, op. cit..
13
operante in ambito OCSE, e il poco noto IGC 49 ) e altre aventi natura più spiccatamente politica; tra
queste ultime si distingue il G8, che sta dimostrando un’attenzione crescente per le problematiche
migratorie.
Ma è forse più interessante, in questa sede, soffermarsi sul livello più autenticamente globale della
governance migratoria, cioè su quelle istanze internazionali in cui sono rappresentati non solo i
paesi più sviluppati, recettori di immigrazione, ma anche i paesi emissari. Da questo punto di vista,
osserviamo innanzitutto che il panorama politico-istituzionale è frammentato e instabile, con le
competenze più rilevanti suddivise tra la Population Division e il Population Fund (UNFPA) delle
Nazioni Unite, l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (OIL), l’Alto Commissariato per i
Rifugiati (ACNUR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Accanto a questi
protagonisti, vi sono poi attori di secondo piano, come lo Special Rapporteur on Human Rights of
Migrants, nominato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani nel 199950 .
Ma - al di là di una certa confusione nella mappa delle competenze, che alimenta la competizione
(non sempre virtuosa) tra organizzazioni – ciò che è più importante sottolineare qui è la cronica crisi
di legittimità delle istituzioni deputate alla governance globale delle migrazioni. I segnali sono
numerosi e vanno dallo scarso successo, in fase di ratifica, di convenzioni importanti quali quelle
dell’OIL (nn° 97 e 143) e quella delle Nazioni Unite sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro
famiglie (1990), fino alla grave carenza di risorse di cui soffre permanentemente l’ACNUR51 .
Non è difficile identificare le radici politiche di tale cronica situazione di crisi: esse affondano nella
strutturale contrapposizione tra paesi di destinazione e paesi di origine, che ha conformato,
perlomeno negli ultimi tre decenni, il policy field migratorio a livello globale. Tale contrapposizione
si è sostanziata a lungo in un diverso atteggiamento dei due blocchi di paesi nei confronti delle
(potenziali) istanze di governance globale delle migrazioni. Mentre gli Stati recettori dei flussi le
hanno tradizionalmente considerate con diffidenza, privilegiando l’approccio unilaterale o
comunque livelli politico-istituzionali inferiori, gli Stati emissari ne sono stati generalmente dei
fautori convinti. Uno degli esempi più significativi di questa divergenza di atteggiamenti è fornito
dal progetto di una conferenza globale delle Nazioni Unite sulle migrazioni, discusso sin dai primi
anni Novanta, che non ha potuto concretizzarsi a causa della netta ostilità di alcuni importanti paesi
occidentali.
L’acronimo riassume il lungo appellativo ufficiale dell’organismo: Inter-Governmental Consultations on Asylum,
Refugee and Migration Policies in Europe, North America and Australia. Le attività di questo circolo intergovernativo
informale non sono publiche; il sito ufficiale (www.igc.ch) non fornisce informazioni dettagliate.
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E’ opportuno menzionare qui una corrente di opinione che si va diffondendo e che vorrebbe fare della Organizzazione
mondiale per il commercio (OMC) la sede in cui promuovere e governare una fase di progressiva (e selettiva)
liberalizzazione dei movimenti di persone su scala globale. Si può citare, a titolo di esempio, la proposta, avanzata
recentemente dall'economista Thomas Straubhaar, di creare un General Agreement on Movements of People (GAMP),
equivalente per il mercato del lavoro globale a ciò che il GATT e il GATS rappresentano rispettivamente per beni e
servizi (Why Do We Need a General Agreement on Movements of People [GAMP], Hamburgisches Welt-WirtschaftsArchiv [HWWA], Discussion Paper n° 94, 2000; ora in B. Ghosh, a cura di, Managing Migration. Time for a New
International Regime?, Oxford University Press, 2000). L'economista svizzero parte dalla considerazione che "la libera
circolazione delle persone è economicamente efficiente nella maggior parte dei casi, ma non in tutti" (ibidem, p. 28) e si
sofferma, in particolare, sull'immigrazione indesiderata (solitamente irregolare) di lavoratori non qualificati e sul brain
drain come effetti collaterali negativi di un regime globale di libera circolazione. Per ridurre tali conseguenze antieconomiche di un mondo senza frontiere, il GAMP proposto da Straubhaar si dovrebbe articolare in due sezioni,
separate ma strettamente collegate: una "political section", la cui missione sarebbe di "prevenire le migrazioni forzate
(politically induced)", e una "economic section", mirante a internalizzare gli effetti collaterali negativi delle migrazioni
e ad “ottimizzare l’allocazione internazionale dei beni pubblici (public goods)". Entrambi gli obiettivi della sezione
economica dovrebbero essere raggiunti mediante uno strumento di natura fiscale, denominato "migration tax",
composta di una "tassa di uscita (exit tax) […] il cui obiettivo sarebbe di compensare i danni derivanti dal brain drain" e
di un "‘biglietto di ingresso’ (entry fee) […] che dovrebbe compensare i non migranti nelle aree di destinazione per le
‘perdite da sovraffollamento’ (congestion or crowding out losses) di cui potrebbero soffrire" (ibidem, pp. 29-30). Per
quanto appena abbozzata e, per certi aspetti, assai poco realistica, la proposta rappresenta comunque un contributo
stimolante a un dibattito destinato a esplodere nei prossimi anni.
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Il bilancio dell’Organizzazione è calato da 1 miliardo $ nel 2000 a 870 milioni $ nel 2001.
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Oggi, questa rigida divisione in blocchi tra i paesi di origine e quelli di destinazione sembra in via
di attenuazione. Un segnale incoraggiante è giunto, per esempio, dallo United Nations Technical
Symposium on International Migration and Development (L’Aia, giugno-luglio 1998), di cui è stato
autorevolmente scritto che “la cosa più significativa è il fatto stesso che si sia svolto”52 . Ma forse
ancora più importante è stato l’esito della Conferenza delle Nazioni Unite contro la criminalità
organizzata transnazionale (Palermo, 12-15 dicembre 2000), in occasione della quale sono stati
aperti alla firma anche due protocolli in materia di lotta alla tratta a fini di sfruttamento e al traffico
di clandestini53 . Tali testi, che impegnano tra l’altro gli Stati a perseguire penalmente i
comportamenti in questione, sono stati firmati anche da un numero significativo di importanti paesi
di emigrazione (ma non da tutti: mancano per esempio la Cina e il Marocco54 ).
In conclusione, si può dunque dire che l’obiettivo di un sistema di governance globale delle
migrazioni, che consenta di proteggere e valorizzare al massimo il “fattore umano” nelle relazioni
internazionali, appare oggi, se non più vicino, perlomeno meno utopistico di alcuni anni fa.
S. Castles, International Migration and the Global Agenda: Reflections on the 1998 UN Technical Symposium, in
«International Migration», vol. 37 (1) 1999, p. 6.
53
Si vedano i testi sul sito ufficiale della Conferenza: http://www.odccp.org/palermo/schedule99Ita.html .
54
La
lista
completa,
aggiornata
al
termine
della
Conferenza,
è
consultabile
in:
www.odccp.org/palermo/firmatariIta.html.
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